Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe. Quale

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Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe. Quale
Crisi globale,
declino europeo
e rivolte arabe.
Quale futuro per
l’area euro
mediterranea?
Atti del convegno
16 dicembre 2011
Dipartimento
delle Politiche Globali
Lombardia
Brescia
Sommario
Introduzione3
Interventi
2
Anna Bonanomi
4
Pierluigi Cetti
5
Ernesto Cadenelli
6
Antonio Cantaro
10
Mustapha Tlili
15
Conclusioni di Danilo Barbi
20
Sommario
Introduzione
R
ivolta.
Un termine caduto in disuso nella
retorica politica occidentale torna ad
animare i dibattiti degli osservatori internazionali. In alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio
Oriente, nel 2011, proteste e agitazioni
hanno condotto a cambiamenti profondi
e portato alla destituzione di despoti al
governo da decenni. Si tratta di un fenomeno complesso da decifrare: in gioco fattori geopolitici, sociali e culturali.
Complesso ma di rilevanza fondamentale per l’Europa per ragioni economiche,
di cooperazione e di pace tra i paesi mediterranei. Da questa convinzione prende le mosse il dibattito promosso dallo
Spi Cgil di Brescia nell’ambito dell’assemblea annuale dell’organizzazione.
La discussione porta riflessioni dal mondo accademico e da quello sindacale.
Introducono la trattazione gli interventi
di Anna Bonanomi, Ernesto Cadenelli e
Pierluigi Cetti che mostrano, sotto varie
sfumature, la forte attenzione che la Cgil
e lo Spi riservano alle questioni internazionali percepite come fattori chiave sia
per affrontare i processi di globalizzazione in un’ottica di diritti e democrazia
che per lo sviluppo nazionale. Antonio
Cantaro, docente presso l’Università degli Studi di Urbino, nel suo intervento,
esorta a comprendere la vitale rilevanza
di quanto sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo senza cadere nella
tentazione di ritenere che “alla fine tutto
verrà deciso dalla geopolitica ”. Al centro del suo intervento sono le opportunità che dalla Primavera Araba possono
discendere.
Il sindacalista tunisino Mustapha Tlili,
coordinatore Csi Ituc Medio Oriente
-Nord Africa, offre un ritratto appassio-
nato di quanto sta avvenendo nella sua
regione fornendo un quadro che, a tratti,
si discosta molto dalle più comuni rappresentazioni dei media occidentali. Tlili riflette sulle origini dei moti di rivolta,
sulle loro evoluzioni e sui possibili scenari futuri. “La rivolta dei popoli arabi
contro le loro dittature può essere considerata come un rifiuto di questo tipo
di globalizzazione” afferma Tlili. È proprio su una riflessione relativa all’attuale
modello economico che si imperniano le
conclusioni affidate a Danilo Barbi del
Dipartimento Politiche Globali della
Cgil nazionale.
Sulla crisi che non è crisi globale ma
“profondissima crisi economica dei
paesi di più antica industrializzazione”
si sviluppa il ragionamento di Barbi affrontando quelle che, secondo la Cgil,
sono le principali cause della crisi (assenza di redistribuzione e finanziarizzazione dell’economia) e stimolando la
riflessione su possibili e innovative vie
d’uscita. Ne deriva un’analisi sulle criticità dell’attuale assetto istituzionale di
un’ Europa che “è sempre più vicina al
momento della verità: o saprà riformare
se stessa integrando le sue forze e le sue
debolezze oppure l’attuale situazione
europea non reggerà al protrarsi della
crisi”. Con questi contributi vorremmo
fornire spunti per un dibattito più partecipato e consapevole sui cambiamenti
in atto e sulle conseguenze che possono
produrre, uno sguardo su quello che accade fuori dai nostri confini, meno deformato dai luoghi comuni e più aperto
verso le opportunità che possono derivare dall’incontro e dalla reciproca conoscenza tra culture.
Segreteria Spi Cgil Brescia
Segreteria Spi Cgil Lombardia
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
3
Interventi
Intervento di Anna Bonanomi
Segretario generale
Spi - Cgil Lombardia
C
i troviamo oggi per riflettere sugli
avvenimenti accaduti in questi mesi
sull’altra sponda del mare a noi caro e
in cui si sono sviluppate nel corso dei
secoli della storia le grandi civiltà, mentre il nostro paese e l’antico continente
sono attraversati da una crisi economica
e sociale senza paragoni con altre vissute dalle generazioni nate nel secondo
dopoguerra.
Una primavera iniziata con i tumulti in
Tunisia, continuata nelle piazze e nelle
strade egiziane, per passare poi alla sanguinosa guerra in Libia e alla repressione delle migliaia di dissidenti siriani.
Una primavera, poi un’ estate e un autunno in cui intere generazioni di uomini
e donne hanno sfidato, anche a costo di
perdere la vita, il potere dei dittatori, che
da decenni sfruttavano quei popoli.
Ora in Tunisia, in Egitto e in Libia quei
dittatori sono stati defenestrati, in quei
paesi si è aperta una fase di transizione verso la democrazia, nei primi due
si sono già tenute delle libere elezioni
con la vittoria delle formazioni politiche
islamiche.
Una stagione in cui abbiamo assistito
all’emersione del protagonismo di nuovi
4
Interventi
soggetti politici e sociali, all’attivismo
delle nuove generazioni, le quali attraverso l’utilizzo delle potenzialità della
rete (penso alle notizie diffuse sino a noi
dai social network) hanno saputo superare la censura del potere.
Ora sta a noi europei aiutare questi popoli nella fase di transizione, al fine di
non far prevalere al loro interno il radicalismo religioso di natura islamica, in
un’area delicata, una vera polveriera,
come quella medio orientale.
In questo contesto, mi auguro fermamente che nei prossimi mesi la comunità
internazionale sappia affrontare, trovando una soluzione condivisa, la questione
del popolo palestinese.
È interesse di noi europei e di noi italiani
che questa area del mondo a noi vicina
trovi rapidamente stabilità e sviluppo
sociale, avviandosi al superamento delle
tante ingiustizie presenti in quei paesi.
Il Mediterraneo tornerà così ad essere
il luogo degli scambi economici, delle
contaminazioni culturali fra i popoli e
non un luogo di morte per le migliaia di
disperati, che in questi decenni hanno
attraversato quelle acque alla ricerca di
un futuro migliore.
Un mare che ritorni a essere un luogo di
pace e di confronto fra uomini e donne,
fra culture e religioni diverse, questa sarebbe la più bella e auspicabile conclu-
sione di questa fase storica.
Mi rendo perfettamente conto che sarà
un processo politico e culturale che necessiterà di tempo e di grande cooperazione internazionale, nostro compito è
di non lasciare soli questi popoli.
Il seminario di oggi, con gli autorevoli
contributi dei relatori, che ringrazio per
aver accettato l’invito dello Spi di Brescia, ci aiuterà a comprendere meglio
ciò che è accaduto in questi mesi e le
prospettive per i prossimi, un momento
di arricchimento e di presa di coscienza
per tutti noi.
Dal futuro dell’area euro mediterranea
dipende, in parte, il nostro. Questo è a
mio avviso lo spirito con cui ci accingiamo a seguire questa giornata.
Intervento di Pierluigi Cetti
Segretario Camera del Lavoro
di Brescia
Quella di oggi è un’assemblea che affronta un tema inusuale nelle nostre
discussioni, ma sicuramente di grande
attualità, meritevole di un approfondimento con la competenza dei nostri
ospiti, riguardo ai nuovi scenari che si
possono aprire in Europa con l’intreccio della crisi ed i cambiamenti in corso
nell’area mediterranea.
In questi anni abbiamo, spesso, affrontato il problema della crisi, la ricaduta in
termini di condizioni di vita, di salario,
occupazionali. Siamo stati da soli, come
Cgil, nel nostro paese a contrastare manovre economiche pesanti e inique, così
come stiamo tutt’ora contrastando le misure messe in campo dal nuovo governo.
Stiamo vivendo un tempo decisivo per la
vita dell’euro e dell’Europa attraversata
sia da una pesantissima crisi economico
- sociale che da una crisi politica degli
stati e delle istituzioni sovranazionali.
L’Europa è al centro di una crisi globale
che non è affatto superata e che interessa
tutti i paesi storicamente industrializzati, e soffre di scelte sbagliate di natura
economica e della mancanza di un vero
governo europeo. Se non si attua una
politica di sviluppo rilanciando nel contempo una maggiore integrazione europea, ostinarsi nel controllo esclusivo dei
debiti e nella stabilizzazione finanziaria,
rischia di non essere sufficiente.
Il recente accordo del Consiglio Europeo che sancisce l’obbligo di ventisei
paesi dell’Unione (l’Inghilterra ne è
rimasta fuori volutamente) di realizzare il pareggio dei rispettivi bilanci è
davvero un passo importante verso una
maggiore sovranità europea nel campo
economico e darà i suoi frutti? La nuova
unione fiscale dei ventisei paesi servirà
a superare la crisi del debito?
Basterà per difendere il sistema bancario dai rischi di crac e dalla speculazione? Il fondo Salva Stati per finanziare le
iniziative anticrisi sarà sufficiente?
La decisione della BCE di aprire un
credito illimitato al sistema bancario
dell’ Eurozona può essere considerata
una novità importante ed incentivare
l’accesso al credito delle imprese medio
piccole che, in Italia, costituiscono la
maggioranza delle imprese?
Può essere fermata la crisi? Possono essere fermati il terremoto occupazionale e
l’impoverimento reale della società?
Nel contempo la politica europea e l’opinione pubblica sembrano disinteressate
alla cosiddetta Primavera Araba ed alle
rivolte mediterranee dell’Africa del Nord.
Non si spende una parola sulle possibili
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
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risorse e opportunità offerte dalla rivoluzione culturale e politica in corso nell’area mediterranea, dimenticandosi che
sempre maggiore sarà la vicinanza tra
i destini e l’interdipendenza tra Europa
e Mediterraneo, con riflessi inevitabili
sulle società e sul mondo del lavoro, con
flussi migratori ingenti.
In pochi mesi è accaduto l’impensabile.
Nelle piazze arabe, dall’Egitto alla Libia, dalla Tunisia alla Siria, è sceso un
popolo che chiede libertà, dignità, giustizia. Movimenti prevalentemente giovanili con questi obiettivi unificanti.
Esprimono il bisogno di avere paesi che
riconoscano i cittadini come tali e non
come sudditi, con stipendi che consentano livelli di vita accettabili, dove ora
la disoccupazione, l’analfabetismo e la
violenza contro le donne sono l’espressione quotidiana di una terribile povertà.
Questa è la questione centrale oltre
all’aspirazione di maggiore democrazia.
Una domanda di un nuovo sistema economico e sociale che contrasti le profonde diseguaglianze di vita dei popoli dei
paesi del Mediterraneo.
Un processo, anche dove si svolgono
elezioni come in Egitto, sicuramente
non breve ed ancora imprevedibile nei
suoi esiti, con aperture a forme di governo di tipo parlamentare, ma anche
di sostanziale mantenimento di governi
autoritari.
Enormi sono poi gli interessi internazionali collegati alle risorse energetiche e
delicati gli equilibri geopolitici dell’intera area.
La sensazione è che la politica delle petromonarchie del Golfo tenti di mettere
un freno alle istanze più avanzate della
Primavera Araba in modo da evitare che
il contagio della democrazia destabilizzi
6
Interventi
eccessivamente la penisola arabica. È
con la consapevolezza della complessità
dei fenomeni che interessano queste regioni che affrontiamo il dibattito di oggi.
Intervento di
Ernesto Cadenelli
Segretario generale Spi - Cgil Brescia
Q
uello odierno, potrebbe apparire un
tema non cruciale per il Sindacato
dei Pensionati della Cgil, un qualcosa di
culturalmente stimolante ma non parte
della nostra attività o iniziativa quotidiana. Invece voglio ricordare come
nelle tante assemblee svolte in questo
autunno, il nodo di un’Europa diretta da
banche e autorità finanziarie senza una
guida politica affermata è stato, frequentemente, oggetto di dibattito. È diffusa
la convinzione che trovare, nel contesto
europeo, una risposta politica, oltre che
economica, alla crisi sia una condizione
essenziale.
Se l’Europa non si darà rapidamente una
guida politica e una politica comunitaria condivisa in materia di economia,
fisco, politica estera, contratto sociale e
diritti per i lavoratori diventerà davvero
“vecchio continente”, non solo per l’invecchiamento dei cittadini ma anche per
l’incapacità a trovare risposte utili e convincenti alla crisi dell’euro.
È allora attuale anche approfondire e
saper leggere i fatti che possono determinare cambiamenti, geografie politiche
e sociali nuove, far sparire col tempo
giudizi, pregiudizi e luoghi comuni sui
processi migratori, per troppi anni affrontati dal governo Berlusconi-Bossi
con norme discriminatorie e politiche
dei respingimenti basate su accordi coi
regimi dittatoriali di Paesi del NordAfrica. La nostra assemblea annuale,
segue una linea di continuità: abbiamo
discusso di immigrazione e di diritti
di cittadinanza nelle ultime edizioni e
oggi non possiamo restare indifferenti
all’esplosione, nel 2011, delle rivolte
arabe e del carico di novità che possono innescare sullo scacchiere europeo e
mondiale. Le domande che i milioni di
giovani di quei Paesi hanno messo alla
base di queste rivolte inevitabilmente
intercetteranno la situazione europea e
quella italiana ancor di più, se non altro per la posizione geografica occupata
dalla nostra penisola. Il Mediterraneo
tornerà, in tempi non troppo lunghi, ad
essere il “Mare nostrum”. Potrà tornare
un bacino di cooperazione o di inasprimento di conflitti, come spesse volte è
successo nella storia.
Ad aiutarci a riflettere abbiamo chiamato il prof. Antonio Cantaro, Mustapha
Tlili e Danilo Barbi, che ringrazio anticipatamente.
È curioso, ma non casuale il fatto che
la cosiddetta Primavera Araba sia stata
così rapida nella sua evoluzione e nei
suoi epigoni. Nessun dubbio sul fatto
che i regimi autoritari e corrotti dei paesi
della sponda sud del Mediterraneo si siano sfaldati per consunzione, ma non si
può negare che questa spiegazione non
poteva essere sufficiente per un ribaltamento di poteri fortemente militarizzati
e ricchi di connivenze e complicità internazionali.
Non possiamo dimenticare la funzione
geo-strategica sia dell’Egitto, per il controllo della via marittima del Canale di
Suez e la sua collocazione nello scacchiere medio-orientale, soprattutto in
riferimento al conflitto arabo-israeliano,
che della Libia per la questione legata ai
giacimenti di petrolio e di gas, oggetto
di numerosi appetiti e interessi.
Soprattutto curiosa è la rivolta popolare in paesi, come il Qatar, o i sommovimenti in paesi limitrofi come il regno
Saudita, o il Kuwait, in cui la ricchezza derivata dal bilancio dei petrodollari
viene ridistribuita in forma di benefit o
donazioni ai cittadini, quasi prevenendo
i loro bisogni, facendone quasi dei “cittadini adolescenti”. In Kuwait a ogni cittadino viene dato un contributo di circa
3000 dollari all’anno e una possibilità di
spesa gratuita nei supermercati per circa
un anno e mezzo. A differenza di quanto
accaduto in Tunisia o nello stesso Egitto, non è stata la fame a fomentare la
rivolta, ma la situazione di stordimento
delle libertà civili e la presa d’atto delle
immense disponibilità di danaro di cui
godevano i regnanti o i despoti. La conoscenza dell’effettivo prodotto della
ricchezza derivata dall’esportazione di
prodotti per l’energia, gas e petrolio, e
il circuito di corruttela e di privilegi immeritati, hanno portato la società civile,
spesso una società di mezzo, non benestante, ma con tutti i bisogni materiali
soddisfatti, a rivendicare le libertà civili
e una maggior partecipazione alle ricchezze prodotte proprio con le esportazioni di materie prime. Solo la manodopera straniera proveniente dal Pakistan,
dal Bangladesh, o le colf filippine, senza
diritti di residenza o di riunificazione
famigliare, soddisfa le necessità collegate al lavoro manuale, sottopagato, e
con risvolti di rischiavizzazione. Sono
da 8 a 10 milioni i lavoratori immigrati che a rotazione vengono impiegati annualmente nei paesi ricchi della
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penisola arabica e nel Medio Oriente.
Il ricorso alle ricchezze dell’export per
mantenere o stabilizzare un equilibrio
socio-politico rappresenta anche una
mancanza di vero e proprio progetto di
investimenti, in grado di avviare un processo di industrializzazione che potrebbe rappresentare la vera sfida del futuro
per questi paesi.
La maggior parte delle risorse finiscono
nell’edilizia di lusso, nei beni di consumo prodotti all’estero e nei capricci dei
tiranni di turno. In parte, come visto, per
sviluppare una politica di panem et circensens per anestetizzare le richieste di
libertà e di partecipazione democratica.
Tale situazione ha rafforzato le aspettative di un cambiamento legato soprattutto
alle opposizioni islamiche, in Egitto con
i Fratelli Musulmani e i Salafiti, in Tunisia con il Partito della Rinascita, Ennahda. Questi movimenti hanno saputo
costruire un consenso popolare grazie
all’attività di sostegno caritatevole alle
famiglie in difficoltà, proprio mentre le
leadership filooccidentali sperperavano
immensi capitali, incuranti dei bisogni
della gente.
La speranza è che non vi siano pretesti,
né per interventi dall’esterno per ricollocare “obtorto collo” le leadership di
questi paesi nell’orbita degli interessi
delle potenze economiche e militari in
cerca di recupero di terreno rispetto alle
debacles subite in Asia, né per instaurare nuovi regimi dispostici, nemici delle
libertà individuali e collettive di stampo
fondamentalista. Il percorso è lungo e
pieno di ostacoli.
I paesi del sud del mondo stanno sempre più acquisendo autonomie e poteri
economici. Gli scambi commerciali
transitano sempre meno dall’Europa o
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Interventi
dal Nord America e la filiera sud-sud
diventa sempre più consistente. Questo
è un elemento importante per leggere in
modo appropriato gli eventi del 2011 e
collocare nel contesto attuale, non solo
del Mediterraneo, ma dello stesso pianeta, i cambiamenti epocali in atto.
L’Europa si trova pian piano alla periferia del mondo e dei grandi interessi
e il continuo ricorso alle armi, sempre
più impiegate nelle cosiddette “missioni
umanitarie”, non fa altro che accelerare
questa deriva. Il suo passato coloniale,
la sua influenza pervasiva del periodo
successivo, che ha concentrato i centri
degli affari e degli scambi commerciali
nelle mani di grossi trader europei, ha
mantenuto l’intero continente africano,
incluso il Nord Africa, in una condizione di subalternità economico-politica.
La presenza di basi militari nel Mediterraneo e in molti paesi dell’area medio -orientale o sub sahariana dimostra
che ad un processo di decolonizzazione
dei territori e degli stati è succeduta una
condizione di dipendenza economica,
culturale e politica.
Ora le rivolte , ancora in corso di evoluzione, possono essere definite come
uno dei prodotti dei cambiamenti postmoderni che segnano le società occidentali. È attuale la percezione di larghe
parti delle società del Sud del Mediterraneo di potersi dare un assetto politico
culturale definitivamente fuori dal corso
della storia del ‘900, fuori delle retoriche dell’indipendenza, dei regimi connaturati agli interessi e alle dipendenze
socio-culturali delle ex potenze coloniali, dai prodotti della contrapposizioni
Est-Ovest proprie del tempo della guerra
fredda. Potremmo forse dire che finalmente si apre una stagione costitutiva
delle libertà politiche e della gestazione
di autonomi assetti socio-politici. È il
compimento dei movimenti per l’indipendenza .
Questo processo richiede la maturazione
di un senso di appartenenza delle società
in cui le istituzioni vengono rifondate e
legittimate nell’interesse collettivo e nel
rispetto delle prerogative delle libertà
personali. Non sappiamo quale sarà il
tempo e il prodotto di tale processo.
L’ Europa, attanagliata da una crisi economica devastante, sia per il sua entità
che per le macerie sociali che stanno
riempiendo sempre più la vita dei nostri giorni, appare incapace di cogliere
il senso dei cambiamenti. È intrappolata in una immagine di passato in cui
le era dovuto rispetto e riconoscimento.
I suoi governi, a cominciare dai nostri
recenti, non hanno saputo comprendere
ciò che stava inevitabilmente cambiando e non hanno saputo offrire, sia nel
passato che nel presente, una sponda
credibile ai movimenti, latenti sì, ma
ben presenti da tempo. Si è preferito
far finta che tutto durasse per sempre,
e, con maldestra tempistica sono stati fatti accordi con dei regimi ormai in
catalessi e imbevuti della propria immagine ed arroganza. Questi regimi si
sono sentiti traditi da cittadini finora
imboniti sia con garanzie economiche di
sopravvivenza, che con le minacce sostenute da imponenti e costosi apparati
di polizia e di controllo. Non dimentichiamo gli accordi fatti dai governi italiani con Gheddafi; non dimentichiamo
gli accordi scellerati di riammissione,
con la Libia o la Tunisia, di cittadini
immigrati respinti in mare e consegnati ai nuovi mercanti di carne umana.
Il sipario è caduto. L’Europa si è sco-
perta debole e inconcludente, incapace
di progetti di larghe vedute, impegnata
a non perdere le opportunità di sfruttamento di risorse naturali di cui sono
ricchi i paesi sull’uscio di casa . I suoi
governi si muovono in ordine sparso,
cercando di concludere nuovi affari o
di mantenerne di vecchi con i nuovi governanti. Anche questo può segnare in
modo visibile sia la crisi economica che
il deficit di coesione politica del nostro
continente.
I popoli della terra si muovono senza
Europa, pian piano diventeranno essi
stessi un’alternativa all’assetto attuale di
potere e di influenza.
In questo scenario molti si chiedono
quale possa essere il ruolo di un paese
euroasiatico come la Turchia.
La Turchia ha avviato un processo di
modernizzazione sin dalla rivoluzione
dei Giovani Turchi, con Kemal Ataturk,
con tutte le ambiguità che la modernizzazione del XX secolo ha portato con
sé. Basti ricordare il genocidio e l’esodo
delle popolazioni armene o la questione
kurda, tuttora irrisolta.
Oggi la Turchia rappresenta la via intermedia tra i cosiddetti assetti democratici
degli stati occidentali e la continuazione di una tradizione legata all’Islam.
Lo Stato turco, imbevuto di principi di
laicità occidentali, sia nelle leggi che
nell’alfabeto latino adottato, ha trovato
una via originale di ripristino, in chiave
rinnovata e moderna, della sua cultura
secolare collegata alla cultura islamicoottomana. Un esempio da citare nella
direzione della crescita economica e degli investimenti esteri nel paese è quello
della Fiat di Marchionne.
Probabilmente il futuro dell’area euromediterranea dovrà tener conto del fatto
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
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che il mare rappresenta, per dirla con
lo storico Braudel, un continente che
unisce tutte le sponde del mare interno.
Per secoli la via del mare ha messo in
contatto culture e civiltà meticciandone
gli usi e costumi e moltiplicandone le
influenze .
La situazione attuale ci porta a ripensare sia gli accordi di cooperazione euromeditteranea, che a riconoscere a questi
popoli il diritto all’autodeterminazione.
Tale diritto comporta la legittimità delle esperienze di ristrutturazione degli
apparati dello Stato di cui attualmente
sono attrici diverse forze politiche sia
in Tunisia, che negli altri paesi. Certo in
Europa si guarda con benevolenza agli
accordi commerciali possibili, e si farà
a chi arriva prima, ma già nascono delle
perplessità per la ricerca in atto di coniugare le appartenenze politiche con le
convinzioni religiose. È un dato oggettivo di cambiamento, anche nelle ultime
elezioni nel Marocco. È, a mio avviso,
un progetto legittimo di ricompattamento sociale partendo da valori fondativi condivisi, in questo caso dei valori
dell’Islam, purché si rispetti la pluralità
delle idee, delle convinzioni e dei codici comportamentali, propri di tutte le
libertà soggettive di cui possiamo andar
ancora fieri anche in occidente. Una
espressione di tale libertà è rappresentata dal popolo degli Indignados, o dallo
slogan Occupy Wall Street .
L’area euro mediterranea può iniziare un
percorso di riavvicinamento e di scambi
vantaggiosi come nei bei tempi d’oro del
dialogo tra le due sponde, e ricostruire,
pur nella pluralità delle differenze, un’area di sviluppo di mutuo riconoscimento, rendendo sempre più deboli le tracce
del colonialismo e del postcolonialismo.
10
Interventi
Si accentua la convinzione che il destino
di questa parte del mondo è indissolubilmente comune. Inoltre, gli accordi commerciali vanno affiancati ad accordi per
il rispetto reciproco in materia di diritti
fondamenti della persona umana . Altri
patti devono prevedere, soprattutto per
le generazioni future, una maggior possibilità di movimento tra le due sponde,
senza retropensieri di legittimazione di
egemonie o di interessi a senso unico.
Solo nella ricerca di un rapporto solidale, fondato sulla condivisione sia di
obiettivi che di percorsi, si potrà immaginare un bacino mediterraneo che recuperi la sua funzione naturale di luogo
di incontro di popoli e di persone e non
rivesta più la sua attuale, tragica, condizione di cimitero di corpi e di buone
intenzioni. Non so se sarà facile e possibile nel breve periodo produrre un contributo utile allo scopo, abbiamo però il
dovere di provarci.
Intervento di
Antonio Cantaro
Università di Urbino
I
n questi decenni, troppe volte, la retorica ufficiale ha speso fiumi di parole
sulla necessità della cooperazione fra
l’Europa e i paesi dell’altra sponda del
Mediterraneo.
Oggi avvertiamo, però, di essere in un
passaggio storico un po’ diverso, anche se difficile da affrontare, che può
far diventare il tema della cooperazione
politicamente e socialmente importante.
Prendere sul serio tale tema non è facile,
anche emotivamente.
Il rischio di ridurlo ad una fiera dei buoni
sentimenti, a qualcosa che assomigli ad
un cerimonia poco sentita, è un rischio
reale con cui dobbiamo fare i conti.
Dobbiamo affrontare il tema senza buonismi. Sappiamo che il Mediterraneo è
stato a lungo anche area di drammatici
conflitti.
Non è stato sempre tutto rose e fiori. La
storia è una storia complicata. Ci sono
aree di grandi conflitti che sono diventate col tempo anche aree di grande cooperazione. Ci sono problemi storici che
non vanno sottovalutati.
Oggi c’è inoltre la paura e il timore della
“periferizzazione”. Noi, oggi siamo sotto attacco. La parte prevalente dei paesi
del Mediterraneo - in senso allargato,
perché consideriamo anche Portogallo,
Spagna, Grecia - è sul banco degli imputati.
Ancora in questi giorni c’è l’idea che il
destino dell’Europa, dell’euro, dipenda
dal fatto se sapremo fare bene i ‘compiti a casa’. Sappiamo cosa comportano
questi compiti soprattutto per i pensionati, per i lavoratori italiani, per la parte
più debole della popolazione.
Non si può nascondere che tale condizione, questo rischio della periferizzazione - con tutte le conseguenze drammatiche e sociali che già si cominciano
ad intravedere per il 2012 e il 2013 - sia
un rischio che cominciamo ad avvertire
anche sulla nostra pelle.
Iniziamo con il dirci che non c’è un destino ineluttabile di crescita assoluta, di
crescita destinata a riassorbire le contraddizioni delle politiche degli stati, le
conseguenze drammatiche delle speculazioni della finanza nel corso di questi
anni. Siamo immersi sino al collo nella
vera prima crisi della globalizzazione.
In realtà, la crisi per il momento non si
è ancora manifestata come crisi globale
a tutti gli effetti. Ci sono paesi come la
Cina, l’India, il Brasile in grande crescita e sviluppo culturale.
Nella globalizzazione c’è qualcuno che
emerge (come è del tutto evidente, anche nei nostri paesi e fra le nostre classi
sociali) e qualcuno che ci perde.
Anche nell’orizzonte globale non siamo,
pertanto, tutti figli dello stesso Dio. Noi,
europei e italiani, siamo stati a lungo,
per tanti versi figli di un dio ‘maggiore’,
ma potremmo uscire alla fine di questa
crisi come figli di un dio ‘minore’. E, a
loro volta, i figli di un dio ‘minore’ diventare figli di un dio ‘maggiore’.
Stanno cadendo molti tabù. Non pensiamo però che, caduto il tabù di Berlusconi o, a livello europeo, il tabù dell’unione fiscale ad ogni costo, tutto resterà
come prima.
È in gioco il nostro destino. Non ci sarà
soltanto la moneta unica, la politica di
bilancio unico, ma un intervento a tutto
campo. Vi ricordate la lettera della BCE,
i ‘compiti a casa’ che dobbiamo fare. Ci
dicono quello che dobbiamo fare per le
pensioni, poi ci diranno quello che dobbiamo fare per il mercato del lavoro, poi
per la sanità, e così via. Quelle che nel
linguaggio convenzionale vengono definite “le politiche strutturali”.
Le sfide, che si giocano a livello europeo
e a livello globale e, per quanto ci riguarda sulla sponda del Mediterraneo, stanno “ripoliticizzando” temi che pensavamo superati e lontani. Tutto sommato
pensavamo ci fosse una classe dirigente
che si occupa a Bruxelles o a Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale
Europea, delle questioni sopranazionali
e noi (che non abbiamo più la lira, non
abbiamo più il franco e così via), che
avremmo, comunque, continuato a fare
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
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le nostre politiche nazionali. Invece, in
Italia abbiamo oggi Mario Monti, come
in Grecia c’è un altro governo di ‘tecnocrati’, espressione difficile e complicata su cui non voglio intervenire, che
però simbolicamente ci dice non solo
che dobbiamo fare i ‘compiti a casa’,
ma anche che i maestri che ci vengono
mandati da fuori devono essere accettati
e riveriti.
Perciò, se facciamo di questa giornata
soltanto la fiera dei buoni sentimenti,
perdiamo un’occasione per capire quanto sia politicamente importante il nuovo
corso montiano e quanto sia necessaria
una riflessione su questa inedita fase
politica. C’è da fare una battaglia delle
idee, una battaglia culturale, perché la
tendenza che abbiamo avuto in questi
mesi da parte dell’opinione pubblica,
dei media, di alcuni osservatori (politici,
sociologi, economisti) è stata quella di
dare una lettura riduttiva della Primavera Araba. Un po’ per auto-consolarsi, un
po’ perché alcuni effettivamente credono che si possa dare una simile lettura
e, cioè, che noi da questo punto di vista
possiamo disinteressarcene. Si tratterebbe di rivolte da parte di minoranze della
popolazione, in particolare dei giovani,
che vivono nella rete dei social network,
contro l’indistinta casta di dittatori e despoti, che hanno perso il controllo della
situazione interna. Una lettura riduttiva
che spesso si accompagna all’inossidabile convinzione che comunque alla
fine il mondo arabo tornerà all’ordine,
affidandosi all’Islam. Si ricordano, così,
i risultati recenti delle elezioni tunisine,
di quelle egiziane, rischiando di fare di
tutta l’erba un fascio.
Ci dirà il nostro amico e gradito ospite,
Mustapha Tlili, se la realtà dei fratelli
12
Interventi
musulmani sia la stessa di Al Qaeda e
se dentro i fratelli musulmani non ci sia
una dialettica politica. Se tutto sia un
monolite. Se c’è una pluralità di idee
soltanto nelle nostre democrazie e, invece, lì tutto è meccanicamente determinato dalla Sharia, dai principi del Corano.
Io non credo. Credo che anche lì la realtà sia molto più articolata.
Anche le semplificazioni, quali Islam
moderato vs. Islam non moderato, non
tengono conto dei compromessi all’interno di tali movimenti.
Basta richiamare la storia italiana, per
constatare che, in realtà, non abbiamo
uno Stato completamente laico. Abbiamo nel corpo della nostra Costituzione i
Patti Lateranensi, il Concordato, i grandi compromessi tra culture religiose, tra
culture politiche, tra prospettive diverse
del mondo.
Perché loro dovrebbero essere così semplificati? A cosa ci aiuta una lettura che
rappresenta il mondo arabo-musulmano
come un mondo indistinto, pronto comunque ad affidarsi direttamente all’ideologia, alla religiosità islamica per
ricostruire i suoi passi? No, la questione
credo sia molto più articolata.
Un’altra lettura, altrettanto riduttiva, ci
dice che tutto poi verrà deciso dalla geopolitica, dal gioco delle grandi potenze globali - dagli Stati Uniti, dalla Cina
– da quelle regionali come la Turchia,
l’Iran, Israele. Non si capisce, così, che
lì è successo qualcosa di radicalmente
nuovo che rappresenta anche una formidabile opportunità per l’Europa.
Oliver Roy, acuto studioso di questi temi,
ha più volte sottolineato come queste rivolte non possano essere ricondotte (non
che non ci siano anche questi elementi)
alle questioni sovranazionali, come la
questione palestinese, il socialismo arabo, il vecchio nazionalismo arabo, con il
richiamo appunto alla dimensione islamica come dimensione sovranazionale.
Ma ritiene, invece, Roy che si tratta di
lotte patriottiche nazionali, di movimenti radicati, anzitutto, dentro il proprio
territorio. Di lotte nelle quali i rivoltosi
non chiedono la testa dei loro capi, perché reputati marionette di potenze straniere. Niente a che vedere quindi con
quel ‘primitivismo’, che tante volte ha
caratterizzato il mondo arabo-musulmano: siamo di fronte a richieste politiche,
economiche, sociali, direi costituzionali che evocano passaggi importanti
(rivoluzionari e costituenti) della storia
europea. Abbiamo gli strumenti - se
vogliamo leggere con attenzione quelle
realtà - per offrire il nostro contributo di
comprensione. Una lettura troppo facile
(alla Lucio Caracciolo, per intenderci) ci
dice che la Primavera Araba è già finita e
siamo nel pieno dell’autunno delle contro-rivoluzioni. Il destino sarebbe già
segnato. Questa rischia di essere una di
quelle profezie che si auto avverano. Io
penso che questa profezia possa essere
contrastata ed è nostro interesse, dei paesi mediterranei, dell’Italia, di un’Europa rinnovata, respingere questa semplicistica lettura e cogliere le opportunità
che sull’altra sponda del Mediterraneo
oggi si offrono.
È nell’interesse europeo superare l’indifferenza con la quale in questi mesi si
è guardato a quelle vicende, salvo mandare qualche aereo in Libia, salvo mandare il Presidente dell’ENI a fare qualche accordo energetico, salvo sino a ieri
rinnovare gli accordi di cooperazione,
gli accordi commerciali e pensare che
ciò basti. No, c’è un interesse europeo
ad un investimento strategico politicoeconomico oggi più di ieri. Diciamocelo con franchezza, quest’Europa, così
com’è, che guarda tutta al nord, comunque la si ristrutturi, non è che abbia un
grande futuro davanti. Se non esercita la
sua egemonia, se non comincia a guardare complessivamente al sud, ai paesi
dell’area euro-mediterranea, l’Europa
non potrà avere un grande futuro.
Vorrei dire questo agli amici tedeschi:
non è neanche nel loro interesse. Vorrei
dirlo anche agli amici inglesi, poiché se
è vero che un rapporto privilegiato della
Gran Bretagna con l’Europa non c’è mai
stato, è altrettanto vero che sta venendo
meno per certi versi anche quello con il
mondo statunitense. Gli Stati Uniti guardano da un’altra parte, da molti decenni
ormai, anche dal punto di vista militare
e la vicenda libica nel bene e nel male
lo ha plasticamente dimostrato. Deve
essere nostro interesse guardare al sud
dell’Europa, perché è un nostro interesse non essere condannati alla periferizzazione, perché è nostro interesse poter
giocare un ruolo nella scena globale.
Naturalmente dare questa risposta non
può essere una questione di pura buona
volontà. Questo Convegno è, in un certo
senso, una prosecuzione di un’iniziativa
che si è svolta all’Università di Urbino
e che continuerà a Granada con altre
iniziative. E altri centri di ricerca organizzano iniziative simili. Naturalmente
questa risposta, questa traccia, questa
strada, che invito noi tutti a percorrere,
questa lettura non riduttiva, ma storicopolitica della vicenda del Mediterraneo
e delle sue straordinarie opportunità, significa leggere con verità quello che sta
avvenendo. Con le sue contraddizioni,
sapendo che non sarà una passeggiata,
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
13
che ci saranno dei contraccolpi, come
già sempre ci sono stati. Chi non ricorda la storia europea? Non è che dopo la
Rivoluzione Francese non ci sia stata la
Restaurazione! Non è che dopo il 1848,
espressione che è rimasta scolpita nel
nostro immaginario, non ci sia stata la
reazione al 1848! C’erano forze radicali
e socialiste che volevano la costituzionalizzazione del “diritto al lavoro”, ma
vinsero le forze conservatrici e reazionarie. Poi, dopo mezzo secolo, c’è stato,
però, Weimar, c’è stata la Costituzione
Italiana: c’è stato quello che io chiamo
il ‘secolo lungo’ dello Stato sociale e del
Movimento dei Lavoratori.
Spero che non siano tempi così lunghi,
ma abbiamo le lenti per capire che se c’è
una rivoluzione, c’è un tentativo di controrivoluzione. Non facciamoci abbagliare dagli articoli dei giornali, per non
capire quanto siano lunghe e complicate
le transizioni. Perdonerete se, a questo
punto, faccio tre affermazioni, che sono,
in qualche modo, anche tre domande
rivolte al nostro ospite Mustapha Tlili,
che vive in quella realtà. Tre affermazioni che sono anche tre domande che ci
aiutano a capire se è possibile una lettura più complessa della Primavera Araba.
E se tale lettura può essere più vicina ai
nostri interessi e quali sono le condizioni perché tale visione si concretizzi.
Innanzitutto io penso che ci sia un qualche rapporto assai stretto tra quella che
è chiamata la globalizzazione occidentale, cioè una globalizzazione fondata sul
dominio della finanza e dei mercati, e le
rivolte arabe. Noi non possiamo, infatti, dimenticare che ci sono stati grandi
speculatori negli anni precedenti che
scommettevano sul rialzo dei prezzi delle materie prime. Sapete come fanno gli
14
Interventi
scommettitori, se inizia uno, scommette
anche l’altro, e si realizza un rialzo dei
prezzi artificiale (una bolla speculativa).
Naturalmente questa è stata la scintilla,
un microepisodio. Però è stato un microepisodio che ha avuto un suo valore
significativo. Ci sono state le rivolte del
pane, le rivolte per i prezzi alti dei generi
alimentari. Ci sono state rivolte tipicamente sociali.
Quando ancora la globalizzazione funzionava, quando sembrava espansiva, e
secondo gli esperti questi paesi, (soprattutto quelli del Maghreb) erano – come
dicono gli esperti – al “centro della periferia”. Anche se sempre più periferizzati.
Pensiamo a quanto è in passato accaduto
e accade ancora oggi nel Mezzogiorno
d’Italia e non solo. Una serie di produzioni non viene più fatta, con effetti di
impoverimento forte dei territori, che
hanno invece una tradizione manifatturiera, una tradizione agricola forte. A
tutto questo si è aggiunto poi il blocco,
o comunque il rallentamento dell’immigrazione, e infine la grande speculazione
internazionale. Tutto questo non è un effetto casuale della globalizzazione. Questo, purtroppo, è uno dei suoi caratteri, è
la sua morfologia, il suo modo di essere.
La globalizzazione è necessità e libertà
allo stesso tempo. La ragione del suo
grande successo, anche tra le giovani
generazioni, ma anche nei nostri modi
di vita, è la libertà che ci offre, la promessa di maggiore indipendenza da tutti
i vincoli. Nel momento in cui la globalizzazione diventa solo necessità senza
libertà, si scatenano le reazioni. Si scatenano nei paesi europei e si sono scatenate in forma, secondo me, rivoluzionaria
nei paesi dell’area euro-mediterranea.
Le rivolte arabe, certamente molte dif-
ferenziate al loro interno (ma questa è
una banalità: un discorso è la Libia, un
discorso la Siria, un discorso è l’Egitto,
uno la Tunisia, un altro ancora è il Marocco, così come molte differenze c’erano nell’ambito della grande rivoluzione
liberale in Europa tra la fine del XVIII
e l’inizio del XIX secolo) sono accomunate dall’essere rivolte in alcuni casi
economiche, in ogni caso politiche.
Si tratta, in realtà, di rivolte sociali e
democratiche insieme. Guardiamolo il
trittico che è un po’ lo slogan della rivoluzione egiziana, che è un po’ la carta
d’identità di tutte le rivoluzioni del mondo arabo: libertà, dignità e giustizia.
C’è qualcosa che non è semplicemente la rivolta del pane, ma qualcosa che
unisce più fattori e più elementi. Io lo
chiamerei un movimento costituente
dal basso, un costituzionalismo dei governati, una declinazione del termine
dignità che, in una sede sindacale come
questa, si può capire al volo.
Tante volte si parla di dignità nel nostro
paese come dignità meramente individuale, mentre noi abbiamo il ricordo
vivo della Costituzione, in cui la dignità
è innanzitutto dignità sociale, dignità dei
lavoratori. Ecco un modo d’intendere la
dignità che non è quello tipicamente e
semplicemente liberale ma che è un
modo di sottolineare che la dignità è una
dignità tanto individuale quanto collettiva, tanto economica quanto sociale.
Se tutto questo è vero, le letture enfaticamente retoriche (“Un nuovo ’89! È
caduto un altro muro!”) non reggono.
Siamo certamente di fronte ad un grande evento epocale, ma il senso di questo
evento è ancora da decifrare. Nutriamo
la speranza di celebrare la caduta di un
altro muro – per altro abbiamo visto
come abbiamo gestito male quell’allargamento ad est e le sue conseguenze negative – ma non c’è da essere aprioristicamente celebrativi.La Primavera Araba
sta facendo piazza pulita non solo di
decennali regimi autocratici, ma anche
degli immaginari – di destra e di sinistra,
politicamente scorretti e politicamente
corretti – con i quali l’opinione pubblica
europea ha sinora letto l’Africa mediterranea. Nel momento in cui la grande
maggioranza della gioventù nordafricana sembra invocare quello che retoricamente Europa e Stati Uniti predicano da
tempo – promozione della democrazia e
dei diritti umani – è proprio il discorso
normativo occidentale a vacillare. A mostrarsi inidoneo a fornire una narrazione
credibile degli sviluppi politici, geopolitici, costituzionali della regione. Colpisce e preoccupa l’enorme distanza che
separa le piazze della Primavera Araba
e delle rivolte mediterranee dall’opinione pubblica e dalla politica europea. È
tempo di cominciare a costruire un altro immaginario. Bisogna porre sempre
più al centro della riflessione europea la
questione mediterranea, la sua rinnovata
centralità nel mondo globale e nella crisi
della globalizzazione.
Intervento di Mustapha Tlili
Coordinatore Csi - Ituc
Medio Oriente e Nord Africa
(Testo non rivisto dall’autore)
I
nnanzitutto, vorrei dire quanto sia
contento di essere tra voi, anche per
gli ottimi rapporti che sempre abbiamo
avuto con la Cgil Nazionale, in particolare con il Dipartimento Politiche
Globali. La Cgil è stata una delle organizzazioni europee più attive nella
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
15
nostra terra. Sono, dunque, felice di
aver accettato questo invito. Il tema di
questo convegno è di grande rilievo per
tutti coloro che lavorano nella Regione
Araba - come è stato detto nei precedenti interventi - soprattutto in rapporto alle
vicende europee. Da quanto ho ascoltato
questa mattina ho potuto constatare che
siete molto informati su tutto ciò che è
accaduto nel 2011 nella sponda sud del
Mediterraneo.
Non vi farò, quindi, un resoconto di tutti
gli eventi, ma cercherò di rispondere alle
domande del Prof. Cantaro e trasmettervi la nostra visione, cosa abbiamo capito
di quanto è successo e sottolineerò alcuni aspetti di quella che viene chiamata
Primavera Araba, aspetti talvolta deformati dai media. Alcuni non lo fanno intenzionalmente, altri invece sì.
Il Prof. Cantaro mi ha agevolato molto
porgendomi la domanda in merito alla
reale natura della Primavera Araba e alle
sue motivazioni profonde. Certamente
ci sono stati fattori economici e sociali,
ma questi fattori, come la povertà e la
disoccupazione, sono in realtà sempre
esistiti in questa parte del mondo.
Cosa ha fatto sì che un anno fa (il 17 dicembre 2010), da un giorno all’altro, tutto sia iniziato in un villaggio in Tunisia?
Un giovane venditore ambulante è stato
umiliato dalla polizia comunale per aver
messo il suo carretto in un posto in cui
ciò non era consentito, e da lì fu cacciato
via. La sua collera e il senso di umiliazione lo hanno portato ad immolarsi.
Nei paesi del Sud del Mediterraneo non
era comunque né la prima né l’unica
volta che una cosa del genere accadeva.
Un caso di suicidio sulla pubblica strada, non è isolato, è frequente.
Questa volta, però, la popolazione del
16
Interventi
villaggio ha provato esattamente lo
stesso sentimento del giovane venditore
ambulante. Di villaggio in villaggio, di
regione in regione, tutta la Tunisia si è
mobilitata contro le decennali umiliazioni patite. Il Presidente nei suoi discorsi,
all’epoca, ha cercato di minimizzare
l’accaduto, riducendolo ad un problema
di povertà e di disoccupazione. I media
di tutto il mondo hanno riportato questa
tesi e cioè che i tunisini si erano ribellati in strada contro la disoccupazione e
la povertà, ma nelle settimane successive hanno posto agli osservatori un serio problema: cosa fa sì che in un paese
dopo l’altro, in sequenza, si mettano tutti
ad occupare le strade, a chiedere ai propri governanti, ai dirigenti di andarsene?
I tunisini hanno occupato le strade per
tre settimane, gli egiziani per cinque, i
libici sono stati costretti a difendersi con
una guerra contro il potere che è durata
mesi. In Siria la gente scende in piazza
tutti i giorni da otto mesi. Nello Yemen
milioni di persone manifestano per strada tutti i giorni da dieci mesi.
Dappertutto ci sono manifestazioni, in
Algeria, in Marocco e anche nei paesi
del Golfo, come Kuwait, Bahrein. Noi
della Confederazione Sindacale Internazionale abbiamo osservato e analizzato
la situazione e sono lieto che il Prof.
Cantaro dica, più o meno, la stessa cosa.
Ossia che in questo 2011 abbiamo assistito ad una rottura storica e i popoli
della regione araba non accettano più il
sistema autoritario che nel tempo è diventato un sistema di grande dispotismo.
La nuova generazione, più istruita, che
dispone di mezzi di comunicazione moderni, può informarsi attraverso le tv
satellitari, sa che la gente al di fuori di
queste regioni non vive come loro. Sa-
pete bene che è una terra che non ha mai
conosciuto il rispetto dei diritti fondamentali. Quattordici secoli fa la nostra
area era una regione abitata da molte
etnie, con molte religioni. Poi sono arrivate le conquiste musulmane e l’Islam
è giunto non come è avvenuto con altre
religioni, con apostoli o predicatori, ma
con la forza. Da allora ci sono stati che
hanno dominato le loro popolazioni in
nome della religione. L’Impero Ottomano – un grande Impero – si è instaurato
pur sempre con la forza. C’è stato poi il
colonialismo europeo, che si è imposto a
sua volta con la forza.
Dopo la decolonizzazione chi ha governato la regione, lo ha fatto ancora una
volta con la forza. Ad un certo punto
questi regimi, che per la maggior parte
si definivano repubblicani, hanno finito
per trattare i cittadini peggio che se fossero stati sudditi.
Compaiono il divieto della libertà di
espressione, il divieto della libertà di associazione, la negazione dei diritti fondamentali elementari. Negli ultimi anni
abbiamo persino assistito ad un presidente egiziano che voleva lasciare il paese in eredità al proprio figlio. Lo stesso
avveniva in Libia. Il presidente tunisino
che voleva lasciare il paese in eredità
alla propria moglie e, infine il presidente
siriano, per il quale è stata modificata la
Costituzione in trenta minuti, non avendo ancora l’età per ricoprire quel ruolo.
Quindi, il punto comune tra tutti questi paesi è il dispotismo politico, ed è
per questo che tutti hanno reagito contemporaneamente. L’attuale situazione
mondiale, l’attuale circolazione delle
persone, delle idee, delle informazioni
non permette più questa forma di governo dispotico.
Questo è il problema. Torno a una delle
domande del Prof. Cantaro riguardo al
legame tra la Primavera Araba e la globalizzazione. Il legame che sussiste è
questo: la globalizzazione organizza un
sistema politico ed economico su scala
mondiale e impone un ruolo soprattutto
ai paesi più piccoli che devono accettarlo.
Il dispotismo nei paesi arabi non era un
segreto per nessuno, come hanno riconosciuto Zapatero, Sarkozy e anche Berlusconi. Affermavano, però, di non sapere che la situazione fosse giunta a quel
punto. Cosa chiedeva a questa regione il
sistema globalizzato? Che fornisse energia a basso prezzo, che dichiarasse di
collaborare in materia di lotta al terrorismo e che aprisse le proprie frontiere ad
accordi di libero scambio, o ad accordi
preferenziali all’Occidente per vendere
i suoi prodotti. In alcuni paesi del Medio Oriente si chiedeva anche di avere
un atteggiamento di pace incondizionato
con Israele. Quindi, “se accettate queste
condizioni potete fare quello che volete
del vostro paese e del vostro popolo”.
La rivolta dei popoli arabi contro le loro
dittature può essere considerata come un
rifiuto di questo tipo di globalizzazione.
Nei media si parla di rivoluzione e non di
Primavera Araba, come se ci fosse stato
un profondo cambiamento in questi paesi. Dimenticano però di dire alcune cose.
Le forze e i gruppi di interesse che sostenevano i regimi all’interno sono ancora
lì al loro posto. Le popolazioni tentano
di farli andare via, ma questi resistono.
Ovviamente, come potete immaginare,
non resistono a volto scoperto ma utilizzano mille tecniche: dal sabotaggio
economico fino al controllo dei media
per manipolare la popolazione, oppu-
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
17
re il sostegno di alcune forze politiche
contro altre. Nei paesi in cui i presidenti
sono andati via, ci troviamo in una fase
di transizione molto complessa, perché
le popolazioni che si sono ribellate non
avevano una direzione né un programma
politico. Quando ci sono state le rivoluzioni bolscevica, cubana, vietnamita,
all’indomani c’era già un altro governo
con una direzione ben precisa, perché
sapevano quali obbiettivi perseguire, ma
questo da noi non è ancora successo. Se
dobbiamo parlare di rivoluzione, è una
rivoluzione che cerca ancora la sua strada. E la sua strada può passare solo attraverso le elezioni. Ora i media vi hanno
certamente detto che le elezioni in Tunisia e in Egitto sono andate benissimo,
vi diranno anche che in Libia le elezioni
andranno benissimo, ma non è vero!
Prendiamo il caso della Tunisia, un paese di cultura e di religione musulmana.
C’è un partito che dice “io sono il partito
dell’Islam”, in un paese in cui l’analfabetismo riguarda il 24-25% della popolazione. Un partito che raccoglie denaro
da ogni parte, senza alcuna forma di
controllo, avallato dai media dei paesi
del Golfo, perché il Partito Islamista non
è un partito nazionale, è una sezione di
un partito internazionale.
Quando Ben Ali è stato cacciato via,
abbiamo creato in Tunisia un’Alta
Commissione per la realizzazione degli obiettivi della Rivoluzione di cui ho
avuto l’onore e il privilegio di far parte.
Abbiamo elaborato un codice elettorale
con la partecipazione degli islamisti e
abbiamo detto che l’utilizzo delle moschee era vietato, che non era ammesso
denaro dall’estero e che non avremmo
utilizzato i media stranieri durante la
campagna elettorale. Tutti erano d’ac18
Interventi
cordo, ciò è stato inserito nel codice
elettorale, ma nulla è stato rispettato.
Sono stati chiusi gli occhi su tutto, e non
dimenticate che in Tunisia il 53% della popolazione non ha votato. La Tunisia ha 8 milioni e 600 mila elettori, gli
islamisti alla fine hanno ottenuto quasi 2
milioni di voti.
Tutti hanno detto che il risultato delle
elezioni è stato positivo perché ha permesso alla Tunisia di raggiungere la
stabilità di cui gode da poco. Ma voi
conoscete bene la Tunisia, conoscete la
popolazione, la sua cultura, diciamo che
non è nelle mani degli Islamismi; è un
processo comunque che ci sarà anche in
Marocco e in altri paesi e che va avanti.
Ci troviamo davanti a diversi scenari e
ad un processo che durerà da due a quattro anni un po’ ovunque, in tutti i paesi.
Abbiamo davanti uno scenario in cui gli
islamici che sono al governo vogliono
rimanerci e si rifiutano di rispettare il
prossimo scrutinio e quindi di garantire l’eventualità dell’alternanza. Vorrei
rassicurarvi però, non penso che siano
in grado di farlo, in Tunisia, in Egitto
e in Marocco, per motivi oggettivi. Le
economie di questi paesi sono collegate
con i paesi del Nord, quindi per motivi
di geopolitica non saranno aiutati e autorizzati a farlo. C’è poi una capacità, in
questi tre paesi, della società civile e dei
partiti progressisti.
Il secondo scenario è che ci sarà un altro
regime non dispotico questa volta, non
il potere concentrato in una sola persona, ma un potere istituzionale eletto in
modo democratico, ma senza contenuto
sociale, senza politica sociale, senza riconoscimento dei diritti sociali fondamentali. Abbiamo l’esempio del Marocco. Il Marocco da venti anni si trova in
un sistema elettivo, ha delle istituzioni,
i partiti della sinistra erano al governo
dal 1998, però è uno dei paesi arabi in
cui c’è maggiore disparità sociale, maggiore povertà e disoccupazione. Quindi,
a prescindere dallo scenario che vivremo nella sponda Sud del Mediterraneo,
dobbiamo ricordare una verità: con il
dispotismo non esisteva un vero partito
politico (a parte il caso un po’ particolare del Marocco) per motivi storici.
La società civile non è organizzata molto bene, per cui con qualsiasi situazione, con qualsiasi scenario, il ruolo dei
sindacati, come abbiamo visto, in Tunisia e in Egitto sarà molto importante. La
situazione sociale dopo la Rivoluzione è
molto particolare, in Egitto, in Tunisia,
in Marocco e anche in Libia: c’è stata
un’esplosione della questione sociale.
Ci vorrebbero sindacati forti, perché in
questi paesi in cui le fabbriche si sono
fermate non c’erano rappresentanti sindacali. I datori di lavoro non volevano i
sindacati. Quindi in questa fase di transizione hanno bisogno di un sindacato
forte.
Ci sono altre questioni internazionali
che sono state sollevate.
In Palestina e Israele, il processo di pace
è bloccato dal 1995, perché apparentemente Israele non sentiva, prima della
Primavera Araba, la necessità di negoziare. Era preoccupato per la sicurezza,
però comunque aveva delle garanzie, la
garanzia di Mubarak, di Assad, e di altri dirigenti arabi che hanno mantenuto
una sorta di status quo con Israele. Oggi
questi dirigenti sono stati defenestrati e
le garanzie non esistono più.
In Egitto quindi c’è un grande dibattito
sull’accordo di pace e, per Israele, oggi
è estremamente importante ritornare al
tavolo dei negoziati, per trovare un accordo che garantisca la sua sicurezza,
ma anche i diritti del popolo palestinese.
Questo per dirvi che la Primavera Araba
sarà positiva se ci sarà il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e si
potrà instaurare una pace duratura nei
paesi arabi.
Ieri sera c’è stata una buona notizia in
merito alla Siria. La Russia comincia a
cambiare posizione, ieri ha sottoposto
una bozza di risoluzione al Consiglio di
Sicurezza.
Questo mi porta a parlarvi della Turchia.
Con i regimi appena caduti, soprattutto
con la Siria, tutta la regione araba si trovava, almeno in questi ultimi anni, sotto
l’influenza iraniana. La nuova politica
turca verso i paesi arabi ha controbilanciato l’influenza iraniana perché tutti i
regimi arabi che adesso sono caduti si
preoccupavano di raccogliere denaro
per gestire la corruzione e non per gestire la loro regione. La Turchia ha trovato un’opportunità, perché nella regione
c’erano solo l’Iran e l’Arabia Saudita.
La situazione, quindi, sta evolvendo,
oggi la Turchia ha un’influenza nella
regione araba - ne ha parlato Ernesto
Cadenelli - anche se alcuni paesi come
l’Arabia Saudita e il Qatar estendono la
loro influenza fino al Maghreb.
Per questo motivo sono del tutto d’accordo con il Prof. Cantaro quando afferma che è molto importante ed urgente
ripensare al progetto euro-mediterraneo
e vorrei concludere dicendo che mai in
passato c’è stata come adesso la prospettiva di creare qualcosa di solido, concreto e duraturo nella zona del Mediterraneo che sia l’unione per il Mediterraneo
oppure il processo di Barcellona, o una
politica mediterranea rinnovata.
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
19
Faccio un pronostico: fra pochi mesi,
uno o due anni al massimo, i partiti islamici per governare dovranno abbandonare il loro credo politico, l’idea che la
religione possa fornire tutte le risposte,
perché davvero questa è l’unica possibilità per loro. I fattori che hanno fatto
crescere il Partito dell’Islam al punto
da fargli vincere le elezioni oggi stanno
scomparendo. I motivi che hanno costituito la forza del Partito islamico stanno
scomparendo: in queste regioni avremo
un processo di difficile transizione, ma
nei paesi arabi la democrazia non sarà
più un’eccezione.
I paesi arabi sono ormai entrati nell’era
democratica. Un po’ tardi, ma con grande coraggio e con grande eroismo.
Conclusioni di Danilo Barbi
Segretario confederale Cgil – responsabile dipartimento Politiche Globali
Siamo tutti quanti così presi dai drammatici problemi della quotidianità italiana che si finisce qualche volta per dimenticare quella che è invece una
vecchia vocazione della Cgil: pensare
che ci sono sempre dei fili e dei legami
potenti fra quello che ci succede ogni
giorno e quello che succede nel mondo.
È ancora così e forse in questa fase è,
come non mai, così. Io provo a sottolineare un argomento complementare a
quello proposto dal prof. Cantaro e
dall’importante testimonianza del compagno Mustapha. Provo a prendere le
questioni dal punto di vista dell’economia sia per quanto riguarda il ragionamento sulla crisi globale che quello sulla
situazione europea. E vorrei così anche
rispondere ad alcune questioni proposte
20
Interventi
dal compagno della Segreteria della Camera del Lavoro. Partendo dal titolo:
quanto è globale la crisi che stiamo vivendo? Siamo abituati a chiamarla crisi
globale. A me capitava, circa un anno fa,
quando usavo questa espressione, incontrando i sindacati della Cina o del Brasile, che loro rispondessero, sorridendo:
“la crisi è la vostra”. Effettivamente avevano ragione, bisogna dire una cosa in
modo più preciso: c’è una profondissima crisi economica dei paesi di più antica industrializzazione, è la crisi del vecchio G8. È la crisi dei paesi che hanno
sviluppato la prima e la seconda rivoluzione industriale. È la crisi dell’Europa,
dell’America, del Giappone, del Canada, dell’Australia. Questo è logico, in
verità, se si torna ad un punto chiave per
discutere della crisi: perché c’è la crisi?
Vorrei farvi notare che moltissimi commentatori che vogliono imporre alcune
strategie di uscita dalla crisi non dichiarano mai quali sono le cause della crisi.
Le cause della crisi, e su questo la CGIL
ha un’analisi di riferimento fin dal precedente congresso, sono essenzialmente
due e sono collegate fra di loro. La prima causa è che l’aumento di produttività
tecnologica, soprattutto nella produzione industriale, non è stato negli ultimi
venti anni redistribuito. Il secondo motivo è quella che chiamiamo la finanziarizzazione. Sembra una parola misteriosa ma concretamente vuol dire che
buona parte dei profitti realizzati nella
produzione di merci e servizi, sul piano
economico generale, invece che andare
a finanziare nuovi investimenti produttivi, che producono cioè nuova occupazione, vanno in attività finanziarie. Viene seguito, quindi, un modello generale
in cui il surplus prodotto dall’insieme
della società non viene reinvestito per
l’insieme della società realizzando, alla
fine, uno schema per il quale non si producono più soldi attraverso i prodotti ma
si vogliono produrre soldi attraverso i
soldi. La crisi è quindi dovuta ad un
cambiamento di sistema nel quale il capitalismo finanziario ha mangiato il capitalismo industriale. Anche questo
spiega la crescita impetuosa di alcuni
paesi che siamo abituati a chiamare “in
via di sviluppo” ma che oggi dovremmo
abituarci a chiamare “in rapida crescita”
(Cina, India, Brasile, Sud Africa…).
Questi paesi non hanno avuto, in questi
anni di crescita, nessuno dei due problemi di fondo. Infatti in questi paesi la crescita, pur fra tante contraddizioni, è stata
reinvestita nell’aumento dei salari e
dell’occupazione e in questi paesi, sia
pure in modo diverso fra di loro, c’è un
forte controllo politico della finanza e
degli investimenti. Oggi, però, anche
Cina India e Brasile sono preoccupati di
quello che succede in Europa e anche in
Italia. Non siamo più tanto abituati, anche molti di noi che da giovani lo erano,
a collegare quello che succede in Italia a
quello che succede nel mondo, come
conseguenza anche culturale della debolezza della politica o come conseguenza
del berlusconismo. Invece il mondo ci
riguarda anche quando non lo sappiamo,
anzi il mondo ci riguarda soprattutto
quando non lo sappiamo e quando non
lo riusciamo a capire. A questo proposito dobbiamo dire che nella crisi il mondo è comunque cambiato. Dalle rivolte
arabe che hanno cambiato lo scenario
del Mediterraneo del Sud, e oggi hanno
di fronte diversi possibili esiti, alla novità storica che ha cambiato il pianeta e
cioè lo sviluppo cinese. Negli ultimi due
secoli di storia il mondo è stato costruito, ed anche distrutto, dai paesi dell’Atlantico: l’Europa e gli Stati Uniti. Oggi
c’è una terza colonna nel mondo ed è la
Cina. In Cina si è realizzato, negli ultimi
quindici anni, un fatto che dal punto di
vista sociale non ha precedenti nella storia dell’umanità:seicento milioni di persone sono diventate da contadini, operai.
Cinquecento milioni di persone sono
usciti dalla linea di povertà ed altri quattrocento milioni hanno moltiplicato per
cinque il loro reddito. Secondo le statistiche ufficiali che utilizziamo anche in
Europa oggi la Cina ha una disoccupazione del 4%. Calcolando il PIL manifatturiero, il primo produttore del mondo, ormai da sette anni, non sono più gli
Stati Uniti, ma i cinesi che producono
ormai il 32% dei prodotti industriali di
tutto il pianeta e i cui piani quinquennali, a differenza di quelli russi, funzionano. Negli ultimi cinque anni seguendo il
piano quinquennale chiamato “sviluppo
scientifico” le produzioni cinesi hanno
fortemente innalzato il loro livello qualitativo. Oggi la Cina è il paese che produce più brevetti e che investe di più nelle
energie rinnovabili. Tutto ciò ha cambiato il mondo in modo irreversibile perché
gli operai cinesi non torneranno a fare i
contadini. Questo pone problemi straordinariamente cruciali soprattutto all’Europa. Oggi l’Europa è il centro della
crisi globale. In verità l’Europa dell’euro, solo quella dell’euro, sarebbe, nel
suo insieme, il posto al mondo dove si
vive di più, si vive meglio, si produce di
più per abitante, si consuma di più per
abitante e si inventa di più. L’insieme dei
paesi dell’euro sono, se calcolati nel
loro insieme, il posto dove si creano più
brevetti e c’è il minor debito pubblico
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
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fra i paesi di più antica industrializzazione. Il debito pubblico dei paesi dell’euro, sempre nel loro insieme, vale l’87%
del loro PIL mentre quello americano
vale il 110% e quello giapponese il
220%. Inoltre l’Europa dell’euro è ancora il posto nel mondo dove la ricchezza è
più distribuita realmente. L’Europa nel
suo insieme avrebbe quindi molto da
dire per risolvere la crisi globale, per essere un partner importante dei paesi in
rapida crescita e anche per i paesi della
Primavera Araba. Ma il problema è che
l’Europa nel suo insieme non esiste. E
così paradossalmente diventa oggi il
centro della crisi. L’Europa ha due grandissimi problemi: uno di architettura e
uno di scelte economiche. La sua architettura e le sue scelte economiche stanno
diventando un moltiplicatore della crisi.
Proviamo a vedere perché. Ho detto un
problema di architettura che è contemporaneamente di architettura politica e
di architettura economica. Sull’architettura politica non voglio approfondire e
me la cavo con una battuta: l’Europa è
quella che nell’epoca moderna ha inventato la democrazia parlamentare basata
sul suffragio universale ma, da ultimo,
ha anche inventato l’unico parlamento
(quello europeo) che non fa leggi. La
parte economica, di fronte alla crisi, è
ancora peggio. Di recente molti di voi
avranno orecchiato un’ espressione, paradossalmente utilizzata dalla destra italiana, che dice che nell’Europa dell’euro
“non c’è una banca di ultima istanza”.
Questo è effettivamente vero ed è uno
dei punti nevralgici della questione. Vorrei provare a spiegare che cosa esattamente vuole dire. Gli stati nazionali che
si ricostruirono dopo la seconda guerra
mondiale impararono la lezione della
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Interventi
crisi degli anni ’30 e vennero inventate
le banche di ultima istanza che, negli
anni ’30, non esistevano. Esistevano sì,
in qualche paese, le banche nazionali ma
non avevano, sempre negli anni ’30, la
funzione di ultima istanza. Quale sarebbe questa funzione? È quella per cui lo
Stato, in quel caso nazionale, garantisce
sia il debito pubblico che il risparmio
privato. E come fa a garantirlo? Stampando moneta. In questo modo nessuno
che ha comprato un Titolo di Stato corre
il rischio che non gli venga restituito,
non solo gli interessi, ma anche il capitale investito e così anche una parte del
risparmio privato, di fronte al fallimento
di una banca, viene garantito dallo Stato.
Lo Stato dà quindi garanzie assolute
perché nelle monete non è scritta nessuna data di emissione e valgono sempre.
Certo, stampando troppa moneta aumenta sicuramente l’inflazione ma l’effetto panico della crisi si interrompe di
fronte alla funzione dello Stato. In questo modo lo Stato regola, di fatto, anche
il mercato finanziario perché gli dice
quello che non può fare, che è inutile
che faccia, come per esempio speculare
sui titoli pubblici. Ancora oggi tutti gli
stati del mondo, che hanno una moneta e
una banca di riferimento, funzionano
così. In tutti gli stati del mondo, tranne
quelli dell’euro; anche negli stati europei che hanno una loro moneta, come la
Svezia e l’Inghilterra. Viceversa, la Banca Centrale Europea non può svolgere
questa funzione per un vincolo del suo
statuto fondativo. La Banca Centrale
non può farlo, ma neanche le banche nazionali lo possono fare. Questo fa sì che
gli stati possano essere insolventi e nessuno ha più la certezza che i prestiti verranno onorati. E tutto ciò sta diventando
un moltiplicatore dell’attuale crisi finanziaria. Noi stati dell’euro e popoli
dell’euro siamo seduti ad aspettare che i
mercati finanziari siano clementi e a
questo si aggiunge una politica economica sbagliata che è prevalsa in Europa.
La politica economica imposta dal governo tedesco è questa: ognuno paghi i
suoi debiti. Sembra giusto, sembra equo,
ma ha qualcosa che non funziona e cioè
che avendo la stessa moneta è semplicemente impossibile che ognuno, a partire
dai paesi più deboli, paghi completamente i propri debiti. Perché un paese in
difficoltà la prima cosa che fa è svalutare
la propria moneta. Si tratta di una cosa
che gli stati dell’euro non possono fare e
non potendo svalutare la moneta un paese storicamente debole, in crisi finanziaria, non potrà mai pagare il suo debito.
La Germania dice “dovete fare tutti
come noi”, trascurando un dettaglio: che
di nuovo è impossibile. Infatti dove vanno l’80% delle esportazioni tedesche,
che sono quelle che permettono alla
Germania di avere un grande attivo della
bilancia commerciale? Vanno negli altri
paesi d’Europa, in particolare in quelli
chiamati PIGS. E’ quindi chiaro che, se
tutti facessero come la Germania, bisognerebbe trovare qualcuno altro che
compri i prodotti di tutti i paesi europei
che a quel punto dovrebbero esportare,
fuori dall’Europa, l’80% di quello che
producono. Mi sembra abbastanza chiaro che anche questo non è possibile. Silvano Andriani, un grande economista
italiano, ha fatto un’osservazione molto
acuta dal punto di vista politico, e cioè
questa: tutti i governi d’Europa, di centro, di destra e di sinistra, perdono tutti
le elezioni perché comunque fanno tutti
la stessa politica economica, cioè quella
che gli impone il Consiglio d’Europa.
La sostanza di questa politica è: prima
risolviamo il debito pubblico e poi, dopo
averlo risolto, cresceremo. Questo è
quello che dice il patto, ironicamente
chiamato, di “stabilità e crescita”. Ora
pensate bene a questo cosa vuole dire,
vuole dire che se il mercato privato, soprattutto finanziario, ha prodotto la crisi,
si pensa che la soluzione sia nel mercato
privato soprattutto finanziario. Sembra
incredibile ma è esattamente questo che
viene imposto. Un economista americano, Paul Krugman ha detto che in questo
momento “… l’Europa è il trionfo delle
idee fallite”.
Dentro lo scenario italiano, nel cercare
di capire, di fronte al governo Monti,
dopo la fine di Berlusconi, ma non ancora del berlusconismo, dentro la grande
ansia che attraversa le persone comuni
che rappresentiamo, che hanno capito
comunque che i rischi sono grandi, noi
dobbiamo essere consapevoli che, anche dentro tutto ciò, è quasi impossibile
pensare ad un’alternativa nazionale alla
crisi se non cambieranno le istituzioni
e la politica economica europea. Questo è il punto su cui vorrei concludere.
Cambiare la politica europea è molto
difficile. Il sindacato europeo non ha
abbastanza forza per poter spostare gli
equilibri della politica europea. Comunque dobbiamo sapere che il 2012 sarà
quasi sicuramente un anno cruciale. Sicuramente ci saranno le elezioni in Francia e si aprirà il percorso che porterà poi
alle elezioni in Germania. Il cosiddetto
patto di “stabilità e crescita” è già fallito
e nel 2012 buona parte dei paesi, compresa l’Italia, andranno in recessione e
pochissimi rimarranno con un PIL sopra
lo zero. L’aumento degli interessi sui ti-
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe
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toli pubblici italiani di breve periodo si
normalizzerà probabilmente, ma la tensione su quelli di lungo periodo rimarrà
inevitabilmente; questa si aggiungerà
alla recessione. Le idee per una riforma
economica dell’Europa ci sono: dagli
eurobond alla transation tax. Noi dobbiamo vedere il 2012 in questo modo,
in questo mondo che cambia, che anche
le rivolte del Mediterraneo hanno cambiato e cioè che l’Europa è sempre più
vicina al momento della verità: o saprà
riformare se stessa integrando le sue
forze e le sue debolezze oppure l’attuale
situazione europea non reggerà al protrarsi della crisi che diventerà, a breve,
una crisi sociale formidabile. Non è
un pensiero ottimista ma mi sembra la
verità. Dentro una grande crisi bisogna
sforzarsi di essere contemporaneamente
ottimisti e pessimisti.
Finito di stampare nel mese di aprile 2012
per i tipi della GAM di A. Mena e C. snc
in Rudiano (Bs)