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Il club dell’1% nel potere delle lobbies
50
August 2015
Author:
Maria Veronica Camerada
Language:
Italian
Keywords:
Lobbies
Inequality
Governance
ISSN: 2281-8553
© Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
ABSTRACT
The report examines the system of socio-economic inequalities that
characterizes industrialized societies, observed jointly with the
lobbying carried out by large pressure groups.
Starting from the issues related to the high instability and volatility in
our markets, we analyze the results produced by the research conducted
mainly by four authors (Stiglitz, 2013, Piketty 2014, Saez and Zucman
2014) to highlight the structural weaknesses of public governance,
inside which, often, the major stakeholders operate in the absence of
proper regulation.
It explores the close relationship between the political and economic
power of the elites, whose lobbies represent the highest point of view.
Lobbies, in fact, define, through their activities, the link between the
public and private spheres of governance.
The State has a duty to define the line between individual interests and
the collective and balance the roles and spheres of the influence of
private stakeholders, in the social interest and overall. In the praxis, in
the various areas in which the economy operates and manufactures
their effects, especially in the financial sector, the level of power
exercised by lobbyists exceeds the limit of the virtuous link between
political and economic spheres, transforming the process of integration
between the two worlds into a systemic dysfunction that generates
socio-economic centers and peripheries that also evolve within the
community, in which strong pluralistic realities legitimately coexist.
The consequences are those of an irreversible fragmentation of society
into two levels: on one hand there is a majority of taxpayers less
exposed to the process of public governance, plagued by recession, the
austerity and predatory behavior generated by this, and on the other
there is the elite patron who lives at the apex of the social scale, within
the major powers, which is a small part of the population.
MARIA VERONICA CAMERADA
Researcher in Economic Geography,
Department of Humanities and Social Sciences – University of Sassari.
[email protected]
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
2
1. I mercati: fallimenti, equità e pari
opportunità
Ai teorici dell’economia liberista spetta
l’arduo compito, dopo gli effetti della crisi
finanziaria del 2007, di elaborare nuove tesi a
sostegno delle riflessioni sull’equilibrio
economico generale1 e sull’efficienza
paretiana del mercato. I posteri deriveranno,
infatti, che negli avvenimenti economici dei
nostri tempi non hanno avuto un ruolo vincente
né il libero gioco degli attori in campo, né la
teorica capacità auto-regolativa del mercato,
né la provvidenziale proprietà compensatrice
della “mano invisibile” smithiana2. Nel mondo
occidentale, la generazione che vive il XXI
secolo, quella del Web 2.0, se pur digitalizzata,
automatizzata e interattiva, patisce oggi, più
che negli ultimi decenni trascorsi, gli effetti
negativi di una società consumistica governata
dalle leggi della democrazia “commerciale”,
che produce leggi e regolamenti favorevoli ai
“Big Players”, «detentori di un potere
inossidabile e opaco» (Fabbri, 2015: 41). Si
sgretolano, in questo modo, quegli ideali tanto
agognati quali equità e pari opportunità, che
dovrebbero rappresentare i pilastri dei progetti
di pianificazione territoriale delle regioni più
evolute del pianeta. Una contraddizione, se si
pensa agli Stati Uniti e al modello di sviluppo
che esportano nel resto del mondo, o ai valori
che li caratterizzano, quali l’American Dream,
che mosse i primi coloni d’oltreoceano3, o allo
slogan “Yes We Can”, che accompagnò la
campagna presidenziale di Obama. Osserva
Stiglitz: «un aspetto dell’equità profondamente
radicato nei valori americani è la presenza di
opportunità» (2013: 16), infatti, proprio negli
USA, sulle fondamenta di questa ideologia è
stata costruita una middle class che ha
occupato un ruolo cruciale nella crescita del
Paese. Fortificata da questa immagine, nel
corso degli anni «l’America ha esercitato una
straordinaria influenza nella diffusione di idee
come l’uguaglianza, i diritti umani, la
democrazia, il mercato» (ivi, 229); nello stesso
momento, all’interno delle proprie mura
Cfr. Stiglitz (2010: 348): «Il filone dominante da oltre
un secolo a questa parte si ispira a quello che viene
definito modello walrasiano o dell’equilibrio generale,
dal nome del matematico ed economista francese Léon
Walras, che per primo lo elaborò nel 1874. Egli
descrisse l’economia come un equilibrio – simile a
quello newtoniano nella fisica – con prezzi e quantità
determinati dal bilanciamento fra domanda e offerta».
2
Nel modello dell’equilibrio generale di Walras i
mercati
rappresentano
luoghi
perfettamente
concorrenziali dove gli agenti economici esprimono le
proprie preferenze in condizione di uguaglianza e
libertà. La combinazione delle variabili “prezzo” e
“quantità” scambiate permettono di conseguire
l’equilibrio generale in tutti i mercati, in quanto la
funzione di domanda tenderà ad uguagliare quella
dell’offerta. In quest’ottica: «Il mercato consiste
semplicemente in una effettiva intercomunicazione fra
compratori e venditori (attuali o petenziali) in virtù della
quale sia gli uni che gli altri sono liberi di fare, di
accettare o di rinunciare alle offerte di scambio».
(Sabattini, 1999: 213). Tuttavia «l’interazione di
mercato non esprime le preferenze individuali (come
afferma l’apologetica liberista), bensì dipende dalle
preferenze e dai vincoli esistenti» (Palermo, 2003: 55).
Ne deriva che la libertà di ciascun soggetto di agire in
un sistema di mercato per il conseguimento dei propri
obiettivi sia, per cause di forza maggiore, estremamente
limitata da vincoli (quali, ad esempio, la capacità di
spesa individuale).
3
Si richiama a tal proposito, un elemento centrale
contenuto nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati
Uniti d’America del 4 luglio 1776, nella quale viene
esplicitato il concetto dell’uguglianza quale elemento
fondante della neonata federazione: «When in the course
of human Events, it becomes necessary for one People
to dissolve the Political Bands which have connected
them with another, and to assume among the Powers of
the Earth, the separate and equal Station to which the
Laws of Nature and of Nature’s God entitle them, a
decent Respect to the Opinions of Mankind requires that
they should declare the causes which impel them to the
Separation. We hold these Truths to be self-evident, that
all Men are created equal […]» Trad: «Quando, nel
corso degli eventi umani, diviene necessario per un
popolo rescindere i legami politici che lo legavano ad
un altro, ed assumere tra le Potenze della Terra la
posizione separata ed eguale alla quale le Leggi della
Natura e del Dio della Natura gli danno titolo, un giusto
rispetto delle opinioni dell’Umanità richiede che essi
manifestino le cause che li costringono alla
separazione. Noi teniamo per certo che queste verità
siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono
creati eguali […]».
1
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3
nascevano
nuovi
privilegi
generati
“dall’azione economica mercatistica” (cfr:
Atlante Geopolitico Treccani, 2014: 14) e,
insieme ad essi, si consolidava una casta di
favoriti, ossia una élite intorno alla quale si
concentravano alti livelli di reddito, mentre la
parte più ampia della popolazione tendeva
all’impoverimento.
Il concetto di equità, da sempre il fulcro
dello storico conflitto tra destra e sinistra,
alimenta un dibattito internazionale mai
interrotto, che si sviluppa intorno ai principi di
distribuzione pura e distribuzione efficiente
(Piketty, 2014). Si argomenta, a tale riguardo,
il ruolo dello Stato e le soglie d’ingerenza ad
esso concesse in termini di intervento politico
programmatico, al fine di soddisfare un livello
di uguaglianza sociale sostenibile che
garantisca a tutti i cittadini pari opportunità,
giustizia contributiva e uguaglianza di
processo (Mozzoni, 2012). Questi elementi,
che afferiscono, rispettivamente, alla posizione
partecipativa iniziale, centrale e finale di ogni
individuo appartenente ad una comunità
organizzata, costituiscono il cardine di
qualsiasi strategia politica orientata alla
coesione e allo sviluppo armonioso ed
inclusivo del territorio.
Nel 1984 Greenwald e Stiglitz, confutando
le presunzioni di base del modello economico
neoclassico eretto sul principio della spontanea
e automatica realizzazione di ottimi livelli di
efficienza allocativa delle risorse, evidenziano,
attraverso il Teorema fondamentale della non
decentrabilità, l’importanza del ruolo dello
Stato quale elemento stabilizzante del sistema
di mercato che, fisiologicamente, tende a
fallire in maniera grave per ordini di fattori
differenti (esternalità, monopoli e asimmetrie
informative), non conseguendo in via
automatica un equilibrio pareto-efficiente.
L’azione pubblica auspicabile non è
meramente legata all’assistenzialismo postcrisi (si pensi, ad esempio, all’operazione di
salvataggio degli istituti di credito praticata dai
governi e dalle banche centrali americane e
europee in seguito al crollo di Wall Street, nel
2008)4, ma è riferibile a quel processo di
regolamentazione ex ante finalizzato alla
creazione di un’economia globale più equa
(Stiglitz, 2013) e all’implementazione di
sistemi orientati ad una corretta distribuzione
delle risorse e alla perequazione fiscale e
contributiva. Il Teorema fondamentale della
non decentrabilità5 anticipa di oltre un
ventennio l’attuale débâcle finanziaria globale,
sulla quale si potrebbe disquisire a lungo non
solo in riferimento ai contenuti e alle cause
della stessa, ma entrando nel merito
dell’inconfutabilità dei fatti che attraverso essa
emergono. Le evidenze sono infatti quelle
correlate all’alta instabilità e volatilità che
caratterizza i mercati, alla carenza di strumenti
di controllo di governance del capitalismo
finanziario e alla crescente disomogeneità
rinvenibile tra le popolazioni che vivono nelle
società industrializzate.
4
Contesualmente la Fannie Mae, la Freddie Mac e l’AIG
venivano nazionalizzate.
5
Per Vasigliardi (2004: 51) il teorema «indica come
un’allocazione efficiente vincolata delle risorse sia
conseguibile dal mercato solo applicando un appropriato
schema correttivo imposte-sussidi. In sostanza, dato un
equilibrio privato esiste un vettore di tasse/sussidi che
lascia inalterato il livello di utilità dei consumatori ed
accresce le entrate dello Stato».
Dopo il crollo di Wall Street, conseguente alla
bancarotta del colosso Lehman Brothers (15 settembre
2008) il Congresso degli USA avviò il Troubled Assets
Relief Program (noto come Piano Paulson), un piano da
700 miliardi di dollari finalizzato al salvataggio (Merril
Lynch, Citigroup) e alla fusione di alcuni Istituti di
credito americani (Bank of America, la Goldman Sachs
e la JP Morgan), cfr. G. Morzenti (2012).
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2. Il club dell’1%
Sebbene alla globalizzazione si possano
attribuire innumerevoli benefici effetti, della
stessa si può affermare che abbia «lasciato
indietro molta gente» (Stiglitz, 2013: 439). Per
Stiglitz (ibidem), questi sono gli effetti
insopprimibili
di una globalizzazione
asimmetrica, ossia di un fenomeno «gestito per
lo più a proprio vantaggio dagli interessi dei
grandi gruppi […]». Nel gioco finanziario
globale «i Paesi hanno fatto a gara per ottenere
il sistema finanziario meno regolato, nel timore
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4
che le imprese finanziarie potessero
squagliarsela in altri mercati. […] Nell’arena
finanziaria, questo si è rilevato particolarmente
costoso e soprattutto cruciale per la crescita
della disuguaglianza […]» (Stiglitz, 2012:
101). Sebbene la crisi del 2008 costituisca «la
prima crisi del capitalismo patrimoniale
mondializzato del XXI secolo […]» (Piketty,
2013: 732), i meccanismi connessi alle
disuguaglianze non sono considerabili
strettamente correlati con essa; le disparità
sono, però, divenute più evidenti con la
recessione, che registra un picco massimo
nell’anno 2009.
Nei fatti, il processo di polarizzazione della
ricchezza inizia ben prima del XXI secolo:
nell’America ante crisi, nonostante il PIL
registrasse saldi positivi, «la maggior parte dei
cittadini assisteva all’erosione del proprio
tenore di vita» (Stiglitz, 2013: 12), e per tale
ragione ricorreva all’indebitamento talvolta
divenendo vittima di comportamenti predatori,
di contro una esigua parte del popolo vedeva
crescere la propria ricchezza. In linea generale,
però, affermano Saez e Zucman (2014), la
concentrazione di ricchezza è cresciuta
particolarmente durante la Grande Recessione
del 2008-2009 e nel suo seguito. Mentre la
crescita possiede, per via del progresso tecnico
ad essa collegato, delle proprietà equilibratici
capaci di portare ad una «riduzione spontanea
delle
disuguaglianze
e
un’armonica
stabilizzazione dei beni» (Piketty, cit.
Kuznets6, 2013: 11), la depressione economica
tende ad accentuare le disparità. Tale
meccanismo risulta pressoché automatico
laddove l’attività di policy non intervenga con
azioni ad hoc capaci di compensare le
anomalie prodotte dalle degenerazioni del
capitalismo finanziario incontrollato, che si
propagano epidemiologicamente nelle varie
economie del mondo, per effetto della
globalizzazione.
L’azione politica, a tutela dell’architettura
democratica delle società occidentali,
dovrebbe intervenire operando su diversi
fronti. In prima istanza, ha l’onere di
riequilibrare le disparità di trattamento
salariale e ridurre la concentrazione del
capitale (nonché di rendimento dello stesso); in
secondo luogo deve operare sul fronte della
redistribuzione, al fine di garantire da una parte
una tassazione proporzionale al reddito
conseguito, dall’altra pari opportunità in
termini di accesso ai servizi pubblici
fondamentali
(sanitari,
pensionistici,
dell’istruzione, ecc.).
La questione dell’ineguaglianza nel
trattamento salariale rispecchia un’evoluzione
socio-economica che inizia negli anni ’70 e
caratterizza il XXI secolo. Tale fenomeno è
definito da Piketty (ivi, 462), «l’avvento dei
superdirigenti». Le differenze retributive tra
classi di lavoratori assumono valori mai
raggiunti in passato: rispetto agli operai, i
manager delle maggiori compagnie USA «nel
corso del primo decennio del ventunesimo
secolo hanno ricevuto salari 200 o 400 volte
più alti. Tra le 100 aziende più grandi della
Gran Bretagna (FTSE 100 companies), la
media delle paghe dei manager è stata circa
300 volte più alta del salario minimo» (Pickett
and Wilkinson, 2014: 11). Anche il sistema di
remunerazione del capitale ha una storia che si
perpetua nei secoli, e segue una dinamica
sempre uguale e perversa: il tasso annuo di
rendimento da capitale (r) è costantemente
maggiore del tasso di crescita (g), da cui r > g,
determinando forti diseguaglianze in termini di
concentrazione e accumulazione della
ricchezza (ivi, 554) (Fig. 1.2).
6
prime fasi di sviluppo, quando il reddito pro capite
cresce, aumentano anche le disuguaglianza di reddito; le
stesse tendono a ridursi nelle fasi successive dello
sviluppo per effetto di una migliore distribuzione del
reddito.
L’autore fa riferimento alla curva di Simon Kuznets,
che correla il tasso dello sviluppo alla variazione della
variabile disuguaglianza. Kuznets nel 1955 ipotizzò una
relazione a forma di U rovesciata tra disuguaglianza di
reddito e crescita economica, sostenendo che nelle
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5
Figura 1.2
Fonte: Piketty, 2013.
Così i redditi più alti, di una piccola casta,
tenderanno a crescere in misura percentuale
sempre maggiore rispetto ai redditi del resto
della popolazione, innescando un moto
perpetuo in tale direzione. «Il potere
economico delle élite e la rivoluzione
conservatrice della politica si sono rinforzati a
vicenda, con un conseguente aumento dei
sistemi fiscali meno progressivi e un
rimpicciolimento del welfare state» (Fitoussi,
Saraceno, 2014: 35). L’ampiezza di questa
élite è stata definita da Stiglitz nel 2011, con la
pubblicazione su Vanity Fair dell’articolo Of
the 1%, by the 1%, for the 1%. L’autore,
spiegando che in America circa l’1% della
popolazione detiene circa ¼ del reddito
nazionale e quindi del patrimonio esistente,
offre al dibattito internazionale le seguenti
considerazioni: «i mercati non funzionavano
come avrebbero dovuto, perché non erano né
efficienti né stabili; il sistema politico non
aveva corretto i fallimenti del mercato; il
sistema economico e quello politico erano
fondamentalmente iniqui» (Stiglitz, 2012: 11).
Nel 2014 gli studi di Saez e Zucman sono
giunti ad una conclusione più estrema: negli
Stati Uniti dal 1986 al 2012 il tasso medio di
crescita reale della ricchezza per famiglia è
stato dell’1,9%, ma questa media maschera in
maniera considerevole l’eterogeneità: per il
90% della popolazione la ricchezza non è
cresciuta affatto, mentre è aumentata in misura
dello 5,3% all'anno per lo 0,1% della
popolazione7. Pertanto, la disuguaglianza nella
ricchezza non riguarda l’1 % verso il 99%,
bensì lo 0,1 % (fig. 2.2) verso il 99,9%. Di
contro, la ricchezza della classe media ha
seguito un andamento rappresentabile
graficamente come una U rovesciata (fig. 3.2):
il picco massimo è riscontrabile negli anni ’80,
si registra in seguito un trend costantemente
negativo (ivi: 24).
7
masksconsiderable heterogeneity: for the bottom 90%,
wealth has not grown at all, while it has risen 5.3% per
year for the top 0.1%, so that almost half of aggregate
wealth accumulation has beendue to the top 0.1%
alone» (Saez e Zucman, 2014: 1).
«The top 0.1% also matters from a macroeconomic
perspective: it owns a sizableshare of aggregate wealth
and accounts for a large fraction of its growth. Over the
1986-2012period, the average real growth rate of
wealth per family has been 1.9%, but this average
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6
Figura 2.2
Fonte: Saez e Zucman, 201.
Figura 3.2
Fonte: Saez e Zucman, 2014.
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7
In merito alla composizione dell’1% più
ricco, l’aspetto sul quale convergono sia
Piketty sia Saez e Zucman è che, attualmente,
il 60-70% di questa casta è costituito da
dirigenti. Ne deriva che la dinamica delle
diseguaglianze inizia con un differenziale in
termini di reddito da lavoro, permettendo, in un
secondo momento, una polarizzazione di
ricchezza capace di determinare la
concentrazione dei redditi da capitale. Un
aspetto non trascurabile della differenza di
reddito riguarda la popolazione più giovane, in
termini di opportunità e flessibilità al
cambiamento. Per spiegare tale fenomeno il
Prof. Alan Krueger8, nel discorso The Rise and
Consequences of Inequality da questi tenuto al
Center of American Progress il 12 gennaio
2012, fece riferimento alla curva del Grande
Gatsby (GG) elaborata da Miles Corak (2012).
La curva GG pone in correlazione il
coefficiente di Gini9 – l’indice della
disuguaglianza calcolato sui redditi delle
famiglie – e l’elasticità in termini di guadagni,
rilevando il grado di mobilità sociale
intergenerazionale che caratterizza i ventidue
Paesi oggetto dello studio di Corak e spiegando
l’attitudine esprimibile da un soggetto nel
passare da una posizione iniziale (quella, ad
esempio, della famiglia di origine) ad una
successiva migliorativa, in relazione al
contesto sociale nel quale vive.
Risulta evidente la correlazione diretta tra le
variabili “mobilità” ed “equa distribuzione del
reddito”, infatti nei Paesi dove il coefficiente di
Gini registra valori elevati (Stati Uniti, Regno
Unito, Francia e Giappone) (fig. 4.2) il grado
di mobilità è inferiore.
Figura 4.2 GG – The Great Gatsby Curve.
8
Alan Krueger, Bendhein Professor di Economia e
Affari Pubblici alla Princeton Univeristy, capo del
Council of Economic Advisers dell’amministrazione
Obama dal 2011 al 2013.
9
Il coefficiente di Gini «misura la mutabilità di un
carattere qualitativo per una distribuzione di valori
monocarattere o univariata, prendendo a riferimento le
frequenze relative. È compreso fra 0 ed 1, estremi che
evidenziano rispettivamente assenza o massima
eterogeneità. L’indice assume un valore elevato quando
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le frequenze relative abbinate alle modalità hanno
numerosità simile o uguale. Al contrario, esso assume un
valore basso nel caso di frequenze omogenee fra le
modalità di carattere osservato […]. L’indice di
eterogeneità di Gini è dato dalla differenza fra 1 e la
sommatoria delle frequenze relative al quadrato […].
L’indice di eterogeneità di Gini è definito dalla seguente
notazione: G = 1 − ∑ f » (Coccarda: 133).
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8
La fig. 5.2 riporta il coefficiente di Gini
calcolato sul reddito disponibile equivalente
(scala da 0 a 100) rilevato nei Paesi europei.
Essa mostra il grado di trasversalità
continentale delle disuguaglianze permettendo
di derivare le regioni a rischio di bassa mobilità
intergenerazionale.
Si evidenzia la migliore performance
registrata nei Paesi del Nord Europa in
riferimento ai quali il coefficiente assume
valori minimi.
Figura 5.2 Coefficiente di Gini
Fonte: D∆T∆LaB.uniss.it. Nostra elaborazione su dati Eurostat 2013 e OECD*.
3. Rappresentanze e alleanze di classe
Sotto il profilo geopolitico il sistema delle
disuguaglianze potrebbe essere osservato
congiuntamente all’attività di lobby svolta dai
grandi gruppi di pressione ed esercitata da
questi per consolidare i propri interessi
all’interno dell’ambiente politico. Le lobbies
costituiscono, infatti, l’anello di congiunzione
tra potere politico e potere economico, e per
tale ragione definiscono, attraverso la loro
attività, il legame tra la dimensione pubblica
(statale) e privata (aziendale) della
governance. Sebbene il dialogo tra il
government e gli stakeholders sia necessario e
funzionale all’implementazione di politiche
condivise
ed
integrate,
la
logica
dell’aggregazione dei gruppi d’interesse, e la
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conseguente pressione da essi esercitata,
trascende, talvolta, agendo nella ridefinizione
della configurazione del mercato, e, di
conseguenza, dei processi redistributivi ad
esso collegati. Allo Stato, che costituisce il
muro di confine sul quale insistono i gruppi di
pressione, spetta il complicato compito di
bilanciare i ruoli e le sfere d’influenza dei
portatori d’interesse privati, riequilibrando
quella struttura che lo vede colonna portante
dell’interesse collettivo, nei vari ambiti in cui
l’economia opera e produce i propri effetti.
Innalzando il livello di potere esercitato dalle
lobbies, si oltrepassa il limite della virtuosa
connessione tra sfera politica ed economica,
tramutando il processo di integrazione tra i due
mondi in una disfunzione sistemica capace di
generare centri e periferie socio-economiche
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9
anche all’interno di comunità evolute, nelle
quali, legittimamente, convivono forti realtà
pluralistiche. La stretta relazione rinvenibile
tra l’attività di lobbying praticata dagli
influenti esponenti delle grandi aziende e la
costante ascesa economica dei soggetti ad esse
collegate, componenti la casta dell’1%
precedentemente citata, è quindi intendibile
come il frutto della concreta evoluzione
dell’economia e della politica contemporanea
(Fotia, 1997: 129) Non a caso, il mondo delle
lobbies occupa un ruolo centrale proprio
all’interno
delle
odierne
democrazie
occidentali, ove le disparità sono più evidenti.
Negli Stati Uniti, infatti, le lobbies
rappresentano una realtà consolidata; l’attività
di promozione dei legittimi interessi riferiti ai
vari gruppi di pressione percorre, negli USA,
una
strada
lastricata
da
imponenti
finanziamenti delle campagne elettorali e
consueti interventi nella programmazione
politica del Paese. In America, i lobbisti
«realizzano analisi e papers su cui deputati e
senatori formano la loro opinione, redigono le
proposte di legge, introducono i consiglieri
elettorali a dossier esclusivi; guidano i
congressisti neoeletti, provenienti dalla
provincia e a digiuno di politica federale;
realizzano incontri tra parlamentari di partiti
diversi; segnalano l’apprezzamento e il
malcontento delle grandi aziende; fungono da
intermediari tra gli oligarchi e i candidati […]
consigliano presidenti e ministri […]» (Fabbri,
2015: 41), ingenerando un circolo vizioso
fondato su un capitalismo clientelare, che
alimenta il sistema delle disuguaglianze.
Mentre negli Stati Uniti l’attività di lobbying
risulta ufficialmente regolamentata da apposite
normative10, revisionate, anche nel corso
dell’anno 2009, per rispondere ad una
crescente domanda di disciplinamento del
sistema a favore della trasparenza, in Europa il
fenomeno delle lobbies vive ancora in una
condizione di generale confusione giuridica,
sebbene nel Vecchio Continente il numero dei
lobbisti e degli investimenti in danaro effettuati
dai gruppi di pressione ammonti a circa 120
milioni di dollari l’anno11 e registri un trend in
costante crescita12. Allo stato attuale, a
Bruxelles si stimano circa 1.500 soggetti che
professionalmente operano nel settore delle
lobbies, mentre presso la Commissione
europea e il Parlamento sono presenti circa
5.000 lobbisti registrati13; i dati risultano,
tuttavia, estremamente approssimativi, in
quanto l’iscrizione all’apposito Registro per la
Trasparenza dell’UE, varato nel 2008, ha
carattere puramente facoltativo14. Ne consegue
che la maggior parte dei gruppi di pressione
operi in un contesto di discutibile trasparenza,
regole confuse e assenza di controlli,
nonostante l’accertata incisività del public
affair da questi praticato sui processi
decisionali di interesse collettivo. L’esempio
più evidente è quello relativo alla potente lobby
finanziaria europea, espressione degli interessi
bancari e assicurativi collegabili ad una classe
di potere che opera su scala transnazionale.
10
11
Cfr Zagarella (2014: 17), «Negli Stati Uniti l’attività
di lobbying trova formale riconoscimento costituzionale
nel Primo emendamento, in base al quale chiunque può
presentare petition al decisore pubblico. Un primo
tentativo di disciplinare in maniera organica il lobbying
risale al 1946, tentativo infruttuoso a causa
dell’ambiguità del linguaggio utilizzato e della
debolezza delle previsioni. La normativa attualmente in
vigore è stata approvata nel 1995: negli anni, il Lobbying
Disclosure Act è stato integrato e arricchito di nuove
disposizioni, anche grazie alle recenti modifiche operate
dal Presidente Barack Obama a partire dal 2009».
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Corporate Europe Observatory, 2014.
Secondo il rapporto di Transparency International
Lobbying in Europe. Hidden Influence, Privileged
Access (2015: 56): «After Washington, D.C., Brussels
has the highest density of lobbyists in the world. The
three core EU institutions – the European Commission,
European Parliament (EP) and the Council of the EU –
are all major targets of lobbying».
13
Dati: (http://www.oecd.org/gov/ethics/lobbying.htm).
14
(http://ec.europa.eu/transparencyregister/public/home
home.do).
12
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10
Figura 1.3 Istituzioni UE operanti nel settore finanziario e attività di lobby
Fonte: Corporation Europe Observatory, 2014.
Di questo gruppo di pressione si rileva la
presenza massiccia, predominante rispetto a
quella dei portatori d’interesse coinvolti in
tematiche
differenti,
riscontrabile
nel
panorama generale del sistema lobbistico,
nonché la forza con la quale lo stesso opera
come contraltare sul fronte della tanto
agognata regolamentazione creditizia a tutela
del mercato, del risparmio e dei risparmiatori.
Nell’UE della post crisi i portatori d’interesse
in materia di finanza, per la maggioranza
collegati a grandi multinazionali di
provenienza britannica, tedesca, francese, e
d’oltreoceano15, hanno presenziato ad una
serie cospicua di consultazioni su tematiche di
primo rilievo (“Fondo Salva Stati” – tassazione
delle transazioni finanziarie, Private Equity
Funds, ecc.) mediante la partecipazione ai vari
gruppi informali di lavoro presenti all’interno
delle varie istituzioni dell’UE (Corporation
Europe Observatory, 2014), secondo la rete
relazionale rappresentata nella figura 1.3. Per
citare un esempio dell’incidenza di tali
portatori di interesse sul processo decisionale
pubblico, si può assume come campione il
tema dei fondi spazzatura e dei private equity
funds: il numero degli emendamenti scritti dai
lobbisti del settore finanziario ad una direttiva
connessa alla suddetta tematica risulta di 900
su 1.700 (ibidem).
In linea generale, ampliando il discorso ai
vari gruppi di pressione, la Transparency
International, al fine di valutare le interazioni
tra attività di lobbying e pubblico governo, ha
condotto uno studio sul territorio UE che
prende in considerazione tre variabili tra loro
collegate: trasparenza – integrità – equità
d’accesso. Nella valutazione integrata di tali
elementi il punteggio medio conseguito dalle
tre istituzioni centrali dell’Unione, Parlamento
– Commissione – Consiglio, è del 19%. La
modesta performance rilevata pone in rilievo
La Corporate Europe Observatory rileva la presenza,
tra gli altri, dei seguenti colossi della finanza: JP
Morgan, Standard&Poor’s, Credit Suisse, Goldma,
Mastercard, Morgan Stanley, Bank of America, Danske
Bank, Deutschebank,
Moody’s, ecc.
15
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American
Express,
UBS,
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l’alto rischio d’indebita influenza politica
esercitabile dai gruppi di pressione che si
assomma alla grave mancanza di adeguate
misure regolamentative e sanzionatorie in
materia. Lo studio disegna, infine, il complesso
apparato lobbistico nelle varie nazioni
europee, evidenziando come in alcuni stati
(Irlanda, Portogallo e Ungheria) lo stesso
esplichi i propri effetti sia all’interno
dell’azione partecipativa formale, (intesa come
rappresentanza ufficiale nelle pubbliche
consultazioni), sia intorno ad essa, ossia nel
reticolo relazionale costruito attraverso
rapporti familiari, lavorativi e di ceto sociale.
Tali legami, che si diramano su scale
geografiche di vario livello gerarchico,
permettono di stabilire alleanze transnazionali
di classe capaci di polarizzare potere e
ricchezza. In questo modo, si realizza un
apparato fatto di pratiche opache capaci di
dividere i cittadini in due categorie: da una
parte vi è una maggioranza di contribuenti
rassegnati, dall’altra una classe formata da
leader autorevoli e influenti. I primi, sempre
meno presenti nel processo di public
governance, condividono le miserie della
recessione e delle misure di estremo rigore
adottate dai governi, per loro è l’Austerity; i
secondi rappresentano l’élite patronale, quella
che definisce i limiti del rigore, per sé e per gli
altri, e che vive all’apice della scala sociale,
all’interno dei grandi poteri. È l’effetto
collaterale
del
sistema
globalizzato/squilibrato, che coinvolge il
destino di tutti, ma con esiti differenti. Ritorna
il concetto della disuguaglianza, dei forti
privilegi e dei rapporti obnubilati con il sistema
della policy, gestito secondo un meccanismo
fatto di “porte girevoli” che alimenta la
disparità di trattamento e accesso alle risorse
tra cittadini.
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