Quel fenomeno dei Subsonica
Transcript
Quel fenomeno dei Subsonica
SPETTACOLO 24 OTTOBRE 2014 www.leggimionline.it IX Un intero ventennio senza mai un momento di stanca per il fenomeno underground degli anni Novanta Quel fenomeno dei Subsonica I appena acquistato una copia dell'ultimo cd per ottenere il fatidico pass, un braccialetto rosso per mettersi in coda e accedere poi all'area riservata all'incontro con la band, giusto il tempo di una foto, una firma scarabocchio sul cd e via andare. I locali della Feltrinelli sono stracolmi, soprattutto di giovanissimi. Considerato che è più il tempo impiegato dalla band a dedicarsi al firmacopie che quello utilizzato dalla stessa a suonare la propria musica rimane poco altro da aggiungere. Lasciamo al lettore le proprie conclusioni. M.S. Subsonica nascono a Torino nel cuore degli anni Novanta come fenomeno underground, arrivano infatti dalle cantine dei Murazzi, non hanno santi in paradiso e riescono in pochi anni a farsi portavoce di un'intera generazione proponendo un mix vincente di rock ed elettronica unito a testi mai banali e attenti a tematiche sociali e spesso controverse. Una delle poche band italiane provenienti dal circuito alternativo, insieme a Verdena, Afterhours, Massimo Volume e poche altre, capaci di cavalcare l'onda di un intero ventennio senza mai un momento di stanca. Ma dopo vent'anni forse anche i più oliati e ben congegnati meccanismi cominciano ad accusare i contraccolpi della routine e dello stress da music business. Giunta alla sua settima fatica, Una nave in una foresta, la band torinese decide di intraprendere un tour promozionale in giro per le Feltrinelli di alcune città in giro per lo stivale, toccando Catania mercoledì 8 ottobre. L'evento in questione, proposto come presentazione ufficiale del disco, finisce piuttosto per configurarsi come un'operazione per lo più di chirurgico marketing. Dopo alcune brevi e rituali domande rivolte da un giornalista alla band, si passa subito allo show- case, ma i cinque torinesi non si sprecano e liquidano in appena venti minuti la performance con l'esecuzione di cinque brani, tre nuovi e un paio di evergreen come Istrice e Tutti i miei sbagli. Non c'è più tempo e il firmacopie incombe. Bisogna infatti lasciar spazio a tutti i fan e le fan che hanno «E immediatamente dopo ci fu un terrificante ruggito tutt’intorno a noi e il cielo si riempì di enormi pipistrelli strillanti in picchiata sulla nostra macchina, la quale filava a centosessanta all’ora verso Las Vegas con la cappotta abbassata. E una voce gridava: “Santiddio! Cosa cazzo sono questi animali?”. Poi tornò la calma. Il mio avvocato si era tolto la maglietta e si versava birra sul petto, per facilitare l’abbronzatura. “Cosa cazzo urli?” brontolò…». (Hunter S. Thompson: Paura e Disgusto a Las Vegas – trad. Sandro Veronesi – Bompiani 1996, pag. 11). L’edizione originale, in due puntate, è del 1971, da parte della rivista “Rolling Stone”. Quest’inizio già fa capire quale spirito animerà tutto il resoconto-romanzo. Infatti, subito dopo, l’autore precisa che lui ed il suo avvocato, un corpulento samoano, paranoico e sparaballe, sono in viaggio verso Las Vegas perché è stato incaricato di scrivere un pezzo sulla “Mint 400”, una corsa strampalata nel deserto voluta dal plurimiliardario D.E.Webb. La maggior parte dell’anticipo ricevuto viene subito spesa per l’acquisto di un’incredibile congerie di sostanze stupefacenti e simili «Il baule della macchina sembrava un laboratorio mobile della narcotici…» (Hunter S. Thompson: Paura e Disgusto a Las Vegas – trad. Sandro Veronesi – Bompiani 1996, pag. 12) dei quali i due ne fanno allegramente uso e consumo per tutto il viaggio ed il soggiorno. Ma prima d’inoltrarci nei meandri di quello che è stato definito una “Divina Commedia alla mescalina”, è doveroso inquadrare brevemente l’autore: H.S. Thompson. Giornali- Uno spunto per la lettura. Un percorso lungo le vie più buie di musica e letteratura I Subsonica Tracce lievi come un soffio di vento, ma capaci di trasportare con passo lieve in un mondo altro I Fogli sparsi di Cristina Amato Immaginate un mucchio di fogli, alcuni un poco ingialliti dal tempo; sono tanti, affastellati disordinatamente su una libreria invisibile agli occhi degli altri. Solo Alice riesce a vederla, questa libreria. Sta chiusa nella sua mente, al riparo dall’oblio che tutto distrugge. I “Fogli sparsi” volteggiano come sospinti da un respiro, prendono vita, si adagiano accanto a lei che, minuziosamente, dà loro un ordine. Li rilegge, li mette da parte l’uno sull’altro, li lega. Li allaccia con il nastro della memoria e ne fa un libro. Il libro della sua vita. Ma Fogli sparsi (Inkwell edizioni) non è un’autobiografia, non ne ha la stesura cronologicamente compatta; è piuttosto il disvelamento delle emozioni, delle malinconie, dei rimpianti incolmabili che abitano dentro di lei, compagni fedeli di tutta una vita. Alice è stata giovane in “Ogni tanto mi tolgo gli occhiali” (Inkwell edizioni), esordio letterario di Cristina Amato. Abbiamo imparato a conoscerla e ad amarla, in quel libro: allegra e Cristina Amato pensosa, grintosa e ironica. E anche fragile e incerta, come si è, spesso, quando gli anni che ci portiamo addosso sono pochi. Ora siamo di fronte a un’altra Alice, l’Alice che ha scelto di essere questa donna che leg- giamo. Forte delle esperienze e, al contempo, fragile nel ricordo di ciò che sarebbe potuto essere diversamente. Se solo non avesse scelto, se solo si fosse lasciata afferrare dal corso degli eventi che hanno caratterizzato la sua esistenza. La cognizione del tempo irrimediabilmente svanito; la cognizione di amori negati e mai vissuti nella loro pienezza; l’eco sommessa di parole perdute; la visione appannata e sublimata dagli anni di gesti rimossi da sé. Sono le tracce che portano a quell’Alice giovane che abbiamo conosciuta. Tracce lievi come un soffio di vento, ma capaci di trasportarci nel suo mondo di “Fogli sparsi”; armoniosamente capaci di renderci partecipi del malinconico incanto che la sfiora. Lasciamoci sfiorare da Alice, che ci faccia strada con passo lieve nel suo mondo di carta e di parole. Leggiamola allora e tuffiamoci nella memoria insieme a lei: in fondo in ogni donna c’è una Alice e non importa l’età, tutte tenere e coraggiose; passionali e riflessive. Forti e fragili. E maliziosamente, bisogna aggiunge che anche gli uomini potranno, leggendola, imparare qualcosa di una donna. Fogli sparsi di Cristina Amato verrà presentato al pubblico sabato 25 ottobre 2014 alle ore 17.30, alla libreria Mondadori “Diana” in via Umberto 13 a Catania. “Mint 400”, una corsa strampalata nel deserto sta, scrittore, avventuriero, amante delle armi da fuoco e americano fino al midollo (emblematica nel libro la sua esclamazione quando, nel voler cambiare l’auto presa a noleggio gli propongono una Mercedes: “Ho per caso l’aria di un nazista del cazzo? Voglio una vera macchina americana o niente!” Paura e Disgusto a Las Vegas – trad. Sandro Veronesi – Bompiani 1996, pag. 100). Precedentemente Aveva pubblicato un libro nel quale descriveva l’epopea degli Hell’Angels, ma vista dall’interno, infatti si era unito a loro ed aveva partecipato ai loro riti e alle loro scorribande per poi descriverli in Hell’s Angels: A Strange and Terrible Saga of the Outlaw Motorcycle Gangs(1966). Con “Paura e Disgusto…” conia il termine “Gonzo Journalism”, etichetta che classifica il suo modo di fare giornalismo e, cioè, non un resoconto dei fatti quanto più obiettivo ed oggettivo possibile, bensì l’avvenimento narrato secondo il proprio, personalissimo punto di vista (mediato magari dallo stupefacente di turno appena assunto), ed utilizzando il modus tipico della narrativa. Il “gonzo journalism” fu considerato, quindi, come una branca dell’allora nascente “new Journalism” americano. Non tragga in inganno il termine “gonzo”, che qui da noi intende stupido, sprovveduto, invece, in questa accezione la traduzione più appropriata che ne viene data è di “giornalismo paraculo”. Ma torniamo al libro. Si parte, quindi, con un viaggio al limite del deserto da Los Angeles fino a Las Vegas, condotto su una decappottabile piena zeppa di stupefacenti, con un nastro che continua a “bombardare” “Sympathy for the Devil” in contrasto stridente con la radio, anch’essa sparata a palla, condotta da due figuri strafatti che non fanno altro che terrorizzare autostoppisti, fingersi calati in una missione importante e imbrogliare chi gli capita a tiro per non far capire il loro effettivo stato ed ottenere quello che, al momento, il loro capriccio gli detta. Alla fine della fiera, della “Mint 400” vedono sì e no il polverone della partenza e nient’altro, ma riescono ad ottenere un altro incarico (su interessamento dell’avvocato) che, guarda come si combinano a volte le cose, ha il sapore di una feroce beffa: partecipare alla conferenza dei procuratori distrettuali antidroga!!! Infatti, adesso il problema diventa come poterlo fare senza farsi scoprire da quelli che, alla luce dei fatti, sono i loro più acerrimi nemici: “L’idea di farsi di gas esilarante nel bel mezzo di una conferenza di procuratori antidroga aveva un fascino assolutamente perverso:” scrive Thompson, “Ma non il primo giorno, pensai. Serbalo per dopo. Non era il caso di farsi arrestare e internare prima ancora che la conferenza cominciasse.” (Hunter S. Thompson: Paura e Disgusto a Las Vegas – trad. Sandro Veronesi – Bompiani 1996, pag. 97). Questa parte del libro è quella più divertente e, allo stesso, tempo quella più inquietante e, in certo qual modo, anche più riflessiva. Thompson è un virtuoso della parola. Lo stile è scorrevole, accattivante e coinvolgente, espresso in una sorta di narrazione alla “hard boiled” combinata ad una disincantata vena ironica. Si prendono di mira i rappresentanti dell’establishment (i poliziotti, i procuratori distrettuali, ecc. che vengono più volte definiti “Maiali”, ma anche chi genericamente gestisce qualcosa ed è troppo “quadrato” ) e come sottofondo vengono riportate le notizie di quegli anni, dalla guerra del Vietnam alla presidenza Nixon, dai disordini di Chicago cantati da C.S.N.&Y. ai fatti di Altamont, epilogo dell’affondamento della protesta giovanile. Siamo sul finire degli anni 60 ed il cosiddetto “sogno americano”, (semmai sia veramente esistito) sta scricchiolando, mostrando tutta la sua inconsistente struttura, imbellettata da una facciata falsa e fuorviante. Ed una delle chiavi di lettura del libro è proprio questa, una ricercadenuncia del crollo di quel sogno (o di quello che dovrebbe esserlo), della sua ipocrisia, nonché il reso- conto delle disillusioni che sta seminando e delle innumerevoli “vittime” che si sta lasciando dietro. Concludo con questa crudele riflessione che l’autore fa sul giornalismo: «La stampa è una congrega di checche crudeli. Il giornalismo non è una professione né un mestiere. E’ solo una modesta trappola per coglioni e sbandati – un falso portone sul retro della vita, una miserabile fossa biologica nelle grinfie degli ispettori edili, ma abbastanza profonda perché un ubriacone ci si possa raggomitolare dentro e masturbarcisi come una scimmia nella gabbia» (Hunter S. Thompson: Paura e Disgusto a Las Vegas – trad. Sandro Veronesi – Bompiani 1996, pag. 185). Il libro si apre con una dedica a “Mr Tambourine Man” di Bob Dylan: e già questo dice tutto… Infine alcune notizie su Thompson ed il suo libro. L’autore è morto il 20.02.2005 con un colpo di arma da fuoco. Ufficialmente è stato detto che si sia trattato di suicidio, però pare che avesse confidato, poco prima, al suo amico e collega Paul William Roberts, di lavorare ad una inchiesta per la quale poteva essere tolto di mezzo e l’uccisione camuffata da suicidio: è vero, oppure già meditava il suicidio ed ha voluto ammantarlo, visto il tipo, di un caso di “cospirazione” (molto di moda di questi tempi…)? Probabilmente non si saprà mai ed il misterò alimenterà il culto di questo personaggio particolare. Dal libro, nel 2011, è stato tratto un film, interpretato da Johnny Deep, dal titolo “Paura e Delirio a Las Vegas”, distribuito in Italia nel 2012. Alfonso Di Mauro