Adoc: Airbnb fa crescere il turismo, ma rimane problema evasione

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Adoc: Airbnb fa crescere il turismo, ma rimane problema evasione
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Adoc: Airbnb fa crescere il turismo, ma rimane problema evasione fiscale
mercoledì 11 maggio 2016
Si scrive “Airbnb”, si legge opportunità di crescita
per il Paese. Per coloro che non sono ancora molto coinvolti nel mondo della
sharing economy, chiariamo che Airbnb è un portale, aperto in California nel
2008, che offre opportunità di viaggio e soggiorno in più di 34mila città in
190 paesi.
Gli iscritti al portale (i
cosiddetti “host”) mettono quindi a disposizione la loro casa per ospitare
turisti. Secondo lo studio “Fattore
Sharing: l’impatto economico di Airbnb in Italia”, la società leader
della sharing economy ha contribuito nel 2015 a un beneficio economico complessivo di 3,4 miliardi (0,22% del pil),
supportando l’equivalente di 98.400 posti di lavoro. Nel 2015 oltre 80mila host italiani che hanno accolto ospiti
nelle loro case, hanno
guadagnato in media 2.300 euro all’anno condividendo il proprio
alloggio per 24 notti.
Per Adoc
sono numeri che dimostrano come la sharing economy possa essere un mezzo per la
crescita del Paese, in questo
caso del settore turistico, ma rimane viva la discussione sulla possibile
evasione fiscale da parte degli host. “Affinché
la crescita abbia benefici per tutti i cittadini è necessario valutare la
migliore soluzione per eliminare ogni possibile caso di evasione fiscale, che
andrebbe a penalizzare l’economia”, dichiara Roberto Tascini, Presidente
dell’Adoc.
Allo stato attuale dei fatti, Airbnb
lascia agli host la responsabilità di mettersi in regola con il pagamento delle
tasse locali, assumendo una posizione neutra in tal senso. In Italia, lo ricordiamo, le entrate
derivanti da quest’attività devono essere inserite nella dichiarazione dei
redditi, sotto la voce “Redditi Diversi”, cumulandosi con gli altri
eventuali redditi percepiti, su cui verrà calcolata la tassazione Irpef.
Ma quanti
effettivamente lo fanno?
Nonostante non ci siano dati certi a
riguardo, è presumibile pensare che la percentuale di “furbetti” sia più alta
di quanto si potrebbe sperare. Il disegno
di legge sulla sharing economy prevede che ai redditi fino a 10mila euro
si applichi un’imposta pari al 10% mentre i redditi superiori a 10mila euro
devono essere cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo,
applicandovi l’aliquota corrispondente. I gestori dovrebbero poi operare in
qualità di sostituti di imposta degli utenti operatori e, se risiedono
all’estero, dotarsi di stabile organizzazione in Italia, comunicando i dati
all’Agenzia delle Entrate sulle transazioni economiche, anche laddove l’utente
operatore non percepisca reddito dalle attività svolte.
“Comprendiamo che definire con unica
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disposizione normativa un universo molto frammentato come quello della sharing
economy sia complesso ma occorre adoperarsi affinché i cittadini vengano
tutelati anche in questo settore”, conclude quindi Tascini.
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