CORSO DI LINGUA RUSSA I AA 2012

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CORSO DI LINGUA RUSSA I AA 2012
CORSO DI LINGUA RUSSA I A.A. 2012-2013
DISPENSE DI STORIA DELLA LINGUA LETTERARIA RUSSA
LA CREAZIONE DELLO SLAVO ECCLESIASTICO E LA SUA FUNZIONE RISPETTO AL RUSSO
Lo Slavo ecclesiastico fu portato nella Rus’ dai paesi Slavi meridionali: Salonicco, la
patria di Costantino (Cirillo) e Michele (Metodio) si trovava in quella parte dell’area
bizantina che era abitata da un’etnia slavo-bulgara. I due monaci mandati in Moravia
nell’863-864 lasciarono un alfabeto (glagolica) e traduzioni di alcuni testi sacri in
quest’alfabeto. La lingua, in parte inventata dai monaci per tradurre le sacre scritture,
era comprensibile a tutti gli Slavi perché nel IX secolo le lingue slave non si erano
differenziate ancora a tal punto da non permettere la comprensione di un dialetto slavo.
Ma già dalla sua diffusione in Rus’ lo Slavo ecclesiastico divergeva dalla lingua parlata
nella Rus’ (si ricordi la frantumazione dell’unità linguistica protoslava, lo slavo
comune, in seguito ai flussi migratori di Unni e altri popoli barbari, creando la
differenziazione linguistica, dapprima nel senso della creazione di tre ceppi linguistici,
corrispondenti alle varianti orientale, occidentale e meridionale, e in seguito alla
disgregazione di queste in dialetti che diedero origine alle lingue slave che oggi
conosciamo). In un secondo tempo si avrà la creazione di uno Slavo ecclesiastico di
matrice russa.
Il Russo e lo Slavo ecclesiastico hanno avuto dinamiche di formazione parallele e
coesistenti per un periodo molto lungo, e il rapporto che si stabilì tra loro fu diglossico,
e non di bilinguismo. La DIGLOSSIA rappresenta quel modo di coesistenza di due
sistemi linguistici all’interno di un unico collettivo linguistico in cui le funzioni di
questi due sistemi si integrano a vicenda, corrispondendo alle funzioni di un’unica
lingua in condizioni normali (non diglossiche); si tratta inoltre della coesistenza di un
sistema linguistico dotto, legato alla tradizione scritta (e in generale associato
direttamente alla sfera di una speciale cultura dotta) e di un sistema non dotto, legato
alla vita quotidiana. (B. Uspenskij, 1983, relazione al congresso internazionale degli
slavisti). A differenza della diglossia, si parla di BILINGUISMO, quando due lingue sono
paritarie e svolgono medesime funzioni. In queste condizioni una delle due è destinata
a scomparire, oppure entrambe le lingue si assorbono a vicenda creando una linguaII. Il
fenomeno del bilinguismo è transitorio per sua natura perché ridondante (la
coesistenza di due lingue con medesime funzioni è inutile), mentre la diglossia è un
fenomeno stabile.
Le funzioni di due lingue, poste l’una rispetto all’altra in un rapporto di diglossia, sono
complementari e non si intersecano quasi mai. La diglossia è caratterizzata da indici
negativi: è inammissibile l’uso della lingua dotta quale lingua di conversazione, è
assente la codificazione della lingua parlata (mentre la lingua dotta viene sempre
studiata), come anche è impensabile l’esistenza di testi paralleli con contenuto simile
(divieto di tradurre testi dotti in lingua non dotta). Nella Rus’ l’opposizione Russo VS
Slavo ecclesiastico si risolveva nell’opposizione linguaggio non dotto VS linguaggio
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dotto. Quest’ultimo era la lingua liturgica, sacra, fatto che ne determinava il prestigio
rispetto alla lingua quotidiana.
Esistono dei documenti redatti in Slavo ecclesiastico prima del X sec., ma la lingua
utilizzata non era così ricca da permettere la traduzione della Bibbia. Fino al X sec. la
lingua di compilazione dei documenti era lo Slavo ecclesiastico, ma dopo la
cristianizzazione si impose il russo. Ci sono pervenuti trattati commerciali con la
Grecia datati 911, 945 e 972 che sono redatti in Slavo ecclesiastico; queste fonti ci
permettono di dedurre che la diglossia russo/Slavo ecclesiastico sia nata come
conseguenza della cristianizzazione della rus’.
Con il regno di Vladimir, lo Slavo ecclesiastico ricevette lo status di lingua di culto,
contrapposto al russo, la lingua profana. Ne conseguì che lo Slavo ecclesiastico non
poteva essere orale (era impensabile conversare in Slavo ecclesiastico). Da questo
momento l’insegnamento dello Slavo ecclesiastico per le persone colte diviene
obbligatorio.
Dopo il battesimo della Rus’ la differenza sacro-profano coincise con la differenza tra
dotto e non dotto e quindi con chi ha un ruolo nella vita pubblica e chi non ce l’ha, ma
non si identifica con la differenza scritto-orale. Una contrapposizione diglossica
paragonabile non esisteva non soltanto in Europa, ma nemmeno tra popoli slavi
occidentali.
Ci sono due tappe di affermazione dello slavo ecclesiastico: la prima coincide con il
battesimo di Vladimir e la diffusione di libri slavi, la seconda con l’istruzione
scolastica imposta da Jaroslav. In questo momento si cominciarono a copiare testi
sacri. Se ne producevano anche di originali russi (il più celebre è Povest’ vremennych
let, la “cronaca dei tempi passati” del 1037) scritti NON in slavo ecclesiastico. Per
questo processo fu fondamentale l’attività traduttoria, principalmente dal greco e dal
bizantino (testi sacri, agiografie, ma anche libri di narrativa e scienze naturali).
Esistevano delle grammatiche di Slavo ecclesiastico perché la lingua colta, anche nella
coscienza comune, non veniva identificata come una lingua naturale, ma veniva
assimilata, come anche le modalità di apprendimento, con quella greca. Dal momento
della cristianizzazione, lo Slavo ecclesiastico si arricchisce continuamente e verso la
metà dell’XI sec. aveva raggiunto un numero di parole simile a quello dei testi greci
tradotti; disponeva quindi di una grande libertà espressiva. Importanza e mole del
velocissimo processo di introduzione dello slavo ecclesiastico nella cultura dipese dal
gran numero di maestri bulgari invitati nella Rus’ sotto Vladimir e Jaroslav.
Il processo di cristianizzazione comincia dall’alto (il battesimo di Ol’ga, che, però. non
venne esteso al popolo, poi Vladimir). Questo processo dapprima non riguardò le fasce
più umili della popolazione: ancora nell’XI sec. c’era il problema se la gente semplice
dovesse sposarsi in chiesa o meno. Soltanto in un secondo tempo il processo si
sposterà dall’alto al basso. L’intelligencija era costituita da monaci, che però non
seguiva le orme del clero occidentale. Per laici la cristianizzazione fu sinonimo di
bizantizzazione; il battesimo della Rus’ poteva essere considerato come un fatto
politico. Abbracciare il cristianesimo introdusse la Rus’ nell’orbita di Bisanzio, e
soltanto le riforme petrine la porteranno in Europa. Ma la visione della
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cristianizzazione come fatto politico aveva valore soltanto per i principi, mentre tutto il
resto del popolo la recepiva come avvenimento esclusivamente religioso.
Dopo la IV crociata e la presa di Bisanzio da parte dei crociati (1212) si interruppero i
contatti con la sfera laica del mondo bizantino, mentre continuarono quelli con la sfera
religiosa ellenizzante. Proprio da questo periodo (XII sec.) ci fu un adattamento dello
slavo ecclesiastico al russo, e si assisté ad una graduale assimilazione del primo al
secondo. Dal XII secolo nei testi la variante grafica russa fu sostituita gradatamente a
quella slavo-meridionale, secondo le regole della lingua viva (quindi, per esempio, la
forma *dj aveva resa di ž, anziché di žd; č veniva scritta al posto di št o šč). Sono
queste deviazioni dalla norma dotta che può avere carattere solo intenzionale; si
notano variazioni fonetiche, l’adattamento alla fonetica russa e l’allontanamento dalle
norme dello slavo ecclesiastico. Questo avveniva perché la lettura della lingua di culto
avveniva soltanto in chiesa e doveva essere uniforme in tutto il territorio. Questi
obblighi comportavano necessariamente una fonetica e una pronuncia simile
dovunque; l’ortografia poteva invece variare perché le fonti erano molto eterogenee.
L’insegnamento dello slavo ecclesiastico avveniva principalmente tramite la lettura,
mentre la scrittura veniva impartita soltanto in alcune scuole; non tutti coloro che
sapevano leggere sapevano anche scrivere. I testi da trascrivere erano imparati a
memoria e la capacità di scrivere dipendeva quindi dalla memoria visiva del singolo
copista, limitata e che quindi poteva facilmente venire corrotta.
L’influsso del russo sullo slavo ecclesiastico fu limitato perché la lingua dotta era
rigorosamente codificata, mentre il russo poteva prendere a prestito da quest’ultima,
perché mancava quasi totalmente di codificazione. Ci fu quindi un forte influsso della
lingua dotta su quella colloquiale, mentre quasi nulla fu l’influenza contraria. Chi
scriveva in russo (e faceva quindi parte della classe colta) era inevitabilmente
condizionato dalle norme dello slavo ecclesiastico. Il russo doveva apparire come una
lingua incolta e rozza e ogni documento redatto in russo come prosastico. La lingua
russa si evolveva sotto gli occhi dei parlanti, mentre la lingua del clero restava sempre
uguale a se stessa. Ancora nel XVII sec. lo slavo ecclesiastico veniva identificato
come una lingua sempre fedele a se stessa, che non poteva essere intaccata dall’uso.
L’uso del russo o dello slavo ecclesiastico era determinato dalla condizione in cui si
poneva lo scrivente (o il parlante). Nel Vangelo di Ostromir (Ostromirovo Evangelie;
1056-1057) il monaco Grigorij, il copista, lasciò delle note a latere in russo, talvolta
correggendo il testo del Vangelo secondo la propria pronuncia dotta. Da questo
particolare si capisce come lo slavo ecclesiastico fosse impiegato, quando l’autore non
parlava a titolo personale, mentre l’uso del russo aveva una valenza personale. La
dicotomia era quindi tra contenuto soggettivo VS contenuto oggettivo (Istina [verità
ispirata da Dio] VS Pravda).
LA SECONDA INFLUENZA DELLO SLAVO MERIDIONALE
Dal XIV sec. si svilupparono tendenze che spingevano nella direzione di una purificazione
dello slavo ecclesiastico dagli elementi russi: si parla di II influenza slavo meridionale
(tendenza arcaizzante della lingua). Questo fenomeno creò i presupposti per il
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passaggio dalla diglossia russo-slavo ecclesiastico al bilinguismo. Il tentativo di
riportare la lingua di culto alla purezza originaria portò a ricercare gli equivalenti
slavo-ecclesiastici dei russismi. Prima un parlante attingeva alla lingua slavoecclesiastica viva, ora il punto di riferimento diventava la lingua russa viva. Il confine
tra la lingua dotta e quella non dotta era definito da regole facilmente assimilabili, ma
dopo la II influenza slavo-meridionale si giunse alla creazione di dizionari russo-slavo
ecclesiastico, che quindi creavano coppie di equivalenti tra le due lingue (čaju-ždu;
oko-glaz). In questo periodo gli slavismi penetrati nel russo avevano un significato
traslato e, laddove coincidevano per significato, divergevano per forma (rožestvoroždestvo), laddove coincidevano per forma, divergevano per significato.
Scomparve quindi l’idea dell’intraducibilità da una lingua all’altra come anche dell’uso
esclusivo di una lingua come afferente esclusivamente alla sfera sacrale. Uno dei
presupposti per passaggio dalla diglossia al bilinguismo fu la creazione di serie
parallele e la possibilità di tradurre da una lingua A a una lingua B, differentemente da
quanto avveniva nel periodo antico. Il russo incominciò a funzionare come sistema
linguistico indipendente ed entrambe le lingue divennero marcate l’una rispetto
all’altra, mentre prima solo lo slavo ecclesiastico era marcato rispetto al russo.
Nello slavo ecclesiastico si tese quindi ad osservare l’orientamento sull’ortografia che
mutava e si distanziava dalla pronuncia precedente (prima l’ortografia si basava sulla
pronuncia dotta), e quindi si creò una distinzione tra la tradizione ortografica e la
tradizione ortoepica. Questo fatto portò alla comparsa del corsivo come scrittura
esclusiva per il russo. Nei secc. XV e XVI questi due sistemi si contrapponevano a
livello ortografico, ma anche a livello di inventario di lettere. L’afferenza allo stile alto
piuttosto che a quello basso (divino/terreno) si estese anche all’alfabeto. Si diffuse
l’insegnamento del corsivo, e conseguentemente, e per la prima volta, l’insegnamento
del russo; questo fatto naturalmente sancì i presupposti per la successiva codifica di
questa lingua. Nella coscienza comune il russo rimaneva sempre attivo, mentre lo
slavo ecclesiastico passivo.
Il passaggio dalla diglossia al bilinguismo avvenne in maniera molto lenta e dapprima
soltanto nella Russia Sud-occidentale. Nella Moscovia resistevano ancora forti
reazioni ai testi scritti in una lingua che non fosse lo slavo ecclesiastico. Qui esisteva
una sola lingua letteraria, mentre nell’area sud-occidentale ne esistevano due: lo slavo
ecclesiastico e la Prosta (o russka) mova. L’aggettivo Russki era un sinonimo di
Prostoj, e non indicava la parlata dialettale, ma la lingua viva della zona sudoccidentale, in parte artificiale, opposta da un lato allo slavo ecclesiastico e dall’altra
alla parlata popolare ucraina, strettamente collegata ai valori culturali del tempo. La
Prosta mova aveva un substrato colloquiale, reso dotto grazie a processi di
slavizzazione delle parole. Alla base della prosta mova c’era la lingua cancelleresca
ucraina. La Prosta mova evolveva, basandosi sulla lingua viva, sebbene tendesse
maggiormente alla standardizzazione, essendo una lingua di cultura codificata. In
definitiva nella Rus’ sud-occidentale ci sono tre lingue che si oppongono: lo slavo
ecclesiastico (Cerkovnoslavjanskij jazyk), la Prosta mova, che si definisce in
opposizione allo slavo ecclesiastico, ma che ha anche coefficienti del polacco e del
dialetto, e la Mova, la lingua popolare, non codificata e in continua evoluzione.
Il bilinguismo in Russia sud-occidentale ricalcava quello polacco/latino in Polonia. Nel
periodo di formazione del polacco si utilizzavano entrambe le lingue, fino a quando la
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lingua nazionale assunse un ruolo egemone e scacciò il latino, che restò confinato
esclusivamente a lingua di culto. Nella Rus’ occidentale avvenne lo stesso con lo slavo
ecclesiastico e la prosta mova. Venivano anche tradotti dei libri in prosta mova dal
polacco. Lo slavo ecclesiastico diventò la lingua dell’elite colta. La scelta di utilizzare
una lingua o un’altra divenne sintomo di diversificazione e stratificazione sociale e lo
slavo ecclesiastico diventò la lingua di conversazioni di seminari ecc., come il latino in
Europa.
Comparvero testi parodistici che facevano uso dello slavo ecclesiastico; questo momento
era impensabile in condizione di diglossia. Comparvero anche traduzioni dell’Antico
Testamento (XV sec.) e del Nuovo Testamento (XVI sec.) in prosta mova e dal XVI
sec. anche testi paralleli in prosta mova e slavo ecclesiastico. Si giunse naturalmente a
una codificazione della prima, prima di tutto con la compilazione della grammatica di
Ioann Uževič (1643), m anche di dizionari slavo ecclesiastico-prosta mova e in
particolare con la grammatica di Meletij Smòtrickij (1619). Lo stesso Smotrickij aveva
portato a termine una traduzione del Vangelo (1616) la cui lingua sembrava
“resuscitare dalla morte” e conferiva pari diritti nell’uso alla prosta mova e allo slavo
ecclesiastico; quest’affermazione implicitamente contiene il riconoscimento dello
slavo ecclesiastico come lingua morta.
La prosta mova restrinse quindi l’ambito d’uso dello slavo ecclesiastico in maniera
sempre più significativa, fino a penetrare nell’uso liturgico. Il riconoscimento di essa
come lingua “viva” si dovette anche alla diffusione delle idee rinascimentali, secondo
le quali la conoscenza di un testo implicava la capacità di ripeterlo con parole proprie.
Lo slavo ecclesiastico, essendo una lingua passiva escludeva a priori questa possibilità.
La prosta mova restrinse il campo d’azione dello SLAVO ECCLESIASTICO e lo pose
alla periferia del processo letterario, al tempo stesso definendo nuovi criteri per lingua
letteraria.
LA TERZA INFLUENZA DELLO SLAVO MERIDIONALE
Storicamente la prosta mova non ebbe quasi nessuna influenza sull’ucraino e sul
bielorusso, ma la ebbe invece sul russo letterario. L’opposizione moderna russo-slavo
ecclesiastico ricalca l’opposizione sussistente nelle terre meridionali del XV sec. tra
prosta mova e slavo ecclesiastico.
Nel XVII sec. la massiccia espansione dei sistemi linguistici dalle terre meridionali in
territorio granderusso ebbe come conseguenza la sparizione della diglossia russo-slavo
ecclesiastico e la creazione di una situazione di bilinguismo. Le riforme nikoniane e
post-nikoniane e la conseguente revisione di testi imposero l’idea, attinta dalle terre
meridionali, della necessità di usare il russo per “correggere” lo slavo ecclesiastico
(questo processo coincide con la conquista dell’Ucraina). La lentezza con cui
attecchirono queste novità è testimoniata dal fatto che in territorio granderusso ancora
nel XVIII sec. i dotti conversavano in slavo ecclesiastico, come ricorda Trediakovskij
in Viaggio nell’isola dell’amore (Ezda v ostrov ljubvi) a proposito del fatto che al
tempo della sua frequentazione dell’accademica greco-latina, 1723-1726 si parlasse
nella lingua della liturgia.
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Dal XVI sec. è attestata in territorio granderusso la comparsa di testi paralleli, abitudine
che creò un parallelismo nell’uso del russo e dello slavo ecclesiastico. Nel 1696
comparve la grammatica di Ludolf, che affermava che un uso eccessivo dello slavo
ecclesiastico nella conversazione produceva un effetto ridicolo, e soltanto quando
vengono toccati argomenti elevati si doveva fare ricorso a questa lingua.
Il russo è ancora relegato a lingua per il popolino. Accanto alla diffusione del russo
“colto”, si cominciano a scrivere testi scientifici in slavo ecclesiastico, come anche
lettere private. Il prostoreč’e (la variante russa della prosta mova) diventa quindi la
lingua letteraria e comprensibile. I testi sono ancora scritti con grosse differenze tra
l’uno e l’altro perché questa lingua non era ancora codificata. Nel XVI sec. non
esistevano stili del prostoreč’e, ma soltanto versioni individuali. Il fatto di conferire a
questa lingua una dignità letteraria la porta ad allontanarsi dallo slavo ecclesiastico. È
ragionevole ammettere la possibilità di un’influenza della parlata sul prostoreč’e. Se lo
slavo ecclesiastico di redazione sud-occidentale influì direttamente sullo slavo
ecclesiastico di area granderussa, la prosta mova, inizialmente introdotta nella Rus’
moscovita come lingua di cultura, non ebbe un terreno sul quale impiantarsi, e venne
quindi assunta com’era. Contemporaneamente compare però il concetto di prostoreč’e,
una forma particolare di lingua letteraria. Dagli anni Ottanta del XVII secolo ci furono
richiami sempre più forti a usare il russo.
Nel 1683 A. Firsov tradusse il salterio in una lingua che egli stesso definì russkij jazyk.
Questa traduzione era resa necessaria per un’esigenza di maggior intelligibilità del
testo. Lo slavo ecclesiastico veniva quindi recepito come una lingua addirittura poco
comprensibile. Il tentativo di tradurre un testo sacro in russkij jazyk è un chiaro indice
di bilinguismo e della coscienza di poter tradurre testi da una lingua all’altra. Si formò
quindi il russkij jazyk, contrapposto allo slavo ecclesiastico. In questa differenza per la
prima volta viene vista un elemento che conferisce valore al russkij jazyk. Esso era
lontano dalla lingua viva, aveva ancora un carattere artificiale, tant’è che nel 1717 si
decise di tradurre la Geographia Generalis di Varenio in slavo ecclesiastico, ma Pietro
I la volle in russkij jazyk: la traduzione fu affidata a un greco (Sofronij Lichud; 1718),
poiché uno straniero aveva meno difficoltà di un erudito russo a scrivere in russo, in
quanto non subiva l’influenza dello slavo ecclesiastico per la traduzione di un testo
colto.
Nel 1720 fu pubblicata la prima edizione dell’abbecedario di F. Prokopovič, dagli anni
Trenta del XVIII sec. A. Kantemir incominciò a scrivere le proprie satire, in cui viene
definita chiaramente la necessità di usare una “lingua semplice”. Già dal XVII sec. ci
fu la comparsa di parodie in slavo ecclesiastico, come A servizio della bettola (Služba
kabaku, 1666), sulla falsariga di liturgie dei bevitori latini.
Ci si trovò quindi di fronte alla necessità di definire e codificare il russo, di teorizzare la
differenza tra russo e slavo ecclesiastico. Si crearono libri con colonne traduttive, ma
anche elenchi di parole identiche ed elenchi di parole che divergevano solo per la
pleofonia (questo momento testimonia la coscienza dell’omonimia nelle due lingue).
Polikarpov scrisse un Lessico trilingue (Leksikon trejazyčnyj) che legittimava il russo
come lingua letteraria. Su questa scia comparvero grammatiche con codificazione
delle regole del russo. Una codificazione definitiva per il tempo si ebbe con la
grammatica di Adodurov (1738-1740), destinata ai parlanti nativi.
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Come avvenne per la prosta mova, anche il russo poco alla volta spinse lo slavo
ecclesiastico alla periferia della coscienza linguistica, ponendosi come lingua letteraria
e assunse su di sé le funzioni che precedentemente erano prerogative dello slavo
ecclesiastico.
PRODROMI DELLA FORMAZIONE DELLA LINGUA LETTERARIA RUSSA
La formazione della lingua letteraria russa è strettamente legata alle riforme petrine e in
particolare all’introduzione dell’alfabeto civile (Graždanskaja azbuka) da lui voluta:
qui il corsivo veniva associato al russo, in quanto più affine ai caratteri latini di quanto
non lo fosse la Glagolica, e quindi più vicina alla scrittura delle lingue europee. Il
russo era recepito come lingua densa di prestiti e aperta alle influenze esterne,
contrariamente a quanto avveniva per lo slavo ecclesiastico. Questa scelta ebbe un
forte valore culturale e simbolico. È significativo anche il fatto che l’alfabeto sia
definito Graždanskaja, quindi in rapporto di esclusione con la lingua religiosa: come i
libri religiosi non potevano essere scritti in russo, così i libri civili non possono essere
scritti in slavo ecclesiastico. Pietro voleva limitare sempre più la possibilità di
movimento della chiesa. La nuova lingua letteraria coincideva quindi con la
formazione della nuova Russia, la cui nuova cultura avrebbe dovuto screditare la
vecchia. La creazione di nuova lingua era quindi dettata non da esigenze pratiche, ma
ideologiche, dalla committenza sociale.
Trediakovskij fu autore di dichiarazioni programmatiche su nuova lingua. Egli sostenne
che ci si doveva orientare consapevolmente verso le lingue occidentali, per le quali
l’uso parlato è primario. La lingua doveva secondo lui basarsi sull’uso naturale; il
russo si scrive come si parla e non è magniloquente come la lingua della chiesa. Era
questa una dichiarazione di fedeltà al programma petrino; i trattati ortografici
dell’epoca, come anche l’insegnamento del russo era spalleggiato dalla corrente
riformista cui apparteneva Trediakovskij. Grazie a loro la lingua nazionale entrò nel
novero delle lingue di cultura, vive, delicate (nežnye), contrapposte alle lingue morte,
dure (tverdye). Secondo Trediakovkij la scelta di una lingua e di codice è dettata da
considerazioni innanzitutto estetiche (dal gusto). Questa definizione fu, di fatto, la
prima caratterizzazione negativa dello slavo ecclesiastico e dell’utilizzo di slavismi
(anche Adodurov sosteneva quest’idea, che espresse nella Breve grammatica del
1731); Trediakovskij e gli altri codificatori volevano codificare il russo secondo il
modello adottato per il francese. La contrapposizione tra russo e slavo ecclesiastico
veniva assimilata alla dicotomia che opponeva le lingue romanze e il latino in
Occidente. In questo periodo il russo incominciò a essere influenzato dal tedesco, ma
nella lingua viva penetrarono anche molti gallicismi, soprattutto nella pratica
linguistica dei nobili. Aumentarono anche i maccheronismi tedeschi e francesi.
Nello Slovo o vitijstve (Discorso sull’eloquenza; 1745), Trediakovskij esaltò il francese
come lingua nella quale erano scritte tutte le produzioni dello stato e affermò
nuovamente che il russo doveva orientarsi sull’uso e non su regole artificiali,
ribadendo quindi la superiorità delle lingue vive è la necessità di orientarsi sull’uso
pratico. Egli affermava che era necessario scrivere come si parlava, cioè il primato
dell’uso colloquiale. In Russia però non esisteva nessun dialetto sociale con una certa
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dignità che avesse fatto in tempo a svilupparsi dopo la scomparsa della diglossia,
mentre l’idea di prendere ad esempio uno dei dialetti locali era estranea alla cultura
russa. I teorici della lingua si trovarono quindi di fronte alla necessità di fissare
dapprima la lingua colta. Era impensabile voltare le spalle alla tradizione precedente in
quanto era l’unica esistente e l’unica sulla base della quale sarebbe stato possibile
creare una lingua letteraria. Se l’orientamento sul parlato poteva andare bene per la
prosa, per la poesia non era possibile operare in questo modo. Trediakovskij già in
Novyj i kratkij sposob k složeniju rossijskich stichov (Nuovo breve metodo per la
composizione dei versi russi; 1735) accettò gli slavismi nel discorso poetico come
elemento necessario, in quanto gli slavismi si confacevano al contesto elevato, come
era quello della poesia.
I testi scritti secondo la concezione trediakovskiana erano in realtà lontani dal parlato a
avvicinavano la situazione della lingua letteraria a quella della diglossia precedente.
Egli cercò quindi un compromesso che potesse distanziare la lingua letteraria da quella
parlata sull’esempio dell’opposizione russo-slavo ecclesiastico; voleva di fatto ricreare
una situazione diglossica per la lingua civile.
Nella seconda tappa della sua speculazione attorno alla ricerca della lingua russa letteraria
si orientò quindi sullo slavo ecclesiastico, smentendo le sue affermazioni giovanili. A
differenza del francese o del tedesco, sosteneva, il russo ha una propria tradizione
dotta e autoctona, e da essa bisogna partire per creare una nuova lingua dotta. La
relazione tra russo e slavo ecclesiastico risultava quindi ineliminabile. La lingua aveva
un doppio uso: letterario (slavorusso, artificiale e vicino allo slavo ecclesiastico) e
colloquiale. La stessa denominazione slavorusso indica la parentela di questa lingua
con lo slavo, di redazione russa.
Secondo la concezione del giovane Trediakovskij la combinazione di slavo e russo dava
effetti maccheronici, mentre nella seconda fase della sua speculazione li accostava
senza notarvi nulla di inusuale. La slavizzazione della lingua letteraria procedeva
dall’eliminazione dei prestiti di qualunque genere.
SUMAROKOV prosegue la ricerca partendo dai postulati sostenuti dal giovane
Trediakovskij.
LOMONOSOV, il maggior teorico del XVIII secolo, compose una Rossijskaja Grammatika
(1757), in cui stabiliva due stili per la lingua, alto (vysokij, važnyj) e basso (prostoj
štil’, prostoj slog), o prostoreč’e. La scelta del registro linguistico doveva essere
determinata dal genere cui afferiva l’opera. Lomonosov non definì una lingua, ma la
lingua veniva scelta in base allo stile utilizzato. Nello stile elevato c’erano più parole
derivate dallo slavo ecclesiastico, nello stile basso più parole russe. L’appartenenza di
una parola a uno stile piuttosto che a un altro divenne quindi conditio sine qua non per
scrivere correttamente. Era logicamente ammessa anche la possibilità della traduzione
da uno stile all’altro. Se la lingua letteraria russa si presentava come un riflesso del
bilinguismo russo-slavo ecclesiastico, le due lingue concepite da Lomonosov
risultavano essere sistemi equivalenti, non regolate da un rapporto di discendenza
dell’una dall’altra. Lomonosov sottolineò il carattere implicitamente maccheronico
della lingua russa.
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L’anno successivo scrisse il trattato O pol’ze knig cerkovnich (Sull’utilità dei libri
ecclesiastici; 1758), un manifesto programmatico sui principi della formazione della
lingua letteraria. Qui propose tre stili, definiti secondo la classificazione del materiale
lessicale di ognuno di essi. I tre stili erano quindi un riflesso delle parole usate, che
possono essere:
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Parole Slavorusse (Slovenorossijskie)
Parole Slave (Slavenskie), cioè parole slavo ecclesiastiche, ma comprensibili a tutte
persone alfabete. Non veniva ammesso l’uso di parole troppo obsolete e di uso
estremamente raro.
Parole russe popolari (Rossijskie prostonarodnye), esclusive della conversazione.
Non era ammesso l’uso delle prezrennye slova (parole disprezzabili), che non
appartenevano in alcun modo alla lingua letteraria.
Sulla base di questa classificazione enucleò la teoria dei tre stili, così definiti:
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STILE ELEVATO in cui comparivano parole del I e II tipo, ma non c’erano parole
del III tipo. Questo stile doveva essere impiegato in poemi eroici, odi o orazioni.
STILE BASSO, che comprendeva parole del I e III tipo, ma escludeva quelle del II
tipo. Questo stile doveva essere impiegato in commedie, epigrammi buffi, canzoni,
descrizioni in prosa di fatti quotidiani.
Dello STILE MEDIO (o MEDIOCRE: posredstvennyj) facevano parte parole del I,
del II e del III tipo, e doveva essere impiegato per tutte le opere teatrali, tranne le
commedie, per le satire, le egloghe, le elegie e le descrizioni in prosa di fatti
ragguardevoli. Lo stile medio accoglie in sé parole di tutti e tre i tipi e sarà quello
che diventerà neutrale.
Trediakovskij voleva livellare la lingua, Lomonosov armonizzare il testo. Il livellamento
stilistico avveniva ora nell’ambito di un testo (o di un corpus di testi). Ora ogni parola
doveva dipendere dal genere cui il testo afferiva.
Lomonosov era il compromesso della battaglia che nel XVIII sec. vedeva la definizione
della lingua letteraria come scontro tra la tendenza alla slavizzazione e quella alla
russificazione.
IL XIX SECOLO E LO SCONTRO TRA ARCAISTI E INNOVATORI
Nel XIX secolo si arrivò all’idea che la lingua colloquiale e la lingua scritta dovessero
confluire a formare un tutt’uno armonico, secondo il principio naturale. Quest’idea era
meno utopica rispetto al tempo di Trediakovskij, in quanto il parlato era infarcito di
europeismi, e quindi orientarvicisi diventava più facile.
L’inizio del XIX sec. vide l’opposizione tra ARCAISTI, la figura più eminente dei quali era
Šiškov, e di INNOVATORI, tra cui spiccava la figura di Karamzin. I primi si rifacevano
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alle teorie del Trediakovskij maturo, i secondi a quelle della prima fase della sua
speculazione. Inoltre, a differenza della situazione della prima metà del XVIII secolo,
si era formata una tradizione di letteratura originale in russo cui fare riferimento,
mentre settant’anni prima la letteratura era essenzialmente in slavo ecclesiastico.
Šiškov e i suoi insistono sulla specificità del russo, che non è non paragonabile a quella
dell’Occidente. Rigettano quindi la lingua parlata e si orientano sullo slavo
ecclesiastico. La lingua parlata è per principio opposta a lingua scritta e la specificità
del russo è determinata dal suo rapporto con lo slavo ecclesiastico. In questo senso le
lingue europee, come il francese, sono più povere del russo perché mancano dello stile
elevato. Lo slavo ecclesiastico viene definito lingua pura proprio perché epurato dai
prestiti. Era quindi impensabile mescolare russo e slavo ecclesiastico, così come non
potevano essere confuse le lingue utilizzate nello scritto e nel parlato. Per gli arcaisti il
russo e lo slavo ecclesiastico sono in sostanza la stessa lingua, ma il parlato ha
deteriorato la propria matrice slava, mentre lo scritto deve recuperarla. Proprio
l’isolamento storico dello slavo ecclesiastico rappresentava, secondo i rappresentanti
di questa corrente, l’ideale di purezza linguistica cui rifarsi. Gli arcaisti compirono
operazioni di onomatopoiesi, cioè di creazioni di parole tipicamente russe in
sostituzione di quelle utilizzate, secondo principi di quali avrebbero dovuto/potuto
essere le parole russe “vere” (korennye russkie slova) se non fossero state corrotte
dall’uso e dai prestiti. Attuano quindi un’arcaizzazione artificiale, ricercando le radici
nel folclore e nella mitologia. Gli arcaisti si attenevano all’idea che lo slavo
ecclesiastico fosse “lingua slava originaria”, mentre i karamzinisti contestavano
quest’idea, affermando che anche nello slavo ecclesiastico era un substrato notevole di
prestiti greci, e che quindi parlare di lingua aprioristicamente pura non aveva senso.
Secondo gli innovatori, la normalizzazione della lingua scritta era strettamente legata al
perfezionamento del parlato. Il parlante colto doveva esprimersi secondo gusto,
secondo il “parlare in modo piacevole”, cioè parlare come le persone di buon gusto.
Karamzin e i suoi accettavano l’evoluzione della lingua viva come un processo
inevitabile, come anche i prestiti, necessari per far parlare i russi “di tutto e in russo”.
Gli slavismi venivano giudicati negativamente, mentre i prestiti sono segno della
lingua parlata dall’elite. Gli slavismi erano rigettati come vecchiume. Se per gli
innovatori lo slavo ecclesiastico era vecchiume, il russo era invece simbolo di
democratizzazione, di una cultura che poteva vantare contatti con la sfera
internazionale. La dicotomia russo VS slavo ecclesiastico veniva reinterpretata come
opposizione di internazionale VS nazionale, di europeo VS nazionale.
Entrambe queste tendenze miravano alla purezza dello stile, ma per gli šiškoviani la
purezza era da ricercare nello slavo ecclesiastico, nel rigetto dei prestiti e nella purezza
linguistica originale; il russo e lo slavo ecclesiastico erano per loro la stessa lingua. Per
i karamzinisti l’ideale di purezza coincide con l’uso e lo sviluppo naturale della lingua,
con la prevalenza del parlato sullo scritto, l’eliminazione degli elementi libreschi e
eccessivamente dotti; del russo facevano parte anche i prestiti, mentre lo slavo
ecclesiastico veniva recepito come una lingua straniera. Tanto gli šiškoviani quanto i
karamzinisti si schieravano quindi gli elementi allogeni, ma gli uni li vedevano nella
sincronia, gli altri nella diacronia, cioè gli uni consideravano allogeno ciò che
storicamente non faceva parte della lingua originaria, mentre per gli altri lo era ciò che
era estraneo alla lingua viva.
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ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN
Di fatto la lotta degli šiškoviani era indirizzata contro i gallicismi, mentre quella dei
karamzinisti contro gli slavismi arcaizzanti. Dal punto di vista della resa pratica, i
primi erano in grado di produrre testi non slavizzati che si confacessero al gusto degli
avversari, i quali a loro volta potevano scrivere evitando i prestiti e i gallicismi,
componendo opere accettabili dal punto di vista degli šiškoviani. Si definisce in questo
modo un’ampia zona neutra in cui le due tendenze non erano contrapposte, ma che
anzi ne conciliava l’opposizione.
Nel conflitto di arcaisti e innovatori erano contenute in nuce le conquiste di Puškin, che
accettava entrambe le tendenze, condensandole nel rifiuto della visione negativa degli
slavismi e dell’accettazione di prestiti. Puškin trovò un equilibrio che ancora pochi
anni prima era impensabile. Egli vedeva nel russo la sintesi di due tendenze
linguistiche lontane fra loro: esso è superiore alle lingue europee, in quanto ha
conservato elementi di greco (attraverso lo slavo ecclesiastico), ma appare altresì come
la conciliazione di influenze diversissime. Puškin espresse un giudizio positivo sulle
teorie di Lomonosov, in O predislovii g-na Le Monte k perevodu basen Krylova (Sulla
prefazione del sig. Le Monte alla traduzione delle favole di Krylov, 1825). A
differenza del teorico del XVIII secolo, però, Puškin non accettava la differenziazione
aprioristica degli stili (come peraltro anche i karamzinisti e gli šiškoviani), ma
sosteneva invece che nel testo possono coesistere elementi afferenti a tutti e tre gli
stili. Puškin non mirava a un livellamento linguistico, non si preoccupava di
linguistica, ma della resa pratica del SINGOLO testo letterario; un testo letterario doveva
essere polifonico. Gli strumenti linguistici si fecero artifici letterari, mentre i problemi
letterari ricevettero una soluzione linguistica.
Puškin esordì attenendosi ai canoni dei karamzinisti, ma poi recesse consapevolmente da
tali posizioni. Anche lui concordò che la lingua parlata fosse, e dovesse essere,
differente da quella scritta. Il problema della scelta di registro dipendeva dunque dagli
scopi dello scrivente, che dovevano essere contestuali al testo che produce. In casi
diversi gli slavismi hanno funzioni diverse; nella poesia Bachčisarajskij fontan, la
fontana di Bachčisaraj, di sapore orientaleggiante, entrarono parole caucasiche, che
sarebbero state recepite come prestiti dagli šiškoviani. Gli slavismi, secondo lui
alludevano al contesto biblico, ed erano quindi a proposito in opere, il cui contesto si
richiami alle Sacre Scritture o a un passato molto lontano nel tempo, come nell’Exegi
monumentum, una riscrittura di versi oraziani. Gli slavismi assolvevano per lui anche
alla funzione di straniamento temporale per le opere di carattere storico. Queste parole
assumono quindi una connotazione storico-culturale.
Lo scopo che si prefiggeva Puškin nelle opere di carattere storico non era dare una
sensazione di veridicità storica, ma distanziare il narrato dal tempo in cui veniva
scritto, creando quindi la sensazione di un lasso temporale dal momento in cui
sarebbero state lette. Gli slavismi erano per lui simbolo di determinate posizioni
culturali e ideologiche. Partendo dalle stesse basi teoriche, egli utilizzò gallicismi con
funzione ironica, nella descrizione, per esempio, della superficialità del romanticismo
nel comportamento del rivale di Evgenij Onegin nell’omonimo poema. Per tratteggiare
le caratteristiche psicologiche di un personaggio bastano poche parole, ma chiaramente
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marcate. Le parole di per sé non sono indicative di qualcosa legato al testo, ma il
contesto le rende indici di un senso profondo del testo stesso.
Dopo Puškin le discussioni sulla legittimità di una parola in un testo diventano superate e
oziose.
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