editoriale giorgio mondadori
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€ 30,00 EDITORIALE GIORGIO MONDADORI 1909 - 2009 Mostra del Centenario ALDO TAVELLA (1909 – 2004) “IL RESPIRO DI UNA VITA” a cura di Paolo Levi e Mario Guderzo EDITORIALE GIORGIO MONDADORI L’opera è inserita nella collana Cataloghi d’ Arte della Con il Patrocinio EDITORIALE GIORGIO MONDADORI In copertina “Giardini”, 1947 olio su cartone, cm 50x70 Si ringraziano Stampa Distributore esclusivo alle librerie Messaggerie libri S.p.A. Via Verdi, 8 - 20090 Assago (Milano) Copiright©2009 Itaca Investimenti d’ Arte s.r.l. Riproduzione vietata, tutti i diritti riservati dalla legge sui diritti d’autore SPECIALI NELL’ASSICURARE ALDO TAVELLA “IL RESPIRO DI UNA VITA” 1909 - 2009 Mostra del Centenario a cura di Paolo Levi e Mario Guderzo 14 novembre – 13 dicembre 2009 Palazzo della Ragione Piazza dei Signori, Verona Testi di: Paolo Levi, Ennio Pouchard, Mario Guderzo Federica Luser, Marco Maria Polloniato Organizzazione: Alessandro Schirato Musiche: Maestro Nicola Guerini Allestimenti: Arredamenti Dueffe, San Zeno di Cassola (VI) Assicurazioni: Satec e Venice Broker Apparati Fotografici: Davide Martinazzo, Pino Tavella, Alessandro Schirato Comunicazione e Ufficio Stampa Mara Bisinella, Quinto Potere, Bassano del Grappa (VI) Organizzazione Generale e Progetto Grafico Itaca Investimenti d’Arte Castelcies di Cavaso del Tomba (TV) www.itacagallery.com e-mail: [email protected] Con la mostra sul pittore Aldo Tavella salutiamo un nuovo ed importante appuntamento con l’arte, un’ulteriore tappa nella strategia di sviluppo culturale della nostra città, la naturale prosecuzione della linea di sostegno ai fenomeni di eccellenza della cultura veronese. L’intento dell’Amministrazione comunale, infatti, è quello di tributare un omaggio ad un uomo che, nel tempo, con passione e professionalità, ha collaborato alla crescita culturale della Città che ha amato e che ha saputo lasciare un segno nella sua arte. E’ un importante avvenimento culturale, che si realizza a più di 20 anni di distanza dall’omaggio che il Comune di Verona volle rendergli, ospitando nel Palazzo della Gran Guardia un’antologica che riscosse un notevole successo di pubblico e di critica, cui fece seguito una seconda mostra nel 2004. Un filo riannodato, quindi, grazie al quale Verona riscopre se stessa, per ritrovare il proprio futuro e riallacciare il rapporto con la propria storia. La mostra contribuirà ad approfondire la conoscenza di questo pittore, che seppe affrontare in modo autonomo ed originale il dibattito sull’arte italiana di quegli anni: seguire il percorso di questo artista, quindi, consentirà di entrare anche nello spirito migliore del Secolo che abbiamo alle spalle. Siamo certi che la figura di Tavella emergerà in tutta la forza della sua creatività e nell’autenticità della sua complessa ricerca culturale, che ha offerto un importante contributo allo sviluppo del panorama culturale ed artistico del nostro territorio e non solo. Quest’esposizione dunque, ed il catalogo-monografia che la correda, consentiranno finalmente di valutare nel suo insieme tanti anni di lavoro, segnato dalla fedeltà alla tradizione e all’arte, come è sempre stato ribadito dalla critica. Un appuntamento da non perdere, per i veronesi e per il pubblico interessato, una grande occasione per cercare di penetrare nella vicenda artistica ed umana di questo pittore. La mostra, infatti, oltre che un progetto per la città, rappresenta anche un modello di collaborazione e di interazione tra diverse istituzioni pubbliche e private, tra istituzioni e cittadini e tra diverse competenze e professionalità. Il nostro ringraziamento va alla famiglia Tavella, per l’opportunità che ha voluto offrire alla città, all’organizzazione di Itaca Investimenti d’Arte e a tutti coloro che hanno lavorato, prodotto, studiato per la realizzazione di questa iniziativa. Erminia Perbellini Assessore alla Cultura Flavio Tosi Sindaco di Verona Un momento di memoria e di cultura un’impronta originale ed autonoma nella pittura veneta del XX secolo: così dicono gli esperti d’arte di mio padre. Un uomo che ha sempre fatto quello che ha voluto e contato solo su se stesso. Una vita, la sua, iniziata nel 1909 e terminata nel 2004. Ricordo di lui benissimo quei suoi occhi belli e vispi, quella sua voce simpatica mentre ci diceva cose di cui era convinto sempre fino in fondo e per le quali mal volentieri accettava suggerimenti o consigli. Solo la mamma sapeva davvero come prenderlo e “dominarlo”. Compiuti gli studi presso l’Accademia G.B. Cignaroli di Verona, ne divenne prima docente e poi Direttore. Ed è sotto la direzione di Aldo Tavella che l’Accademia ottenne nel 1985 il riconoscimento dello Stato Italiano. Con una produzione amplissima ed eclettica colorata di ottimismo e naturalezza, mio padre, fino all’ultimo, “questo bambino di 95 anni”, ci ha offerto un’immagine di pittore che travalica il tempo con un entusiasmo ed uno spirito polemico, estroso ed accattivante: bastava entrare nella sua casa, i quadri erano dappertutto, negli armadi, in cucina, in ogni dove, in un perfetto disordine d’autore. Consentitemi di ricordare qualche breve passo di alcuni dei critici d’arte che hanno apprezzato e valorizzato l’opera di mio padre: Ugo Ronfani, in occasione di una mostra dedicata al papà alla Gran Guardia, presentava l’iniziativa come «un evento che celebra e premia la longevità operosa e l’onestà intellettuale di un pittore che ha attraversato il secolo senza oziose o vanitose distrazioni, tenendo gli occhi bene aperti su quanto di nuovo offriva il panorama italiano ed europeo delle arti figurative, ma badando soprattutto ad essere se stesso, ad ascoltare le voci di dentro di una vocazione di nativa naturalezza, restando prodigiosamente giovane nell’incalzare dell’età, dunque un evento che esce decisamente dalla cerchia locale». Jean Piot, nella sua pubblicazione “Aldo Tavella - tra mito e realtà” evidenzia come «Tavella ha sempre saputo che la fedeltà al vero non è un limite culturale, un pericolo di restare arretrati, di avvilupparsi ancora alle nostalgie naturalistiche e post impressionistiche, ma il più delle volte, lo specchio di una profonda verità interiore. Senza ciò - dice spesso Vasari - l’arte sarebbe caduta come un corpo umano». Remo Brindisi, in un breve commento di alcune opere di Aldo Tavella, scriveva: «Sono dell’ opinione che, grazie ad un tessuto plastico del colore, il suo quadro riesce ad essere suggestivo per una particolare luce, che dall’impasto pittorico, scaturisce in una analisi segreta sugli oggetti, più che sui paesaggi e le figure. D’impostazione tradizionale, il suo quadro avverte, delle volte, angolazioni culturali più aggiornate». Infine Licisco Magagnato: «Tavella resta fedele al fondo vero della sua cultura: 1’esperienza artigianale, la spontanea sapienza del mestiere del decoratore che ha un tempo esercitato l’intonazione delle sue opere è costantemente in chiave giusta, proprio il suo innato senso di un rapporto cromatico unitario che deve legare la parte al tutto, in un equilibrio che costituisce l’amalgama meditato dei vari elementi. [ ... ] Da un punto di vista compositivo, i dipinti di Tavella sono gremiti e densi, quasi li ispirasse un “horror vacui” di ascendenza popolare; mazzi di fiori compatti, come ghirlande di fiori secchi, tessiture strettamente intrecciate come i ricami dei cuscini della nonna, tinte spente e corpose segnate da velature e graffiti che sembrano esaltarne la matericità. Questo tormentato lavorio sul tessuto pittorico, si accompagna talora ad un altrettanto arrovellato sovrapporsi a strati ed incastri di immagini, in una ricerca di sintesi narrative e simboliche condotte sul filo della memoria, in una chiave che risale a modi del liberty, ma anche a murales ed illustrazioni popolari sudamericane e specialmente messicane». I critici d’arte e gli esperti, quindi, già molto hanno detto e scritto. Oggi con questa mia presentazione, che credo faccia piacere alla Verona che lui tanto ha amato come ultimo testimone di un secolo di grandi nomi veronesi, ed anche a questa prestigiosa Accademia di cui, in memoria proprio di Aldo Tavella, mi è stata offerta la carica da me accettata di Vice Presidente, voglio invece, solo rendergli omaggio ed un grato ricordo. Diceva Blaise Pascal nei suoi Pensieri: «Quando un discorso dipinge con naturalezza una passione o un effetto, ritroviamo in noi stessi la verità di ciò che esso intende dire, la quale verità non sapevamo che già fosse in noi; di modo che siamo portati ad amare chi ce lo fa sentire; poiché costui non ha fatto mostra di un bene suo, ma del nostro; e così questo beneficio ce lo rende caro, oltre al fatto che questa comunione d’intelligenza che abbiamo con lui inclina necessariamente il cuore ad amarlo». Ecco, questo pensiero di Pascal mi sembra possa ben rappresentare tutto ciò che la pittura di papà ha significato e trasmette a tutti noi e a tutti coloro che apprezzano la qualità dell’arte nella semplicità. In particolare, voglio dirgli che lo amiamo ancora tanto e che siamo stati fieri ed orgogliosi di aver fatto parte della sua vita. Romano Tavella Vice Presidente dell’Accademia di Belle Arti G.B. Cignaroli di Verona Questa mostra è un’occasione per celebrare il centenario della nascita di Aldo Tavella e nello stesso tempo un’importante tappa nella riflessione scientifica legata all’arte. Affrontare tutte le problematiche connesse con la riscoperta di un artista, è una delle prerogative fondamentali di Itaca Investimenti d’Arte. L’attenzione è rivolta proprio a coloro che hanno creato percorsi originali e fondamentali in campo artistico e che si sono cimentati nell’espressività, anche se quel processo di valorizzazione del proprio lavoro, ha incontrato difficoltà e alle volte incomprensioni. Attraverso un’approfondita metodologia di ricerca e di confronti e con l’organizzazione di iniziative correlate, Itaca si propone, come “una nuova visione nella promozione dell’arte”. La realtà di Aldo Tavella, del resto, è una situazione che abbiamo già incontrato presso molti altri protagonisti dell’arte italiana e della pittura veneta contemporanea. Non ci ha mai spaventato affrontare un archivio pittorico come quello che la famiglia Tavella ci ha presentato. La complessità del lavoro di archiviazione iconografica, di catalogazione, di analisi critica, di censimento bibliografico è stato così affrontato in modo capillare ed affidato ad esperti, critici e storici dell’arte che da anni collaborano con noi ed ai quali rivolgiamo il nostro grato riconoscimento. Approfondendo la collezione d’arte di Tavella ne è emerso un artista veneto eccezionale che ha attraversato con integerrima determinazione tutto il Novecento, Secolo ricco di innovazioni in campo artistico ed anche di contraddizioni, ma che sono state con molta “sincerità” e convinzione da lui assimilate e “tradotte” nella sua arte. Abbiamo sempre concentrato la nostra attenzione nei confronti di quella tradizione che costituisce il più ricco patrimonio italiano: l’arte e i beni culturali tout-court. E’ una caratteristica significativa di questa organizzazione, che non vuole, assolutamente, interferire con il mercato. Valorizzato nella sua Città fin dagli anni Cinquanta del Secolo scorso, è stato da noi studiato per il significato che rappresentava, proprio come un grande protagonista. Dell’artista sono stati studiati tutti i dipinti e i disegni che saranno ulteriormente valorizzati dopo la pubblicazione del catalogo generale. Il mio particolare ringraziamento va così all’Amministrazione comunale di Verona che ha creduto nel nostro impegno, alla famiglia Tavella che abbiamo conosciuto per mezzo del critico d’arte Paolo Levi che con Mario Guderzo ha realizzato il catalogo e curato l’esposizione. Pensiamo così di aver fornito un importante contributo alla diffusione e alla conoscenza di questo protagonista veronese che ha saputo dimostrare una passione profonda ed un’infinta dedizione verso la pittura e che ha utilizzato queste forme espressive per “narrare” piccoli eventi della sua quotidianità e che nello stesso tempo è riuscito ad inserirsi nei grandi dibattiti sul senso dell’arte del suo Secolo. Alessandro Schirato Presidente Itaca Investimenti d’Arte SOMMARIO 13 ALDO TAVELLA: UNA RICERCA FIGURATIVA Paolo Levi 15 TAVELLA E LA PITTURA VENETA DEL NOVECENTO Ennio Pouchard 19 ALDO TAVELLA (1909 – 2009) “IL RESPIRO DI UNA VITA” Mario Guderzo 27 UN MAESTRO ALLA BIENNALE DI VENEZIA Federica Luser 31 NOTE SULLA PITTURA DI GENERE VENETA NEL NOVECENTO Marco Maria Polloniato 35 OPERE 136 NOTE BIOGRAFICHE 137 ESPOSIZIONI 139 BIBLIOGRAFIA Aldo Tavella nel suo studio, 1994 ALDO TAVELLA: UNA RICERCA FIGURATIVA egli ha messo in scena una figuratività, dove si dipana un dialogo continuo fra la materialità della forma riconoscibile e l’improbabilità di una sua definitiva certezza. Aldo Tavella è stato pittore di forte temperamento, il quale coniugando varie tematiche ha visualizzato una serie di immagini del silenzio, ma non quello inquietante della metafisica, bensì quello pregnante e soggettivo della solitudine o, quanto meno del distacco da una quotidianità sfuggente e, in definitiva, insignificante. Ma al di là del senso specifico di ogni sua narrazione, ci si avvede della pensierosa acutezza delle sue rappresentazioni, dove l’artista sembra voler trattenere l’immagine in uno spazio sospeso al di sopra della contingenza, per restituirla allo sguardo con l’idea stessa di un’immobile eternità. Paolo Levi Aldo Tavella ha fatto parte della generazione successiva alle sperimentazioni del Futurismo e Cubismo, che erano non solo movimenti artistici, ma veri e propri amplificatori di messaggi utopici. Nato nel 1909 - nello stesso anno in cui veniva pubblicato il Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti – nel suo apprendistato non si è lasciato attrarre né dalle suggestioni del post-Futurismo e neppure, più tardi, dal Ritorno all’Ordine proclamato dal gruppo romano di Valori Plastici, guardando piuttosto al paesaggio come entità freddamente oggettiva, e alla figura come garbato riferimento ai Primitivi. Di questo Maestro veronese si può quindi scrivere come egli abbia percorso parte del secolo scorso interpretando il paesaggio, la natura morta e la figura con la freddezza di chi controlla le proprie emozioni, per privilegiare esclusivamente il colore nella sua qualità ritmica e di mistero. Ha vissuto il dramma di due Guerre, e ha visto l’inizio del XXI secolo, sempre interrogandosi sulla realtà della forma, sul segno come drammatica scrittura della percezione visiva, e sullo spazio come condizione estetica. Un esponente quindi del Novecento europeo che ha optato per una ricerca figurativa che si può ben definire come anti-romantica, per approdare infine a una sperimentazione inquieta, da collocare nell’ambito di un’epoca di totali mutamenti storici e culturali. La perdita delle illusioni sul destino dell’umanità, che è culminata nel bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale, ha coinciso emblematicamente con la rivoluzione tecnica, formale e contenutistica degli artisti che avevano maturato la lezione di Cézanne, tracciando un percorso di cui Aldo Tavella è stato nobile continuatore. Così, anche per lui, l’unica certezza a cui poggiarsi era la coscienza vigile del suo lavoro, mentre la sua mano ricercava sulla tela nuove forme allusive del vero, definendole negli spessori aggressivi della materia, nei dialoghi tonali, e nella forza espressiva che richiamava a volte la pittura del Nord-Europa, sposandosi nel contempo con il gusto tipicamente veneto delle velature. Da severo artefice, quale egli era, elaborava originali variabili di forme certamente riconoscibili ma espressivamente ardite e dense di sensazioni tattili e visive. La sua ricerca figurale rivelava una lucida consapevolezza, che lo spingeva a elaborare gli elementi compositivi dei suoi lavori con un’efficacia eloquente, che non offriva mai all’osservatore soluzioni ingannevoli o anche solo sbrigative. Al contrario, egli enunciava la sua verità richiamando l’attenzione su ogni particolare del racconto tramite le stesure o le improvvise e geniali macchie cromatiche, risolvendo sempre nel modo giusto l’equilibrio dialettico delle forme esaltate da un segno palpitante. Cantore dunque di un reale che si coniuga all’allusione, Adige a San Giorgio, 1993 13 Il cantiere, 1949 14 TAVELLA E LA PITTURA VENETA DEL NOVECENTO rappresentativa di un “momento di memoria e di cultura” veramente autoctono e di una “impronta originale ed autonoma”, da considerare quale solida base per tutto il XX secolo. A simili principi avevano aderito gli artisti suoi concittadini più anziani Giuseppe Flangini, Orazio Pigato, Guido Farina, Angelo Zamboni (che gli fu maestro nell’arte dell’affresco), Alessandro Zenatello e altri, fino al soave Pio Semeghini (classe 1878, che con Tavella coltivò rapporti di stretta amicizia); e così continuarono a fare i quasi coetanei, come Vittorino Bagattini (1908) e Silvio Oliboni (1912): in sostanza, niente cambiamenti radicali rispetto alla pittura maturata nel corso della seconda metà dell’Ottocento in tutte le Venezie, e quindi, prima del 1918, anche oltre il confine di allora con l’Austria, fino a Trieste e all’Istria. Un insieme del quale si sta ancora riscoprendo la complessità, nel cui ambito primeggiavano Ippolito Caffi, Guglielmo Ciardi e figli, Alessandro Milesi, Ettore Tito, accanto ai triestini Umberto Veruda, Guido Grimani, Giovanni Zangrando e all’istriano Pietro Fragiacomo, protagonista a Venezia — accanto a Ciardi padre — del rinnovamento in senso realistico del paesaggio; e in tempi più vicini, Franco Batacchi senior, Lino Bianchi Barriviera, Gino Borsato, Nando Coletti, Fioravante Seibezzi, Adriano Spilimbergo,… Lì e così Tavella ha sviluppato le qualità che nell’ambiente veronese hanno fatto di lui l’artista di successo: “uno dei massimi esponenti — leggo in una cronaca locale datata — se non il primo in assoluto”. Ennio Pouchard I cento (o poco più) chilometri che corrono tra Verona e Venezia sono stati sufficienti, specialmente negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, per determinare lo sviluppo di due mondi diversi nell’arte. Aldo Tavella, veronese, classe 1909, era coetaneo del goriziano Zoran Music e vicino in età ai friulani Armando Pizzinato (1910) e Afro Basaldella (1912), al veneziano Giuseppe Santomaso (1907) e al mantovano Giulio Turcato (1912), presenti e attivi — seppure non continuativamente — anche a Venezia. E fino a un certo punto della loro vita, impegnati in qualche sorta di personale pittura figurativa (di paesaggio, di nature morte, d’interni, di figure singole o di gruppo). Poi, verso la metà del secolo, intervennero fattori trascinanti — dei quali egli non poté fruire, vivendo per così dire, “lontano” — catalizzati dal pensiero di critici illustri come Giuseppe Marchiori e Lionello Venturi, che portarono al nascere e allo sviluppo di raggruppamenti, quali il Fronte Nuovo delle Arti e il Gruppo degli Otto, le cui poetiche si espansero rapidamente a livello nazionale. In loro, quindi, ma non in lui, poterono radicarsi fermenti generati dal fervido clima intellettuale della città lagunare; un clima influenzato principalmente da un sentire politico diffuso tra gli artisti, nonché da presenze nuove (la collezionista americana Peggy Guggenheim), da una gestione innovativa nei programmi della Biennale coordinata da Rodolfo Pallucchini, dal 1948 al ’56, dall’azione promotrice di un gallerista veneziano eccezionale — uno solo, ma capace di pensare in grande, che si chiamava Carlo Cardazzo — e dallo stimolo di maestri del calibro di Virgilio Guidi e Mario Deluigi. Altre erano rimaste le mire, invece, dei migliori pittori di Verona. Di loro, solo Renato Birolli (1905) manifestò il bisogno di una presa di posizione nei confronti dei maestri del Novecento, con la chiara volontà di adeguarsi ai modelli europei più avanzati; e nel ’46 — il 1° ottobre, nello studio di Giuseppe Marchiori a Venezia, assieme a Cassinari, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso e Vedova — firmò il manifesto della Nuova Secessione Italiana. Poi, con il medesimo gruppo, aderì al Fronte Nuovo delle Arti; e infine, all’età di 23 anni, divenne milanese entrando (assieme a Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Edoardo Persico e Aligi Sassu) nel gruppo di Corrente. Gli artisti suoi concittadini seguitarono a credere piuttosto nella realtà di una crescita continua dalle radici di una tradizione nobile e autonoma rispetto al dilagare di tendenze progressiste, pur rifuggendo, e spesso con ironia (in particolare l’elegante e contenuto Aldo Tavella), da atteggiamenti aprioristicamente conservatori, inclini a confondere la ripetitività con la coerenza stilistica. Per il “nostro” continuò a valere il principio di promuovere un’arte definita nelle critiche del tempo “pittura autentica”, Case abbandonate, 1967 I suoi inizi sono precoci: egli stesso li faceva risalire all’avvio del suo apprendistato da Angelo Zamboni, affreschista, che era ammalato di asma e quindi, in breve, aveva delegato lui, ragazzo, a montare sulle impalcature e lavorare sui soffitti delle chiese da affrescare. A convincerci della perizia in tal modo acquisita, qui in questa mostra del centenario, c’è l’olio su compensato Mio fratello Pino del 1926, cioè dipinto da un diciassettenne già maturo nel 15 ritagliarsi le quadrature, nella scelta della scala dei colori, nell’atteggiare con un aspetto per niente fiero e baldanzoso il giovane ripreso in divisa, camicia sbottonata. Quando partecipa alla Biennale del 1950 — che rimarrà l’unica — dei colleghi citati sono presenti Bagattini, Bianchi Barriviera, Birolli, Coletti, Farina, Music, Pigato, Pizzinato, Santomaso, Seibezzi, Semeghini, Turcato. Per il resto della lunga vita — passata dipingendo fino all’ultimo paesaggi, figure, nature morte, racconti fantastici, ritratti, opere d’arte sacra e soggetti inventati — alla mostre e ai premi cui sarà partecipe se ne troverà accanto varie volte più d’uno. Hanno giocato a suo svantaggio, per la conquista di una fama più diffusa, vari fattori. Anzitutto, l’essersi donato anima e corpo all’arte concependola come atto creativo autonomo e solitario, quasi una missione personale non assoggettatile a programmi di gruppo. Poi, l’aver considerato sempre con rigore il suo rapporto con la scuola, insegnando prima all’Istituto d’Arte applicata di Bovolone, poi al Liceo artistico di Verona e successivamente, quale titolare di cattedra (prima affresco e poi di pittura) all’Accademia di Belle Arti Gian Bettino Cignaroli e Scuola di Pittura e Scultura Brenzoni1, dove aveva ricevuto la formazione e di cui assunse la direzione dall’82 all’85. E ancora, l’essersi tenuto in disparte, conseguentemente e coerentemente, rispetto alla strabiliante quantità di proposte valide sul piano internazionale, che nei suoi anni continuarono a sgorgare da Venezia e Milano. Così, non sorprende il fatto che nel 2004 la città natia gli abbia dedicato (dopo due edizioni minori, nel ’92 e nel ’96) una grande antologica nei saloni del Palazzo della Gran Guardia, con opere dal 1930 al 2004, inaugurata il 10 aprile e intitolata “I colori di un mondo”. Oggi in città si parla di Tavella con fierezza come di “un grande veronese”. E mi spiace sentirlo dire: Aldo, infatti, preferirei fosse studiato e compreso come esponente di primo rango di un filone della pittura che le tendenze dominanti del secolo scorso, derivate dai vari canali delle avanguardie storiche, hanno messo in ombra. Apro una parentesi. Nel fare questa dichiarazione, sento la necessità di affermare la mia estraneità, come critico, alla difesa dei realismi tout-court, e nello stesso tempo il mio costante interesse per le ricerche su quanto il passato ha trascurato per cause varie: penalizzando, ad esempio, per motivi politici assai sentiti nel dopoguerra, la figura e l’opera di Mario Sironi, artista tra i più grandi del secolo, ma celebrato in periodo fascista; e trascurando, altresì, il lavoro di Armando Pizzinato, fatto quando, per fede nell’ideale comunista, continuava solo contro tutti a dipingerne l’epopea. Né ho voluto (o voglio) prendere partito in favore di poetiche nate via via, dalle diverse forme di astrazione agli specifici condizionamenti di Dada e derivati, dall’arte Pop, Programmata (o cinetica e Op) all’Iperrealismo, la Land-art, la Transavanguardia, l’Arte povera, il Minimalismo2; ovvero appoggiare un’arte — rifacendomi a un tema sostenuto dallo storico Hans Belting3 — che “…si costituisce come una forma di […] discorso sull’arte per proprio conto”: mirante, cioè, a svuotare l’opera del contenuto descrittivo e dell’apporto lirico. Un’arte, insomma, determinatamente mirata a quell’annientamento dell’aura di cui parlava in un saggio del 1955 il filosofo tedesco Walter Benjamin. Quell’aura era il segno di una partecipazione e immedesimazione nelle cose basilari della vita fatte proprie da una certa arte legata al rito magico o religioso. Attributo percepibile ma non visibile dell’opera, ne testimoniava le doti di autorità e verità. Poi, quando le funzioni rituali e cultuali vennero meno, si trasmise alle forme profane del culto della bellezza, nato nel Rinascimento e passato ai posteri per via di bottega e di tradizione; il concetto su cui si reggeva ancora nel Novecento avanzato veniva commentato da Benjamin, nel medesimo testo, con queste parole: “Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi ‘apparizioni uniche di una lontananza’, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di Pagliaccio, 1964 monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa, ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. ‘Fine dell’aura’ significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni”4. L’opera di Tavella possiede per intero quell’aura, che da lui nasceva spontanea e che tuttora si rivela con evidenza. Ne fu testimone Remo Brindisi, con l’attribuirle il merito di avere portato ai più alti gradi la sensorialità. “Una pittura — affermava il pittore — dove la luce non viene realisticamente affidata ad un preciso punto d’incidenza, ma nasce dallo stesso impasto pittorico, in un’analisi 16 segreta degli oggetti, finendo poi con il collocarli in una sorta di sospensione senza tempo, talora venata di malinconia”. Obsoleta, quindi, perché la düreriana melancholia sa troppo di epoche trapassate? Neghiamolo, con certezza. Il cospicuo insieme di opere riunite per l’esposizione cui questo catalogo è dedicato, basta per descrivere quali altri “dove”, raggiunti in silenzio, rimangono da rivalutare in modo adeguato. I dipinti riuniti (la cui catalogazione è arrivata a uno stadio avanzato, prossimo al completamento) forniscono una panoramica sufficientemente esplicita dell’opera omnia di Tavella. Quanto si è dedicato all’affresco, e quanto l’affresco ha dato alla sua pittura, lo si avverte nei dipinti, osservando la materia e vedendola ammorbidirsi, con il simultaneo placarsi dei colori (Ricostruzione del ponte, 1953, L’alluvione, 1957, Sagrato di una chiesa, non datato,…). In più, la sua maestria, approfondita anche con il lavoro di decoratore — esercitato con orgoglio — gli ha consentito di dominare ogni tecnica, e quindi di avventurarsi in tematiche le più diverse e con effetti i più inattesi, “vivendo” la sua pittura fino in fondo. Vivendola insieme ai pittori di qualsiasi epoca che in qualche momento sentiva vicini: non ho dubbi che ci sia del Magnasco nelle figurine e nelle nervature architettoniche di una certa Piazza e di alcuni Ruderi; è Munch che ritrovo nel Vecchio che apriva la mostra alla Gran Guardia nella personale del ’92, un desolato Dix nella Tedesca di Custoza del ’34, Ensor nella Morte delle maschere presente alla XXV Biennale, Cézanne nella natura morta Fiori, anguria e picchio del ’56, e un pizzico di Marc in un Inverno del ’37. Poi, c’è del sironiano nei Ruderi del ’68, con quella “a” minuscola in grafia che funge, licinianamente, da luna; è la vicinanza con Fiorenzo Tomea — cadorino classe 1910, pure lui allievo dell’Accademia Cignaroli — che mi ammicca tra le candele della Processione di Quaresima dei tardi anni ’50; e potrebbe essere un incontro (che non so se c’è mai stato, anche se hanno esposto almeno una volta insieme) con Armando Pizzinato — pur tanto diversamente motivato — che ritrovo nello sbattere d’ali dei Gabbiani sull’Adige (1984). Ma si badi bene: per nessuno di questi pittori rintraccio possibili debiti in Aldo Tavella, perché in quei dipinti tutto arriva rielaborato nel linguaggio della sua potente personalità; mi pare invece di vederci le orme di un vivere la pittura con i “compagni” di secoli prima, o con quelli accanto ai quali si è cresciuti. Un viverla e farla vivere in noi, liberamente, poeticamente. Inventando temi e stili. Con un guardare tutto fino a penetrare a fondo il senso dell’esistenza, come in Sua Maestà la miseria del ’93. Passando dalla festa della natura al dolore dell’uomo e del Dio fatto uomo (nelle tante versioni disseminate tra le chiese del Veronese; qui basti la Crocefissione – Pasqua 1987), alla tenerezza di una giovane madre e a soggetti quasi astratti. Cambiando con lo scorrere degli anni, periodo dopo periodo (per Tavella i biografi ne hanno fissati tre), dalle pennellate decise con colori grassi alla pittura più distesa, pacata, con una maggiore ricchezza di particolari, e finalmente al favolistico, al simbolico, all’allegorico e alla freschezza di quella che per altri potrebbe essere stata una vecchiaia già “addentrata” (occhio a La sposa ha 16 anni, 1993, a Il compito, 1989; e per un diverso tipo di lievità, scherzosamente consapevole, a Il vecchio pittore sogna, 1994, vestito di bianco a righine celesti, barba candida, la tela sul cavalletto accanto che mostra un pagliaccetto con lo sguardo curioso fisso su di lui e, appesa al muro di fondo, una maschera nera ghignante, più che ridente), che per lui fu invece un’altra stagione produttivamente felice, conclusa il 28 novembre del 2004. Infatti, se nel 1956, recensendo la mostra alla Galleria della Scala a Verona, il giornalista Silvio Bertoldi aveva scritto che già allora “…l’artista ha raggiunto, nella vita, la stagione della piena estate”, quasi mezzo secolo dopo il medesimo artista, superato il suo lussureggiante autunno, percorreva i sentieri di un inverno per niente desolato. Anzi, ricco di luci misteriose e persino di splendori. Fino all’ultimo respiro. (1) Così chiamata dai nomi del pittore G.B. Cignaroli (Verona, 1706-1770), che promosse la costruzione dell’Accademia veronese d’Arte, di cui fu il primo direttore (fondata nel 1764 con la trasformazione in pubblica istituzione dell’antica Accademia del Disegno) e del conte Paolo Brenzoni, Socio accademico, morto nel 1871, che lasciò per testamento cospicui beni al Municipio di Verona “…affinché venisse aperta a Verona una pubblica scuola gratuita di pittura e scultura, condotta e diretta da uno dei più distinti pittori e figurinisti italiani, col titolo di professore e direttore, a scelta dei tre presidenti” (2) Termine nato e sviluppatosi negli Stati Uniti d’America nei primi anni ‘60, usato per la prima volta dal filosofo dell’arte inglese Richard Wollheim nel saggio intitolato appunto Minimal Art. (3) H. Belting, La fine della storia dell’arte, o La libertà dell’arte, Torino 1990 (Das Ende der Kunsgeschichte?, München 1983) (4) W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità, Torino 1966 (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduziertbarkeit, da W. Benjamin, Schriften, Frankfurt am Mein 1955) 17 Ruderi, 1960 ALDO TAVELLA (1909-2004) “IL RESPIRO DI UNA VITA” dalla grande impresa della chiesa di Marano di Valpolicella, dove ha realizzato l’intero apparato freschivo sulle lunette delle quattro volte e sui pennacchi della volta con i quattro evangelisti, sulla cupola e su tutti gli arconi, otto alberi simbolici con le figure della Madonna e sei santi protettori: San Giorgio, San Zeno, San Vincenzo Ferreri, San Rocco, San Carlo Borromeo, Sant’Eustachio, a significare le contrade di Marano2. Da questo momento, la sua attività in campo pittorico non ha tregua: partecipa a diversi concorsi nazionali, vince premi prestigiosi, espone alle mostre organizzate dalla città veneta e dall’Associazione sindacale a Padova; a Milano, nel 1949, figura tra gli artisti all’Angelicum nella Mostra d’Arte Sacra3. Iniziando così questa avventura artistica, Aldo Tavella non smentisce la scelta fatta, anzi manifesta segni di vivacità e suscita interessamento da parte del pubblico e della critica che vi ravvisa indubbi influssi della tradizione veneta, un certo gusto nella scelta dei motivi, in una parola egli viene definito come un artista “che possiede già un suo linguaggio, un suo stile”. Si sottolinea fin da ora come i suoi dipinti generino in chi li osserva sensazioni di armonia e di serenità, la sua ricerca appare già tesa a cogliere la trasparenza della materia, mentre il segno profondo e forte sulla tela crea insolite alchimie d’equilibri cromatici. Per un artista nato all’inizio del Novecento, gli anni del “nuovo”, che si possono cogliere soprattutto nell’ambito della pittura lagunare, cioè quelle espressioni nate dagli insegnamenti di Favretto, di Ettore Tito e, in un certo senso, della scuola veneziana, non potevano che essere guardati con un occhio attento, così come alcuni apporti di artisti internazionali. Non va dimenticato che a Venezia, nel 1928, fu realizzata una delle prime mostre dedicate a Henri Matisse e, due anni dopo, un’esposizione di opere di Amedeo Modigliani4. Ma Tavella sa anche individuare e ricordare le tracce lasciate dai protagonisti dell’arte italiana, come sa riconosce le innovazioni portate a Venezia da Virgilio Guidi. Gradisce il giudizio della critica che si esprime attraverso Gino Damerini e Nino Barbantini i quali non esitano a plaudire a questo nuovo corso dell’arte veneta. La storia dell’arte lo accompagna come un “sussidiario” nell’apprendimento della sua maestria5. Di questi tempi Tavella si rivolge a due “grandi interpreti della luce e del colore” nell’ambito della pittura antica: Tiziano lo “illumina” e Rembrandt lo “folgora”. Così non esita a confrontarsi con la produzione di “genere” che da secoli ormai ha caratterizzato tutta la pittura italiana. Neanche il confronto con i suoi contemporanei è facile, egli si trova a lavorare accanto a Nino Springolo, Leone Minassian, Mario Tozzi, Carlo Carrà, Pio Semeghini, Fiorenzo Tomea, Carlo Dalla Zorza, Bruno Saetti, Domenico Cantatore, Renzo Biasion, grandi artisti di cui si sentirà parlare. Tavella, però, attraverserà il panorama variegato dell’arte del XX secolo con occhio critico mantenendo la propria autonomia creativa; egli stesso dichiara, ad un certo punto, di avere scelto l’insegnamento per essere Mario Guderzo 1. L’inizio accademico e gli esempi contemporanei La sua è stata una formazione accademica, come sovente accade a chi appare particolarmente dotato dal punto di vista artistico nonché determinato nelle sue scelte professionali. Confidando nei futuri risvolti che tale decisione poteva apportare, Aldo Tavella si avvia, negli anni dell’immediato dopoguerra, lungo un percorso che lo conduce ad “imparare a fare arte”, che non è soltanto la manifestazione di innate attitudini, ma si può maggiormente esprimere acquisendo dai maestri le tecniche ed i segreti della pittura. Egli porta alle estreme conseguenze il contrasto fra una prepotente vocazione alla “pittura”, frutto di genialità naturale, e la precisione del disegno, interpretata come l’Accademia gli aveva insegnato. Alla fine degli anni Venti, anni a cui risalgono le sue prime opere, Tavella è alle prese con la figura, in modo particolare, la sua attenzione è rivolta al ritratto. Nella Donna che cuce e nel Ritratto, dipinti che possono collocarsi in questo inizio della sua attività, Tavella rivela l’intenzione di rendere il colore trasparente attraverso stesure molto diluite, che permettono di individuare il supporto pittorico; nello stesso tempo, si intravvede una tecnica rapida e pulita che diventerà una caratteristica di questa sua stagione pittorica, le cui opere evidenziano già ascendenze rintracciabili in alcuni artisti di area veneta e nei grandi protagonisti dell’arte europea. Così ne La signora Elda del 1932, e nel medesimo ritratto dell’anno successivo, si preannunciano i modi di un’inquietudine artistica che lo accompagneranno per tutta la sua produzione1. Tavella espone pubblicamente per la prima volta nel 1946. Nella cronaca del quotidiano veronese “L’Arena”, compare accanto a Gaetano Bighignoli, Ebe Poli, Mario Paolo Payetta, Fermo Ferrarese e Mario Manzini, Pio Semeghini, Aldo Franzoni, Nurdio Trentini, Antonio Nardi, Guido Farina, Paolo Richelli e Angelo dall’Oca Bianca, e gli scultori Mario Salazzari, Maria Trevisani Montini e Nereo Costantini. Alcuni partecipano al concorso, che ha come tema la rappresentazione di Piazza delle Erbe, altri si affiancano e saranno compagni di strada importanti. La sede della mostra è la Casa di Giulietta e l’iniziativa è stata organizzata dal giornale “Tempo Nuovo” in collaborazione col Circolo degli Artisti. Del Tavella, sul quotidiano, si ricorda il buon temperamento di pittore sensibile, gli bastava: “Cinquanta centimetri di legno e tre tubetti di colore”, sottolinea il cronista, per immortalare quella piazza, Piazza delle Erbe, appunto, che nei soggetti di Tavella ritornerà con frequenza come nelle opere degli altri artisti, perché immagine capace di suscitare ispirazioni grazie alla scansione dei piani ed alla composizione cromatica. In questo frangente il Nostro è appena reduce 19 un artista libero. L’impegno scolastico resterà una delle prerogative più vitali, anche se gravose: nato nell’ambito dell’Accademia veronese, vi rimarrà come docente di discipline pittoriche dal 1963, ricoprendo a partire dal 1982 la carica di direttore. “Mi sono adoperato sempre con zelo, confortato anche dalla mia lunga esperienza di insegnante” – sottolinea il direttore Tavella al corpo docente che lo aveva riconfermato nell’incarico l’11 dicembre 1984. E continua “devo riconoscere, però, che l’impegno prodigato nel dedicarmi assiduamente agli innumerevoli problemi della Scuola, mi è costato, per quanto riguarda la mia professione di pittore, notevoli sacrifici e rinunce”6. Tra i suoi obiettivi più impegnativi e complessi sarà la conquista del riconoscimento dell’Accademia Cignaroli a scuola dello Stato Italiano: “E’ stato il più bel quadro che ho dipinto”. La sua convinzione è che l’arte non debba legarsi “alle mode”, accedere ai “liberi manifesti” o trovare ispirazioni ed insegnamenti nel guardare gli altri. “Essere me stesso” è stato il suo motto, la sua calibrata valutazione. “Tavella manifesta un temperamento deciso e quasi aspro nella scelta dei suoi temi; egli li corrobora con la pienezza sonora dei cupi impasti, ma un oro rosso si insinua tra i neri e i bruni a ricordare la natura veneta del pittore, a sottolineare la sua indole romantica, riaffiorante pur dalle severe fabbriche, dai nudi senza indulgenze di edonistici compiacimenti”7. Passando con disinvoltura dalla natura morta al paesaggio, al ritratto, Tavella spolvera il secolo dalle “fanghiglie” di avanguardie e quant’altro. Ama lavorare da solo, appartato, nel segreto dello studio, lo disturbano, probabilmente, l’essere osservato, il mutare della luce, le ombre che perdono forma, o ne assumono un’altra col passare delle ore. Non diventerà mai un paesaggista o un ritrattista, utilizzerà queste espressioni liberamente ubbidendo ad un’esigenza del momento e, soprattutto, al bisogno di raccontare la sua vita. bilanciare per creare atmosfere ricche di simbologie, in perfetta sintonia con quanto la pittura veronese di quegli anni Cinquanta stava dimostrando per mezzo di artisti come: Vittorino Bagattini, Antonio Nardi, Orazio Pigato, Renzo Biasion, Luciano Albertini, Moreno Zoppi, Gastone Celada, Fausto Tommasoli, Mario Salazzari, Franco Girelli, Ebe Poli e Maria Trevisani Montini, solo per citarne alcuni. Ma rimane sempre quel fermo intento a volere dire qualcosa di personale e non sentirsi soggiogato dagli influssi degli altri suoi contemporanei. “In altre parole l’arguzia penetrante di questo pittore ha contribuito a svelargli i pericoli del conservatorismo filisteo insieme a quelli dell’avanguardismo più presuntuoso o demenziale. E gli ha consentito a tener fede a se stesso senza incorrere di 2. I caratteri della sua pittura E’ un universo intimo di immagini, figure, gesti, colloqui, lo spazio racchiuso nei dipinti di Tavella, un corpus di opere ingente e di complessa e variegata narratività, frutto di più di mezzo secolo di attività pittorica. Una produzione che rileva la sua consolidata pratica artistica, capace di avvalersi di linguaggi diversi, di rielaborarli e di sottoporli ai più inattesi innesti. Magagnato, da una parte, afferma come Aldo Tavella sacrifichi“a questa armonia prestabilita le vibrazioni impetuose, le rotture vitali, le trasparenze, il colore puro”, dall’altra ne riconosce il grande valore per l’uso del colore e la grande sapienza con cui sa accostare i toni medi, smorzati, così pregni nei suoi soggetti come in Fiori, anguria e picchio (1956); La piazza alberata (1950), Corso Porta Nuova (1951), Autunno (1951), L’alluvione (1957) e San Giorgio (1960)8. Una maestria che appare evidente soprattutto quando il monocromo si trasforma pian piano in una superficie ricca di materia che egli sa controllare e La tedesca di Custoza, 1934 continuo nel pericolo di una pittura ricalcata e languida”9. Senza tralasciare la ricerca e concedendo un certo spazio alle novità, l’arte di Tavella viene a colmare quella distanza dalle esperienze estreme, creando un canale di comunicazione, un dialogo tra la tradizione e l’innovazione, un’armonia capace di plasmare in un solo corpo le virtù dell’arte e la somma dialettica espressa da un pittore che sente e vive da vicino la passione, le emozioni, le forti vibrazioni, che la realtà gli svela quotidianamente. La sua 20 è stata perennemente una ricerca iconografica in grado di evidenziare attitudini e sensibilità, soprattutto per quanto riguarda il genere della ritrattistica, un mezzo per esprimere il vissuto interiore del soggetto, la possibilità di conoscere il carattere ed indagare la psiche del personaggio attraverso lo studio del corpo, appagando quasi la sua necessità di ricondurre una realtà non visibile a schemi noti e, perciò, rassicuranti. Nelle sue opere gli elementi, colti nella loro singolarità, tessono una coesione funzionale all’equilibrio narrativo, in esse si intuisce un insieme di dati emozionali che si riallaccia ora alla contemporaneità, ora alla memoria, attraverso diverse esperienze espressive. Con gli anni si accentuerà l’attenzione per la descrizione dell’ambiente e per la natura morta; migliorerà la compattezza della pennellata e l’abilità nel predisporre nette zone tonali. Quello che emerge è che Tavella non deve mai fare i conti con le esigenze della committenza, ma rimane essenzialmente uno spirito libero che può dare sfogo alla sua arte. Quando si ritrova di fronte ad un soggetto che gli è più vicino per confidenza o per semplice consonanza di gusto, Tavella è capace di trasformare le inflessioni del momento in veri e propri elementi di stile: Il cantiere, dipinto nel 1949, infatti, manifesta queste caratteristiche. Nel momento in cui si impegna nella produzione delle nature morte, invece, come Sul tavolo della cucina, del 1957, la pratica che permane più insistente è un agire forte sulla policromia degli oggetti. Qui l’atmosfera si fa davvero “Nabis”: pentole, vasi e frutta si avvicendano per offrire i primi scintillii riflessi, piccole macchie di colore saranno, nella loro precisione, uno dei motivi più accattivanti delle nature morte. Il tono generale dei dipinti si “illumina”: l’artista è preso con entusiasmo dalle letture dei suoi colleghi d’Oltralpe, prima i Nabis, poi i Fauves e, in seguito, con una di quelle brusche impennate che lo hanno sempre contraddistinto, si converte a Cézanne e a Medardo Rosso. Esaminando la produzione che va dalla fine degli anni Quaranta e si spinge alla fine degli anni Sessanta del Novecento si può verificare come questi accenti aumentino e si dilatino. I due cartoni: Frutta del 1958 e Composizione con macinino, del 1960, rivelano una notevole concentrazione di rossi brillanti e la attenzione ai dettagli associati alla morbidezza di una pennellata unita e corposa che sa donare il senso del rilievo a tutte le forme, anche se riduce al minimo i contrasti chiaroscurali. Prevalgono tonalità e gradazioni scure che indicano quasi un certo espressionismo inteso come riflesso di un disagio esistenziale. Singolare si manifesta, soprattutto nelle nature morte, la pennellata tirata e liscia; e la ricerca dei diversi piani in cui persiste un notevole rispetto per le forme e per i cromatismi nonché per le fughe prospettiche. L’atmosfera appare immobile, quasi irreale, gli oggetti ed i fiori sono resi nelle loro trasparenze e nel brillare delle superfici e dei riflessi. Tavella ha percepito come la pittura risponda alla ricerca del tono giusto di un colore e nel “costringerlo” in un determinato spazio. Così l’emozione, che fa scaturire l’“idea” nella mente del pittore è data soltanto dalle estensioni dei colori e dalle irradiazioni che la luce emana. Questo vuol dire considerare la pittura come: “un sol piano su cui debbano disporsi dati rapporti di colore, spazi da campire, pezzi tutti importantissimi di un mosaico. Brevi pennellate, violente e parallele, accendono toni infiammati di arancio e d’oro ricavato da colpi obliqui di pennello in una conturbante atmosfera fosforescente” 10. Accensioni cromatiche che richiamano il Gauguin del periodo bretone e la pittura “Fauves” e aprono quella fase della pittura di Tavella che preannuncia riferimenti al tardo Cézanne e alla nuova rivelazione di Van Gogh, pittori sulle cui opere Tavella riflette e dimostra di saper poi reinterpretare in modo originale e pertinente. Anche le frequentazioni e l’appassionata partecipazione a mostre ed incontri d’arte gli permettono di rimanere in contatto con le nuove tendenze artistiche, di confrontarsi con pittori italiani e stranieri nonché di ammirare collezioni d’arte legate a questi momenti d’inizio Secolo, un periodo ricco di stimoli e di novità, basti pensare a quanto avviene, proprio in questi anni, nelle vicine città venete dove si propongono biennali ed esposizioni dedicate ai protagonisti dell’arte europea; nello stesso tempo, la conoscenza di questi artisti per lui è facilitata attraverso rilevanti riproduzioni in volumi monografici e cataloghi di mostre. 3. La partecipazione alle grandi esposizioni Nel 1950 Tavella è presente alla XXV Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. La presidenza della manifestazione, affidata a Carlo Carrà, esamina i 3685 lavori presentati dai 1693 artisti partecipanti e sceglie 250 opere, tra cui il dipinto Morte delle maschere di Tavella, del 1948, che viene esposto nella sezione di pittura. E’ una tappa importante nella sua carriera, ha raggiunto un traguardo notevole tanto che l’anno successivo sarà a Burano per il “Premio Burano 1951” e, anche questa volta, la prestigiosa giuria, composta da Umbro Apollonio, Nino Barbantini, Pio Semeghini, Armando Pizzinato, Rino Villa e Felice Carena, lo apprezzerà, accanto ad altri nomi di artisti veronesi11. E poi sarà un susseguirsi di appuntamenti ai quali l’artista non mancherà, innanzitutto, alle rassegne della Gran Guardia di Verona, dove la Società Belle Arti realizzerà le celebri Biennali. Gian Luigi Vercellesi sottolineerà ripetutamente come, nell’ambito dell’arte veneta, gli appuntamenti veronesi costituiscano un punto storico importante e questo a dire come si continui lungo la strada della “tradizione”. Ma Vercellesi ribadisce anche come sia necessario “non andar oltre” perché la scelta dell’avanguardia potrebbe essere pericolosa ed ingannare giovani e vecchi artisti “che giurano sul progresso lineare e continuativo delle arti nel tempo”12. Alla Biennale veronese del 1951 Tavella propone tre dipinti: Composizione, Bambina e Giardino. I due paesaggi in cui appare “la sottile polvere che avvolge le sagome 21 tormentate degli alberi, e logora le tinte, riducendo i risalti cromatici a tenui passaggi sulla stessa gamma del verde”, sottolineano come Tavella abbia subito il fascino delle cose che stanno per scomparire e resistono quali segni apparenti, in cui il rapporto tra arte ed oggetto non è un rapporto scientifico ed obiettivo ma soggettivo, sostanziale e creativo. Ben avevano compreso la portata di questi dipinti Francesco Messina, Pio Semeghini, Guido Trentini, Berto Zampieri e Aldo Franzoni chiamati a scegliere le opere da esporre. “Il fine dell’arte altro non è che una sorta di messaggio – capace di scavalcare i secolilasciato all’intiera umanità” sottolinea Piero Gazzola, presidente della Società Belle Arti e conclude: “L’artista sospinto dal desiderio di superare i propri limiti, tende a cercare una forma di linguaggio individuale, atto a creare un contatto, oltre che fra sé e il mistero, fra l’umanità e il mistero. Egli è colui che sa socchiudere una porta” oltre la quale l’osservatore deve cercare di entrare”13. Nel 1952 Tavella sperimenta la sua prima personale, ha appena varcato la soglia dei quarant’anni, e decide di esporre la sua produzione degli ultimi decenni. L’artista stesso parlando di sé e del suo lavoro, individua nella pittura la possibilità di “vedere” e “capire” se stessi ed il mondo che è intorno, cioè di aprire il proprio confronto col mondo attraverso la realtà esterna, semplicemente “guardando” e osservandosi per conoscersi. Il valore dell’arte non è nel suo distaccarsi dal mondo delle cose per entrare nell’astratto mondo dei segni, ma nell’esprimere il rapporto tra pensiero e realtà, anche grazie a stimoli visivi e sensoriali diversi e così l’odore del colore, e delle terre mescolate con la colla, la calce, l’olio gli permettono di osservare spazi ed elementi che poi diventeranno dipinti, come Campanile azzurro, Fruttiera, Interno rosso, Figure nel parco oppure le diverse varianti delle Composizione. Particolarmente interessante tra le opere Il Vecchio (Il Signor Beniamino) del 1950, il ritratto di un vecchio stempiato e allampanato che poggia il mento sul suo bastone, il cui volto è l’unica nota di colore chiaro in tutto il dipinto che appare “riempito” dai suoi vestiti, dove le forme, descritte a larghe pennellate, denotano un approccio a novità “stilistiche costiere” ed a sottolineature ritrattistiche ed introspettive non usuali. Questa esposizione personale del 1952 rimarrà un altro punto fermo nel suo percorso personale, ma soprattutto un punto di riferimento importante anche per gli artisti veronesi e per la Città stessa perché propone con naturalezza e spontaneità immagini e racconti che seguono lo scorrere del tempo della sua Verona che diventa la protagonista: Piazza delle Erbe, San Giorgio; la periferia di Lugagnano, Parona, Minerbe, la Valpolicella, il Lago di Garda. Per Segala, Tavella: “parte da una impostazione formalista dove il colore liberato dai confini ponderosi dell’oggetto “canta” in libertà la storia d’una impressione più che immediata impressione stessa”14. Ancora una volta la sua pittura è quasi un mezzo per studiare, approfondire, riproporre la sua quotidianità. Tavella realizzerà altre personali, fra cui quella della Galleria Cappello e la successiva del 1969 alla Galleria della Scala, entrambe rappresentative del suo percorso artistico e della sua evoluzione formale, grazie alla quale il suo lirismo raggiungerà un livello importante in grado di cogliere raffinati e singolari momenti ricchi di creatività e di sensibilità. Del resto egli sapeva rappresentare quell’atmosfera “triste e malinconicamente lirica” come il Mutinelli evidenzia nell’introduzione del catalogo, edito per l’occasione. Il Segala non esita a collocarlo all’interno di classificazioni “espressionistico-astrattista” che lo hanno affrancato dalle forme chiuse, sottolineando che: “ci sembra che Tavella sia riuscito a compiere quell’evoluzione formale che senza dubbio lo porterà ad inserirsi tra le più moderne correnti artistiche nazionali”15. Il Nostro sarà l’anno successivo un protagonista alla mostra per il Centenario della Società Belle Arti, al Palazzo della Gran Guardia, dove sono esposte ben 400 opere che offrono una vasta panoramica dell’evoluzione artistica italiana. Tavella sarà premiato per il dipinto La fabbrica. Una bella soddisfazione per l’artista che vede riconosciuto così un lavoro ormai trentennale. Il premio ( centomila lire) verrà condiviso con il torinese Nino Ajmone. Da allora le Biennali saranno per lui un approdo obbligato: quella del 56 (52 edizione) dove esporrà San Giorgio e Campagnola, quella del 1959 (54 edizione), a cui prenderà parte con due paesaggi titolati Zona industriale e La vecchia torre; contemporaneamente, parteciperà a Milano al Baguttino e a Padova alla Mostra Sindacale, dove le Piante fossili susciteranno un interesse particolare, tanto che di lui si evidenzierà la “pienezza sonora dei suoi impasti” e lo scurirsi dei toni “quasi fiamminghi”, ricchi, materici, pastosi. Le Biennali veronesi lo vedranno sempre presente: nel 1961 (55 edizione) proporrà L’abside e L’eremita; nel 1963 (56 edizione) Pittura N. 1 e Pittura N. 2; gli stessi saranno riproposti alla successiva edizione nel 1965 (57 edizione) e nel 1967 (58 edizione) sarà la volta di un Omaggio a Vivaldi e Omaggio ad Aristofane. Propositivo ed entusiasta lo ritroveremo nel 1975 alla Galleria Novelli. In questa storica galleria privata, la prima e più antica sede espositiva per gli artisti, realizzata dalla famiglia Novelli nel cuore della città di Verona, in anni importanti per la pittura veronese ed italiana, che diventerà ben presto un luogo di incontro per giovani artisti ed intellettuali. Qui proporrà una mostra antologica con le opere prodotte dal dopoguerra fino alle più recenti produzioni offrendo, così, una disamina delle sue fonti ispiratorie e dello svilupparsi del suo gusto compositivo e cromatico che si accompagna ad un’invenzione strutturale assai evidente in cui il supporto disegnativo è spesso collocato in evidenza con sensibilità quasi grafica e le accese cromie, pressoché incontenibili, sono giocate con sapiente ripresa di moduli liberty. Tavella, comunque, non esita ad ampliare le sue partecipazioni a mostre e concorsi: nel 1977 si sposta a Villa Contarini Simens a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova, dove espone ben dieci dipinti alla Triveneta delle 22 Arti, giunta in questi anni alla Terza edizione; nel 1981 sarà la volta del Concorso Nazionale di Pittura Città di Thiene, nel vicentino, giunto alla 17° edizione, in quest’occasione Salvatore Maugeri avrà parole di notevole apprezzamento nei confronti dei suoi dipinti, sottolineando come “i modi di proporre un nuovo rapporto con le realtà di natura” rappresentino un taglio nuovo per l’immagine non scena, quando il 28 ottobre 1984, alla Galleria Artestudio di Verona, inaugura una personale ed affronta nuovamente il pubblico con “solidità costruttiva di un segno che non rinuncia né alla sua incisività né alla sua capacità di definizione”. Così succederà, ininterrottamente, quasi ogni biennio, fino al 1988. Nel 1991 la stampa locale non esita a definire il nuovo appuntamento come un traguardo determinante che rivela quanto la pittura sia linfa vitale per questo artista, che opera all’insegna della purezza e dell’integrità professionale. In questo momento anche Tavella si esprimerà per riaffermare con forza e con determinazione i pensieri ed i propositi che lo hanno accompagnato per tutta la vita: “Volevo essere libero, lontano dalle mode e dai condizionamenti, anche a scapito del successo”17. Tutte queste rassegne potrebbero essere intese come una sorta di autobiografia, una pratica comunicativa, un metodo ricognitivo che pone la sua ricerca artistica non solo di fronte al legittimo autore, ricostruendo e rimembrando la sua memoria personale, ma rispondono, nello stesso tempo, al desiderio di auto-rappresentazione che genera uno specchio di situazioni e di momenti condivisi da altri. Esistono, dunque, oggettivi elementi per indagare questo racconto biografico, le sue mostre, contenenti ciascuna un pezzo della sua vita, ne seguono le evoluzioni, le involuzioni, i moti del profondo: lo conducono dal disastro all’esaltazione, dalle gioie ai dolori, insomma nello sviluppo del suo percorso pittorico risultato dalle lotte e dalle vibrazioni spese per la ricerca estetica. “Questa autobiografia” non rappresenta solo un’occasione di ritorno a ciò che si è stati e si è realizzato in passato, ma anche il desiderio di nuove esplorazioni, un’aspirazione che porterà avanti fino all’ultimo appuntamento, alla mostra organizzata nel 2004, al Palazzo della Gran Guardia, dove ancora una volta si rivelerà prodigiosamente “giovane” perché sempre propositivo ed innovativo nelle sue scelte stilistiche e, comunque, un illustre rappresentante della pittura veneta di un intero Secolo. Dipingere sulle “ali della memoria” sarà ancora la caratteristica, capace di contraddistinguerlo, proprio perché sapeva guardare con “gli occhi del fanciullino” tutto ciò che lo circondava. Un frammento d’immagine gli era sufficiente per fantasticare e trasformare la realtà in una sorta di apparenza onirica, un mondo velato di una sottile melanconia che trapela, per esempio, dalle numerose nature morte, dove conta di più il colore del segno, dove si manifesta altresì una grande maestria ed una profonda capacità nel rappresentare sentimenti ed emozioni immortali18. Olga, [1926] condizionata dalla forte incidenza impressa dalla materia. Del resto la Giuria, composta da esperti personaggi, tra i quali Andrea Zanzotto, Silvio Ceccato, Gian Antonio Cibotto, Salvatore Maugeri, Piero Pignatta e Franco Passoni, aveva ben donde a destreggiarsi tra 117 artisti, i più autorevoli della produzione italiana16. “Un ripasso su 80 anni d’arte di casa nostra” è il titolo della rassegna che nel 1982 viene presentata alla Gran Guardia: 108 opere di pittura, scultura e grafica di 54 autori veronesi, trionfano nelle sale del palazzo e rappresentano il meglio dell’arte veronese, in uno spazio che è diventato un punto di riferimento importante, d’incontro e di confronto tra la Città ed i suoi artisti. Come evidenzia anche la cronaca locale, l’esposizione appare come un avvenimento singolare e di notevole importanza per la storia dell’arte stessa. Non passa molto tempo che Tavella ritorna “solitario” sulla 4. Lasciare una testimonianza Aldo Tavella è ormai definitivamente entrato nel novero dei protagonisti dell’arte del Secolo appena passato, è riconosciuto come un grande interprete del suo periodo e della Città dove ha operato. Non è più un artista dimenticato e tanto meno incompreso. In questi ultimi anni la lettura 23 della sua opera è diventata sempre più rigorosa e precisa: il contributo interpretativo di critici e storici dell’arte lo ha collocato definitivamente tra i protagonisti della pittura italiana del Novecento. Un’attenta lettura delle sue opere, infatti, ci conduce per mano a comprendere la sua straordinaria attività, anche se molti restano ancora i nodi da sciogliere nello studio di questa personalità complessa, a volte, per sua natura, quasi restia ed elusiva. Quella sottoscrittura indelebile e distinguibile, presente spesso nelle sue tele e tavole, sta quasi a sottolineare come l’ultimo atto del suo dipingere fosse in qualche modo il voler ad ogni costo concludere quel momento, quel pensiero, marchiandolo non solo con la sua firma, ma anche con titoli che, a volte, rimangono ancora difficili da capire. L’uomo Tavella è già stato svelato: un grande personaggio di una profonda umanità, capace di superare il dislivello culturale esistente fra un giovane artista veronese, senza retroterra culturale, con il vivace ambiente letterario ed artistico della Città veneta nel Novecento. La sua pittura può essere considerata la professione di un vegliardo, inteso come colui che diventa il testimone del suo tempo, in grado di compiere il passaggio da una pratica dilettantesca alla realizzazione, nell’arco di quasi un Secolo, di una sagace interpretazione dell’arte e rappresenta, con la sua formazione morale e culturale, una figura di alti ideali umanitari, sociali, culturali e, nello stesso tempo, ricchi di valori e dediti alla bellezza tout-court. La sicurezza del segno, la precisione e la capacità di creare profonde spazialità vanno molto al di là della pittura tecnicamente valida, così la maestria del tratto, raggiunta grazie alla scioltezza della pennellata, racchiusa da precisi contorni, è sostenuta da un impegno e da una ricerca costante, tesa a raggiungere una determinata compiutezza formale. Un processo questo che in Tavella si attiva con una sempre più rapida accelerazione, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Secolo scorso. Il fatto che la sua non sia mai stata una pittura collegata ad un qualche manifesto programmatico, determinato spesso dagli “ismi” del primo Novecento, così ridondanti di ideologia, non vuol dire che egli non abbia manifestato una propria personale scelta di vita. Sembra quasi che abbia adottato il messaggio picassiano: “Ce n’est pas ce que l’artiste fait qui compte, mais ce qu’il est. Cézanne ne m’aurait jamais interessé s’il avait veçue et pensé comme Jacques-Emile Blanche, même si la pomme qu’il avait peinte eut été dix fois plus belle. Ce qui nous intéresse, c’est l’inquiétude de Cézanne, c’est l’einseignement de Cézanne, ce sont le tourments de Van Gogh, c’est à dire le drame de l’homme. Le reste est faux”19. In conclusione Tavella è essenziale nella forma, ricercato nella giustapposizione degli elementi figurativi, basta guardare l’abilità con cui organizza le superfici e con cui crea effetti di profondità inattesi, spesso ricorrendo unicamente alla saturazione del colore, manifestando aperture trasparenti e sensazioni di continuità proprio come aveva appreso dalla lunga esperienza. Con i suoi quadri, cattura lo sguardo dello spettatore per originalità, per intensità e, insieme, per una forte carica comunicativa. Spesso, è vero, essi sono l’espressione di un linguaggio colto, elevato, ma non sono mai irraggiungibili. I suoi lavori, insomma, pur iscrivendosi nel solco di una tradizione artistica legata al figurativo, conservano un’immediatezza percepibile e coinvolgente, in quanto l’artista riesce a non creare distanze formali tra l’opera e il suo fruitore. D’altra parte, sebbene il rapporto con l’arte sia sempre molto soggettivo, le opere di Tavella hanno in loro un elemento importante, che stabilisce una sua peculiare ed originale connotazione, senza, però, risultare ingabbiato in definizioni rigide e in categorie fisse, una sorta, potremmo dire, di universalità. La pittura di Tavella, che restituisce la materia con la forza della trasparenza, è anche una pittura in movimento, un La massaia, 1954 movimento ben disegnato, che egli sa esprimere con precisione e che sussiste nello sguardo e nella mente dello spettatore. La scelta e la combinazione dei colori e della loro maturazione, la collocazione delle forme nello spazio definito, rispondono a una precisa esigenza: quella che punta a comunicare attraverso la luce, senza mediazioni. A volte, si ha l’impressione che le forme siano sospese sulla tela con leggerezza, quasi a indicare qualcosa di più effimero, come le tracce del tempo che passa. Insomma, nei suoi dipinti c’è uno spazio per la natura, viva e autentica: i suoi paesaggi, pur filtrati dagli occhi dell’autore, vengono 24 spogliati per poi essere rivestiti attraverso una ricerca di luce e di colori. Anche in questo caso in Aldo Tavella vediamo emergere quella capacità di creare un mondo tridimensionale semplicemente attraverso la saturazione dei colori. Questo autentico veronese è un pittore che si muove con convincimento nello spazio del quadro, sicuro delle proprie risorse formali, soprattutto quando racconta, con naturalezza, storie di spazi che producono, su chi le osserva, prolungate sensazioni di armonia e di serenità. E l’arte - se ricordiamo bene lo diceva Paul Klee - ha, tra l’altro, proprio lo scopo di trasmettere felicità, coniugando intelligenza ed emotività. Novelli nel 1971 così riportava tra l’altro: “alle clamorose soluzioni di continuità che ricorrono negli itinerari dei professionisti dell’avanguardia più svagata, Tavella ha seguitato a contrapporre un rifiuto fermo, non meno risoluto e pungente della sua ironia per i conservatori troppo accidiosi, capaci di continuare a ripetersi scambiando la coerenza dello stile, che implica continue varianti con una sorta di canonicato, fatto di abitudinarie esercitazioni sempre più macchinali”. (10) U. Ronfani, cit., p. 24. (11) Si veda N. Stringa, La Biennale di Venezia, tracce per un secolo di storia, in La Pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello, N. Stringa, II, Milano 2008, pp. 655-670, con Bibliografia. Inoltre sarà opportuno approfondire il tema con l’analisi degli studi contenuti in Il 1950. Premi ed esposizioni nell’Italia del dopoguerra, catalogo della mostra a cura di A. Zanella Manara, Gallarate 2000. Più specificatamente si veda: M. De Sabbata, Tra diplomazia e arte. Le Biennali di Maraini (1928-1942), Udine 2006 e S. Salvagnini, Il sistema delle arti in Italia 1919-1943, Bologna 2000. Sulla Biennale del 1950 si rimanda a S. Collicelli Cagol, Le grandi esposizioni a Venezia tra il 1950 e il 2000 da Palazzo Grassi alla Biennale di Venezia, in La Pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello, N. Stringa, II, Milano 2008, pp. 699-717. (12) G.L. Vercellesi, Cinquantesima nazionale d’arte, in “Corriere del Mattino”, (9 Giu. 1951). (13) Società Belle Arti di Verona, Cinquantesima Mostra Biennale Nazionale d’Arte, Verona 1951. (14) C. Segala, Pittori cittadini. Aldo Tavella, in “Il Gardello”, 19 Dic. 1952. (15) Idem, Personale di Aldo Tavella alla Galleria della Scala, in “L’Arena”, 1956. (16) S. Maugeri, Premio di pittura “Città di Thiene” dominato alla ricerca della figura, in “Il Giornale di Vicenza” 2 luglio 1981. (17) M. Ferrari, Aldo Tavella, sessant’anni di pittura fuori dalle mode, in “L’Arena”, 26 Feb. 1991) (18) M. Pedrini, Tavella, sulle ali della memoria, in “L’Arena”, 8 Apr. 2004; I colori di un mondo. Novantacinque anni di Aldo Tavella, Verona 2004. (19) Conversations avec Picasso, in Cahiers d’art, Parigi 1935, p. 176-177. (1) Le monografie dedicate all’artista veronese sono A-Tavella, catalogo della mostra di Verona, Verona 1975, e Antologica del pittore Aldo Tavella, catalogo della mostra di Verona Palazzo della Gran Guardia, Verona 1992; Aldo Tavella, gli anni della ricerca e dell’approdo, a cura di M. Brognara, A. Conforti e C. Turco, Verona 1991 e Aldo Tavella “Tra estetica e magia”, a cura di U. Ronfani, Verona 1996. Le mostre più recenti hanno visto la pubblicazione di I colori della vita , percorsi artistici di Aldo Tavella, Verona 1998 e I colori di un mondo. Novantacinque anni di Aldo Tavella, Verona 2004. Per un generale inquadramento sulla storia della pittura in Italia e nel Veneto e per collocarvi la figura di Aldo Tavella sarà opportuno considerare la recente pubblicazione: La Pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello, N. Stringa, I-II, Milano2006-2008. Per quanto riguarda più specificatamente la pittura veneziana sarà opportuno guardare il catalogo della mostra di Treviso: Venezia ‘900: da Boccioni a Vedova, a cura di N. Stringa, Venezia 2007. Più specificatamente sulla pittura a Verona nel corso del secolo XIX si veda: L. Lorenzoni, Verona, in La Pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello, N. Stringa, I, Milano 2006, pp.285-326. Inoltre l’argomento potrà essere approfondito consultando la monografia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara 1999. (2) Chiesa decorata grazie alle bombe, in “L’Arena”, (13.Ott. 2004). (3) G. Marussi, Le mostre d’arte all’Angelicum di Milano, in “La Fiera Letteraria”, 22 Mag. 1949. (4) G. Bianchi, Presenze internazionali, in Venezia ‘900’’: da Boccioni a Vedova, a cura di N. Stringa, Venezia 2007, pp. 154-169. A tale proposito sarà opportuno approfondire l’attività delle Biennali veneziani considerando: M.C. Bandera, Il carteggio LonghiPallucchini. Le prime Biennali del dopoguerra 1948-1956, Milano 1999 e A. Castellani, Venezia 1948-1968, politiche espositive tra pubblico e privato, Padova 2006.. (5) G. Dal Canton, Pittori Veneti alla Biennale, in Venezia e la Biennale, i percorsi del gusto, Venezia 1995; si veda anche S. Salvagnini, L’Accademia di Venezia da Tito a Vedova, in La pittura nel Veneto. Il Novecento, a cura di G. Pavanello e N. Stringa, II, Milano 2008, pp. 627-654. (6) A. Tavella, Dattiloscritto, Archivio Tavella alla data 11 Dic. 1984. (7) Corsivo mostra Baguttino, (1958); Aldo Tavella. “Tra estetica e magia”, a cura di U. Ronfani, Verona 1996, p. 7. (8) L. Magagnato, Introduzione, in A-Tavella, Verona 1975. (9) A-Tavella, Verona 1975. Si veda anche G.L. Verzellesi nel giornale “L’Arena” in occasione di una personale alla Galleria 25 Meditazione, 1949 UN MAESTRO ALLA BIENNALE DI VENEZIA: ALDO TAVELLA essere soltanto una mostra di confronto e di comparazione e non un campionario di quanto oggi si fa in Italia nel campo artistico”3. La pressione da parte degli operatori del settore durante l’anno di preparazione all’Esposizione, fu così forte che l’ordinatore si vide costretto a farne cenno nell’introduzione al catalogo, consigliando a tutti moderazione e soprattutto auspicando una ripresa delle mostre nazionali nelle grandi città per “un controllo immediato delle forze artistiche italiane e un censimento puntuale di esse”4, lasciando alla Quadriennale di Roma il compito di offrire al pubblico il miglior panorama dell’ambiente artistico italiano. “Solo se nell’animo degli artisti si farà strada la necessità di dare alla Biennale il carattere che le spetta di unica competizione artistica mondiale, verrà meno quella pressione continua che i membri della Commissione sentono attorno ai loro lavori”, concludeva amaramente5. La consapevolezza di essere l’unica “esposizione mondiale” era suffragata dalla presenza di ben 22 nazioni contro le Federica Luser Il 1950 è un anno di fondamentale importanza per Aldo Tavella che vede coronata di successo la propria attività non solo con la Tavolozza d’argento al Premio Michetti, ma anche e soprattutto con la partecipazione alla Biennale veneziana dopo aver superato la severa selezione della Giuria nominata dagli artisti stessi, secondo modalità che esamineremo in seguito. La XXV Biennale si aprì l’8 giugno del 1950 e fu un’edizione straordinaria. Ordinata da Rodolfo Pallucchini - che organizzerà l’Esposizione veneziana per cinque volte dal 1948 al 1956 - presentò alcune novità d’impostazione nonchè alcune mostre personali e retrospettive notevoli per il peso che avranno nella storia dell’arte mondiale. La gestione Pallucchini nell’immediato Dopo Guerra segnò in modo particolarmente forte la storia della Biennale1. Suo merito fu di dare all’Esposizione un nuovo volto rispetto alle edizioni precedenti, ritornando allo spirito iniziale, quello del 1895. Tre furono i punti fondamentali intorno cui crebbero e si perfezionarono le mostre veneziane, presupposti che lo stesso Pallucchini elencò nella prefazione al catalogo del 1950: “rigorosa selezione dell’arte italiana, pur tenendo conto di tutte le tendenze; continuazione del compito culturale della Biennale mediante retrospettive, mostre ai movimenti artistici, inviti ad artisti stranieri, allo scopo d’informare, sia pur succintamente, il pubblico italiano degli sviluppi dell’arte contemporanea; uniformità dei metodi di presentazione mediante accordi coi paesi stranieri, persuadendoli dell’utilità d’inviare mostre limitate a pochi artisti, scelti tra i più rappresentativi” 2. Già nell’edizione precedente l’intuizione di creare una Commissione per l’Arte Figurativa di altissimo livello, composta da note figure provenienti dal mondo dell’arte, tra cui i migliori storici di allora Nino Barbantini, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Lionello Venturi e alcuni artisti scelti tra quelli di maggior prestigio come Carlo Carrà, Felice Casorati, Marino Marini, Giorgio Morandi e Pio Semeghini, che organizzasse il piano dell’Esposizione, era risultata estremamente efficace. Così nel 1950 tale Commissione venne riconfermata con l’aggiunta di due nuovi elementi, scelti tra i rappresentanti sindacali: Leoncillo e Giacomo Manzù e la sostituzione di Pio Semeghini, per motivi di salute, con lo storico Giuseppe Fiocco. Compito della Commissione era di inviare un numero circoscritto di inviti a quegli artisti che ritenevano rappresentativi delle linee guida dettate da Pallucchini. Nel 1948 ne partirono 407, mentre nell’edizione del 1950 furono ridotti a 297, seguendo un criterio di maggiore severità per mantenere fede all’aspirazione principale della Biennale che, secondo quanto scritto da Pallucchini“ deve La conchiglia allo specchio, 1931 14 dell’edizione precedente (nel 1952 saranno 26): Austria, Belgio, Brasile, Cecoslovacchia, Colombia, Danimarca, Egitto, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Israele, Jugoslavia, Messico, Olanda, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, Sud Africa, Svizzera, chiamate tutte a esporre delle mostre personali dedicate ai propri grandi maestri, per evitare di scadere in una sorta di “mostra campionaria” solo per il desiderio di mostrare tutto quanto vien prodotto in campo artistico nella propria terra6. Così la Francia allestì la retrospettiva di Bonnard, le personali di Utrillo e Matisse, proponendo tre diverse tendenze sviluppatesi tra la fine del ‘800 e i primi due decenni del ‘900, accostando loro opere di Marcel Gromaire, Christian Caillard, Bernard Lorjou e Alfred Manessier, artisti della generazione successiva rappresentanti tendenze e gruppi che con un occhio guardavano alle esperienze fauviste e cubiste e con l’altro si aprivano la strada verso nuove esigenze compositive, dettate dal nuovo corso dell’arte contemporanea. Il Belgio espose 25 capolavori di James 27 Ensor accanto a dipinti di Constant Permeke, Gustave de Smet e Frits Van den Berghe della Scuola di Latthem Saint-Martin, e opere di Edgrad Tytgat, Jean Brusselmans e Paul Delvaux considerato da Emile Langui, ordinatore del padiglione “l’unico grande avvenimento della vita artistica belga del dopoguerra”7, mentre la Gran Bretagna propose un’importante retrospettiva di John Constable, scatenando una tale rivoluzione da modificare anche quello mondiale. Wassily Kandinsky, Paul Klee, Alfred Kubin, Alexej Von Jawlensky, Auguste Macke, Franz Marc, Gabriele Munter lavoravano per creare un’arte nuova che guardasse all’essenza interiore delle cose, prescindendo dall’immagine esterna, dove l’ espressione assumesse valore di forma assoluta prodotta in nuove composizioni Oggetti da cucina, 1947 astratte e musicali-drammatiche8. Accanto ad essi le intense figure intagliate nel legno di Ernst Barlach, quindi i dipinti di Max Beckmann, esponente della Nuova Oggettività tedesca, di Gerhard Fietz, Werner Gilles, Carl Hofer, Georg Meistermann, Ernst Wilhelm Nay, Emil Nolde, Karl Schmidt-Rottluff, Max Peiffer Watenphul e Fritz Winter. Singolare apparve poi il padiglione del Messico che presentò al pubblico i suoi tre pittori muralisti Josè Clemente Orozco, Diego Rivera e David Alfaro Siquieros rappresentanti del movimento pittorico rinascimentale che seguiva quella su Turner ordinata nell’edizione precedente, accompagnata da mostre personali di Mattew Smith con il suo inno al colore impetuoso e la sua passionalità e della scultrice Barbara Hepworth con le sue sperimentazioni in relazione allo spazio e alla luce. Di notevole interesse anche il padiglione della Germania che ritornò ad esporre alla Biennale allestendo la mostra dedicata a il “Cavaliere Azzurro”, uno dei più innovativi gruppi di quell’avanguardia storica che rivoluzionò nel primo decennio del 1900 il panorama artistico europeo, 28 messicano, che con forza ed impeto espressivi sottolineava l’esaltazione della nazionalità riconquistata. La volontà di guardare anche alle grandi personalità storiche e ai più rilevanti movimenti storici del 1900, approfondendone lo studio, fu sottolineata da Pallucchini con l’allestimento delle mostre retrospettive dedicate a Seurat, al Doganiere Rousseau, a Wassily Kandinsky e ai movimenti Fauves, Cubismo, Futurismo e Cavaliere Azzurro che come abbiamo già visto fu ordinata nel padiglione tedesco. Una vera e propria comparazione di stili e di idee per una maggiore conoscenza dei movimenti d’avanguardia che hanno saputo rivoluzionare il volto alla produzione artistica europea. La ricerca dell’eccellenza anche nel panorama artistico italiano indusse i commissari a volgere lo sguardo verso il passato con la creazione di due retrospettive di artisti dell’800 Giacomo Favretto e Medardo Rosso e l’allestimento di quella dedicata al Futurismo, equiparando a ragione gli sviluppi dell’arte italiana d’inizio Secolo a quella, forse più conosciuta, francese e tedesca. A queste si aggiungono le esposizione retrospettive dello scultore Ernesto De Fiori e dei pittori Lorenzo Viani, Cino Bozzetti e di Mario Broglio, mentre le mostre personali furono dedicate a Carlo Carrà, Alberto Magnelli, Pio Semeghini e Gino Severini: “Quattro temperamenti diversi, quattro personalità spiccate, quattro maestri la cui particolare storia è legata alla cultura di questo primo cinquantennio del Novecento”9. Maestri che, aggiungiamo noi, ebbero il merito di saper far crescere ed evolvere il proprio linguaggio creando i presupposti per lo sviluppo di un’arte contemporanea italiana di assoluta eccellenza. Basti pensare a Carrà e Severini e il loro passaggio dalle prime esperienze futuriste all’adesione a un realismo plastico e poetico che rimase tale per il primo e che si dissolse in pura ricerca teorica nel secondo. Accanto a essi furono invitati tra gli altri Roberto Melli, Filippo De Pisis, Osvaldo Licini, Luigi Spazzapan, Arturo Tosi, Renzo Vespignani con una decina di opere, quindi Giovanni Barbisan, Renato Birolli, Felice Carena, Virgilio Guidi, Mario Mafai, Fausto Pirandello, Ottone Rosai, Toti Scialoja, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Armando Pizzinato, Renato Guttuso con cinque e tre opere. Pittori che rappresentavano la complessità di aspetti di cui era formata l’arte italiana del momento, tendenze che andavano dall’espressionismo al neocubismo passando per un neorealismo che faceva riflettere l’ordinatore, rivolgendosi con ogni probabilità alle scelte di Guttuso, Pizzinato e Turcato. La complessità del nostro panorama pittorico e la pressione per la scelta anche di artisti meno noti, ma comunque di notevole spessore, o di quelli della più giovane generazione, spinse la Commissione per l’Arte Figurativa a “demandare ad una Giuria eletta interamente dagli artisti il compito della scelta di un gruppo di 250 opere... L’elezione della Giuria alla quale hanno partecipato 1608 artisti ha dato un risultato interessante sotto vari punti di vista: a grande maggioranza di voti si sono classificati proprio quegli artisti che facevano parte della Commissione per le Arti Figurative, dimostrando implicitamente di riconoscere in tali maestri l’autorità dei giudici”10. Della Giuria dunque fecero parte Felice Carena, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio Morandi e Giacomo Manzù che seppero destreggiarsi egregiamente operando la propria scelta basandosi su un criterio “obiettivo di valutazione qualitativa”11. Tra gli artisti selezionati come abbiamo già visto, anche Aldo Tavella che espose nella sala XXXI il dipinto a olio Morte delle maschere, opera risalente al 1948 la cui composizione appare gremita di oggetti appoggiati su un tavolo, mentre sullo sfondo un cielo grigio accoglie uno stormo di gabbiani in volo. Fatto singolare fu la presenza nella sala XXII di Fiorenzo Tomea con due opere che presentavano il medesimo soggetto delle maschere, dipinte una decina di anni prima. Ma mentre il maestro di Zoppè delineava alla perfezione la distanza tra i vari piani e ammantava le composizioni di un’atmosfera sospesa di estatica contemplazione, Tavella strutturava l’opera dipingendo gli oggetti in modo sovrapposto, senza lasciare spazi, ma giocando con i diversi piani e abbandonando volutamente il senso prospettico. A parte questi primi facili confronti sembra chiaro che la partecipazione alla Biennale veneziana per Tavella, come per ogni artista impegnato a dar prova di sè nell’ambito di esposizioni internazionali, sia non solo una tappa ambita e fondamentale, ma rappresenti contemporaneamente un punto d’arrivo e uno di partenza. L’invito a partecipare infatti, sottolinea il raggiungimento di una tappa sostanziale della propria carriera e la conferma della bontà del proprio operare, mentre la possibilità di confronto con altre realtà apre la via, a chi le sappia cogliere, a nuove sfide e ulteriori approfondimenti. (1) E. Di Martino, Storia della Biennale di Venezia 1895-2003. Arti Visive-Architettura-Cinema-Danza-Musica-Teatro, Papiro Arte, Venezia 2003, pp. 53-59. (2) R. Pallucchini, Introduzione, in Catalogo della XXV Biennale di Venezia, Venezia 1950, pp. X-XI (3) Idem, p. XI (4) Idem, p. XI (5) Idem, p. XI (6) Idem, p. XVIII (7) Emile Langui, in Catologo della XXV Biennale di Venezia, Venezia 1950, p. 272. (8) L.v.W, pag. 303 (9) R. Pallucchini, cit., pp. XII-XII (10) Idem, p. XIII (11) Idem, p. 26 29 Zona archeologica, 1964 NOTE SULLA PITTURA DI GENERE VENETA NEL NOVECENTO confrontano con un genere che trascende le connotazioni politiche che avevano caratterizzato, invece, tutto il periodo risorgimentale, caricandosi piuttosto di significati simbolici e di chiavi di lettura più complesse. La pittura, nel panorama veneto novecentesco, è materia estremamente variegata. Pur essendovi dei caratteri che vanno a riecheggiare solo in parte le lezioni date dai grandi maestri dell’ormai lontano periodo rinascimentale, sono senz’altro le occasioni pubbliche di esposizione e confronto che danno il là per una maggiore coscienza del proprio operato. In questo senso le piccole e grandi esposizioni (su tutte l’istituzione a Venezia nel 1895 della Internazionale Marco Maria Polloniato Nel novero delle tipologie pittoriche la cosiddetta pittura di genere ha da sempre avuto un posto particolare: inizialmente marginale, ma via via parte sempre più integrante della consuetudine e dell’interesse degli artisti. Essa affonda le radici in secoli di graduale trasformazione, secoli di lenti cambiamenti durante i quali la dicotomia esistente tra grandi committenti e la gran parte della popolazione, si è ridotta in forza di una crescita delle categorie dedite ad attività economiche sempre più incidenti nella vita sociale. Provengono, infatti, dalle aree di commercio più intenso dell’Europa quattro-cinquecentesca i primi maestri di questo genere, in particolare dall’area fiamminga, basti pensare al più famoso Pieter Bruegel il vecchio. Nei secoli successivi le reti di scambio createsi portano ad una diffusione priva di confini delimitati proprio perchè ricca di peculiarità espressive. Queste contraddistinsero aree geografiche-nazionali. L’indole sempre più attenta al proprio sentire rovescia così un rapporto di sudditanza con il mecenate che perdurerà fino ad oggi. Cosa spinse gli artisti ad avvicinarsi alle scene tratte dalla vita d’ogni giorno? Ad accostarsi a quegli elementi che nella pittura religiosa, storico-politica o nella ritrattistica non trovavano spazio se non come contorno, come elemento decorativo? Cosa spinse un autore come Jacopo Da Ponte, detto il Bassano, ad inserire una moltitudine di popolani accompagnati dai propri animali nei quadri che andavano a rappresentare di volta in volta scene tratte dai Vangeli o che illustravano la vita di Santi protettori? Se l’attenzione veniva, comunque, canalizzata a concentrarsi sull’elemento centrale, sul messaggio evangelico o comunque prettamente religioso, non v’è dubbio che contemporaneamente andava creandosi un avvicinamento nella complicità silenziosa instauratasi tra spettatore e personaggi del quadro. Sta in questo la forza evocativa del quotidiano: una condivisione di momenti e situazioni che di fatto rappresentano gli aspetti più elementari ed immediati del vissuto contemporaneo. Nei secoli successivi la pittura di genere (che, non va dimenticato, è una mera categorizzazione ottocentesca atta a rendere più semplice l’individuazione dei soggetti), si avvia a diventare sempre più protagonista. In Italia si assiste quasi a una rincorsa che trova nei pittori caravaggeschi e, successivamente in quelli dediti ai temi dei bamboccianti e nei pitocchi, i principali esponenti. Ceruti, Crespi, ma anche i campioni del vedutismo veneziano come Canaletto e Guardi si dedicano, ognuno a proprio modo, alla lettura più o meno filtrata della realtà. Procedendo ancora nella linea temporale, il genere assume via via connotazioni per certi aspetti manieristiche, riflesse su se stesse ed è solo con il verismo ottocentesco che viene dato nuovo vigore alla scelta di soggetti destinati a suscitare tensioni nel pubblico. A ridosso del Novecento sono quindi molti gli autori che si Incendio nel cantiere, 1978 d’Arte, meglio conosciuta come Biennale) che si diffondono su tutto il territorio fanno da collante tra gli artisti che hanno così modo di riscontrare direttamente il gradimento del pubblico. Venezia rappresenta in tal senso un punto di riferimento indispensabile per tutti, in primis per la sua vocazione di città sospesa nel tempo, ma anche per la presenza di istituzioni riconosciute come l’Accademia di Belle Arti e le prime fondazioni artistiche. Più che ai grandi nomi di fine Ottocento che avevano rinnovato l’ambiente veneziano quali Guglielmo Ciardi, Luigi Nono, Ettore Tito, Alessandro Milesi, è piuttosto un personaggio come Pietro Fragiacomo a mettere in evidenza nei paesaggi lagunari barche o nella rappresentazione di tutti quegli strumenti di lavoro che sono, molto spesso, l’unico indizio della presenza umana appena percepibile. È indubbio che la matrice simbolista di inizio Secolo è più evidente in altri autori come in Ettore Tito o in Mariano Fortuny, ben distanti dai richiami al passato di Cesare Laurenti, ma dovendo qui ricercare esempi di pittura di genere, il pensiero non può che andare verso un altro grande autore del primo Novecento veneziano: Marius Pictor. Il bolognese si inserisce a pieno titolo nel panorama lagunare prediligendone gli aspetti decadenti 31 ed evidenziandone i meno appariscenti. Una pittura giocata sui toni della luce notturna e sulle scene che la variegata Città lagunare propone e che troverà una costante fortuna anche successivamente. Spostando poi l’attenzione anche ai luoghi che circondano il centro storico lagunare vale la pena ricordare che istanze e suggestioni spesso sono giunte qui da autori stranieri che a Venezia si sono stabiliti e che hanno dato prova del loro valore. A Burano, oltre ad Umberto Veruda, v’è il polacco Jehudo Epstein a mettere in luce i caratteri più istintivi del microcosmo isolano. Gli altri grandi nomi contemporanei, quelli facenti capo alla Fondazione Bevilacqua e quindi alla famosa sede di Ca’ Pesaro, sono in realtà estranei alla contaminazione con il quotidiano. I vari Boccioni, Casorati, Marussig, sia prima che dopo la Grande Guerra, non pongono la propria attenzione alla rappresentazione di frammenti del vissuto, prediligendo piuttosto il simbolismo dei particolari o la rievocazione mitologica. La stessa Secessione Viennese influenza con straordinari esiti alcuni autori di ampio respiro come Teodoro Wolf-Ferrari e Vittorio Zecchin. Un segno di svolta ed un nuovo interesse per il genere arriva con Gino Rossi che, reduce da viaggi importanti in Europa, porta una ventata di novità pur rappresentando soprattutto personaggi e figure popolari. Alla tendenza post-bellica del realismo magico aderisce Bortolo Sacchi, nelle cui opere è possibile vedere una genìa di personaggi che risultano sospesi tra laguna e cielo come la città che li ospita. Ma è nelle opere degli anni Venti di Cagnaccio da San Pietro che la pittura di genere trova nuova linfa diventando specchio della realtà e voce di denuncia. I suoi sono intenti polemici evidenti che si rifanno alla pittura tedesca contemporanea, riscrivendo in parte i canoni della pittura di genere. Prima di arrivare alla grande temperie culturale che sin dagli anni Quaranta porterà alla ricerca in chiave astratta e di più consone forme e tecniche, vi sono ancora alcuni nomi che è necessario ricordare. In primis quello di Guido Cadorin, anche lui in parte esponente del realismo magico, senza dimenticare altri artisti significativi tra i quali Virgilio Guidi: pittore atonale apparentemente neutro ai luoghi ed alle figure descritti. Le altre province venete sono sempre state foriere di autori che si sono dovuti confrontare con la temperie culturale di Venezia, richiamo e termine di confronto indispensabile per aprirsi al dialogo internazionale. La vicina Padova ad esempio, Città che non ha mai sentito troppo forte il confronto-scontro con Venezia, si manifesta come un luogo dove le istanze pittoriche hanno un percorso leggermente più lento. Giovanni Vianello e Domenico Bonatti possono ben rappresentare il clima cittadino all’alba del nuovo Secolo: tendenze realiste ancora vive, non prive di intenti simbolisti ormai acclarati. Per trovare veri esponenti della pittura di genere è necessario fare riferimento ad un pittore eclettico quale fu quel Mario Cavaglieri che fonde nelle proprie opere suggestioni europee con una resa cromatico di forte impatto. Gli altri rappresentanti della pittura padovana del primo Novecento, però, si discostano dalla rappresentazione del reale per dedicarsi piuttosto a forme più moderne e che vedono forse solo in Giovanni Dandolo un richiamo alla realtà. Giuliano Tommasi e Mario Rigoni dei Graber, ad esempio, improntano la propria poetica in direzione del simbolismo. Dopo la parentesi del futurismo padovano, bisogna attendere Tono Zancanaro per tornare a vedere richiami al reale letto in una chiave antieroica. Distante, anche se affine alla poetica di forme pittoriche primitive come quelle di Fulvio Pendini e Antonio Fasan. Successivamente, dagli anni Cinquanta in poi, con la grande esplosione economica che accompagna il clima post-bellico, i soggetti di riferimento diventano sempre più connessi con le nuove realtà industriali. Molti sono i nomi che recepiscono e si confrontano con la nuova realtà emergente, ma non è raro cha da una prima forma di denuncia sociale taluni artisti spostino il loro interesse verso una rappresentazione introspettiva legata alla memoria di quanto era e non è più. Gianni Longinotti muove da queste istanze e traccia una strada in parte seguita ad esempio da Riccardo Galuppo. Sono quindi altri i nomi di autori dediti al realismo quali Piero Mancini ed Enrico Schiavinato; il secondo in particolare presenta nelle proprie opere, dai colori e dal taglio estremamente incisivi, una territorialità scavata nelle rughe dei contadini e degli altri elementi tipici della campagna veneta. Sono queste delle “derive” espressioniste, ma rappresentano una concreta visione del popolo e del medesimo paesaggio che è possibile ritrovare in Vittore Bonsembiante. A differenza del capoluogo patavino, Treviso si presenta al nuovo secolo con un panorama di pittori strettamente legati all’ambito veneziano, la cui Accademia di Belle Arti vide il passaggio di quasi tutti gli artisti più significativi del nuovo Secolo. Contemporaneamente è l’organizzazione della Mostra d’Arte Trevigiana a diventare punto di riferimento per le nuove generazioni che trovano l’occasione ideale per confrontarsi con i maestri di fine Ottocento. Luigi Serena in tal senso è il capostipite ed il più rappresentativo decano della pittura di genere oltrepiave, ed è difficile riscontrare allievi degni del maestro o comunque pittori che interpretino con la stessa efficacia l’ambiente circostante. I Ciardi, ad esempio, pur risiedendo spesso in provincia, non lasciano mai il tenue languore delle rappresentazioni lagunari. Altri autori contemporanei o di poco successivi non hanno la stessa incisività ad esclusione, in parte, di quel Giovanni Apollonio che stempera e fissa momenti “leggeri” di vita borghese. Se la genesi pittorica di Alberto Martini è saldamente legata a Treviso, con l’enfasi sugli aspetti della campagna, successivamente volge il proprio modus nella direzione del surrealismo, merita invece una citazione quell’Aldo Voltolin, la cui breve carriera, consegna nei modi del decorativismo e divisionismo autentiche perle cromatiche. A Ca’ Pesaro, intanto, sono Gino Rossi e Arturo Martini a contribuire in maniera sostanziale, ognuno con forte personalità, al rinnovo dei temi correnti. A loro va aggiunta la figura di Nino Springolo, che segna la pittura di genere con equilibrata obbiettività, estranea a provincialismi, a sovrascritture o abbellimenti e che troverà eccellenti riscontri anche fuori i confini nazionali. 32 In questo frangente si erge a coordinatore instancabile e propugnatore di una identità comune Giuseppe Mazzotti, il cui nome si lega all’organizzazione e promozione di mostre. I suoi contemporanei, però, tra i quali Giacomo Caramel, Lino Bianchi, e Rachele Tognana sembrano disinteressarsi a lungo dei soggetti di genere, focalizzandosi più sulle novità tecnico-pittoriche che su una ricerca di soggetti di rottura. commissione della Biennale del 1903. Maggior fortuna sembra avere Guglielmo Talamini attento osservatore di “facce” e volti della sua terra. Altri come Pio Solero si distaccano gradualmente dalla realtà abitata e conosciuta per un’immersione sempre più decisiva nell’ambiente montano, scelta influenzata dalle letture e dalle conoscenze dirette con gli ambienti artistici di Monaco. Una sua indiretta erede potrebbe essere individuata in Romana D’Ambros, pur se influenzata da altre sollecitazioni significative nel campo della pittura di genere che sono da ricercare al di fuori della tematica sacra, invero tra le più frequentate e dove gli autori bellunesi hanno rinnovato parte del loro linguaggio decorativo. E bisogna attendere almeno fino al primo scontro bellico per trovare in un Edgardo Rossaro i primi tentativi di fissare la realtà di guerra. Ma per tornare alla pittura di genere, carica di un simbolismo che trascende il tempo, il nome di punta è quello di Fiorenzo Tomea, ben conosciuto anche al di fuori del contesto locale grazie alle sue pitture fatte di oggetti, spesso moltiplicati e protagonisti assoluti del quadro. Altri come Bruno Milano o Romano Ocri tentano, invece, altre vie ed anche altre tecniche, rinnovando il repertorio e l’uso di una pittura ancora legate alle pratiche post-impressioniste. Grande esponente di una lettura cromatica irreale del quotidiano è invece Celso Valmassoi, cadorino come Aldo De Vidal, la cui vicenda personale lo porta ad essere espressione di una realtà sociale in evoluzione fino alla realizzazione dei “murales” di Cibiana. Su tutt’altre latitudini e richiami va invece inquadrata la terra di Palladio. Quella Vicenza a lungo rimasta chiusa in un contesto di “piccola” provincia e che solo in seconda battuta ha aperto e rinnovato il repertorio artistico grazie soprattutto all’impegno ed alla lungimiranza di alcune scelte istituzioni e di circoli la cui urgenza espositiva trovò sbocchi e riscontri meritati, prima fra tutte l’Accademia Olimpica. Ubaldo Oppi e Carlo Potente sono i primi nomi di rilievo che vanno ad incidere sul normale andamento della cultura ottocentesca in Città, come un altro dei pittori viaggiatori d’inizio secolo Wladimiro Gasparello. Ma i loro interessi vengono presto inquadrati in una ritrattistica o comunque, in opere canoniche, veicolate da forme e dalla studiata stesura del colore a discapito di soggetti presi dal quotidiano. Emerge, comunque, la voglia di dare spazio ad un’urgenza espressiva. Nelle esposizioni degli anni Venti passano quasi tutti i nomi più significativi, tra i quali anche il giovane Mario Venzo, poi conosciuto come Fratel Venzo. Altri nomi significativi sono quello di Pier Angelo Stefani, i cui allievi avranno un posto di rilievo dagli anni Quaranta. Nomi ben conosciuti quali il giovane Neri Pozza, Otello De Maria, Nerina Noro, Bruno Canfori e Antonio Marcon. Come anche l’aristocratico Bortolo Sacchi, Marcon è uno dei tanti maestri eclettici dell’ambiente bassanese, essendo anche xilografo e ceramista, a cui seguiranno in tempi successivi personaggi quali Miranda Visonà, Giovanni Petucco, Carlo Contin, Pompeo Pianezzola, tutti attenti a cogliere nel linguaggio di casa, negli affetti e nell’immediatezza il calore umano. Anche le donne hanno spazio in questo ambito con La turista inglese, 1990 Va sottolineato, inoltre, il valore della coscienza del proprio operare, svolto da Mazzotti, allorquando si confronta con gli indirizzi dati all’arte dal Regime. Nelle successive esposizioni continuano a formarsi generazioni di artisti, gli interessi dei quali vagano indagando la città. Basti pensare ai temi cari ad Arturo Malossi, al giovane Giovanni Barbisan, alle sorelle Maria e Tina Tommasini, ma soprattutto a Sante Cancian. È lui a “rappresentare” Treviso nei suoi aspetti più immediati utilizzando tecniche diversificate e ponendosi quasi come un cronista-sceneggiatore del tempo. Legata a Treviso per ragioni geografiche e solo relativamente aperta ad influenze nordiche, è Belluno con l’insieme delle valli cadorine e ampezzane. Il primo ventennio del Novecento non vede sostanziali rinnovamenti rispetto al Secolo, complice una committenza locale poco incline alle novità lagunari. Non è un caso che uno dei più rappresentativi artisti d’inizio secolo, Luigi Cima, non venga accettato dalla 33 Ina Barbieri e Mina Anselmi, la prima con richiami al modo di Gino Rossi, la seconda concedendosi libertà ed originalità rispetto alla formazione ricevuta a Venezia con Virgilio Guidi. Il terzo personaggio femminile che è indispensabile ricordare è Nerina Noro, la cui formazione con Guidi e Saetti si scorge talvolta nei suoi ritratti, ma che difficilmente vanno a toccare temi sociali per rimanere nell’intimo di evocazioni e paesaggi informali. Altri spunti significativi sono quelli che si raccolgono attorno ad altri centri nevralgici, come il Calibano del mecenate Angelo Carlo Festa o al Premio e la vena burlesca che caratterizza i “convivi” degli artisti, trova risvolti espositivi anche nelle mostre di caricatura. Il futurismo invece trova pochi echi significativi, nonostante la presenza di Boccioni fino alla morte. Guido Trentini rappresenta un caso significativo di accrescimento culturale all’interno di tutto quello Stile Novecento che si concretizza nella rappresentazione di piani in cui l’assenza del colore ed il plasticismo seriale sono il leit-motiv. Altro grande nome residente a lungo a Verona è quel Pio Semeghini che non apre alle tinte tenui e rarefatte molto diverse rispetto all’estetica fascista e ben distinto anche dall’altro esponente della pittura di genere quale fu Aldo Tavella. Il periodo successivo, però, non risulta all’altezza di quanto visto ad inizio Secolo e fino alla fine del Secondo Conflitto: gli anni Cinquanta fanno da incubatrice a quanto esploderà poi negli anni Sessanta e Settanta con l’arrivo dell’astratto, dell’espressionismo, dell’informale e del razionalismo. In questo breve excursus sulla pittura di genere nel Veneto, v’è una schematizzazione che riprende in buona sostanza quanto declinato con dovizia di particolari dagli autori dei volumi La pittura nel Veneto. Il Novecento, I-II, Milano 1999-2006. A San Giorgio - Cinema all’aperto, 1953 Marzotto istituito dall’omonima azienda. La figura di Licisco Magagnato fa da ponte con la realtà veronese le cui ambizioni si sono esplicate, nel corso del XX secolo, ricercando un saldo legame con Venezia e con le istanze artistiche delle più importanti città mitteleuropee. In questo la dominazione asburgica ebbe un ruolo di rilievo inducendo alcuni autori a perfezionarsi a Vienna o a Monaco. Non è un caso che le prime istanze moderniste trovino in Verona un terreno fertile nel quale attecchire e che lascerà il segno in diversi pittori a cominciare da Vincenzo De Stefani, per passare a Francesco Danieli, Carlo Francesco Piccoli, Carlo Donati. A costoro si contrapponeva lo stile popolare, ma efficace di un Angelo Dall’Oca Bianca che grande successo riscuoteva in città, come il conterraneo Giovanni Bevilacqua. Alfredo Savini, bolognese, portò con sè qualche germe di novità che l’ambiente scaligero recepì e fece proprio, così come l’arrivo di Baldassare Longoni ebbe echi per molti anni, soprattutto per l’utilizzo del divisionismo. Nell’ambito della pittura di genere è un allievo di Savini, Benvenuto Ronca, a confrontarsi con le figure dei derelitti, così come Ettore Beraldini, quest’ultimo con un rapporto più sensibile con i soggetti rappresentati. Anche se lontano da queste tematiche val la pena di sottolineare il legame instauratosi tra la Città e la figura di Felice Casorati, e di alcuni colleghi: su tutti Guido Trentini. V’è da aggiungere che in questo primo Novecento la gaia vita 34 OPERE 35 Mio fratello Pino, 1926 36 • Olio su compensato, cm 60x70 RITRATTO, [1927] • Olio su cartoncino, cm 35x24 37 E’ solo un ricordo, 1928 PAESAGGIO, 1930 • Olio su compensato, cm 39x50 • Olio su cartone, cm 34x43 38 la signora elda, 1932 39 • Olio su cartone, cm 48X35 la signora elda, 1933 L’ATTESA, 1933 • Olio su tavola, cm 50x33 40 • Olio su compensato, cm 50x39 41 DONNA CHE CUCE, [1934] 42 • Olio su carta, cm 50X35 tempo di carnevale, 1934 43 • Olio su cartone, cm 40x50 nello studio, 1936 maternità, 1935 • Olio su cartone, cm 48x35 44 • Olio su cartone, cm 49x36 45 canale a venezia, 1936 46 • Olio su tela, cm 18x24 frutta e vino, 1937 • Olio su cartone, cm 50x35 47 DAllo studio del pittore aldo franzoni, 1938 48 • Olio su cartone, cm 35x24 paesaggio, [1939] • Olio su compensato, cm 50X60 49 Piccolo Paese, 1939 • Olio su cartone, cm 24x30 50 battelli a peschiera, 1940 Il pittore, 1941 • Olio su cartone, cm 13x20 • Olio su cartone, cm 24x35 51 Costruzioni medievali, 1943 52 • Olio su cartone, cm 60x50 la ragaZza, 1946 • Olio su cartone, cm 50x36 53 54 il porto, 1946 55 • Olio su compensato, cm 80x100 CAMPAGNA A MINERBE, 1946 56 • Olio su compensato, cm 28X38 composizione, 1946 57 • Olio su cartone, cm 59x40 Giardini, 1947 • Olio su cartone, cm 50x60 58 MIA MOGLIE E MIA FIGLIA SOFIA, 1947 59 • Olio su cartone, cm 35x46 NELLA VALPOLICELLA, 1948 • Olio su compensato, cm 35X42 paesagggio invernale presso mantova, 1948 60 • Olio su cartoncino, cm 24x30 Morte delle maschere, 1948 61 • Olio su cartone, cm 50x60 Il cantiere, 1949 FIORAIA, 1948 • Olio su cartone, cm 50x60 62 • Olio su cartone, cm 60x50 63 Orate, 1949 • Olio su faesite, cm 50x60 64 Maschere, 1949 • Olio su cartone, cm 50x60 65 Piazza delle erbe, 1949 66 • Olio su cartone, cm 50x60 Meditazione, 1949 • Olio su cartone, cm 50x60 67 nd, 1949 • Olio su cartone, cm 60X50 68 MASCHERA, [1950] • Olio su cartoncino, cm 35x24 69 Il vecchio “IL SIGNOR BENIAMINO”, 1950 70 • Olio su cartone, cm 60X50 La Piazza alberata, 1950 71 • Olio su cartone, cm 50x60 72 il muro “ la macchia rossa”, 1950 • tecnica mista collage, cm 100x70 san giorgio - veronA, 1950 73 • Olio su cartone, cm 50X60 Inverno sul lago di Mantova, 1951 74 • Olio su faesite, cm 50x60 Autunno, 1951 • Olio su cartone, cm 50x60 75 neve in periferia, 1951 • Olio su compensato, cm 59X69 76 corso porta nuova di sera, 1951 77 • Olio su compensato, cm 50x60 78 La signora Madinelli, 1952 • Olio su cartone, cm 60X50 Cortile rustico presSo Lugagnano, 1952 79 • Olio su cartone, cm 50x60 venezia, 1952 • Olio su cartone, cm 50x60 80 Ricostruzione del Ponte, 1953 81 • Olio su cartone, cm 50x60 ragazza con mazzo di fiori, 1953 82 • Olio su cartone, cm 60X50 Composizione, 1954 • Olio su compensato, cm 50x60 83 Triglie e zucche, 1954 84 • Olio su cartone, cm 50x60 lo studente, 1954 • Olio su cartone, cm 48x34 85 86 Omaggio floreale, 1955 • Olio su compensato, cm 60X50 fiori, angurIa e picchio, 1956 87 • Olio su cartone, cm 50x60 Sul tavolo della cucina, 1957 88 • Olio su cartone, cm 50x60 Frutta, 1958 • Olio su cartone, cm 50x60 89 La passeggiata, 1959 90 • Olio su cartone, cm 50x60 VASO DI FIORI, 1959 91 • Olio su tela, cm 50X40 Disperazione, 1959 • Olio su cartone, cm 50x60 93 Composizione con Macinino, 1960 94 • Olio su cartone, cm 50x60 San Giorgio, 1960 • Olio su cartone, cm 50X60 95 Ruderi, 1960 • Olio su cartone, cm 50x60 96 Composizione, 1961 97 • Olio su tela, cm 48x63 Bambina con Bambola, 1961 Al Bar, 1961 • Olio su cartone, cm 60x50 98 • Olio su cartone, cm 60x50 99 il vaso di fiori, 1961 • Olio su compensato, cm 60x50 100 la lettera, 1962 • Olio su compensato, cm 60x50 101 Composizione, 1963 • Olio su compensato, cm 50x60 102 ANNA FRANK, 1963 • Olio su compensato, cm 50x60 103 Composizione, 1964 • Olio su cartone, cm 50x60 104 zona archeologica, 1964 105 • Olio su cartone, cm 90x70 LA SIGNORA PINA, 1964 106 • Olio su faesite, cm 60x50 il lago a mantova IN inverno, 1964 107 • Olio su tela, cm 24x30 108 RAGAZZA DAL GIUBBETTO ROSSO, 1965 • Olio su cartone, cm 60X50 Il circo “Inverno”, 1966 109 • Olio su cartone, cm 50x60 cantiere, [1966] • Olio su compensato, cm 50x60 110 Invidia, 1967 • Olio su cartone, cm 60X50 111 un ricordo, 1967 • Olio su compensato, cm 100x70 112 Giardini, 1968 • Olio su tela di lino, cm 50x60 113 COMPOSIZIONE CON CIPOLLE, 1968 114 • Olio su cartone, cm 50x60 Fiori e zucche, 1970 • Olio su cartone, cm 50x60 115 periferia, 1971 • Olio su compensato, cm 70x80 116 Composizione, 1972 • Olio su cartone, cm 50x60 117 neve a malcesine, 1972 • Olio su compensato, cm 70x100 118 Il cantiere, 1975 • Olio su compensato, cm 50x60 119 imbarcazioni prima del temporale, 1976 120 • Olio su compensato, cm 60x80 Prima neve “dal mio studio”, 1978 121 • Olio su compensato, cm 70x80 mia moglie, 1980 • Olio su compensato, cm 100x70 122 campagna presso calmasino, 1980 123 • Olio su compensato, cm 60x80 124 composizione, 1981 • Pastello su carta, cm 100x70 GABBIANI AL TRAMONTO, 1985 125 • Olio su compensato, cm 100x70 omaggio alla mamma, 1985 126 • Olio su compensato, cm 100x70 Presso il Ponte di Veja, 1986 127 • Olio su compensato, cm 50x60 Composizione, 1988 • Olio su faesite, cm 70x100 128 Il compito, 1989 • Olio su compensato, cm 80x60 129 Il gatto veneziano, 1990 130 • Olio su tela, cm 70x70 La piazza, 1991 • Olio su tavola, cm 50x60 131 il vaso di ceramica, 1991 132 • Olio su compensato, cm 100x70 LA SPOSA HA 16 ANNI, 1993 133 • Olio su compensato, cm 60X50 134 ZONA INDUSTRIALE , 1994 Olio su compensato, cm 50x60 135 NOTE BIOGRAFICHE Ha compiuto i suoi studi presso l’Accademia Cignaroli di Verona, dove è poi ritornato quale titolare della Cattedra di affresco; è stato inoltre insegnante di figura presso il Liceo Artistico Statale dal 1967 al 1979. Dal 1963 è titolare della Cattedra di pittura presso l’Accademia Cignaroli, della quale è stato anche Direttore dal 1982 al 1985. Sempre presente alle più importanti manifestazioni d’arte nazionali ed internazionali, la sua attività artistica punteggiata di successi e sue opere figurano in varie collezioni pubbliche e private, italiane e straniere. Di anno in anno, le partecipazioni sono sempre più numerose e i riconoscimenti frequenti. E’ alla Biennale di Venezia nel 1950, anno in cui viene premiato con tavolozza d’argento al “Nazionale di Pittura F. Michetti” a Francavilla al Mare (CH). Sempre nel ’50 è presente alla Mostra dei due secoli dell’Accademia Cignaroli di Verona, al premio Suzzara, all’Angelicum di Milano. L’anno seguente partecipa alla Quadriennale d’Arte di Roma e Torino, al Premio Roma per la Figura, alla 1a Biennale internazionale d’arte Marinara di Genova. Espone alle Mostre nazionali di Messina, Monza e Gallarate e al premio di Pittura di Clusone. Non manca alla 1° Biennale Nazionale di Verona, alla quale ritorna nel ’53 e nel ’55; né alla Biennale Triveneta di Padova, dove si ripresenta negli stessi anni ’53 e ’55. Nel ’53 ritorna al Premio Burano dove già si era presentato nel ’51 e partecipa al Premio Brescia. Anche negli anni seguenti è presente a tutte le Biennali Nazionali di Verona e alle Biennali Trivenete di Padova, nonché ad altre numerose manifestazioni artistiche, conseguendo significativi riconoscimenti e premi. La stagione del 1956 ha visto quello che la stampa ha definito “un approdo” per Aldo Tavella, nella Mostra alla Galleria della Scala di Verona. Silvio Bertoldi ha scritto a questo proposito: “E’ arrivato per Tavella il momento dei bilanci, dei consuntivi, forse della scelta; ossia il momento di porre in discussione l’intera validità di una produzione pluriennale, perseguita con ammirevole serietà, punteggiata di successi e di soddisfazioni”. “L’artista ha raggiunto, nella vita, la stagione della piena estate. E’ naturale ed umano, è necessario che egli abbia considerato dentro di sé il cammino percorso … E questo è stato un approdo sicuro”. Il bilancio di questo periodo di fatiche e di studio, il consuntivo di ricerca e di approfondimento tematico, formale ed inventivo, è stato positivo. Non saremo noi a voler scoprire, oggi, le qualità di pittore di Tavella: che sono sempre state la serietà dell’impianto costruttivo del quadro, secondo una lezione non immemore di Cézanne; l’intelligente novità della figurazione, pur nel rispetto di una atmosfera sottilmente romantica che rivela agli attenti le segrete inclinazioni dell’anima; il colore scrupolosamente costruito sulla tavolozza, come accade a chi deve ricavare i toni dallo studio, piuttosto che dalla fantasia. Ebbene, tutte queste doti ci paiono oggi consolidate e raf- forzate. Ci sembra anzi che altre se ne siano aggiunte come – per esempio – l’allargamento degli interessi prettamente pittorici (tocco, impasti, gradazioni cromatiche, tono, taglio dell’immagine) e il successo conseguito nel rendere sicura la propria “sigla creativa”, cioè quel dono di personalizzare la creazione fino a farla distinguere d’acchito e con certezza”. I giudizi della critica testimoniano della vitalità di questo pittore e delle sue doti e della sua anima. Il Verzellesi nel giornale “L’Arena” in occasione di una personale alla Galleria Novelli, nel 1971, così riportava tra l’altro: “alle clamorose soluzioni di continuità che ricorrono negli itinerari dei professionisti dell’avanguardia più svagata, Tavella ha seguitato a contrapporre un rifiuto fermo, non meno risoluto e pungente della sua ironia per i conservatori troppo accidiosi, capaci di continuare a ripetersi scambiando la coerenza dello stile, che implica continue varianti con una sorta di canonicato, fatto di abitudinarie esercitazioni sempre più macchinali”. Per quanto riguarda forma e stile, è interessante rileggere un altro giudizio scritto nell’opuscolo di presentazione di una recentissima mostra curata dall’Associazione Artestudio e dedicata al Tavella nel periodo denominato “dell’approdo” sopra accennato: “fatto è che nei quadri di Tavella non solo le forme si situano sui piani limite che invariabilmente definiscono e chiudono lo sfondo, ma anche le suggestioni di uno spazio aperto, pur rese con istintiva immediatezza, si risolvono in una pittura di paesaggio che nulla perde della consueta solidità di impianto. Al punto che perfino il piano dell’orizzonte o addirittura la porzione del cielo non diventano varco allo spazio e dalla luce, ma si propongono, senza deroga, come altrettanti ed essenziali elementi dell’incastro compositivo. Pittura densa e materica quindi e composizioni serrate: anche quando la pennellata porta con sé impasti cromatici di più pregnante sensorialità. Una pittura dove la luce non viene realisticamente affidata ad un preciso punto d’incidenza, ma ‘nasce dallo stesso impasto pittorico, in un’analisi segreta degli oggetti’ (Brindisi), finendo poi con il collocarli in una sorta di sospensione senza tempo, talora venata di malinconia.” Per Aldo Tavella pittore il viaggio continua ancora fervido e vitale, nella fedeltà ad una vocazione, nella ricerca e nella serenità, diventando sempre più eloquente. Negli ultimi venti anni l’artista veneto ha continuato a proporre ed esporre i suoi dipinti. Sue mostre sono state realizzate a Verona, Milano, Roma e nelle più importanti capitali europee. Nel 1992 il Comune di Verona ha voluto tributare un omaggio a questo suo grande figlio ospitandolo nel Palazzo della Gran Guardia con un’antologica che ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica. (Ugo Ronfani, Note biografiche, in Tra estetica e magia. Aldo Tavella, Verona 1996, pp. 11-13). La stessa celebrazione gli è stata tributata nel 2004. 136 ESPOSIZIONI 1946 Verona, Casa di Giulietta Clusone (BG), Premio di Pittura 1949 Ravenna, Quinta Esposizione Nazionale Messina, 1a Mostra Nazionale di pittura “Città di Messina”, Padiglione “Fiore” Verona, Palazzo della Gran Guardia 1952 Verona, Galleria Cappello Venezia, Premio di pittura Giacomo Favretto, Opera Bevilacqua La Masa Badia Polesine (RO), Abbazia di Vangadizza Soave (VR), Comune Verona, San Nicolò Verona, 49a Esposizione Nazionale d’Arte Roma, VI Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, Milano, Mostra d’Arte Sacra Angelicum 1953 Manerbio, Premio Marzotto. Prima Mostra Nazionale di Pittura Contemporanea Premio Manerbio. 1950 Suzzara (MN), Premio Suzzara Monza, 2a Mostra Nazionale di Pittura “Premio Città di Monza”, Villa Reale Cremona, Mostra d’arte sacra contemporanea, Palazzo dell’Arte Roma, Mostra delle Arti figurative, Esposizione dell’Agricoltura Venezia, XXV Biennale d’arte Verona, Accademia Cignarli Francavilla al Mare (CH), VII Premio Nazionale di pittura “F.P.Michetti” Verona, Galleria del Cappello Verona, Galleria Cappello Badia Polesine (RO), Arte triveneta contemporanea, Abbazia della Vangadizza Verona, 51a Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia Gallarate (VA), Premio Nazionale di pittura città di Gallarate Burano, Mostra Premio Burano Francavilla al Mare (CH), Premio di pittura Francesco Michetti Brescia, Premio Brescia, Palazzo della Loggia. Nel 1953 Padova, 10 Biennale d’arte triveneta, Palazzo della Ragione 1951 Verona, 50a Mostra Biennale Nazionale d‘arte, Palazzo della Gran Guardia Messina, Prima Mostra internazionale di pittura “Città di Messina” Venezia, Mostra del Premio Burano 1955 Padova, 11a Mostra Biennale d’Arte Triveneta, Sala della Ragione Roma, Premio Roma per la pittura Verona, Galleria d’Arte di Via Oberdan Milano, Seconda Mostra Biennale Italiana di Arte Sacra per la casa, Angelicum dei Frati Minori Roma, Sesta Quadriennale Nazionale d’Arte, Palazzo delle Esposizioni. Monza, Mostra Nazionale di pittura premio “Città di Monza”, Villa Reale Verona, 52a Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia 1956 Verona, Galleria della Scala Genova, 1a Biennale Internazionale d’arte marinara, Palazzo dell’Accademia Verona, Cinquantaduesima Biennale Nazionale d’Arte, Palazzo della Gran Guardia Torino, Sesta Quadriennale Nazionale d’Arte 137 1981 Thiene (VI), XVII Edizione Premio Nazionale di Pittura Città di Thiene Verona, Galleria del Cappello 1957 Verona, Mostra del Centenario. 53° Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia Orzinuovi (BS), 3° Premio di Pittura “Orzinuovi” di pittura. 1958 Orzinuovi (BS), 4° premio “Orzinuovi” di pittura. Pescantina (VR), 10° Concorso Nazionale di Pittura 1982 Verona, Palazzo della Gran Guardia 1959 Verona, 54a Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia Pescantina (VR), Decennale di Pittura 1972-1982 1984 Pescantina (VR), 12° Concorso Nazionale di Pittura Milano, Baguttino 1961 Verona, 55a Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia 1990 Sona (VR), Pittura a Verona 1950-1975 1963 Cremona, Mostra d’ Arte Sacra, Palazzo dell’Arte 1991 Verona, Galleria Arte Studio Verona, 56a Biennale Nazionale, Palazzo della Gran Guardia 1991 Verona, Palazzo della Gran Guardia Padova, XV Biennale d’Arte Triveneta, Sala della Ragione 1992 Verona, Palazzo della Gran Guardia 1965 Padova, XVI Biennale d’Arte Triveneta, sala della Ragione 1996 Rubiera (RE), Biblioteca Comunale Verona, 57a Biennale Nazionale d’arte, Palazzo della Gran Guardia 1998 Verona, Accademia Officina d’Arte 1967 Padova, XVII Biennale d’Arte Triveneta, Sala della Ragione 1999 Verona, A-Tavella. Incontri con la natura. Schizzi, Verona 1999 Verona, 58a Biennale Nazionale d’Arte, Palazzo della Gran Guardia 2004 Verona, Palazzo della Gran Guardia 1970 Peschiera (VR), Collettiva di Peschiera 2006 Venezia, Galleria Santo Stefano 1971 Verona, Galleria Novelli Verona, Fondazione Aldo Tavella 1975 Verona, Galleria Novelli 2007 Verona, Fondazione Aldo Tavella Villafranca (VR), Concorso Mostra Nazionale di Pittura Padova, Arte Fiera 1977 Piazzola del Brenta (PD), Triveneta delle arti 2009 Verona, Loggia Barbaro Torre del Capitano 1979 Pescantina (VR), 8° Concorso Nazionale di Pittura 1980 Pescantina (VR), 9° Concorso Nazionale di Pittura 138 BIBLIOGRAFIA 1945 Marcello Venturoli, Pittori e scultori a congresso, in “Il rinnovamento d’Italia”, (10 Nov. 1945). XXV Biennale di Venezia. Catalogo, Venezia 1950, p. 149 Silvio Bertoldi, Quatto pittori alla Galleria al Cappello, in “L’Arena”, (12 Ago. 1950). 1946 Bev., Pittori e scultori alla Casa medievale, in “L’Arena”, (22 Dic. 1946). 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