Rigenerazione urbana, cultura e identità - Planum

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Rigenerazione urbana, cultura e identità - Planum
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The European Journal of Planning
Rigenerazione urbana, cultura
e identità
Flavio Camerata1
by Planum, ottobre 2009
(ISSN 1723-0993)
Flavio Camerata collabora alle ricerche del Dipsu, Università Roma Tre; e-mail:
[email protected]
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La questione dell’identità è ampiamente dibattuta quando si parla di rigenerazione
urbana affidata alle politiche culturali. Il riferimento alla cultura (o alla creatività)
infatti è ambiguo e il rischio di arbitrarietà è sempre in agguato. C’è un momento in
cui bisogna decidere quale cultura scegliere tra le tante possibili; proprio la cultura
rischia così di escludere chi non si sente rappresentato da questa scelta, magari a
vantaggio di una classe media dominante più sensibile e ricettiva, oltre che più
ricca.
In effetti, sono proprio i casi in cui si fa affidamento a grandi operazioni di
marketing urbano a essere i più criticati. Alcuni esempi di città designate “Capitale
Europea della Cultura” sono emblematici di come gli iniziali investimenti, troppo
incentrati su politiche finalizzate al riconoscimento internazionale, non sono bastati
a generare effetti benefici sulla questione sociale e a esprimere un’idea convincente
di identità: a Glasgow (1990) e a Cork (2005), gruppi militanti locali hanno
pubblicamente contestato la nuova immagine veicolata dalle grandi opere, in
quanto lontana dalla propria identità, e colpevole di aver distolto l’attenzione dai
problemi reali; nel Temple Bar di Dublino (1991) sono falliti i pur buoni propositi
iniziali di affiancare, alle nuove attività di alto profilo, destinazioni d’uso miste e
attività culturali minori più vicine alla comunità, e di promuovere la presenza di
artisti locali nelle abitazioni del quartiere.
Anche negli Stati Uniti l’approccio più frequente e generalizzato allo sviluppo
culturale sembra essere proprio quello “imprenditoriale”: dal momento in cui i
dipartimenti comunali per le politiche culturali sono stati spinti a giustificare il
proprio budget in termini economici, le strategie più gettonate sono diventate
quelle degli eventi speciali e dei complessi edilizi di alto profilo nelle aree urbane
centrali; il fine è quello di richiamare turisti e investimenti e rilanciare l’immagine
della città in un ambito di competizione internazionale, piuttosto che investire su
programmi che interessino aree più marginali e che agiscano sulla produzione
culturale locale tramite politiche redistributive e partecipative.
D’altra parte, le stesse ricadute dirette sull’economia non sono certo scontate: gli
ingenti investimenti iniziali, oltre a distogliere l’attenzione da problemi più
impellenti e a dirottare fondi dalle questioni di generale interesse pubblico, non
garantiscono sempre la sostenibilità economica delle opere finanziate. Il Creative
Industries Quarter di Sheffield, ad esempio, ha visto il fallimento degli obiettivi di
ripresa economica e occupazionale su cui erano basati gli investimenti, oltre a
risultare privo di vita sociale e di spazi pubblici perché troppo incentrato su attività
produttive.
All’estremo opposto si trovano i casi di quartieri la cui identità culturale si sviluppa
per una serie di coincidenze e in maniera più o meno spontanea. La stessa Helsinki
ci offre l’esempio di Cable Factory, per certi versi speculare a quello di
Arabianranta: una ex fabbrica di cavi elettrici che fu ceduta, in pieno declino
industriale, dalla Nokia al Comune, il quale, nell’attesa di decidere sulla sua
utilizzazione definitiva, la concesse in affitto ad artisti di vario genere. Solo
successivamente si decise di ufficializzare questa spontanea evoluzione, e oggi
Cable Factory è un’istituzione auto-finanziante che ospita concerti, mostre ed
eventi, è sede di gallerie, teatri, atelier, club sportivi, scuole di arte e ogni genere di
attività culturali; ed è uno dei simboli della trasformazione culturale di Helsinki, pur
senza essere stata oggetto di una iniziale e mirata politica specifica.
Altrove, quartieri culturali nascono non solo in assenza di politiche mirate, ma
addirittura in contrasto con le decisioni ufficiali: è il caso del pechinese Dashanzi
798, ex distretto militare destinato dalle autorità a diventare un polo elettronico, ma
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progressivamente occupato dagli artisti che lo hanno trasformato in una città
dell’arte. La nuova, spontanea, identità del quartiere è così forte da resistere ai
programmi governativi.
Le critiche ai modelli di non-intervento pubblico, o di interventi più blandi, che si
affiancano ai naturali processi evolutivi dei quartieri, sono meno frequenti ma non
mancano, come nel caso di alcune zone di Eastside a Birmingham, che rischiano
un’evoluzione negativa simile a quella del CIQ di Sheffield, pur essendo l’esito di
un approccio ben diverso. Tali modelli non bastano da soli a evitare lo sviluppo di
aree urbane monofunzionali, l’allontanamento di produzioni culturali locali minori,
né le ricadute sociali di cui ogni quartiere soffre nel momento in cui i valori
immobiliari cominciano a salire.
Arabianranta si colloca a metà strada tra i due estremi: è il caso in cui l’identità del
quartiere culturale non è stata imposta dall’alto in virtù di considerazioni
puramente economiche, né si è sviluppata con un processo spontaneo che ha
portato un quartiere industriale a diventare un distretto culturale in maniera
incontrollata; è stato fatto comunque un ragionamento su una sua possibile
identità, a partire dalla storia del luogo, sono state studiate delle strategie e delle
regole nella pianificazione, si continuano a coinvolgere i residenti e gli studenti nel
processo di costruzione della comunità. Probabilmente è ancora presto per tirare le
somme, resta da vedere come il quartiere reagirà in futuro e come si evolverà una
volta che i lavori saranno terminati.
È probabile però che Helsinki non verrà colta impreparata, non essendo nuova alle
politiche culturali, su cui ha investito in maniera strategica a partire dalla crisi
economica dei primi anni ’90; e su cui l’amministrazione si impegna a elaborare
studi e statistiche tramite l’istituto “City of Helsinki Urban Facts”, che, prima
ancora delle concettualizzazioni di creative class e creative city, si concentrò sulla
definizione del potenziale creativo della città2. Il settore culturale e quello
tecnologico, entrambi presenti in Arabianranta, sono le due facce di questo
potenziale, evidenti anche nelle varie immagini pubblicitarie divulgate dalla capitale
per promuovere se stessa.
Queste politiche culturali, inoltre, hanno maggiori probabilità di cogliere nel segno,
in una città la cui tradizione urbanistica si basa su un approccio dominato
dall’intervento pubblico, che finora è riuscito ad alleviare gli effetti negativi dei
meccanismi di mercato e a evitare alti livelli di segregazione sociale e spaziale;
anche se non mancano delle perplessità riguardo a certi recenti segnali di
correzione di rotta in tale approccio.
Infine, la storia recente di Arabianranta presenta molti degli ingredienti che un
convincente ragionamento di Porter e Barber (2006) elenca come fondamentali per
un metodo alternativo di rigenerazione urbana basata sulla cultura: il dibattito
pubblico e la partecipazione; il controllo delle pressioni del mercato immobiliare; la
promozione di attività e destinazioni d’uso non incentrate soltanto sul consumo o
sulla produzione; la partecipazione del pubblico e l’inclusione della diversità socioculturale; il coinvolgimento di architetti, artisti e capitali locali.
La Finlandia fu particolarmente colpita dalla crisi economica dei primi anni ’90, arrivando
a un picco di disoccupazione del 20% nel 1994 (Pennanen-Rebeiro-Hargrave e Kangasoja,
2003). Risalgono a quel periodo la decisione di “City of Helsinki Urban Facts” di
commissionare a Comedia di Charles Landry uno studio sul potenziale creativo della città, e
la conseguente introduzione del concetto di “città creativa” nella capitale finlandese.
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Sarebbe opportuno, in definitiva, che le politiche urbane integrino rigenerazione e
cultura in maniera organica e bilanciata, senza puntare a testa bassa sulla
scommessa della città creativa. Decontestualizzata dal milieu locale, a cui i suoi
studiosi reputano indispensabile far riferimento, la città creativa assomiglia infatti a
una gallina dalle uova d’oro, inseguita da amministratori frettolosi che rischiano di
investire su operazioni insostenibili nel medio periodo. Le conseguenze possono
essere disastrose e, paradossalmente, del tutto simili a quelle del declino industriale
che si vorrebbero contrastare: l’ennesimo e inaspettato stravolgimento economico,
va ricordato, è sempre dietro la porta, e un mondo di città che si autoalimentano di
grandi eventi culturali rischia di esserne il primo bersaglio.
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