1 Tratti di Giuseppe Penone di Pasquale Fameli Esattamente come

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1 Tratti di Giuseppe Penone di Pasquale Fameli Esattamente come
n. 13 febbraio/maggio 2015
Tratti di Giuseppe Penone
di Pasquale Fameli
Esattamente come un ulivo o una sequoia, alberi secolari, il disegno è oggi, per Giuseppe
Penone, un’entità longeva, che rimane inalterata nel tempo, una forma di espressione
metastorica, capace di sopravvivere invariabilmente ai turbamenti dei ricambi culturali.
Cambiano certamente le tecniche e i materiali, ma resta probabilmente fissa e immutabile
l’essenza significante del disegno, il modo in cui ci restituisce il senso dell’espressione
formale, col più incerto e dinoccolato tratto, come con la più virtuosa mimesi. I disegni di
Penone risalenti al 1968 si presentano come semplici studi per azioni e interventi tra i suoi
più noti, come Bosco di libri di cunei, Pietra Corda Albero Sole / Pietra Corda Albero
Pioggia, o Vasca nel ruscello. Realizzati con pochi tratti elementari e corsivi, questi disegni
non riportano che pochissime note tecniche, nonostante la funzione progettuale da essi
rivestita. Alquanto particolare è invece il caso di tre disegni considerabili come studi per il
ciclo di azioni Alpi marittime, che non riportano note tecniche, ma brevi scritti da
intendersi come autentiche dichiarazioni di poetica. La forza evocativa di questi testi,
unitamente alle immagini che li accompagnano [fig. 1], racchiude potenzialmente tutta
l’energia di quel corroborante ricongiungimento tra uomo e natura perseguito da Penone
proprio a partire dal 1968:
Sento il respiro della foresta,
odo la crescita lenta e inesorabile del legno,
modello il mio respiro sul respiro del vegetale,
avverto lo scorrere dell’albero attorno alla mia mano
appoggiata al suo tronco.
Il mutato rapporto di tempo rende fluido il solido e solido il fluido.
La mano affonda nel tronco dell’albero che per la velocità della crescita e la
Plasticità della materia è l’elemento fluido ideale per essere plasmato.1
Il rimando all’opera Continuerà a crescere tranne che in quel punto è pressoché evidente,
mentre le frasi riportate nei due disegni relativi all’operazione Tre alberi intrecciati
1
dichiarano in modo forse più suggestivo, ma certamente non meno chiaro, la volontà di
identificazione tra uomo e natura, fusi nel respiro, nel gesto e nella crescita:
Tre parole dette contemporaneamente da tre persone
che osservano il centro del triangolo di cui formano
i vertici sono tre alberi intrecciati.2
Ai vertici di questi alberi si svolge quindi l’identificazione tra parola, respiro e crescita, resa
graficamente mediante la prossimità di cerchi concentrici che permettono di assimilare la
propagazione delle vibrazioni sonore agli anelli di crescita degli alberi, incrementando il
senso ambiguo di questa sovrapposizione proprio grazie a un tratto sintetico. Riscontriamo
una soluzione simile anche in una più recente acquaforte del 2012 intitolata Trascrizione
musicale della struttura di alberi e conservata al Museum De Pont di Tilburg. In questa
incisione i cerchi tremuli vengono sottoposti però a una rigorosa rettificazione geometrica
che ne innalza il grado astrattivo e li irrora di nuovi significati, simulando una limpida
taratura tonale, quasi con un lontano rimando alle sinestesie di Kandinskij: il riferimento
agli anelli di età degli alberi si tramuta infatti nella resa grafica di un ipotetico suono
musicale generato dagli alberi stessi, qui investiti da una forte carica simbolica.3
L’assimilazione tratto-onda appare anche in opere precedenti come Propagazione (1994),
eseguita a china e inchiostro tipografico, oppure L’impronta del disegno (2002), realizzata
a matita su carta, dove i dermatoglifi di un’impronta digitale vengono estesi pazientemente
in onde spiraliche rispettando le reciproche distanze. È probabilmente anche questo un
modo di Svolgere la propria pelle, come vuole una delle più note operazioni dell’artista
piemontese, e lo fa qui mediante la continuità vibratile del tratto, la segnatura di tracciati
paralleli o tangenti, un alternarsi di creste e di solchi ricco di biforcazioni e terminazioni.
Per Penone, difatti, la pelle «è un elemento di confine, […] è l’estrema parte del nostro
essere, è l’elemento divisorio del nostro corpo, che a sua volta protegge e contiene, in un
certo senso, tutte le cose che ci circondano».4 Il suo utilizzo, afferma l’artista, costituisce «il
minimo d’immagine che posso dare ed è ciò che aderisce al massimo della mia realtà».5
L’interesse di Penone per la natura non si è mai disgiunto da quello per il corpo, o meglio
per il “corpo proprio”: le indagini fotografiche da lui compiute sulla propria pelle – svolta,
schiacciata, premuta – sembrano infatti mosse da presupposti fenomenologici,6 orientati a
rivalutare il primato della percezione come primigenio affaccio sul mondo, a «ritrovare –
per dirla con le parole di Maurice Merleau-Ponty – i fenomeni, lo strato di esperienza
vivente attraverso cui l’altro e le cose ci sono originariamente dati»7. Due notissime serie di
disegni parietali avviate nel 1974-1975 come Pressione e Palpebre [fig. 2], realizzate con
2
matita e carboncino a partire da ingrandimenti fotografici di frammenti epidermici,
esemplificano al meglio la necessità di scandagliare piccolissime porzioni del proprio corpo
intese come tracce di attestazione esistenziale:
Le impronte che lascio tutti i giorni su tutte le cose, anche nell’aria, prendendone possesso,
pongono in una condizione di parità il mio elemento – uomo – e le cose che ci circondano.
Cambiando la realtà che è al di fuori di me, la pelle è il punto che mi permette, ancora e dopo
tutto, di identificarmi e di identificare.8
La dattiloscopia di Penone e i suoi ingrandimenti grafici di segmenti epidermici puntano a
stabilire, infatti, una relazione di identicità tra la pelle dell’uomo e le venature delle foglie o
una fitta vegetazione, come si verificherà anche nella serie dei Paesaggi del cervello (dal
1989) o, in misure più contenute, ma con resa ancora più lenticolare, nella serie Pelle di
grafite (avviata nel 2003) su riflessi di minerali quali galena, goethite, acantite, quarzo,
lazulite o rodonite. Le impronte, le palpebre e altri brani di pelle, ingranditi a dismisura,
diventano mappe capillari e percorsi contorti, rizomatici, che danno ampia risonanza ai
micromovimenti dell’organico, alla testura epiteliale. Sono paesaggi a perdita d’occhio
capaci di risvegliare nell’osservatore quel sentimento che Kant avrebbe forse sottoscritto
come «sublime matematico»9 dato che l’infinitamente piccolo viene qui smisuratamente
esteso tanto da apparirci incalcolabile, sineddoche di un infinito potenziale, un indefinitum
che l’uomo non può cogliere con i soli sensi nella sua totalità.
Tornando alle opere su carta, vale la pena soffermarsi sugli Studi per Soffi di creta risalenti
al 1978 e realizzati con grafite, inchiostro e caffè; sostanza, quest’ultima, che permette a
Penone di simulare il colore della terracotta, tenendo al tempo stesso fede all’utilizzo di un
materiale povero, organico, in un recupero delicato di quel carattere «microemotivo»10 che
sul finire degli anni Sessanta negava alla materia ogni progettazione o costrizione formale.
Scaturiscono così, attraverso il solo gesto del soffio, nuvole e ameboidi solcate da striature
fluide e venature suadenti, simili a quelle del legno, date non più nella silenziosa operosità
della materia viva, ma plasmate dal respiro e cristallizzate su supporto cartaceo, progetti
più ideali che effettivi per concrezioni e calchi dell’arco palatale impresso nell’atto di
soffiare. Una vera e propria eccezione nel percorso di Penone è costituita da uno Studio per
Soffio a sanguigna, anch’esso del 1978 [fig. 3], quale tentativo di rendere graficamente le
scatenate forze della natura passando ora per un’iconografia colta, l’evidente citazione di
un Diluvio di Leonardo da Vinci11.
Se gli Studi per Soffi sono concepiti per masse, i Progetti per Gesti vegetali, realizzati negli
anni Ottanta, si caratterizzano invece per un linearismo robusto, dove il conturbante tratto,
3
volto a simulare arrotature e sinuosità fitomorfe, scivola in un proliferare di segni danzanti
che si intrecciano in un libero calligrafismo asemico e bustrofedico, come liane nodose che
si inerpicano sul foglio assetate di luce. In un’altra serie iniziata nel 1982, dal titolo Verdi
del bosco [fig. 4], Penone ricorre invece al frottage, tecnica con cui può “ripetere il bosco”
per via di sfregamento, ricalcando le cortecce degli alberi su morbidi teloni. Si tratta di
un’operazione transitiva, di un’azione diretta sull’oggetto stesso (l’albero), che assottiglia il
confine categoriale fra traccia e figura, come già accaduto nelle Pressioni e nelle Palpebre:
Catturare il verde del bosco.
Percorrere con il gesto il verde del bosco.
Strofinare il verde del bosco.
Sovrapporre il verde del bosco al bosco.
Immaginare lo spessore del verde del bosco.
Lavorare con lo splendore, la consistenza del verde del bosco.
Consumare il verde del bosco contro il bosco.
Ripetere il bosco con i verdi del bosco.12
Alcuni esemplari della serie Paesaggi del cervello avviata nel 1989, costituiscono invece la
summa di una contaminazione tra le tecniche finora adottate dall’artista piemontese, dove
la traccia originale, un rilievo endocranico, viene ottenuto registrando sul nastro adesivo i
contorni, le pieghe e le escrescenze di un cervello precedentemente ricoperto di carbone. Il
frottage, ottenuto stavolta per impressione e non per sfregamento, viene rilevato
fotograficamente e quindi proiettato, ingigantito, sul supporto (agugliato o carta intelata)
che ne ospiterà un’icastica trascrizione a pastello o a sanguigna, secondo un processo di
traduzione analogo a quello di Pressione e di Palpebre.
Considerati gli anni, viene da pensare che simili esperienze di traduzione intermediale,
dalla fotografia al disegno, avrebbero potuto fungere, insieme ad altre ricerche artistiche
coeve, come banchi di prova per quel fatidico “dibattito sull’iconismo” che ha agitato a più
riprese le acque della semiotica dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Novanta,
trovando un momento cruciale nel confronto critico tra Tomás Maldonado e Umberto Eco
avviato nel 1975.13 Ciò che si poneva in discussione era, in sostanza, la naturalità o la
convenzionalità del segno iconico, se la sua riconoscibilità fosse congenita alla percezione
comune o dettata da una certa abitudine culturale. Le opere di Penone analizzate in
precedente – mediante l’ingrandimento “pantografico” di un’impronta, di una scatola
cranica, della corteccia di un albero, così come attraverso la prossimità visiva che una
macchia di china modellata dalla direzione del soffio può intrattenere con una giara, una
nuvola oppure un mollusco – fanno emergere la possibile ambiguità dell’icona e del suo
4
rapporto col referente; un’ambiguità ottenuta proprio con la “traduzione letterale” dalla
traccia al disegno, dall’indice all’icona o, per dirla con Roland Barthes, da un «messaggio
senza codice» a un «messaggio codificato».14 Eco e Maldonado andavano ad aggiungere
così un ennesimo tassello all’eterno dibattito sul conflitto tra natura e cultura, quello stesso
conflitto che Penone si sforzava di gestire, parallelamente, da una prospettiva non
antropica, o comunque aspirante a un’armonica integrazione.
Il campo della grafica permette anche a Penone di dare vita a visioni ben più rarefatte e
simboliche circa il rapporto uomo-natura, in cui capita che la china e la matita si mescolino
all’aceto di vino, come in Suture (1988) o alla clorofilla, come in 33 erbe (1989). Si tratta di
un simbolismo essenziale, minuto, intimo, dove la sintesi iconica indica la via verso un più
rarefatto livello di astrazione. Lo attestano bene due disegni senza titolo dei primissimi
anni Novanta, oggi conservati al Museum De Pont, che sembrano rielaborare il mito di
Dafne secondo due possibilità molto diverse: il primo, datato 1990, mediante espedienti
concettuali, ovvero tramite il riporto a penna rossa di cinque tipi di albero (salice, ontano,
frassino, sorbo, betulla) sulle strisciature lasciate dalle dita della mano; il secondo, del
1991, attraverso la figurazione, rappresentando lo sboccio di altrettante tipologie di foglie
sulla punta delle dita. Si pongono in continuità con i citati disegni, gli Sguardi vegetali
(1991), anch’essi conservati a Tilburg, i quali simulano la possibilità di ramificazione delle
pupille di un volto umano, quasi come fossero semi, germogli pronti a sbocciare, nutriti di
quella linfa che raccolgono nell’incessante contatto col mondo. Ma capita anche che le
Palpebre serrino l’apertura di questi occhi, o che intervengano due foglioline a matita
come in Trappole per la luce (1994) ad adagiarsi su dei nervi ottici fatti a china.
Altri due acquerelli della stessa serie rovesciano poi di nuovo lo sguardo verso l’esterno;
nonostante la volontà di Penone sia ancora quella di alludere ai processi di crescita, qui le
ramificazioni dei nervetti ottici si erigono in una fogliolina o in un alberello [fig. 5], in
modo lieve e delicato, nel silenzio di una natura naturata, congelata nel disegno:
Il propagarsi di un ramo nello spazio alla ricerca della luce
ha la stessa struttura di uno sguardo.
L’albero è un grande occhio composto da tanti piccoli occhi, ogni sua foglia
è un occhio che coglie la maggior quantità di luce.
[…] In ogni occhio c’è un albero rovesciato
che preme le sue foglie contro la retina.15
Gran parte dell’opera grafica di Penone ha gradualmente rinunciato a quella fusione così
intima con la scrittura che presentavano i disegni degli esordi, lasciando a noi il compito di
ricucire, a posteriori, i possibili rapporti, tentando connessioni esterne tra le opere e gli
5
scritti. In qualche modo, è l’artista stesso a suggerirci questa possibilità,16 anche con Passi
Sulle Cime Dei Gelsi (2000), un portfolio di undici pezzi tirato in un’edizione di ventuno
copie unitamente a quattro prove d’artista; a fronte del ricorso a tecniche alquanto
tradizionali di incisione, quali la puntasecca e l’acquatinta, assume particolare rilievo l’uso
della saliva che, come l’impronta o il soffio, è un elemento di attestazione esistenziale,
sineddoche di una corporalità regredita al suo grado zero. Le immagini contenute
riprendono i principali motivi di Penone (dagli anelli di crescita degli alberi alle sezioni
sagittali di scatole craniche, dai rami ottici alle foglie, dalle impronte digitali ai gesti
vegetali), con l’accompagnamento di testi non sempre coevi. Questi ultimi offrono la
possibilità di ricomporre la coerenza poetica di Penone per frammenti apparentemente
sparsi e isolati. Se gli inserti frasali rilevati nei primi disegni di Penone appaiono come
innesti di pensiero nella piacevolezza della forma, volti a intrecciare parola e immagine in
un efficace legame poetico, i brevi testi pazientemente redatti nell’arco di ormai più di
quarant’anni sono invece il riflesso analitico di quel fare sempre teso al riscatto della
natura; riscatto che ha trovato nel disegno un laboratorio in cui saggiare il sorgere delle
idee nella loro massima purezza. Nella produzione grafica di Giuseppe Penone non viene
mai meno il rispetto della specificità del disegno, campo di rapido fissaggio dell’idea capace
di favorire, col suo carattere astrattivo, la gestazione e l’evoluzione delle forme:
Un disegno senza la preoccupazione dello stile,
del carattere della grafia o della maniera dell’artista.
Un disegno dove l’azione del disegnare è il soggetto dell’opera,
il mezzo indispensabile all’idea, al linguaggio, all’invenzione dell’immagine.
Un disegno che non si esaurisce nell’effetto della sua tecnica ma che
Suggerisce una riflessione sul mondo ed offre una visione inattesa della realtà.17
Spesso estraneo a una mera funzione progettuale, il disegno contemporaneo si sviluppa in
linguaggi autonomi, rielabora le proprie concrete peculiarità e stabilisce così un ponte tra
ideazione e forma, divenendo così un linguaggio adatto anche alle ricerche concettuali.
Le ragioni possono forse essere rintracciate più nella sua vicinanza alla scrittura,
strumento di articolazione, conservazione e trasmissione del pensiero per antonomasia, di
quanto non lo siano altre tecniche (non è forse un caso se “disegno” e “scrittura” sono
espressi in greco col medesimo verbo: γράφειν). Penone intuisce brillantemente questo
legame quando fonde con disinvoltura parola e forma, quasi come in un salterio carolingio,
in un carme figurato o in una tavola di poesia visiva. Lo attestano al meglio, oltre a varie
opere già citate, un acquerello come L’impronta delle foglie impressa sulla pelle (1999),
dove le foglie, rese a guizzi di pennello, svolazzano tra nomi di piante e vegetali, o un
6
disegno come Cervello di pietre (2005), dove le pieghe e i solchi della corteccia cerebrale
sono profilate attraverso una calligrafia minima e continua. La scorrevolezza della penna o
della matita, così come il sottile spessore del foglio, sono degli “apriori materiali” capaci di
determinare e favorire la tendenza all’astrazione, alla resa sintetica, alla rapidità esecutiva:
lo spazio vergine del foglio diventa per Penone un terreno fertile su cui coltivare le proprie
idee, curare la germinazione delle forme, permettere allo stile di ramificarsi, irrobustirsi, o
rampicarsi su viticci paralleli, convergenti all’infinito.
Giuseppe Penone, Scritti 1968-2008, Museo Arte Moderna Bologna, Bologna 2009, p. 27.
Ivi, p. 38.
3 A questo proposito si vedano Giuseppe Penone, Lecture musicale de la structure des arbres, Musée
municipal, Louviers 1999, libro d’artista tirato in quattrocentocinquanta esemplari numerati, e poi Id.,
Transcription musicale de la structure des arbres, Bernard Chavau Editeur, Relié, 2012. Per la concezione
musicale degli alberi si può invece leggere il testo del 1998 riportato negli Scritti 1968-2008, alle pp. 130-131.
4 Giuseppe Penone, Note di lavoro (1971), in Mirella Bandini, Arte Povera a Torino 1972, Umberto
Allemandi, Torino 2002, p. 71.
5 Da un’intervista risalente al marzo 1973 e riportata in Mirella Bandini, cit., p. 69.
6 A questo proposito si veda anche Mariuccia Casadio, Giuseppe Penone: le metamorfosi del “corpo proprio”,
in G7 Studio, n. 3, marzo 1979, pp. 12-13.
7 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. it., Bompiani, Milano, 2009, p. 101.
8 Questa citazione risale al 1973 ed è riportata in Mirella Bandini, cit., p. 68.
9 Si veda Immanuel Kant, Critica del giudizio (1790), trad. it., Bompiani, Milano 2004, pp. 174-201.
10 Per chiarificazioni su tale concetto si rimanda a Piero Gilardi, Microemotive Art (1968), in Germano
Celant, Precronistoria 1966-69, Centro Di, Firenze 1976, pp. 48-51.
11 Il disegno di Leonardo è conservato oggi presso la Royal Collection di Windsor Castle (inv. 912380).
12 Giuseppe Penone, Scritti 1968-2008, cit., p. 109.
13 In merito a questa delicato problema, qui solo vagamente accennato, e per tutti i suoi relativi sviluppi si
vedano almeno Rossella Fabbrichesi Leo, La polemica sull’iconismo 1964-1975, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1983; Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997, pp. 295-348, e Piero
Polidoro, Umberto Eco e il dibattito sull’iconismo, Aracne, Roma 2012.
14 Roland Barthes, Retorica dell’immagine, in Id., L’ovvio e l’ottuso, trad. it., Einaudi, Torino 1985, p. 32.
15 Giuseppe Penone, Scritti 1968-2008, cit., p. 299.
16 Ivi, p. 13.
17 Ivi, p. 275.
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IMMAGINI:
1.
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3.
4.
5.
Giuseppe Penone, Sento il respiro, 1968 © Archivio Penone
Giuseppe Penone, Palpebre, 1974 © Archivio Penone
Giuseppe Penone, Studio per Soffio, 1978 © Archivio Penone
Giuseppe Penone, Verde del bosco, 1986 © Archivio Penone
Giuseppe Penone, Trappole per la luce, 1994 © Archivio Penone
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