Scheda del film

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Scheda del film
FRANTZ
Regia: Francois Ozon
Sceneggiatura: F.Ozon, Philippe Piazzo
Fotografia: Pascal Marti
Musica: Philippe Rombi
Interpreti: Paula Beer, Pierre Niney, …
Francia Anno: 2016 Durata: 113’
Caldo e freddo, poetico e analitico, classico e sperimentale, in bianco e nero e a colori, rivisitazione del
passato e commento suggerito del presente, Frantz è un film che lavora sulla citazione e la rivisitazione ma
che poi (re)inventa. (…)
Alla base di questo film profondo e complesso c’è il libro pacifista L’homme que j’ai tué (1925) di Maurice
Rostand, trasformato in una pièce ricca di riferimenti alla sua vita gay, che all’epoca fece scalpore per il suo
pacifismo. Partendo dal lavoro di Rostand, Ozon, cineasta che non fa certo mistero della propria
omosessualità, è arrivato al melodramma del 1932 di Ernst Lubitsch L’uomo che ho ucciso. E Frantz è
presentato come un (libero) adattamento proprio di quest’ultimo.
(…) Non c’è dubbio che Ozon rivoluziona il film di Lubitsch. Pur rimanendogli fedele sotto molti aspetti, ne
cita diverse scene, sposta nella seconda parte il baricentro della storia, dal punto di vista di Adrien, il soldato
francese che fa visita alla famiglia del soldato tedesco ucciso – Franz appunto –a quello di Anna, la di lui
fidanzata, interpretata dalla notevole Paula Beer (premio Mastroianni come attrice emergente a Venezia,
dove il film era in concorso).
Impostore per rimorso, Adrien si spaccia come un amico dell’ucciso, visto che entrambi sono amanti
dell’arte, creando così un mondo dell’illusione poetica, salvifica e manipolatrice insieme, dove i confini sono
labili, ambigui. L’ambiguità è una tematica portante nella filmografia di Ozon, in particolare quella nelle
relazioni umane e sociali. Ma Adrien è anche espressione di un desiderio delicatamente omosessuale verso
Franz. (…) La suggestione si può cogliere quando Ozon inquadra le cicatrici di guerra nel basso ventre di
Adrien, sdraiato a petto nudo dopo un bagno nel lago: vita e morte (l’erotismo della prima e la violenza della
seconda) quasi si equivalgono.
Nella seconda parte la manipolazione è presa in mano da Anna. Però la sua è una manipolazione cosciente, a
fin di bene, sulla quale pesa tutta la sua solitudine. Ozon legge metaforicamente la disillusione (a dir poco) di
un’intera generazione mutilata da una guerra mondiale priva di senso (ancora oggi gli storici s’interrogano
sulle cause razionali che l’hanno scatenata) da un punto di vista intimo e femminile.
Adrien, che tiene segrete le sue pulsioni omosessuali, preferisce tornare all’illusione ipocrita altoborghese,
lasciando Anna sola ad affrontare fino in fondo la cruda realtà. Anna è capace di perdonare l’imperdonabile e
di limitare l’illusione a chi non potrebbe sopravviverle (cioè gli anziani genitori di Franz): “Bisogna vivere
anche per gli altri”, dice. Infranta del tutto la bolla rassicurante, le riesce in compenso l’acquisizione
importante della consapevolezza, per quanto dolorosa. Elemento fondamentale per non essere manipolati,
per tentare di dominare la vita e non esserne dominati e poter costruire un futuro accettabile.
Ozon realizza un’opera che pare classica mentre invece è un film molto visivo in senso moderno: la
dimensione visuale incide anche sulla colonna sonora, dai dialoghi ai suoni stessi, passando per le musiche
(composte al piano da Philippe Rombi). Nitide silhouette nere di notte in un cimitero fanno cogliere
l’incertezza. Una finestra, spettrale e foriera di solitudine, mentre Adrien si allontana nella notte. Ancora
Adrien e Anna davanti ad una croce bianca che squarcia l’inquadratura. Queste, come anche quelle della
splendida sequenza del ballo nel cortile di una locanda, sono immagini la cui accuratezza non impedisce di
esprimere l’ancestralità di visioni quasi dimenticate del cinema in bianco e nero.
Ma Frantz, purtroppo, mettendo in collisione l’analisi psicologica dei comportamenti propria del cinema
moderno con il melodramma di Lubitsch, non riesce a creare del tutto quella dimensione ipnotica che
rimanda al cinema muto, dimensione ipnotica e inconscia che tanto piaceva ai surrealisti. Questo malgrado il
grande lavoro fatto con il direttore della fotografia Pascal Marty e la scelta di un formato quasi cinemascope
(altra opposizione formale, rispetto ai formati del muto e del cinema sonoro degli inizi).
In ogni caso Ozon riesce a evocare qualcosa di fortemente inquieto che sembra provenire dalle fronde che
avvolgono i vecchi cimiteri: si respira l’oltretomba figlio di Poe o della poesia di Rimbaud, Baudelaire o
Verlaine, piuttosto che dell’horror di oggi (...) L’oltretomba di Ozon ha il suo momento chiave in quella
sequenza al cimitero di notte dove si recita Chanson d’automne, celebre poesia di Paul Verlaine usata anche
da Radio Londra come messaggio codificato per lo sbarco in Normandia: splendido momento di cinema
dove si respira in tutta la sua forza il freddo della morte di un’intera generazione, un freddo che vale ieri
come oggi.
(…)
Perché il film s’intitola Frantz e non Franz come suggerirebbe la grafia tedesca? Perché, come ha spiegato
lo stesso Ozon, la grafia è quella francese, errata ma spesso usata. Tedesco e francese, vero e falso, sono
inscindibili: il titolo spiega il film e riassume l’interrogazione che pervade l’intera opera del regista che
ritrova qui una dimensione metafisica prossima a quella di Sotto la sabbia (2000).
Ma questa bolla lugubre di ombre nere viene squarciata da lampi improvvisi di colore. Procedimento
bellissimo e privo di ogni meccanicità: qual è il loro senso?
In un’occasione, quando è usato nel (falso) ricordo dell’incontro al Louvre tra Adrien e Franz.
Il colore è riservato ai ricordi presunti? Quando di fronte ad Anna e Adrien si schiude un magnifico e
romantico paesaggio il colore si sprigiona come una primavera. Qualcosa sembra passare tra i due. Sembra
di vedere un quadro alla Caspar Friedrich: “La mia sola ferita è Franz”, dice però Adrien. E il colore si
dissolve, come un incantesimo che si volatilizza. Qui si può pensare che il colore esprima il potenziale
nascosto di una situazione. In un’altra sequenza a colori, Adrien confessa di aver ucciso Franz. Ed ecco un
ricordo veritiero.
I colori che fioriscono e appassiscono con velocità rapsodica, surrettiziamente, indicano l’empatia profonda
degli esseri umani con le diverse situazioni: non importa se vere o false, se si tratti di realtà potenziale o
realtà tragica. La coerenza con la visione di Ozon è perfetta. Se mai esiste una verità questa risiede nella
parte più profonda della nostra vita interiore.
Comunque, nulla sarà più come prima, dopo questa confessione. Anna, ormai sola, riattraversa la galleria
rocciosa. Il colore è ormai impossibile per lei e se ancora si pensa a Friedrich, il bianco e nero, che richiama
certo Bergman o Dreyer, è cupo. A casa ci sono le foto di famiglia in bianco e nero e il mare di cadaveri.
Frantz è un film sulle bolle illusorie. Quelle che creiamo per proteggerci o per meglio ingannare gli altri.
Quelle dell’arte, altro tema portante del film. La differenza è che queste ultime, espressione dell’interiorità,
contengono una verità inseparabile dall’illusione apparente, concetto che rovescia quanto praticato dai
protagonisti. Lo capisce alla fine solo Anna, rimasta sola, ma con la schiena dritta, al contrario di Adrien, che
per sempre resterà vigliacco: in guerra, poi, sul punto della redenzione, con la famiglia di Franz, infine con
Anna. Lei perdona, lui ringrazia, abbandonandola nel vuoto, perfetta rappresentazione della spietatezza del
vigliacco.
Tra le righe, Ozon sembra condannare Adrien anche per la mancanza di coraggio nell’affrontare la propria
omosessualità. All’inizio, i due innamorati non dichiarati sono ripresi insieme nel bosco, quasi in primo
piano. Il volto di Adrien è diafano e pare fatto di linee curve e stilizzate uscite dritte dai disegni di Picasso.
Nella seconda parte invece il suo è un volto quasi senza forza. Stupendamente interpretato da Pierre Niney,
Adrien non è insomma condannato dal regista perché omosessuale, ma in quanto personaggio non diritto.
In questo film duale (…) – dualità irrisolta nell’uomo ma risolta nella donna – restano allora in testa il volto
limpido e degno di Paula Beer e il fantasma dal volto candido quanto etereo di Franz, con gli occhi sbarrati
già prima di morire, quando viene ucciso. I ricordi falsi cominciano con l’arte. La realtà (che un giorno sarà
un ricordo vero), espressione di speranza, si conclude con l’arte: Anna va al Louvre a vedere il quadro di
Manet Le suicidé, spesso citato, a volte con discrezione, lungo il film. “Questo quadro mi dà voglia di
vivere”, dice. E torna il colore.
Francesco Boille - Internazionale