Né perfida Albione né perfida Europa La "splendid

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Né perfida Albione né perfida Europa
di Dino Falconio
"Britannia insula finitima Galliae est" é
l'incipit di una versione di latino dal De Bello
Gallico di Giulio Cesare che tutti abbiamo
tradotto: la Britannia é un'isola vicina alla
Gallia. La "splendid isolation" è una
condizione ritornante dell'anima inglese, che
con il Brexit del 23 giugno scorso ha
semplicemente rifatto capolino.
Vi è stato un tempo, la fine del XIX secolo, in
cui veniva teorizzata come la bussola della
politica estera britannica: mentre l'Europa si
struggeva in conflitti vari, invece gli inglesi se
ne stavano lontani, fuori da alleanze formali,
dedicandosi allo sviluppo di un nuovo
colonialismo.
La "splendid isolation" da sempre fa
gli inglesi tipici e topici.
Tuttavia quell'epoca ottocentesca è soltanto
un frammento storicizzato di una molto più
ampia identità nazionale nella quale si proietta
la stessa posizione geografica della Gran
Bretagna. Peraltro, lo splendido isolamento ha
sempre consentito la "politica del pendolo"
che
nello
scacchiere
internazionale
avvantaggiava l'uno e, per converso,
indeboliva l'altro dei "players" in gara: in
particolare, i flirt alternati a tu per tu con
Germania e Francia hanno sempre permesso il
massimo profitto agli inglesi.
Si deve proprio a un francese, il Marchese
Agostino de Ximenes, l'epiteto "Perfida
Albione" per attaccare la Gran Bretagna
usando il suo nome di origine celtica, poi
preso in prestito nella guerra d'Etiopia dal
Cavaliere Benito Mussolini per conquistare il
nostro "posto al sole".
Una Chiesa Anglicana tutta propria,
d'altronde, é lo specchio antico di questa
vocazione "isolana", così come, su un piano
squisitamente
materiale,
la
guida
automobilistica a sinistra e le unità di misura
diverse dal sistema metrico-decimale sono la
testimonianza di una orgogliosa tendenza
sociologica a essere "tipici" se non "topici",
nonché a rifiutare omologazioni di cui gli
inglesi stessi non fossero i leader indiscussi.
43 anni e mezzo, prima di CEE e poi di UE,
devono aver pesato come una camicia di forza
sugli inglesi, che non hanno mai gradito le
sottrazioni alla sovranità nazionale e tanto
meno il ridimensionamento della loro potenza
transfrontaliera. Saranno rimasti pure tanti
anni nella Vecchia Europa ma col cuore e con
la mente le hanno sempre preferito il
Commonwealth delle Nazioni, più proficuo
residuo
degli
intrecci
economici
e
commerciali del defunto Impero di Sua
Maestà Britannica.
Per non parlare delle opzioni militari che
almeno nell'ultimo quarto di secolo hanno
visto un protagonismo del Regno Unito
(sovente al fianco direttamente degli USA) in
autonomia da una posizione comune della
UE. La canzone di Nigel Farage, capo
dell'Ukip (il partito indipendentista e
nazionalista inglese), secondo cui il Regno
Unito versa 11 miliardi di euro all'Ue per
vedere un "return of investment" nella patria
della Sterlina di poco meno di 7 miliardi, ha
avuto presa rapida su un corpo elettorale che
ha scelto il "leave" contro il "remain" con più
di un milione di voti di distacco.
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La partita non é solo interna fra l'ex primo
ministro David Cameron e il suo antagonista
tory Boris Johnson (già candidato a
succedergli a Downing Street) o fra gli
euroscettici come Farage e Jeremy Corbyn,
capo dei laburisti, in questa contesa
referendaria forse troppo tiepido.
Indebolire l'Europa vuol dire
arretrare la liberal-democrazia nel
mondo.
Le conseguenze economiche non si sono fatte
attendere e le borse principali hanno accusato
tracolli verticali.
Quel che è più grave è il riflesso politico in
Europa che il Brexit provoca: proprio quando
il rischio del terrorismo islamico invoca una
risposta unitaria e una iniezione di
provvedimenti comuni e allorché sembrava
acquisita la necessità di una reazione
coordinata al crescente fenomeno migratorio,
quali contraccolpi scatenerà la fuoriuscita
inglese?
D'altra parte anche il Presidente americano
Barak Obama era sembrato suggerire ai
cittadini della ex Madrepatria di restare nella
casa comune europea: "As your friend, let me
say - aveva scritto in occasione della sua
visita a Londra sulla prima pagina del
giornale conservatore Daily Telegraph due
mesi or sono - that the EU makes Britain even
greater" (Come vostro amico, lasciatemi dire
che l'UE rende la Gran Bretagna anche più
Grande).
Eppure, al di là delle previsioni dei sondaggi e
dei successivi exit poll, il risultato ufficiale è
stato chiaro: divorzio dall'Europa, che durerà
sì due anni di negoziato, come previsto dai
trattati, ma che si preannuncia non
consensuale, stando alle dichiarazioni di
Jean-Claude Junker, Presidente della
Commissione
Europea.
Con
ulteriori
strascichi economici e politici di non poco
momento.
Parliamo di un paese da 64 milioni di abitanti,
con una ricchezza culturale ed economica di
prim'ordine e una visibilità planetaria
incomparabile alla stragrande maggioranza
degli altri 27 paesi superstiti.
E se, sull'onda britannica, chiedessero di
uscire anche l'Olanda, la Svezia e la
Danimarca? Il volto dell'Unione cambierebbe
sensibilmente e somiglierebbe sempre meno a
quello
immaginato
dai
fondatori,
considerando lo slittamento dei nuovi membri
dell'ex blocco filo-sovietico verso politiche
nazionaliste e xenofobe.
L'indebolimento dell'Europa Unita non è la
frattura di un sogno, ma un arretramento delle
prospettive istituzionali liberal-democratiche
nel contesto globale.
Dove nasce il sentimento anti-europeo
in tanti paesi membri della UE?
Date per scontate le specificità inglesi, il
referendum sul Brexit pone due ordini di
questioni generali (completamente diverse fra
loro) che investono anche altri paesi dell'Ue:
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-a) da dove nasce il sentimento anti-europeo
che si sta radicando in tante realtà fino a
meno di dieci anni fa apparentemente
convinte del contrario?
-b) nel clima di neo-populismo imperante nei
paesi occidentali quali rischi corre la
democrazia rappresentativa?
Cominciando dal primo quesito, occorre
evidenziare
una
percezione
negativa
dell'Unione Europea fra larghe fasce di
popolazione del Vecchio Continente, come
emerge da tutte le tendenze partitiche
euroscettiche
che
aumentano
considerevolmente i consensi nelle varie
tornate elettorali: il Lepenismo in Francia, i
Podemos in Spagna, il Movimento 5 Stelle e
la Lega in Italia, l'AfD in Germania, per non
dire di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis in
Grecia e del fotofinish nelle presidenziali
austriache fra il candidato di estrema destra
Norbert Hofer e il verde Alexander Van der
Bellen, eletto
grazie ai voti per
corrispondenza. Si tratta di flussi che
sfuggono a un unitario inquadramento fra le
categorie tradizionali di destra e sinistra, ma
hanno una matrice comune nel senso
contrario alle istituzioni europee.
Una prima ragione di questa progressione
contraria all'Ue sta nel fenomeno di
ripiegamento nazionalista che in determinati
periodi storici le società naturalmente
sprigionano davanti al rapporto con l'altro. La
paura dell'incontro genera una chiusura a
riccio e il rifiuto di allargare i confini. Sono
reazioni che però una analisi razionale, di
norma, aiuta a superare.
Quando però si combinano le grandi
migrazioni, gli attacchi terroristici sanguinari
dell'Isis e la perdurante recessione economica
si fa strada la preoccupazione che questo
nostro mondo occidentale non abbia
sufficiente forza di assorbimento delle spinte
diversive che vengono dall'esterno, cosicché
la soluzione più adeguata sembra quella di
serrarsi in casa propria senza consentire
l'accesso ad estranei. Se poi le frontiere sono
mantenute aperte da una Europa che si
presenta soprattutto come entità di governo
dei grandi numeri economici e freno (reale o
fittizio) alle capacità di spesa degli organismi
nazionali che per sua colpa non possono più
dare le risposte di prossimità ai cittadini,
allora il tiro al bersaglio su Bruxelles diventa
un gioco da ragazzi.
L'Europa dei "No" accresce
i "No" all'Europa
Non si possono stanziare fondi pubblici in più
se si infrange il rapporto deficit-PIL, non si
può sforare il fiscal compact, non si può
prevedere una certa agevolazione altrimenti si
infrangono i divieti anti-concorrenza e così
via. L'Europa dei "No" accresce i "No"
all'Europa: ecco dove riposano le radici del
sentimento euroscettico. Si aggiunga a ciò che
fra i paesi che hanno adottano la moneta
unica (fra i quali non figurava la Gran
Bretagna) il cambio fra la valuta nazionale
originaria
e
l'euro
ha
provocato
psicologicamente e materialmente un senso di
insoddisfazione economica e un conseguente
distacco politico dall'idea di UE.
Ma forse è cruciale proprio il senso di
distanza con il quale i cittadini avvertono la
presenza delle istituzioni europee: il Trattato
dell'Unione è poco conosciuto, andrebbe
spiegato nelle scuole e nelle comunità; il
Parlamento di Strasburgo è lontano dai più e
si dovrebbero immaginare visite e contatti che
lo rendano familiare; la Commissione sconta
un deficit di democrazia essendo espressione
delle maggioranze governative dei singoli
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paesi membri più che della volontà
parlamentare; il procedimento legislativo
soffre a monte di scarsi mezzi di
partecipazione e controllo dell'opinione
pubblica; il ministro degli Esteri dell'Unione
(Pesc) è evanescente.
I giornali teorizzano ministri comuni degli
interni e del tesoro, ma le genti d'Europa non
comprendono perché non vedono, non
approvano
perché
non
sanno,
si
impressionano e - secondo il meccanismo di
una psiche infantile di dare la colpa ai genitori
- gettano il dito accusatore sulle istituzioni
comunitarie. In questo senso, non può che
dirsi un'occasione perduta la mancata
promulgazione di una Costituzione Europea,
affondata dai referendum di Francia e Paesi
Bassi nel 2009. Si ha la percezione di essere
ripassati dalla cittadinanza alla sudditanza.
Non è che gli Stati nazionali brillino per
requisiti di partecipazione democratica, ma
rispetto all'Europa questa sensazione è di gran
lunga più vaga, a stento si coglie ogni cinque
anni per il rinnovo dell'Europarlamento. Poi il
contatto istituzioni-cittadini scompare, va in
una profonda apnea che dura tutta la
legislatura, mentre come i funghi spuntano
durante essa i divieti, i limiti, le norme alle
quali non si può dire mai no, nate senza
dibattito sui giornali, nei circoli, nelle piazze,
come imperativi categorici al grido crociato
moderno de "L'Europa lo vuole".
La falsa coscienza dei neo-populismi
mina la democrazia rappresentativa
Queste ultime considerazioni ci consentono di
passare al secondo interrogativo sul rapporto
fra populismo e democrazia rappresentativa.
Un tratto ricorrente delle democrazie
occidentali è la crisi di consenso dei partiti,
che non riescono più a proporsi e a porsi in
modo idoneo come contenitori di pensiero
collettivo
e
convinzioni
generali.
Probabilmente la scomposizione delle masse
in ceti diversificati per redditi, conoscenze,
provenienze, fedi, costumi e tradizioni, rende
più difficile intercettare i bisogni delle tante
fasce di popolazione, così come il
decentramento della grande informazione dai
media tradizionali ai nuovi canali del web e
soprattutto ai social network ha sviluppato, da
un lato, un nuovo pluralismo (così come di
bisogni anche di opinioni) e, dall'altro, una
moderna falsa coscienza che sta alla base di
numerose pulsioni anti-sistemiche che si
riversano nel cosiddetto populismo. Questo
vale per il partito repubblicano di Donald
Trump in USA, come per il movimento di
Beppe Grillo in Italia.
Non va sottovalutato - sia detto senza alcuno
spirito complottista - che piccoli o grandi
"tsunami" derivanti da questo "stravolgimento
climatico" possono causare veri e propri stadi
di entropia in cui rischiano d'essere abbattuti
alcuni pilastri dello Stato e della Società,
lasciando macerie e disordine nei quali
avranno ampio spazio di manovra le forze
economiche allo stato brado, prive cioè del
contrappeso di tutele che gli ordinamenti
giuridici possono opporre al prepotere e alla
prepotenza del turbocapitalismo.
Di fatto, quasi tutte le formazioni populiste,
negli anni recenti, alzano il vessillo della
democrazia diretta (o addirittura della webdemocrazia) contro quella rappresentativa. È
un dibattito che merita un approfondimento a
parte, ma qui può servire ricordare che la
democrazia non è soltanto esercizio del
diritto di voto, che rimane un elemento basale
e coessenziale, ma non l'unico costitutivo
delle strutture democratiche.
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Se vogliamo dirla tutta, la stessa regola de "la
maggioranza vince" può essere accettata se
sussistano correlative tutele delle minoranze
e se queste siano scritte in un rigido Patto
condiviso fra i consociati.
Questo lo sanno bene proprio gli inglesi che
otto secoli fa dettero alla luce la Magna
Charta Libertatum, considerata da alcuni
studiosi il germe del costituzionalismo
moderno, quando il sovrano ebbe ad autolimitare il suo potere, riconoscendo uno
spazio di intervento nella decisione politica ad
altri soggetti sociali (civili o ecclesiastici che
fossero) e dunque realizzando un sistema di
corpi intermedi responsabili.
Curare i corpi intermedi vuol dire
curare la democrazia
Democrazia perciò è nel contempo libertà e
responsabilità. È facile far leva sulla pancia
del popolo, ma è molto più difficile parlare
alla testa, soprattutto quando la paura la fa da
padrona. In questo senso, si può ricordare il
titolo del libro del Procuratore Nazionale
Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti,
cioè "Il contrario della paura" per indicare di
quale benzina deve alimentarsi la democrazia.
In epoche di enorme stress sociale e di
psicodramma di massa come quella che
stiamo vivendo, andrebbero somministrate
iniezioni altrettanto enormi di "conoscenza" e
occorrerebbe far comprendere con profondità
a tutti quale sia la posta in gioco.
I movimenti populistici che conquistano il
potere, generalmente, o hanno una torsione
autoritaria o tendono a destrutturare
l'equilibrio degli ordinamenti, rompendone di
fatto, in entrambi i casi, gli argini di tutela
della persona, cioè la finalità del
costituzionalismo, inteso come limitazione del
potere.
In questo contesto, svetta come intuizione
geniale di esaltazione della democrazia l'art.
75, comma 2, della nostra Costituzione
italiana: "Non è ammesso il referendum per le
leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di
indulto, di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali". Esistono in democrazia
ambiti in cui nessuno dubita che il popolo
possa non avere sempre l'adeguata cautela e
sensibilità nel giudicare una legge e che possa
essere spinto da motivazioni egoistiche e
personali non in linea con il concetto di
interesse generale a cui una legge deve
rispondere. Tutti saremmo tentati di votare
l'abrogazione delle tasse...
È tutto qua il cavallo di Troia del gioco della
"disintermediazione" che viene invocato da
più parti, disconoscendo la funzione selettiva
che rispetto ai contenuti democratici sono
chiamati a svolgere i corpi intermedi.
Se sono ammalati i corpi intermedi - come
pure può essere e, a nostro sommesso avviso,
è - la soluzione non è quella di amputarli, ma
occorre curarli.
Nelle ore immediatamente successive al
Brexit si è diffusa la notizia che molti elettori
hanno dichiarato di non aver compreso per
che cosa avevano votato o addirittura di
essere pentiti della scelta espressa per il
"leave".
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Soprattutto lascia riflettere che la domenica
successiva al giovedì delle votazioni, già tre
milioni di elettori avevano firmato una
petizione per rifare un secondo referendum. È
il segno che vi è stata una palese distorsione
nella campagna elettorale che ha fatto
pressione su fattori non limpidi, ha decentrato
l'obiettivo, ha personalizzato questioni di altro
ordine. È lo stesso rischio che corre il
Presidente del Consiglio dei Ministri italiano,
Matteo
Renzi,
con
il
referendum
costituzionale confermativo di ottobre.
Non v'è dubbio che il risultato referendario va
rispettato, ma occorre riflettere sulla
strumentalizzazione dei quesiti plebiscitari
quando l'ambiente, il clima generale, sono
affetti da fenomeni infettivi e non sia stato
somministrato il farmaco della "conoscenza"
(intesa come rimedio della paura) per
consentire a tutti gli elettori di esprimersi in
maniera consapevole e responsabile.
Il vero morbo della democrazia é questa
mancanza di conoscenza (interna ed esterna)
dei veri problemi della cittadinanza. É questo
ciò che va guarito, cominciando da
un'adeguata selezione della classe dirigente e
quindi da un ritrovato interscambio dal basso
verso l'alto e dall'alto verso il basso,
sottoponendo i titolari di responsabilità
pubbliche a controlli seri e sereni e dando la
possibilità all'opinione pubblica di seguire
non gli istinti di pancia ma le riflessioni di
testa.
Il referendum britannico insegna che chi si
trova al potere, in Italia come in Europa (o, in
genere, nel mondo), deve sapere che non si
scherza col fuoco.
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