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The knife style
(Lo stile del coltello)
Di Giovanni Luigi Navicello
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Premessa
Mi tradisco ogni qual volta l’ultima pagina scritta mi supplica di gettarla. E’ la sua
esistenza che do in pasto ad ognuno. Liberi di leggerla, liberi ogni tanto di usarne a
piacimento una frase, liberi di gettarla e di credere che non valga nulla. Liberi, voi, di
imprigionarla nella memoria e così fragile lei da accettarne ogni capriccio. Scritte la notte,
quando le tranquillità dei silenzi si confondono alla crudità dei linguaggi, allo
sciorinamento delle vite, alla confusa confusione degli anni, al delirio dell’impeto, alla
condizione di scrivano. Questo sono, null’altro che un semplice trascrittore. E vi par poco?
C’erano e ci sono vite che narrate posseggono quell’insito amaro sapore dell’interminabile
o forse dell’irraggiungibile.
No! Volutamente ho atteso che queste mi venissero scaraventate contro dal vento,
dai libri, da viaggi infiniti finiti, dalle desertiche solitudini dell’anima, da un io
egocentrico, scontroso, schizoide e bastardo.
Non troverete appigli all’interno. Non un anno che vi dica sei qui, esattamente qui,
giacché il tempo è relativo all’esistere della parola, all’essere dell’azione, al ricordo.
Che vi piaccia non è mia preoccupazione. Che vi rimanga nel cuore nemmeno. E’
mio figlio questo! Si basta e mi basta, e non conosco dialettica più soave per dirlo. Irto e
aguzzo, così mi vedono gli specchi. Narro vicende e non mi do nome, ma di questo non vi
rimarrà né sapore, né voglia. L’ambiguità è l’ultima speranza dell’uomo.
Se alle prime pagine rinuncerete, non me ne vogliate: è il libro che vi rifiuta! La
libertà è una condizione primaria per leggerlo, l’età deve solo essere priva di pregiudizi, il
perbenismo……………….è una stronzata!
Il linguaggio è quello che non ho voluto e che mi ha convinto. I personaggi sono
reali come le pagine: la fantasia non è forse aleatoria osmosi di sogni? E non diviene realtà
quando la imprigionate? Ho imbrigliato i sogni: questo ho fatto!
L’America è un non caso. Le città sue sono le più puttane, le meno scettiche, le
socialità qui nascono e muoiono invertendosi i ruoli costantemente.
La musica è quello che salva tutto, perché un messia non verrà più. E’ mio dovere
di scribacchino presentare quel che non ha bisogno poiché sempre più preziose sono le
parole. Non temo nulla: né giudizi, né morti, né sconfitte! Dolce destino il mio, di penna e
di carta. Questo è signori, e nulla più.
S
ei corde……….sono tutta la mia vita. A chi furbamente mi promette il mondo
io rispondo: il mondo lo hanno già dato, e dato male. Settembre è venuto. Se le sere
scorrono più lente, se la voglia d’amare è ancora nei sorrisi, se quei bambini sciolgono
gelati, deve essere proprio settembre. Al crepuscolo s’accalca quest’uomo che non crede
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alla solitudine; e ogni notte nei locali i muri faticano a sostenere il peso dell’invidia.
Cercherò, signori, d’esser meno bravo così mi potrete umiliare.
La mia amante era stata abbandonata, come tutte quelle donne che hanno dato
troppo a troppi bastardi. Le avevano succhiato amore, speranza, l’anima. Gettata in un
angolo alla mercé del primo venuto, strapazzata da mani nude e sconosciute che da lei
pretendevano non la perfezione, ma l’immortalità. Era una chitarra e non solo questo. Lei
parlava, confidava al cuore ed ogni volta mi ripromettevo d’usarla quel tanto che bastasse
per renderla felice. Lei, lei mi chiese di non guardare, di non sentire, di non essere ed io
accettai. Mi sedetti su di una sedia, accavallai le gambe e la sfiorai. Era morbida,
silenziosamente femmina, plasmata alle mie braccia e mai capricciosa. Le diedi un nome,
Venere. E non fu scelto a caso poiché l’amore che mi donava era d’ una Dea. Ero stato, pur
io, uno di quegli stronzi e strafottenti maschi che al terzo lampione di una via, mezza vuota
e mezza piena, s’accende l’ultima sigaretta e sorpassa l’umanità che a mala pena vive.
Se dalle vie qualcosa dovevo prendere preferivo agli uomini le loro cose. Un paio di
vecchie scarpe, un orologio bagnato dalla pioggia appartenevano a quella normalità
ambigua che le aveva scelte tra mille e che ora, comprate ed usate, dimenticava. Proprio
come queste io m’ero dimenticato. Recalcitrante alle novità della moderna civilizzazione
vagavo in contorte epoche che al mattino non tornavano. Avrei potuto essere un qualunque
uomo dal ‘600 all’800 e ne sarei stato lieto. No! Eccomi sparuto novello vagabondo di un
mondo troppo uguale e troppo poco amico.
Amavo incondizionatamente l’esser solo, preferivo il mio silenzio scandito da
respiri e battiti alla noiosa e mortale conversazione, necessaria ad altri per sopravvivere. E
proprio questa precarietà d’intenti, proprio questo sproloquio artificioso per arrivare al
nulla m’aveva col tempo infastidito sempre più.
Capitò! Il destino, o chi per esso, qui non aveva nessun ruolo. Accadde un giorno
prestabilito non dal fato, ma dalla necessità, quella propria ed indivisibile di dover
decidere. Io decisi di non parlare più poiché le mie parole risultavano agli altri inadeguate e
le loro a me, scivolandomi addosso, lasciavano solo un agre sapore. Divenni, ed ora
permettetemelo questo termine inappropriato, una prostituta di sguardi, giacché non
vendevo agli altri il mio corpo ma solo, e questo doveva bastare loro se con tanta assidua
caparbietà lo volevano, l’incontro dei miei occhi.
I
l blues lo conobbi in una notte di vita sprecata ad urlare alla luna. Ero a Bologna
con mio padre, uomo dallo strano vizio: afferrava il tempo e lo obbligava a rallentare. Così
due bimbi discesero le scalinate fin dentro l’antro delle streghe dove cento bocche
annebbiavano l’oscurità. Avevo sei, forse sette anni e anche i miei occhi! Gettati sul palco,
Gulf Coast Blues se li prese e li mangiò. La vecchia tromba aveva di buono solo il
luccichio amorevole e consumato dalle mani, dalle dita grinzose. Sedevo sulle ginocchia di
un giovane che beveva tanto e troppo di tutto; ingoiava alcool e schioccava pollici e indici
a tempo ma non di musica, il suo tempo. Lo capii dopo, anni dopo, che questo è blues.
“Suona un re! “
“ Lo faccio. “
“Suona un re! –“
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“Cazzo, questa è la corda e questo è un re!”
“No, questo è un re………..”
Non è nero il mio maestro e non è dell’Alabama, ma ha cuore, questo si, e se lo fa
pagare. Angel Eyes, l’ ho già consumato questo spartito maledetto, l’ ho diviso, amato ed
odiato. Prima la tecnica, poi te la dimentichi perché chi ti ascolta lo capisce che sei solo
uno da conservatorio. Segue la personalità: tutti sanno suonare dopo dieci anni, pochi
sanno appoggiare un dito e trovare lì quello che obbliga all’ammirazione. Ora chiudi gli
occhi e accarezzi la tua donna, improvviso, lento, andante. E’ amore. E quelli che
sedendosi ascoltano chi sono? Quelli? Quelli sono soli, malinconicamente soli,
disperatamente alla ricerca del sentimento.
“Se fai blues, ragazzo, non scegli: sei bravo quanto sei vero e ad ogni sera diverso.”
Sputtanavo sensazioni su seni generosi di vecchie bavose, sui colli lunghi e sottili di
meravigliosi bohemien, sulle feroci rughe del giorno prima dov’anche chi non pagava
entrava e tutti, proprio tutti, lo portavano, chi con le mani, chi con l’assidua maniacale
presenza, chi con la costante e volutamente ripetitiva richiesta. Non si stancavano mai, mai
di me, mai della mia anima.
Quanto adulto devi essere per il blues? Mai troppo, mai prendersi sul serio. La vita
volutamente ti scarica sulle spalle tutte le ragioni di questo mondo per smettere e tu ci
pensi, ci ripensi, decidi in un momento ma l’attimo fugge via perché arriva sempre un
bambino a guardarti quando sei solo. Questa sera il mio è traballante e rinsecchito su di un
omone che lo fa ballonzolare sulle ginocchia: Billy è un quattro quarti, lui la fa in tre; vario
in tre e lui sale a quattro. E’ proprio blues, schizzatamene blues, acerbamente,
selvaggiamente, infischiandosene delle regole, dell’esistenza…………blues.
F
“
ermati!”
La donna che me lo dice potrebbe essere una buona ora di sesso. Ha quelle
lunghissime e nervose gambe, quelle labbra, quei seni evidenti, maturi al punto giusto: fra
dieci anni si perderebbero nella vecchiaia, nell’oscenità della sua bocca, nel letto stanco di
lei. E’ così vicina a me, troppo. Ne sento l’odore mieloso e la mia chitarra s’incazza. Il mi
graffia. Le concedo la gelosia o forse la fedeltà.
“Dammi minuti,” mi dice la donna “quanti ne riuscirò a portar via me li farò
bastare.”
Ha occhi di chi dall’esistere si prende tutto, quando, come e dove vuole. La
sicurezza del si è nella sua lingua che, leccando labbra d’aria, promette l’inezia dell’attimo
dopo. Gli uomini violentati li posso contare sulla sua pelle: è maledettamente seta,
accarezzata da ricordi e stagioni lontane e non dimenticate. Pericolosamente così passava
da un uomo all’altra. Vita da mantenuta: la più crudele delle realtà, un si infinito anche nei
sogni. L’ultimo era ieri o io ero l’ultimo. S’era ritrovata per caso, passando per la via. La
via sta nel mezzo di un quartiere malandato e peccatore e questo perché i destini mutevoli
dei suoi abitanti ruotano tra sprazzi di quotidianità solare e ombre notturne di trasgressioni.
Qui, le ultime ore della notte sono le più vere, qui l’aveva scaricata la coscienza.
“Nulla ho trovato, nulla di meglio”, mi disse “di te!”
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Cinque persone erano tutto il mio pubblico. Lei era la sesta ora del mattino.
Fastidiosamente allungò le sue mani tra i miei capelli: quanti orgasmi sulle dita, pensai.
Abbassai il capo e baciai Venere, la mia donna! Quattro passi e fu fuori. Due la seguirono.
Uno le palpava il sedere e lei, girandosi, mi cercò. No! In questa notte m’ero già venduto.
E
lla era quella fotografia appesa al muro dell’infanzia. Quattro chiodi diritti
stringevano quella faccia un po’ così e quella voce………quella voce! Pellegrina del
deserto nero di Harlem, fatiscente uomo, io, con l’unica grandezza delle dita speravo e
spero di te. Se tu venissi in questo agosto dalle strisce di stelle m’aggrapperei.
“Un altro whisky!”
Lungo bancone, noce o nocciola, schiumoso di birra, puntiglioso di vecchi barman
da mogli smarrite, e da scopata del sabato sera, alle tre, su quel letto, con la prima
ragazzina raccattata, con la strada spiovente lungo il mare, con le urla dell’ultimo ubriaco
pazzo e giovane, così giovane e così perso.
“Un altro sorso!”
Due dita di tequila in un bicchiere trasparente contro gli occhi. Si, sono i tuoi, gli
stessi che la sera prima hanno inghiottito tutto lo schifo del mondo e sono azzurri, solo gli
angeli li hanno così. E tu che cazzo di angelo sei? E senza le ali dove vuoi volare?
L’ultimo, lo giuro, l’ultimo sorso. Una banconota da dieci passa dalle mani alle mani,
penzola e stropiccia parassita. Questo vali? Ella, aiutami! Mi, fa diesis, sol, si. Voce! Voce,
gridano quattro fantasmi. Sussurratamente arrivi, in bianco e nero, in anni quaranta e gli
sgabelli girano, anche loro ti vogliono ascoltare e tutte le parole sospese a mezz’aria
attendono che tu finisca e……..sssssssssss………..sul palco io e te. Suona per me! Only
blues, Only blues. Mi strappo il cuore e lo faccio scivolare sulle corde, lacrimar di sangue,
tempo che passa, tutto il tempo di questo addio e sull’assolo ti perdo. Sbatte la porta: è il
vento che se ne và. Fuori è giorno. Chi se ne importa. Io, sono notte!
S
vestito sul letto sfatto, dove lenzuola accartocciate trasudano i gemiti di vecchie
storie senza nome. Un mattino di marzo taglia con quattro spicchi di luce le persiane.
Credevo nell’uomo. Povero stupido, imbecille sognatore, solo perché qualcuno ti dice
bravo e ti sorride tu gli regali il cuore?
Vivevo di un dollaro e un quarto a settimana, mangiavo nel locale, bevevo dai
bicchieri rimasti, desideravo le donne degli altri, e me le facevo! Ero un musicista! Ma di
quelli che non incontrerete molto facilmente. Uno di quelli che si era venduto l’anima per
essere vero!
La camera l’avevo affittata tre anni prima: se l’era scelta la mia valigia. Era uno
schifo, proprio come lei. In Italia facevo la fame, qui in America ci morivo di fame.
Nessuna differenza, tranne gli insetti: erano di più, molti di più. Dal tavolo alla porta e
dalla porta al bagno ci sono due metri di pavimento. Piccola? Meglio! Trovo tutto e subito.
Di camere sfitte ce ne sono cinque o sei e di tipi come me ne hanno riempiti quartieri interi.
Lo vedi quello là seduto all’angolo? Proprio lui, tra la quarta e la quinta! Si, cazzo, proprio
lui, quello che ha due occhi sotto tre cappelli e sopra la barba. Si, quello che ti dice se hai
qualcuno che a casa ti aspetta, perché anche lui ce l’aveva fino a ieri ma oggi, con un
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immenso calcio nel culo, lo ha sbattuto fuori dalla società perché tu non vali quello che
mangi e produci solo emozioni. Si, quello sono io e forse sei anche tu. Sotto sotto mi
invidi? No? Ne sei sicuro? Ieri io ho detto al mondo di fottersi ed invece a te il mondo ti
fotte da quando nasci.
Cammino per la strada grigio asfalto, due lattine di Bud vuote, la birra se la stanno
litigando i piccioni. Una Corvette giallo canarino con un cane grasso e antipatico, una figa
mostruosa al volante. Il cane la lecca: ti invidio amico, una così non la lecco da una vita.
Una nuvola ferma, un cielo di plastica, il locale. Finalmente a casa. Venere è lì nell’angolo,
in camera non ce la porto! E’ fredda e umida, va bene per gli uomini.
“Fatti un sorso sono già le cinque.” Me lo dice sorridendo cattivo. L’orgoglio lo
mando a farsi un giro, non me lo faccio dire due volte e ingoio la bionda. Accarezzo
Venere, suono Four di Miles Davis. Ora ghigno io cattivo verso il negro barman.
“Quanti ne hai sentiti che ti hanno fatto piangere, quanti?” - gli chiedo.
“ Sei un bastardo amico!”
“Il più grande che ti capiterà d’incontrare negro.”
Locale vuoto. Sono le cinque. Mi stringo la chitarra forte e me la coccolo sul palco.
Sono un uomo fortunato! Lui ha solo la sua vita.
E’
un paio d’ore di questo schifo di S. Valentino che quella vecchia mi sta
guardando e mi sorride. Come si può sorridere quando nessuno ti guarda più? Retrospettive
di una Manhattan anni ‘50 affollano i mattoni. Era proprio bella! Ti potevi scrollare di
dosso tutta la merda dell’ultima guerra, ti potevi appisolare sulle panchine di Central Park e
anche se vomitavi l’anima con tutto quello mangiato il giorno prima, se qualcosa c’era, ti
giravi dalla parte opposta e qualche fiore e qualche pensiero così, acerbo e coraggioso, si
riaddormentavano con te. E lasciami in pace con quello sguardo! Se fossi un po’ più
ubriaco, solo un po’ di più, forse ti sbatterei alla fine della sera con i tuoi sessant’anni,
forse qualcosa con la lingua te la farei, forse penseresti di piacere ancora, forse mi
pagheresti qualche spicciolo, sicuramente li prenderei. Un orgasmo da due dollari merita la
bottiglia vuota ed il cervello in fiamme. Lo sapevo! M’ha letto nel pensiero. Arriva
pericolosamente traballante col suo bel bicchierone di certezze.
“Offro io! Stasera offro io.” Era il po’ di più che mancava e ce ne aggiunge anche
la stronza. Non si sa mai. Quando si sale in due nella mia stanza il legno delle scale
scricchiola, la porta scricchiola sempre, le ossa si abituano.
“Vivi qui?”
“Se non ti piace il posto paghi un albergo e andiamo lì!” Falle dire si, pensai. Era un
febbraio freddo e qualche ora in un vero letto me la sarei ricordata.
“No, qui va bene.” Mi cacciò lingua e voglia in bocca, una mano sulla patta dei
pantaloni. La toccai: era uno schifo. Nuda e svaccata sulle coperte m’emozionò come un
telefilm replicato mille volte.
“Mi dispiace, ma non ce la faccio!”
Erano gli ultimi cinquanta centesimi della settimana. Glieli misi in mano e la buttai
a forza fuori dalla mia vita. Seduto sulla vecchia poltrona, le luci assopite della città, cerco
un canale che si veda alla televisione, cerco qualcosa di una Marlboro che si accenda, cerco
lo stramaledetto vizio di sopravvivere.
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Non so perché la ricordo: ragazzi era proprio orribile. Summertime and the living is
easy, fish are jumping…………..La musica, la musica. Me la spasso sotto un cartellone
pubblicitario con la mia cena in mano: hot dog e una bella birra ghiacciata. Il manifesto fa
un flash back sui concorsi di bellezza Miss America anni ‘50 ‘60 ‘70 e quella eletta o che
sarà eletta. I cinquanta sono un po’ pienotti, di tette soprattutto. E quella lì! Io la conosco,
è proprio lei, la scopata rifiutata. Gli erano rimasti solamente gli occhi, ma sono i suoi,
certamente i suoi. Miss America, miss America nella mia stanza, nel mio letto, nei miei
sogni. Fottiti maledetto ubriacone, hai finito di romperci le palle! Quante finestre ci sono a
New York? Troppe. Ormai, ormai ho una madre puttana da mattina a sera ed io, il suo
figlio prediletto. Miss America, grido, mi stavo facendo miss America e le ho detto di no.
Quello del terzo piano mi manca di una spanna con una bottiglia vuota. M’accovaccio sul
marciapiede sotto il manifesto; questa notte dormo qui con lei! Tanto nessuno ci crederà se
non Dio.
L
A STRADA E’ SOFFICE. C’è scritto sul muro sbrecciato, giusto sotto casa
mia. Lì quattro cartoni e quattro bottiglie te lo dicono: amico se stai per morire di fame
pane non ce n’è, ma un sorso e un bel pezzo di carta non te li toglie nessuno. Famiglia di
Hobo, così li chiamano in America i sopravvissuti, quelli che galleggiano tra la vita e la
morte. Sono stagionali, nel senso stretto del termine. Con l’estate fioriscono e con
l’autunno un paio al giorno li ritrovi duri, freddi e senza scarpe. Lunedì ho inciampato nella
faccia del vecchio Michael: gli ho messo un piede in bocca. Era poggiato a croce, la testa
china a destra e non l’ ho proprio visto, ve lo giuro. Il giorno prima era vispo e allegro, alla
quarta bottiglia di quella cosa che lui chiamava il mio nettare e che nessuno gli rubava. Era
inginocchiato alla luna.
“Che fai vecchio?”
“Prego!”
“A chi?”
“Non a Dio e neppure a sua madre: quelli non ci sentono. Prego me stesso di
mandarmela buona per un altro giorno.”
Ho la stanza ghiacciata, apro le finestre, mordo un panino e qualche foglia di
insalata mentre le sirene bestemmiano sempre più vicine. Ogni notte è così! Arrivano,
scendono, controllano, manganellano il più povero dei cristi e se ne vanno. Qualcuno urla e
loro ritornano, rimanganellano con più vigore e tutti gli apostoli finiscono in cella per la
notte. Che razza di coglioni! Ma non lo hanno ancora capito? E’ sopravvivenza. Due
bastonate cosa vuoi che siano barattate con un bel letto duro, quattro stufe accese e un
pasto da cani. Perché vi parlo di loro? Perché che cazzo te ne fai di una faccia da borghese,
bella, grassa e abbronzata? Non dice nulla, proprio come se vedessi un gran culo senza
sapere a chi appartiene. Questi sono veri, così veri che non ti possono mentire, così
autenticamente disperati che si emozionano per una mezza porzione di patatine gelate nella
spazzatura, così amorevolmente bambini da stringersi l’uno all’altro per farcela così, e
così queste sono le uniche espressioni di vita che io ricordi; le uniche persone alle quali
non darei nulla.
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E’
di nuovo mattino, sono prima due, poi quattro poi un palazzo di voci
rimbombanti, centinaia di motori fuori e di clacson, milioni di radio accese e di tostapane e
di docce calde e qualche pisciata contro i pali della sosta e, se ti allontani, Mc Donald’s
lampeggia aperto. Entri con un mucchio di camionisti, ordini pollo fritto, ciambelle e una
caraffa di caffè e acqua e arriva la solita vecchia figa che sa di non essere più una bella
occasione, ma te lo fa capire subito dopo l’ordinazione perché il padrone la tiene lì da
trent’anni solo per pietà, perché lei i suoi primi dieci gliela dava tutti i giorni all’insaputa di
quella troia di sua moglie che potevi essere tu, ma lui ha preferito una ragazza di buona
famiglia e non una provinciale appena arrivata che aveva dalla sua solo due belle tette e
una bocca e…………….
“Tu sei solo? Ma sai che sei carino? E quanti figli hai?”
“No, le seghe, quelle mentali non me le faccio più da almeno tre anni!”
“E vivi da solo?”
“No, ho una donna…….”
“E’ bella?”
“E’ una chitarra!”
“Ah, ah, ah. Sei anche simpatico e sai ho anche finito il turno, se vuoi usciamo.”
E’ di nuovo mattina, la solita mattina di New York. Lei era Iris, Iris la cameriera
tuttofare del Mc Donald’s nell’ East Village. Gliel’ho promesso! Con te ragazza non ci
verrei, hai l’età di mia madre. Ma un ricordo, quello si, quello te lo posso riservare nel mio
cuore. Qui ora ci vuole B. B. King, il buon vecchio grasso nero B. B. King. Metto un disco:
è stanco e gracchia saltellando. Se ne accorgono solo i randagi sui tetti, sono tutti malandati
e stanchi, proprio come lui. Buona notte a tutti.
H
o quattro tavolini sotto il palco e ci faccio sedere chi voglio io. Discussioni
non ce ne sono. Ho bisogno, necessità di scegliere almeno una cosa nella vita e nessun
proprietario rompiballe me lo può impedire. Chi lo dice? La mia chitarra e le mie dita.
Sono bravo, impossibilmente bravo e non sono modesto e nemmeno oggettivo. Se volete
un santo non guardatemi! Come li scelgo? Al tavolino da due sempre e solo donne, a
quello da quattro sempre e solo uomini, in quello a destra il peggiore dei critici, un fratello
nero solo e ubriaco, in quello a sinistra nessuno: quello è per me. Se un giorno salirà
qualcuno che mi dirà il segreto del blues, quello è per me.
Billy è il ragazzino che porta ai tavoli bicchieri e bicchieri e bicchieri. E’ secco,
affamato, bello e senza nessun tipo di inibizioni o di qualsivoglia principio. Gli piacciono i
soldi! Non vi basta come indizio? Gli piacciono tanto! Tanto da farsi fare e dire qualunque
cosa. Le barriere dell’uomo? Ma che cazzo mi venite a raccontare? Quando uno nasce in
una famiglia tipica del Bronx, le barriere sono tuo padre che ti massacra con la bottiglia che
si è appena scolato, tua madre che urla ogni cinquanta dollari sul letto di casa con un
bianco o un asiatico o un bel negretto sopra a stantuffare e con gli amici sul portone ad
aspettarti con una rivoltella in mano: si va! Non ci pensi più, si va sempre, perché sempre e
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per sempre ci sarà un debole che quattro centesimi li può scucire per un giorno regalato e
una pallottola in meno. Fai lo slalom tra i bidoni dei rifiuti che straripano degli avanzi della
tua gente e il vomito della sera prima: ormai lo riconosci quello di famiglia! Ha sempre lo
stesso colore e se come fortuna ti rimane la tua faccia, che fai? La vendi e non al miglior
offerente, ma a chi la vuole. Quanto ti può durare quel visino maledetto che sbuca solo dai
film di Hollywood? Dieci, quindici anni e allora vai Billy, dallo a tutti, fottili questi
perversi figli d’America. E lui l’ ha fatto! Ci potete giurare, questo fottutissimo bambino l’
ha capito di piacere e giocando sgattaiola tra i tavoli e tra le mani di sudaticci cinquantenni
che affollano il suo bel seder di pacche generose.
“Hei, Billy! Vedi se qualcuno ti dà una sigaretta.”
Glielo chiedo ogni sera: due occhiate e un sorriso e lui un paio di pacchetti belli
gonfi li racimola sempre. “Un giorno o l’altro ti chiederò un favore!”
“Quando vuoi Billy, quando vuoi.”
E’ innamorato di me. Un giorno o l’altro mi chiederà una scopata e io gliela
concederò. Una montagna di sigarette val bene un desiderio! Pensateci, con tutte quelle che
mi sono fumato gratis ci avrebbe potuto comprare due ragazzotti tutti muscoli e uccello ed
invece ha scelto me.
Sul lato più lontano del bancone, giusto vicino ai cessi, questa notte s’è affollato un
gruppetto di rappresentanti: li riconosci dall’odore e dai vestiti. Il primo è forte, deve
coprire tutti gli altri, dal mattino all’ultimo goccetto della sera. Il vestito è rassicurante:
devono venderlo quel bel sorriso stampato da “io sono un padre di famiglia, ho due bimbi
magnifici, una casetta con il prato da tagliare e una moglie che pretende di più di quello
che posso”. Uno di questi, il “più di quello che posso” glielo infila nella mano al mio
ragazzino. Spariscono nel cesso dalla porta azzurra, è l’unico con la chiave. Cinque minuti.
E’ stato veloce con la bocca, un professionista. Se continua così fra tre o quattro anni si
compra tutto il locale, mi assume e io diventerò la sua prostituta. Hai imparato bene Billy,
poco amore, tanto dolore e un calcio nel culo a tutto il resto.
Il locale sta per chiudere. Appoggio Venere nella custodia, un saluto e siamo in
strada. Quattro pozzanghere piovose, un lampione esaurito, gatti in calore ed il buio, tanto
buio, troppo, e fa paura. Sono un uomo, si, e ho paura, ma non glielo dico. E’ solo il
ragazzo che porta il bicchiere e me lo ha chiesto lui di accompagnarlo. Tira fuori dalle
tasche le mance: quindici dollari e gli extra, in totale duecentocinquanta.
“Questa sera è andata bene! Ancora un anno e mi compro qualcosa per vivere!”
“Tua madre ha fatto la stessa cosa per vent’anni e ancora non s’è comprata nulla!”
Non sorride più. Cinquantunesima strada all’angolo con Baltimora Avenue: che ore sono?
E’ tardi per qualsiasi cosa! Uno mi afferra alla gola e mi tiene, l’altro lo massacra con un
bastone come si massacrano solo le lattine della Coca Cola vuote.
“Duecentosessantacinque dollari” urla uno di loro. “Cazzo, credevo avesse solo
qualche moneta questo stronzo!”
Billy steso a terra è ancora bello. Lo lascio lì e correndo mi allontano. Niente
sigarette da domani! E la pietà? Se l’è scelto la vita. Io sono solo un musicista, non mi ci
posso mettere al posto suo.
L
e vie a New York hanno un profumo: l’odore di chi ci abita. Io vivo in una
zona squallida e periferica. Periferica sta ad indicare che chi ci arriva prima le ha provate
tutte, ma quando non ti rimane altro tutto va bene. Con mia madre vivevo a Milano. Era
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una casa con un bel garage e una gran macchina. Era ricca? Era una mantenuta da molti
soldi e poche promesse. Lo so, lo so, non è bello parlare così della propria madre, ma se
dicessi che era una magnifica donna mentirei a me stesso, se invece dico che era una madre
a caso mi avvicino alla realtà poiché di lei non rammento nulla.
In questa sera un bel po’ di ricordi ha accompagnato la malinconia. Ho racimolato
qualcosa e mi sono preso la prima puttana nera che ho incontrato. No. No, non
fraintendetemi, era nera per caso proprio come mia madre. E qui il razzismo non centra
nulla. Bel fisico: qualche volta un po’ di fortuna aiuta. Sotto l’insegna del Motel sembrano
tutte belle e luccicanti di lustrini. Sotto l’insegna anche un gatto rognoso sembra bello.
Il mio era un persiano bianco con un occhio solo. Miagolava poco, si strusciava
tanto contro le gambe e perdeva peli, un sacco di pelo. Era anche simpatico, il più brutto
persiano bianco, simpatico che un bambino potesse raccattare per strada. Lo rinchiudevo
nella mia stanza e lui raggomitolato sotto il letto attendeva. E’ stato un maestro di
pazienza, il migliore che io abbia conosciuto ed anche il meno saccente. Era nella sua
natura…..aspettare.
E’ li in ginocchio che con la bocca mi bacia la punta dell’uccello.
“Aspetta, non così in fretta! Ti ho pagato per godere. Se devo ricordarmi il ricordo è
meglio che ritorni sotto l’insegna del Motel.” Sorride.
“…….ma il tuo cazzo d’orgoglio dov’è?” le chiedo.
“Tu sei uno di quelli che mi hanno trattato meglio, m’hai chiesto anche il nome.”
Si chiamava gatto. Non è originale, lo so, ma Birillo, Silvestro o Pallino pensate
siano migliori? Gli togli la libertà, lo rinchiudi in una stanza, lo obblighi a mangiare quello
che piace a te, gli insegni a pisciare nell’angolino più lontano, lo abbandoni per metà del
tuo giorno, quando arrivi ti deve fare da coperta per i piedi, deve essere simpatico al
momento giusto e per un tempo giusto, non deve romperti i coglioni e quando qualcuno
viene a trovarti se è allergico al pelo lo sbatti sul balcone e hai anche il coraggio di
cambiargli l’identità? E poi lo porti da un veterinario perché non miagola più?
“Mi chiamo Eveline, ho quasi vent’anni e da due sono sulla strada. La prima volta
l’ho fatto con mio padre. Lui mi ha dato il nome, mia madre avrebbe preferito Susan. No!
Da piccola ero magra come un chiodo, mi tenevano in casa per il pomeriggio: sai ho
quattro fratelli. Lavare, stirare, pulire, le solite cose che fanno tutte le donne. Perché ho
scelto di essere una prostituta? No! Non te lo dico. Parliamo d’altro.” Continua a parlare
mentre la sbatto sul letto con tutta la mia voglia e non se n’è neppure accorta che dovrebbe
dire si ancora, sei bravissimo, se continui così mi fai venire, sai sei uno dei pochi con cui
ho avuto un orgasmo………e allora glielo dico:
“Fingi! Almeno un po’, ti prego!”
Era un gatto furbissimo e meticoloso. Mangiava lentamente, guardandosi
continuamente attorno e nell’unico occhio leggevi la strada, quella dura, quella dove ogni
errore è un marchio a vita. S’era affezionato a me in modo animale, mi rispettava e mi
proteggeva. Il migliore degli amici, il migliore.
Girato di schiena le accosto il lenzuolo. È serena, come se fosse la mia donna. Me
lo ha detto lei quando mi ha visto piangere:
“Stasera non lavoro più, rimango con te!”
“Non ho altri soldi” le dico “non posso pagarti, il tuo pappone s’incazzerà.”
“Il mio pappone non s’ incazzerà, è mio fratello. Ci vivono tutti e quattro su di me:
sono merce buona e difficile da trovare.”
Appoggiandomi a lei la sento calda e profuma della mia via. Appoggio la bottiglia
sul pavimento. Domani me la devo ricordare, non ho nulla per colazione. Dorme e
all’orecchio le sussurro:
10
“Ti chiamerò Susan e appena avrò qualche moneta ti verrò a prendere.”
Vita da gatto: uno lo perdi, uno lo trovi. Così è.
L
a prima volta che incontrai Freddy era uno di quei giorni in cui Dio non
m’aveva ancora mandato cinquanta cents per la sbronza del mattino. Si! Costo poco e bevo
molto. Ormai il sapore di quello che ingoio ha un’importanza relativa, ma deve bruciare,
bruciare tanto.
Freddy era l’uomo delle pulizie, arrivava tutti i giorni puntuale alle dieci del
mattino nel locale con il suo cappellino dei Giants sdrucito, la sua barba del giorno prima
attaccata alla faccia e quel bel sorriso da tre denti. Freddy era anche il padrone del locale.
Lo avevo capito solo alla fine della settimana quando una manciata di dollari smangiati,
sporchi e stropicciati m’erano caduti in mano.
“Non te li bere tutti! Qualcuno tienitelo per un panino.”
“Sono fatti miei, tu e la tua coscienza non mi dovete nulla.”
Puliva gli ottoni e gli specchi e i banchi e le lampade e tutto quello che ci stava
attorno come se dovesse arrivare da un momento all’altro il Presidente a poggiare il suo bel
culone sulla sedia davanti al palco. Qui il migliore dei clienti è quello che di blues non ci
capisce, che ama il cattivo bourbon e che cerca una scopata facile con qualcuna di quelle
ragazzine che per un po’ di caldo entrano dalla strada.
La sera verso le undici una decina s’infilava sempre cercando di mischiarsi con
quello già dentro. Lui le faceva passare, un po’ per sentirsi a posto col Paradiso, - una
buona azione al giorno e a forza di calci l’ultimo posto in cielo sarà mio - ma soprattutto
perché erano tutte carine, ragazze di buona famiglia con la voglia di vita. Vita di quelle
lette sul New York Time o sul Global dove un morto o una rissa li trovavi ogni giorno. Si
capiva che i soldi li avevano dal profumo, dalla pelle che non si era consumata nei letti
degli alberghetti a ore e, sopra ogni cosa, si capiva quando ci parlavi. Arrossivano ad ogni
cazzo o porca puttana o al contrario si eccitavano perché tu eri quella trasgressione che la
loro bocca voleva.
Freddy aveva l’età che gli davi. Di lui si diceva che fosse un genio, un vero genio
con la tromba, e che un giorno, durante una serata, s’era fermato sull’assolo e da allora non
avesse più fatto musica. Chi ne parlava sapeva quello che diceva. Tutti avevano un nome
nel blues: Aretha o Miles o Luis, proprio loro Franklin, Davis e Armstrong.
Ma dicevo delle ragazze: entravano ed ogni notte sulle ginocchia di papà Freddy
qualcuna si scaldava le cosce e si raffreddava l’anima. Si vedeva che era stato un musicista,
dalle mani. Tamburellavano le spalle, i colli, le schiene come uno spartito. Dopo un paio
d’ore le conosceva e sapeva dove premere il pollice per farle eccitare, dove l’indice per
rilassarle.
Tredici maggio, notte da non perdere. Freddy ha deciso: darà un concerto d’ addio
agli amici. Dice che un dottore in camicia Denim e pantaloni cachi gli ha dato il certificato
di morte su un campo da tennis.
“E tu sai che cosa ne ho fatto? Mi scappava e l’ho usato in bagno al posto della
carta.”
Ventuno e trenta, inizia. In sala c’è abbastanza gente da rendere felici dieci
discografici. Quello davanti a tutti è per il sax quello che Morrison è stato per la musica.
Freddy suona e, credetemi, quella non è una tromba e lui non è un uomo.
11
B
rilla città, brilla. Tutti quei neon, come tante stelle cadenti, accendono il
ritorno verso casa. Per la strada incrocio il fattorino che deve consegnare, il poliziotto che
si consuma le gambe strascicando i piedi sui marciapiedi, il primo cane abbandonato che
alla fine sarà il centesimo dimenticato. Spezzo la monotonia salutando ad ogni finestra
volti di gente vecchia che non dorme e conta le ore. Avete mai provato a sorridere ad uno
sconosciuto? No, non dovete parlarci, solo alzare la mano e sorridere. Fatto? E lui ha
ricambiato? Si? Questa si chiama umanità e non la insegnano. Ce l’hai dentro e te la sei
scordata.
Ottobre, due mesi e buon Natale. Babbo Natale l’ho visto fino ai quattro anni: si
spegnevano le luci e lui entrava grasso e allegro, mi scaricava in testa una montagna di
regali e si fermava a mangiare con noi. Le luci non si potevano accendere, si stava con le
candele. Io ci credo ancora a papà Natale, ha solo dimenticato la mia via. Ogni anno gli
scrivo la mia letterina e gliela spedisco. Cosa gli chiedo? Gli parlo di donne, macchine,
case e qualche lavoretto in più. Quei due ragazzi sulla settima il lavoretto lo stanno facendo
proprio bene. Uno infila la chiave, l’altro tira e ………fatto! Porta aperta, supermercato
della roba usata dagli altri a portata di mano. Faccio l’inventario: si fregano un televisore,
un videoregistratore, un mucchio di cazzate inutili e l’ultimo disco dei Jackson Five. Uno
ha la stessa testa brillantinata e a pallina di Michael. Mi vedono, mi minacciano, mi
decantano la qualità scadente della razza bianca, mi avvertono di non provarci neppure ad
andare dalla polizia perché se lo vengono a sapere loro hanno un amico che a sua volta è
amico di quello stronzo che abita al piano sotto il mio, che se solo lo venisse a sapere che
certa gente m’insulta con tutte le bottiglie che ci siamo scolati e con tutta la fame che
abbiamo fatto se la farebbero addosso. Avranno si e no l’età per farsi una sega e la stessa
forza di convinzione. Non gli rispondo e neppure faccio caso alle sirene che arrivano
perché dentro a quella casa c’è la cosa più preziosa e loro se la sono lasciata lì: un alberello
di Natale con le sue palline già pronte e le luci attaccate e sotto il presepio, dove bue e
asino scaldano un piccolissimo Gesù ancora troppo buono per salvarmi. Saluto Maria e
Giuseppe, i Re Magi e l’angelo. Clic. Sono azzurre le stelle. Come quelle del dipartimento
di New York. La beretta spunta dalle mani ben lucida e orgogliosa: adesso ti sparo, adesso
ti uccido…….finalmente faccio il mio lavoro. Quattro anni che mi hanno fatto e non ho
ancora ammazzato nemmeno uno spacciatore, nemmeno un piccolo ridicolo cazzutissimo
spacciatore.
“Buonasera agente!”
“Alza le mani, girati, attaccati al muro come fosse la cosa più importante della tua
vita.” E’ così giovane e gli danno in mano la bilancia della giustizia?
“Tu sei Dio?” Glielo chiedo seriamente. Se mi spara che sia almeno qualcuno di cui
mi possa fidare.
“Lascialo in pace Jack, è solo quello che suona giù sulla quinta.”
Arrivano anche tutti quelli che saluto passeggiando la sera a dirglielo, ma io,
imbecille come al solito, nego tutto.
“No, vi state sbagliando! Io, io credo di essere, ma non ne sono proprio convinto,
credo solo di esserlo…….”
“Chi?”
“Io sono Babbo Natale! Happy Christmas” urlo “happy Christmas a tutti.”
12
Le mie renne se ne sono andate, anche le stelline blu sono sparite, anche la sbornia
se l’è squagliata giù per il cesso con quello che ho mangiato. Peccato! Non era poi tanto.
A
rriva in un crepuscolo di notte che l’autunno ti sbatte le foglie in casa, marroni
e grasse di terra. Addosso una giacca militare e sopra, puntate al cuore, quattro medaglie
intonano l’ inno americano. E’ un reduce e un rudere che si sono incrociati sulla via di
Saigon un giorno del sessanta. Gli mancano una gamba, quattro dita e un occhio: li ha
lasciati in tre bordelli diversi sopra i letti e sopra le lenzuola.
Fa freddo qui fuori, gente, tanto freddo! Il barman si sta incazzando, s’è fermato
nel posto migliore, proprio di fronte alla foto di Marilin. E’ vero! Questo è un locale blues
e lei non è di questo mondo, ma cazzo…… Marilin dove la metti metti, ci fa sempre una
bella figura. “Dammi un gin e senza ghiaccio!”
“Ce li hai due dollari?”
“Ho questa!” Si toglie la più piccola a forma di croce con le dorature staccate qua e
là.
“Vale molto?” Gli chiede il barista.
“M’è costata un amico e la sera non riesco a dormire tranquillo.”
Freddy fa un cenno:
“Daglielo. Ma tu finisci in fretta e vattene!”
Sto strimpellando a caso, così come capita, come capiterà anche a voi di
strimpellare un amore o un’amicizia o la vostra bella moglie.
“Questo è il meglio che sai fare?”
Ecco, lo sapevo. Oggi non volevo discutere, oggi era un giorno neutro, di quelli del
vivi e lascia vivere. Ma ecco, ecco il tocco che lo cambia. Ma di cosa mi lamento? Quando
scegli di metterti di fronte ad una porta aperta con la tua anima in vendita, chi se la compra
o te la sputa addosso può entrare in qualsiasi momento.
“No! Questo è il peggio che io posso fare e non credere che per una gamba o una
guerra mi lasci insultare.” Avrà trenta, trentacinque anni e un gran sorriso. Senza volerlo
leggo anche il nome sulla medaglietta al collo e sulla targhetta attaccata alla giacca. Si
chiama Samuel. E’ all’ultimo dito di gin. Il barista è sempre più scontroso: questo di mance
non ne lascia e un cliente giusto, da un paio di bigliettoni, s’è seduto all’angolo opposto.
“Dove posso trovare una stanza?”
“Vai giù per la city e chiedi del Saint Luis Hotel. Costa cinque dollari al giorno, il
letto è pulito, ti danno un caffè la mattina, se sei fortunato ci aggiungono una ciambella e
verso le sette di sera le più belle mignotte di New York affollano ogni centimetro. Non ti
rimane nulla se ti lasci ingolosire da loro! Esci con pochi spiccioli così non te ne fai
nessuna e riesci a dormire al caldo qualche giorno in più.”
“Io ho una ragazza! Le altre non m’interessano.”
Ridiamo tutti. S’è mai visto un uomo che all’odore della figa resiste?
“Non vali il gin che ti ho dato” replica Freddy “e non tirare fuori foto formato
famiglia! Qui siamo tutti del partito dei cornuti, tu sei quello in più che non sa ancora
d’esserlo.”
“Lei è morta!”
13
Freddy, Freddy…..e adesso cosa t’inventi? E’ sempre un ragazzo che ci ha lasciato
metà della sua roba in Vietnam mentre tu magari ti divertivi sul Mississipi con qualche
bella del sud.
“Com’era?” chiedo.
“Era unica, eccezionale, la ragazza di ogni soldato. Questa notte sono entrato
perché l’ ho vista qui da voi.” Samuel sta accarezzando il ritratto di Norma Gean.
Credetemi, non come s’accarezza la carta ma come si ama la pelle quando ne senti il
sapore, quando ne riconosci il profumo, quando invecchiata ti continua nonostante tutto a
piacere perché quella è la tua donna. Si gira sulle stampelle: il gin è finito e fuori è freddo.
Questo autunno ti entra nelle ossa. Il barista vuole restituirgli la medaglia.
“No! Ti ho pagato anche la pietà con questa.”
Se ne va, un soldato nel mondo. Freddy la punta sulla foto accanto al neo di
Marilin, io ritorno a strimpellare……..bye bye baby, rimember you are my
baby………….era per il Presidente, va bene anche per lui, ne sono certo. Lei sarebbe stata
d’accordo.
H
anno affittato la stanza sopra la mia. Era un po’ di mesi che i topi se la
sgranocchiavano: li sentivi a qualunque ora i loro dentoni nel legno dei pavimenti. No, giù
da me non vengono, troppo freddo e nulla da mangiare. L’affittano il giorno del
ringraziamento, il quattro di luglio. E’ abbastanza strano perché il quattro di luglio
l’America si ferma e tutti i tacchini sul territorio degli Stati Uniti spariscono. Tant’è che
l’odore del ripieno alle castagne lo si sente anche nei vicoli miserabili del Queens.
E’ un ispanico dai capelli lunghi e curati, dalle spalle enormi, dalla Bibbia nelle
mani. Ha una valigia e una voliera con due piccioni. Questo è più povero di me, penso. Si
mangia il piccione nel giorno del ringraziamento: li avrà acchiappati al Central Park e con
tutta la roba che beccano saranno anche saporiti.
Juan Luis Goutierrez Ruiz! Cazzo amico, con un nome così potresti essere uno
scrittore o un buon musicista. E’ un pugile, di quelli dalla vita tormentata che come le
sanguisughe si attaccano con le loro nevrosi al primo incosciente che incontrano. Apriamo
la porta della ventisette. Un listello della finestra filtra il sole del mezzogiorno, il lavandino
non perde nemmeno una goccia d’acqua, la luce funziona, il televisore si accende, la
scaletta, che da fuori sul terrazzo dove qualcuno stende quattro mutande e una camicia, la
ruggine non se l’è ancora mangiata. La tappezzeria alle pareti ha margherite gialle su
sfondo blu: un bel campo fiorito chiazzato di macchie dai colori svariati. Se potessi
azzardare si va dal sugo alla senape al sangue.
“Bello!”
Bello? Ma dove hai dormito fino a ieri? Sotto un ponte sulla cinquantanovesima? I
piccioni non li mangia. Ho saltato l’invito a cena, ma li mette sul terrazzo. Dalle tasche tira
fuori qualche seme di grano e orzo, qualche foglia d’insalata e glieli dà. Al sole
stropicciano le ali contro la gabbietta.
“Mi rilassano! Sono due anni che vivono con me.” “Maschio e femmina?” gli
domando.
“Si. Quello più stupido è il maschio. Quello che si mangia anche la sua porzione di
roba è la femmina.” “Ma almeno quando scopano lui la mette sotto?” Arrossisce, a
scopano arrossisce: un pugile educato e civile.
14
Avevo già pensato di andarmene da New York ed ogni giorno l’indecisione sta
assumendo i contorni della certezza.
“Questa notte ho un incontro con un ragazzo che deve fare carriera, gli serve
qualche vittoria per ko, per lanciare una sfida seria. Mi danno duecentocinquanta dollari, le
spese per il taxi, una cena e il dottore nel caso avessi qualche danno.”
Lo chiama danno, lui, un dente rotto o un occhio che non gira più bene, o il naso
spalmato sulla faccia, o il cervello che qualche volta si ferma, ma poi riparte! “Ho
difficoltà sui numeri e con i nomi, ma che importanza può avere? I numeri sono solo quello
che ho io in tasca, e i nomi? Beh, se sei un uomo ti chiamo amico e se sei una donna mi
limito a pagarti così ti chiamo sempre Mary. Mary era la mia ragazza, mi ha lasciato
appena ha saputo che come pugile valevo troppo poco per permetterle tutto. Vieni a
vedermi! Se scommetti contro fai qualche dollaro. Alla seconda vado giù sicuramente,
incassi e andiamo a berci la vincita con un paio di belle donne.”
“Non posso, inizio a suonare nel locale di Freddy alle undici e non so mai quando
finisco.”
L’ha presa male. M’infilo le mani in tasca, non saluta e me ne va. Lo rincontro un
paio di settimane più tardi. So che sta ancora lì perché i topi sono scomparsi e qualche
volta ansima come un toro mentre monta qualche vecchia trovata sulla strada. Gli hanno
fatto un sacco di danni: ha il muso scheggiato e cucito e gonfio sulla destra, il sopracciglio
è spezzato, ha un dente in meno e ciondola scendendo le scale. Non va bene, amico! No,
non va proprio bene. Non parla con me, ha il suo piccione in mano, il maschio stupido. Mi
passa accanto e si allontana. E’ come un sacco bastonato, con due piccioni come confidenti
che per lui valgono la vita.
Ventisette luglio, sono le sette, bussano alla porta e urlano. Sono tre cose che non
vanno d’accordo: la prima perché è un’ora che mi sono addormentato, la seconda perché
alla mia porta non suona mai nessuno e la terza perché urlano e urlare nel palazzo vuol dire
mettersi nei guai, prender un calcio nel culo ed essere sbattuti fuori. E’ vero, vivi nella
merda ma non ti puoi lamentare, ci devi solamente convivere. E’ Luis con gabbietta vuota.
Se li sono fregati.
“Qualcuno ci farà il pranzo Juan, dovevi pensarci che te li avrebbero ammazzati.”
“Sei stato tu amico!” E’ un sacco da bastonare.
“Non mi rompere le palle! Non mangio il manzo, figurati se mi sarei succhiato i
tuoi colombi.”
Il destro arriva così veloce che quando lo sento mi ha gia staccato mezzo cervello.
“Sei stato tu! Ti ho visto, la prima volta li hai guardati male.”
Faccio per rialzarmi, ma mi rialza lui e mi obbliga con la faccia a scivolare lungo
tutto il muro della stanza. E’ così che si muore? Il primo fa male ma gli altri sempre meno.
Mi dà una lezione di box tutta per me. Sputo un bel dente, un mucchio di lacrime e invoco
pietà anche a Dio. Afferro l’ultimo briciolo di lucidità e glielo dico:
“Il vecchio sotto! E’ stato lui!”
Mi lascia lì nel mio piscio e un paio di minuti dopo il vecchio schizza fuori dalla
finestra come una palla da baseball. Lo portano via su una scassatissima Ford del
dipartimento di New York. In centrale lo tratteranno come un malato, il giudice lo
assolverà per infermità mentale e prima o poi ritornerà a combattere.
In camera sua mi trascino la sera, quando tutto è finito. Ha la valigia ancora lì e
qualche cosa, come un paio di calze e una camicia, può far comodo. Entro. Le stesse
margherite. L’odore dalla cucina è rimasto per tutto il giorno. Eccoli lì, belli dorati e
croccanti e ripieni sul tavolo. Maschio e femmina. Se li è cucinati lui. Che vi dicevo: era
più povero di me e sul calendario alla parete, sul ventisei, scritto a penna “giorno del
15
ringraziamento”. Me l’aveva detto: è un problema con i numeri ma alla fine rifunziona
tutto. Che faccio? Mi siedo e li mangio mentre alla radio Ed Sullivan Show inizia.
B
rutta cosa i predicatori. Da piccolo leggevo il Vangelo obbligato dal primo
prete di provincia abituato a credere che il suo di Dio fosse al di sopra degli altri.
Crescendo assistevo a quella strana forma di baratto che è la fede e che alcuni chiamano
convenienza. Per convenienza ti vendevano delle belle frasi confezionate in duemila anni
adatte ad ogni occasione, ma quando, fermandoli, chiedevo loro dei soldi, un posto nella
loro casa o il loro cibo, tutti mi rispondevano nella stessa maniera: sei giovane, puoi vivere
su te stesso e c’è sempre, sempre un bisognoso che sta peggio di te. Quando era capitato, io
stavo seduto su un marciapiede, fatto di alcool scadente da non reggere in piedi nemmeno
le mie idee, non avevo un vestito pulito da almeno sei mesi e l’acqua calda per un bagno
stava in tutte le case, degli altri. Mangiavo alla mensa dei poveri dove un cartello avvisava
“chi ruba il cibo degli ultimi sarà ultimo anche di fronte a Dio”. Se riuscite a trovarmi uno
che stava peggio di me giuro di non lamentarmi più.
“Il Signore sia con voi fratelli!” Un secondo mi basta: è quello che la sera alla tv
fa il suo spettacolino per racimolare montagne di denaro. Entra. Un saluto a Freddy in un
giorno d’estate che l’asfalto ti ruba l’aria, che il cielo s’è scelto l’azzurro più finto nel suo
guardaroba, che le nuvole sono tutte perfette.
Ha fondato la sua chiesa scopiazzando un po’ di cristianesimo, qualche spunto di
protestantesimo, una dose massiccia di buddismo e qualche bel sermone evangelico. Ha i
denti più bianchi ch’io abbia mai visto, la pelle curata e si vede, cazzo se si vede: questo
non ha mai alzato un dito se non per metterlo sul grilletto di qualche bella fica. Stringe le
mani a tutti e ti guarda fisso negli occhi quando lo fa. Sei uno stronzo! Questo gli dicono i
miei, che ci sei venuto a fare in questo posto con la tua fuoriserie rossa e il tuo vestito da
prete con la croce firmata?
“Mi serve il tuo ragazzo Freddy!” M’indica con il medio della mano destra e io mi
sento tanto come quando un bambino indica alla mamma che la cacca del suo cane sul
vialetto vicino alle rose ha sporcato la suola delle scarpe della zia, e così mi deve valutare
quest’uomo del Signore.
“Per far che reverendo?”
“Domani ho in mente un bello stacchetto di spiritual! Anche i negri qualche volta
hanno i soldi e in questa città ne stanno sbarcando un’infinità. Ne ho visto uno che però,
stanne certo, non farà molta strada: si chiama King Martin Luther, già il nome è uno schifo:
parla di sogni e promette uguaglianza. Un negro che promette uguaglianza! Hei tu, non mi
guardare così!” Parla con me.
“Io sono bianco ma hanno sbagliato colore quando m’hanno cagato sul mondo!”
“Ok, domani siamo chiusi” disse Freddy “se lo vuoi però glielo devi chiedere: lui è
un tipo strano, di quelli che il proprietario lo considerano parte dell’arredamento.”
Si avvicina con quattro biglietti da dieci nella sinistra. “Sono cinque minuti,
ragazzo! So che sei bravo e questi sono tanti anche per un uomo.”
Ve l’ ho detto: la storia della cacca, ricordate?
“Non li voglio, vengo gratis se mi reciti un versetto qualunque del vangelo secondo
Matteo, uno qualunque, fai tu.”
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Sulla strada la sua puttana lo chiama accarezzando il clacson. Quella, a occhio e
croce, deve costargli almeno cinque, sei bambini morti al giorno.
Che cielo, ragazzi che cielo! Tutto blu come il mare della Florida.
“Sono quaranta dollari, pezzente, con questo ti ci compri una bella cassa di bottiglie
piene.”
“Che devo fare, Freddy, gli strizzo le palle fino a fargliele scoppiare o più
semplicemente me lo sbatto qui sul bancone del bar?”
I tre clienti rimasti se la ridono. Rissa, è sicuro, non ce ne sarà, ma volete mettere la
soddisfazione di dire no a chi si crede Dio?
“Sai, io uno come te l’ho già conosciuto! Sei stato fortunato ragazzo, l’ho sbattuto
in culo al mondo con i suoi quattro stracci a curare lebbrosi perché a me, che non lo
conosco il Vangelo, Dio una missione l’ ha data, chiara e forte: se ogni giorno mi elimini
uno stronzo dalla faccia della terra l’ultimo posto in paradiso è tuo.”
Se ne va e al suo posto mi lascia una serie di apprezzamenti neanche troppo
originali. Rimane solo il fumo dello scappamento della fuoriserie. Asfalto mangiatelo che
poi ce lo dimentichiamo insieme.
King Martin Luther lo fanno secco un bel po’ di tempo dopo con i suoi sogni e con
lui finisce una fede che stava iniziando.
Cielo di New York, ne devi sopportare di idioti ma qualcuno ancora ti guarda per
quello che sei.
F
rederick è il cieco che sta fuori sul ciglio della pizzeria di fronte al locale. Sta
fuori come quelle grondaie scadenti che ti durano l’anno e poi iniziano a pioggerellare.
Fuori ci stanno pure quelle mani che chiamano i bambini dalla strada e questi, già fuori con
la roba che si sono succhiati con le vene, li vedi vecchi che ritornano dalle madri. Mi sono
sempre chiesto, da che sono qua, che viso avranno quelle madri. Già, perché devi avere una
buona faccia per sorridere alla scimmia.
Frederick è un vecchietto arzillo dalla battuta pronta, con le scarpe lucide e un
bastone che schiaccia i sassi e le gambe. E’ lui quello che tutti i giorni gliela fa vedere la
scimmia. Contratta o vende. Servo loro, signori. Se vende, vende a dollari, se contratta una
dose può valere uno stuzzicadenti o tua sorella.
Sali su a cento piani e vedi ancora le automobili che rallentano sulle vie e distingui i
colori. A centocinquanta intuisci, oltre ti lasci andare: non te ne frega più di nulla.
Frederick è cieco dalla nascita. Gli occhi glieli hanno strappati quando ancora la
coscienza e un po’ di pietà lo tiravano via dal suo ufficio cinque o sei ore al giorno. Da lui
si trova anche roba leggera, te la fumi, te la ridi, ogni tanto te la piangi perché l’ hanno
creata per ricordare, e per soffrire.
I Doors, con quella puttana di Morrison sempre pronta a dire che tutto è buono,
tutto quello che sta dall’altra parte, tutto quello che il sangue non rifiuta e che ti fa stare
bene. E poi crepi in una vasca o sul terrazzo al centesimo, centounesimo (che importanza
ha), al limite, dove tra te e lui solo il filo del vuoto vi separa.
Che faccio Jim, che faccio?
Se sei un uomo e non hai paura del domani allora non sei un amico. Così cantava in
una canzone.
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- La scriviamo insieme ragazzo! Se vai giù, giusto sotto veloce veloce veloce
diritto, arrivi di fronte a Frederick……pensa alla faccia di quel coglione quando ti
vede con le ali. Perché tu non muori no, arrivi e per un secondo……….dai sali!
Dai….sali! Sali cazzo sali!
- Aspetta, aspetta Jim, aspetta, quelle la sono le mani di mia madre e mi sta
chiamando.
- Lo sapevo, sei un perdente…..e che fai piangi? A chi? Non lo vedi che
quell’uccello ti ha anche cagato sulla spalla….e io ti piscio in testa brutto stronzo!
- Non andartene Jim, no……no….no…….un attimo. Ecco…….lo vedi, sto in
piedi bello dritto.
- Bravo ragazzo. Adesso conto tre e poi giù: uno……due…….tre….giù, giù
con me.
Dieci e quarantacinque: non è notte, troppa luce. Lo raccolgono a pezzi piccoli,
tanto piccoli. Tutti fuori a guardare. Non lo conoscevate ed ora vi interessa che un braccio
si sia infilato in qualche bidone? Esco anch’io e guardo su: al terzo piano sua madre è
come pensavo: bisogna avere una buona faccia per continuare a perdere.
Frederick si appoggia a me.
“Che è successo?”
“Il ragazzino con i pantaloni verdi s’è buttato.”
“Lo conoscevo?”
“Segnatelo sul cuore con tutti gli altri, pezzo di merda d’un cieco!”
“La vendo a chi la vuole, anche tu te la sei comprata e t’è piaciuta.”
Lo frugo nelle tasche, ne ha una decina di bustine, un venti grammi di erba e
qualche pastiglia. Vorrei prenderle, mettergliele in bocca e fargliele assaggiare, ma ci
rinuncio. Uno in meno oggi, due in più domani.
Si chiude prima. Troppa polizia, troppe domande e troppo di tutto. Se mi sbrigo in
venti minuti sono a casa; passo, respiro, passo, respiro, passo e non ci voglio pensare.
M’aggrappo alla prima stella, ma non sa che farsene di un codardo. Padre nostro che sei
nei cieli proteggilo e aiutalo, prego per un vecchio che non sarebbe diventato né un buon
uomo né un uomo, ma qualche volta anche per loro un posto migliore……………
D
ue dubbi fanno una certezza?
“Non per me” disse Freddy.
Si divertiva un mondo il caldo a rovinarci l’agosto; saranno stati quaranta o più
gradi là fuori, sotto quelle lingue che giravano attorno ai gelati squagliati sui coni. “Questa
sera non lavori!”
“Per me va bene! Sono sempre gli stessi i dollari che voglio a fine settimana.”
“Faccio venire un prestigiatore, è un amico dei bei tempi, di quando giravi l’angolo
e una da novanta sessanta novanta era sempre lì ad aspettarti.”
“Tu una così non l’ hai mai avuta, te la saresti sposata.”
Ride, mi strattona per un braccio e mi obbliga a seguirlo. Ci mettiamo sulla soglia
dell’ingresso: è una bella via piena di vetrine e di commesse e di impiegati e di
professionisti, insomma una gran mescolanza di gente comune che se li raggruppi tutti si
viene a sapere che un quarto sono parenti, due terzi sono stati compagni di scuola e una
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bella percentuale ha fatto la sua prima limonata con quello che adesso è incravattato e
sbarbato ma dieci anni prima era tutto apparecchio per denti e testosterone.
“Quella va bene!” Mi indica un insieme di culo e tette che diviso fa esattamente le
tre donne più belle della mia vita. Avrà vent’anni, un metro di gambe, il sorriso lo
immagino e un caschetto di capelli neri e lucidi alle spalle. Freddy è un metro più sessanta
centimetri di qualcosa che assomiglia a un uomo. Questa mattina non si è lavato, la camicia
andava di moda quando io non ero nato e se lo incontri per la strada, due pacche e qualche
centesimo ti escono spontanee dalle mani.
Mi lascia sulla porta e la raggiunge in mezzo a un centinaio di tipi che passeggiano.
Cinque minuti, m’indica con la mano. Dieci minuti. Cazzo, sono dieci minuti che quella
non lo ha ancora mandato…………. Quindici minuti. Ride, anzi ridono. Lui fa scivolare un
bigliettino nella tasca della borsa di lei e lei……se lo tiene.
Undici e venticinque di sera. Quaranta persone con me, Freddy, i due baristi, il
ragazzino tuttofare e qualche amico. Samuel prestigiatore e illusionista: cilindro, mantello,
camicia bianca da smoking ma senza maniche, quelle dove allacci il corpetto, papion da
grandi magazzini, bastone lucido e con i pomi in Silver plate, baffetti alla Clarke Gable,
sorriso vero, ma vero vero, mani lunghe e belle. Samuel prestigiatore.
Ho qualche dubbio che ci divertiremo. Il primo numero sono coniglio e piccione,
seguono i fiori da bastone e l’acqua nel bicchiere che scompare. Alle undici e trenta siamo
in venti con Freddy, me e i soliti di prima. Alle undici e trentacinque siamo in vent’uno:
arriva lei. Lei, quella delle gambe e del baschetto: Florence. Ok Samuel, ti è andata bene.
Fino a quando questa rimane qui non schioda nessuno e tu puoi anche sederti e non fare un
cazzo, vedrai che applausi.
“Chiedo alla gentilissima e oserei dire bella più d’ogni cosa ch’io conosca di salire
sul palco.”
Florence fa no con la manina.
“Che t’aspettavi? Due parole non bastano, questa è roba di classe”, gli urla Pedro il
barista.
Scende i due gradini impettito e serio nella sua divisa da dispensatore di sogni.
“Lo vede signorina, mi umiliano, giacché io faccio e lei è. M’aiuti a dimostrar loro
che sovente chi fa può anche essere.”
Le sfiora le mani e le porge il più fascinoso sguardo. Migliora a vista d’occhio.
Freddy è dietro il bancone, sta dando a Pedro la più grande lezione di amicizia che io
ricordi. Il palco si riempie, le luci calano come fondi di bottiglia, un pezzo qua e uno là.
Samuel afferra quattro carte e un giornale spiegazzato, due candele e il silenzio. Infila le
quattro carte nel corpetto di Florence, con il giornale le gira attorno alla vita a mò di
cintura, accende le candele e brucia il silenzio con le parole. Parla e declama l’amore, la
rassegnazione e l’euforia, termina con il sospiro, con l’ultimo baluginante fuoco. Sul
giornale si sono cancellate tutte le frasi dette. Le quattro carte non ne vogliono sapere ed
allora lui le chiama e loro escono piano, accarezzandola. Illusione, tutti applaudono.
Freddy sornione nell’angolo attende, poiché sa. “Signori vi prego, lo spettacolo
inizia ora! Quel che voi avete visto non è la mia arte ma solamente la preparazione, il
riscaldamento, o come volete chiamarlo voi, il preliminare.” Florence è lì.
“S’io ti potessi solamente sfiorare non lo farei! Troppo è il mio pudore verso chi
non teme l’avanzare del tempo e, mortificando la propria bellezza, lo accoglie. Un battere
di minuto è l’infinito attimo che mai scorderò.”
La baciò sulle labbra delicatamente accompagnandola poi alla sedia. Quello che
segue è un grande spettacolo di teatro e magia. Sei davvero qualcuno Samuel, i venti che se
ne sono andati lo sentiranno raccontare da quelli rimasti.
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“Sporadici sprazzi di genialità, innocui istanti di riflessione, spregiudicate
disattenzioni, volutamente irriflessivi nel sogno della magia. Questa è la mia arte, signori,
non solo di mani, ma anche di suoni e giudicatela voi. No! L’applauso non lo chiedo e non
lo voglio. Mi bastano i vostri occhi, occhi di chi aveva perso l’innocente domanda del
perché. Grazie perché mi permettete di vivere sentendomi ovunque la risposta.”
Un inchino, svolazzante su cilindro lustro, Samuel prestigiatore spegne la notte.
Florence mi stringe la mano, Freddy mi accompagna alla porta. Rimangono soli, i due
amici dei bei tempi e quella da novanta sessanta novanta. Uno con la sua musica, l’altro
con la sua abilità e lei con la sua incredibile bellezza. Ne devi imparare di cose vecchio
mio, mi dice il mio riflesso in una pozzanghera. Come un guardone cerco di spiare dal
buco: nulla. Ma le risa me lo dicono, si stanno divertendo. Il corpetto di lei vola contro la
porta e lei dentro non c’è. Vecchi bastardi, giuro di voler essere come voi.
“Che c’è amico?” Una mano sulla spalla e un distintivo mi avvertono: attento a
quello che dici. Hai bevuto e tanto.
“Nulla agente! Solo avevo dimenticato le chiavi nel locale e ora dovrò dormire
all’aperto.”
“Beh, sei fortunato! Saranno quaranta o più i gradi oggi qua fuori.”
“Si!”
E’ Florence che lo urla da dentro. Io e l’agente che si chiama Bill ci strizziamo
l’occhietto e poi andiamo a farci una birra giù sulla quarantasettesima. Che altro ci rimane
senza una donna?
S
i siede sulla terza sedia da destra tra il bancone e i biliardi. Capelli. E’ la prima
cosa che noti e l’ultima che dimentichi in lui. Sono un crine castagno di svolazzanti e
superflui, acconciati con quattro multicolori strisce di pelle. Massiccio e solo, ordina un
bicchiere, conta gli spicci e non sono poi molto. Beve lento. Lo so, lo so, io l’ ho provato
prima di te: il bicchiere è tondo, basso e con quarant’anni di bocche sul bordo. È un
bicchiere da bourbon. Non vi sto prendendo per il culo! E’ una religione con la R
maiuscola, il bere intendo. Ci sono i dilettanti e i professionisti: questo è un fuoriclasse. Si
è sputtanato quel che gli serve per domani in tre dita di whisky e senza ghiaccio: ti deve
scendere nello stomaco bruciandotelo il tormento, non addolcendolo. A quel tavolino
hanno già lasciato l’anima decine di sognatori. L’invecchiamento è un vent’anni, il colore
del malto è brunastro, omogeneo, un campo appena colto. Lo tiene in bocca e così facendo
lo porta ad una temperatura ideale che non è la stessa per tutti. E’ un fratello che ti aveva
lasciato ed ora ritorna. Siete nati tutti e due dalla terra, terra madre per te, terra di Dio per
lui. Ecco, non brucia più e ti riempie la bocca come neanche la lingua dell’amante migliore
potrebbe. Bicchiere vuoto, con una punta sul fondo. No! Non lo devi né pensare né volere:
quella è l’ultima goccia e deve rimanerci lì. Il bourbon va bevuto, ma anche odorato. Il
cameriere è uno del mestiere, non si toglie mai un tondo medio dal tavolino e non si serve
mai un altro wisky nello stesso bicchiere.
All blues, do questo a chi mi ascolta. E’ una bella vita di note, priva di parole e se
potesse piovere……..se potesse piovere. Un cenno e Billy gli si avvicina: vuole un
trent’anni invecchiato. E’ come chiedere un brillante o alla luna di tornare piena. Ha
stropicciati cinque dollari, quattro monetine e un foglio. Con cinque dollari non gliela fa
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nemmeno vedere la bottiglia. Le quattro monetine, se non si sbriga a moltiplicarle, gliele
infila su per il culo e il foglio. Beh, quello se lo può anche tenere.
“Smettila di suonare! Vieni qui e siediti. Tu sei l’unico con cui voglio giocare.”
“E’ una notte di bella musica” gli rispondo “se mi obblighi a smettere devi essere
un disperato.”
È qualcosa di più: primitivo, asociale, indifferente alla violenza e privo di paura.
Spariscono una decina di clienti nella buia strada che porta giù a Brooklin.
“Sei un giocatore?” gli chiedo.
“Non ho nulla da cui mi voglia separare” risponde, “se ne vale la pena puoi anche
rischiare ed io punterei molto, molto più di te.”
“Niente soldi, mi servono. Nemmeno cose, ho solo la mia chitarra e questa morirà
dopo di me.”
Il foglio ha il colore del miele, è grezzo e corto.
“Qui ci scriverò il mio e il tuo nome, tu mi pagherai il bicchiere che ho chiesto ed
alla fine io ti regalerò una parte di me.”
“Quanto viene un bicchiere da trent’anni, Freddy?”
“Un mese del tuo lavoro!”
“Non ci sto, è troppo, ci devo sopravvivere.”
“E’ per questo che tu sei l’unico con cui voglio giocare” mi dice.
Occhi senza luce, occhi di chi ha visto tutto, di chi di fronte alla sofferenza non
piange, di chi trova nella morte un motivo naturale per andarsene, di chi ti ama e ti odia e
poi ti dimentica nell’istante. Occhi devastanti, occhi centuplicati, attraversandoti lo sguardo
ti strappano anche l’ultima incertezza.
“Ok Freddy, daglielo! Qualche buona stella mi aiuterà.”
E’ una bottiglia squadrata dal collo corto, tappo intatto. Non ha preso luce se non
quella nebbiosa del locale, non un fremito sul ripiano in alto, dove anche il suono si
attutisce. Ha l’odore delle cose uniche, di quello per cui vale la pena……..e se lo beve lui.
Stirpe di perdenti la mia, dove scommetto il miglior bourbon della mia vita con cosa?
Mi chiede il nome. Intero, nessuna abbreviazione, nessuna sigla, si potrebbero
confondere, mi dice. Il suo lo mette vicino. Si chiama Faust, si come quello di Goethe……
“Come quello di Goethe?” gli domando.
“No, non come quello, esattamente quello. E’ ora che io ti compensi per la perdita:
ti regalo questa notte e non pensare che sia da poco.”
Mi lascia al tavolino con il foglio nelle mani. Non puzza di zolfo, ma lui è il
diavolo, ne potete essere certi, perché mi ha convinto a non suonare e a non bere, mi ha
convinto a giocarmi la mia vita, perché questa è la mia vita.
L’ultima goccia brilla sul fondo. Il dito freme attirato dal profumo. Non ci pensare e
lasciala li! Freddy chiude la porta, la notte chiude le stelle, io chiudo Venere nella custodia,
Billy chiude la bottiglia, Faust chiude il libro, una pagina strappata non la vedrà nessuno. Il
sapore del bourbon è solo suo. Un peccato, un peccato ogni tanto che male può fare? E
questa sera era così fredda, povero vecchio buon diavolo.
Sul ciglio della strada inciampo e cado, un tizio con una Pontiac verde non mi vede,
ma sbanda, schizza sul bordo opposto e si consuma la faccia contro la vetrata di un
negozio. Notte regalata: qualcuno se lo doveva pur prendere al mio posto. Alzo gli occhi al
cielo, ma subito dopo me ne rendo conto e li abbasso alla terra. Se qualcuno devo
ringraziare è lui, Dio aveva rinunciato a salvarmi già da tempo. E’ proprio una religione
con la R maiuscola…………il bere intendo.
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