Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe. Quale
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Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe. Quale
Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe. Quale futuro per l’area euro mediterranea? Atti del convegno 16 dicembre 2011 Dipartimento delle Politiche Globali Lombardia Brescia Sommario Introduzione3 Interventi 2 Anna Bonanomi 4 Pierluigi Cetti 5 Ernesto Cadenelli 6 Antonio Cantaro 10 Mustapha Tlili 15 Conclusioni di Danilo Barbi 20 Sommario Introduzione R ivolta. Un termine caduto in disuso nella retorica politica occidentale torna ad animare i dibattiti degli osservatori internazionali. In alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente, nel 2011, proteste e agitazioni hanno condotto a cambiamenti profondi e portato alla destituzione di despoti al governo da decenni. Si tratta di un fenomeno complesso da decifrare: in gioco fattori geopolitici, sociali e culturali. Complesso ma di rilevanza fondamentale per l’Europa per ragioni economiche, di cooperazione e di pace tra i paesi mediterranei. Da questa convinzione prende le mosse il dibattito promosso dallo Spi Cgil di Brescia nell’ambito dell’assemblea annuale dell’organizzazione. La discussione porta riflessioni dal mondo accademico e da quello sindacale. Introducono la trattazione gli interventi di Anna Bonanomi, Ernesto Cadenelli e Pierluigi Cetti che mostrano, sotto varie sfumature, la forte attenzione che la Cgil e lo Spi riservano alle questioni internazionali percepite come fattori chiave sia per affrontare i processi di globalizzazione in un’ottica di diritti e democrazia che per lo sviluppo nazionale. Antonio Cantaro, docente presso l’Università degli Studi di Urbino, nel suo intervento, esorta a comprendere la vitale rilevanza di quanto sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo senza cadere nella tentazione di ritenere che “alla fine tutto verrà deciso dalla geopolitica ”. Al centro del suo intervento sono le opportunità che dalla Primavera Araba possono discendere. Il sindacalista tunisino Mustapha Tlili, coordinatore Csi Ituc Medio Oriente -Nord Africa, offre un ritratto appassio- nato di quanto sta avvenendo nella sua regione fornendo un quadro che, a tratti, si discosta molto dalle più comuni rappresentazioni dei media occidentali. Tlili riflette sulle origini dei moti di rivolta, sulle loro evoluzioni e sui possibili scenari futuri. “La rivolta dei popoli arabi contro le loro dittature può essere considerata come un rifiuto di questo tipo di globalizzazione” afferma Tlili. È proprio su una riflessione relativa all’attuale modello economico che si imperniano le conclusioni affidate a Danilo Barbi del Dipartimento Politiche Globali della Cgil nazionale. Sulla crisi che non è crisi globale ma “profondissima crisi economica dei paesi di più antica industrializzazione” si sviluppa il ragionamento di Barbi affrontando quelle che, secondo la Cgil, sono le principali cause della crisi (assenza di redistribuzione e finanziarizzazione dell’economia) e stimolando la riflessione su possibili e innovative vie d’uscita. Ne deriva un’analisi sulle criticità dell’attuale assetto istituzionale di un’ Europa che “è sempre più vicina al momento della verità: o saprà riformare se stessa integrando le sue forze e le sue debolezze oppure l’attuale situazione europea non reggerà al protrarsi della crisi”. Con questi contributi vorremmo fornire spunti per un dibattito più partecipato e consapevole sui cambiamenti in atto e sulle conseguenze che possono produrre, uno sguardo su quello che accade fuori dai nostri confini, meno deformato dai luoghi comuni e più aperto verso le opportunità che possono derivare dall’incontro e dalla reciproca conoscenza tra culture. Segreteria Spi Cgil Brescia Segreteria Spi Cgil Lombardia Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 3 Interventi Intervento di Anna Bonanomi Segretario generale Spi - Cgil Lombardia C i troviamo oggi per riflettere sugli avvenimenti accaduti in questi mesi sull’altra sponda del mare a noi caro e in cui si sono sviluppate nel corso dei secoli della storia le grandi civiltà, mentre il nostro paese e l’antico continente sono attraversati da una crisi economica e sociale senza paragoni con altre vissute dalle generazioni nate nel secondo dopoguerra. Una primavera iniziata con i tumulti in Tunisia, continuata nelle piazze e nelle strade egiziane, per passare poi alla sanguinosa guerra in Libia e alla repressione delle migliaia di dissidenti siriani. Una primavera, poi un’ estate e un autunno in cui intere generazioni di uomini e donne hanno sfidato, anche a costo di perdere la vita, il potere dei dittatori, che da decenni sfruttavano quei popoli. Ora in Tunisia, in Egitto e in Libia quei dittatori sono stati defenestrati, in quei paesi si è aperta una fase di transizione verso la democrazia, nei primi due si sono già tenute delle libere elezioni con la vittoria delle formazioni politiche islamiche. Una stagione in cui abbiamo assistito all’emersione del protagonismo di nuovi 4 Interventi soggetti politici e sociali, all’attivismo delle nuove generazioni, le quali attraverso l’utilizzo delle potenzialità della rete (penso alle notizie diffuse sino a noi dai social network) hanno saputo superare la censura del potere. Ora sta a noi europei aiutare questi popoli nella fase di transizione, al fine di non far prevalere al loro interno il radicalismo religioso di natura islamica, in un’area delicata, una vera polveriera, come quella medio orientale. In questo contesto, mi auguro fermamente che nei prossimi mesi la comunità internazionale sappia affrontare, trovando una soluzione condivisa, la questione del popolo palestinese. È interesse di noi europei e di noi italiani che questa area del mondo a noi vicina trovi rapidamente stabilità e sviluppo sociale, avviandosi al superamento delle tante ingiustizie presenti in quei paesi. Il Mediterraneo tornerà così ad essere il luogo degli scambi economici, delle contaminazioni culturali fra i popoli e non un luogo di morte per le migliaia di disperati, che in questi decenni hanno attraversato quelle acque alla ricerca di un futuro migliore. Un mare che ritorni a essere un luogo di pace e di confronto fra uomini e donne, fra culture e religioni diverse, questa sarebbe la più bella e auspicabile conclu- sione di questa fase storica. Mi rendo perfettamente conto che sarà un processo politico e culturale che necessiterà di tempo e di grande cooperazione internazionale, nostro compito è di non lasciare soli questi popoli. Il seminario di oggi, con gli autorevoli contributi dei relatori, che ringrazio per aver accettato l’invito dello Spi di Brescia, ci aiuterà a comprendere meglio ciò che è accaduto in questi mesi e le prospettive per i prossimi, un momento di arricchimento e di presa di coscienza per tutti noi. Dal futuro dell’area euro mediterranea dipende, in parte, il nostro. Questo è a mio avviso lo spirito con cui ci accingiamo a seguire questa giornata. Intervento di Pierluigi Cetti Segretario Camera del Lavoro di Brescia Quella di oggi è un’assemblea che affronta un tema inusuale nelle nostre discussioni, ma sicuramente di grande attualità, meritevole di un approfondimento con la competenza dei nostri ospiti, riguardo ai nuovi scenari che si possono aprire in Europa con l’intreccio della crisi ed i cambiamenti in corso nell’area mediterranea. In questi anni abbiamo, spesso, affrontato il problema della crisi, la ricaduta in termini di condizioni di vita, di salario, occupazionali. Siamo stati da soli, come Cgil, nel nostro paese a contrastare manovre economiche pesanti e inique, così come stiamo tutt’ora contrastando le misure messe in campo dal nuovo governo. Stiamo vivendo un tempo decisivo per la vita dell’euro e dell’Europa attraversata sia da una pesantissima crisi economico - sociale che da una crisi politica degli stati e delle istituzioni sovranazionali. L’Europa è al centro di una crisi globale che non è affatto superata e che interessa tutti i paesi storicamente industrializzati, e soffre di scelte sbagliate di natura economica e della mancanza di un vero governo europeo. Se non si attua una politica di sviluppo rilanciando nel contempo una maggiore integrazione europea, ostinarsi nel controllo esclusivo dei debiti e nella stabilizzazione finanziaria, rischia di non essere sufficiente. Il recente accordo del Consiglio Europeo che sancisce l’obbligo di ventisei paesi dell’Unione (l’Inghilterra ne è rimasta fuori volutamente) di realizzare il pareggio dei rispettivi bilanci è davvero un passo importante verso una maggiore sovranità europea nel campo economico e darà i suoi frutti? La nuova unione fiscale dei ventisei paesi servirà a superare la crisi del debito? Basterà per difendere il sistema bancario dai rischi di crac e dalla speculazione? Il fondo Salva Stati per finanziare le iniziative anticrisi sarà sufficiente? La decisione della BCE di aprire un credito illimitato al sistema bancario dell’ Eurozona può essere considerata una novità importante ed incentivare l’accesso al credito delle imprese medio piccole che, in Italia, costituiscono la maggioranza delle imprese? Può essere fermata la crisi? Possono essere fermati il terremoto occupazionale e l’impoverimento reale della società? Nel contempo la politica europea e l’opinione pubblica sembrano disinteressate alla cosiddetta Primavera Araba ed alle rivolte mediterranee dell’Africa del Nord. Non si spende una parola sulle possibili Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 5 risorse e opportunità offerte dalla rivoluzione culturale e politica in corso nell’area mediterranea, dimenticandosi che sempre maggiore sarà la vicinanza tra i destini e l’interdipendenza tra Europa e Mediterraneo, con riflessi inevitabili sulle società e sul mondo del lavoro, con flussi migratori ingenti. In pochi mesi è accaduto l’impensabile. Nelle piazze arabe, dall’Egitto alla Libia, dalla Tunisia alla Siria, è sceso un popolo che chiede libertà, dignità, giustizia. Movimenti prevalentemente giovanili con questi obiettivi unificanti. Esprimono il bisogno di avere paesi che riconoscano i cittadini come tali e non come sudditi, con stipendi che consentano livelli di vita accettabili, dove ora la disoccupazione, l’analfabetismo e la violenza contro le donne sono l’espressione quotidiana di una terribile povertà. Questa è la questione centrale oltre all’aspirazione di maggiore democrazia. Una domanda di un nuovo sistema economico e sociale che contrasti le profonde diseguaglianze di vita dei popoli dei paesi del Mediterraneo. Un processo, anche dove si svolgono elezioni come in Egitto, sicuramente non breve ed ancora imprevedibile nei suoi esiti, con aperture a forme di governo di tipo parlamentare, ma anche di sostanziale mantenimento di governi autoritari. Enormi sono poi gli interessi internazionali collegati alle risorse energetiche e delicati gli equilibri geopolitici dell’intera area. La sensazione è che la politica delle petromonarchie del Golfo tenti di mettere un freno alle istanze più avanzate della Primavera Araba in modo da evitare che il contagio della democrazia destabilizzi 6 Interventi eccessivamente la penisola arabica. È con la consapevolezza della complessità dei fenomeni che interessano queste regioni che affrontiamo il dibattito di oggi. Intervento di Ernesto Cadenelli Segretario generale Spi - Cgil Brescia Q uello odierno, potrebbe apparire un tema non cruciale per il Sindacato dei Pensionati della Cgil, un qualcosa di culturalmente stimolante ma non parte della nostra attività o iniziativa quotidiana. Invece voglio ricordare come nelle tante assemblee svolte in questo autunno, il nodo di un’Europa diretta da banche e autorità finanziarie senza una guida politica affermata è stato, frequentemente, oggetto di dibattito. È diffusa la convinzione che trovare, nel contesto europeo, una risposta politica, oltre che economica, alla crisi sia una condizione essenziale. Se l’Europa non si darà rapidamente una guida politica e una politica comunitaria condivisa in materia di economia, fisco, politica estera, contratto sociale e diritti per i lavoratori diventerà davvero “vecchio continente”, non solo per l’invecchiamento dei cittadini ma anche per l’incapacità a trovare risposte utili e convincenti alla crisi dell’euro. È allora attuale anche approfondire e saper leggere i fatti che possono determinare cambiamenti, geografie politiche e sociali nuove, far sparire col tempo giudizi, pregiudizi e luoghi comuni sui processi migratori, per troppi anni affrontati dal governo Berlusconi-Bossi con norme discriminatorie e politiche dei respingimenti basate su accordi coi regimi dittatoriali di Paesi del NordAfrica. La nostra assemblea annuale, segue una linea di continuità: abbiamo discusso di immigrazione e di diritti di cittadinanza nelle ultime edizioni e oggi non possiamo restare indifferenti all’esplosione, nel 2011, delle rivolte arabe e del carico di novità che possono innescare sullo scacchiere europeo e mondiale. Le domande che i milioni di giovani di quei Paesi hanno messo alla base di queste rivolte inevitabilmente intercetteranno la situazione europea e quella italiana ancor di più, se non altro per la posizione geografica occupata dalla nostra penisola. Il Mediterraneo tornerà, in tempi non troppo lunghi, ad essere il “Mare nostrum”. Potrà tornare un bacino di cooperazione o di inasprimento di conflitti, come spesse volte è successo nella storia. Ad aiutarci a riflettere abbiamo chiamato il prof. Antonio Cantaro, Mustapha Tlili e Danilo Barbi, che ringrazio anticipatamente. È curioso, ma non casuale il fatto che la cosiddetta Primavera Araba sia stata così rapida nella sua evoluzione e nei suoi epigoni. Nessun dubbio sul fatto che i regimi autoritari e corrotti dei paesi della sponda sud del Mediterraneo si siano sfaldati per consunzione, ma non si può negare che questa spiegazione non poteva essere sufficiente per un ribaltamento di poteri fortemente militarizzati e ricchi di connivenze e complicità internazionali. Non possiamo dimenticare la funzione geo-strategica sia dell’Egitto, per il controllo della via marittima del Canale di Suez e la sua collocazione nello scacchiere medio-orientale, soprattutto in riferimento al conflitto arabo-israeliano, che della Libia per la questione legata ai giacimenti di petrolio e di gas, oggetto di numerosi appetiti e interessi. Soprattutto curiosa è la rivolta popolare in paesi, come il Qatar, o i sommovimenti in paesi limitrofi come il regno Saudita, o il Kuwait, in cui la ricchezza derivata dal bilancio dei petrodollari viene ridistribuita in forma di benefit o donazioni ai cittadini, quasi prevenendo i loro bisogni, facendone quasi dei “cittadini adolescenti”. In Kuwait a ogni cittadino viene dato un contributo di circa 3000 dollari all’anno e una possibilità di spesa gratuita nei supermercati per circa un anno e mezzo. A differenza di quanto accaduto in Tunisia o nello stesso Egitto, non è stata la fame a fomentare la rivolta, ma la situazione di stordimento delle libertà civili e la presa d’atto delle immense disponibilità di danaro di cui godevano i regnanti o i despoti. La conoscenza dell’effettivo prodotto della ricchezza derivata dall’esportazione di prodotti per l’energia, gas e petrolio, e il circuito di corruttela e di privilegi immeritati, hanno portato la società civile, spesso una società di mezzo, non benestante, ma con tutti i bisogni materiali soddisfatti, a rivendicare le libertà civili e una maggior partecipazione alle ricchezze prodotte proprio con le esportazioni di materie prime. Solo la manodopera straniera proveniente dal Pakistan, dal Bangladesh, o le colf filippine, senza diritti di residenza o di riunificazione famigliare, soddisfa le necessità collegate al lavoro manuale, sottopagato, e con risvolti di rischiavizzazione. Sono da 8 a 10 milioni i lavoratori immigrati che a rotazione vengono impiegati annualmente nei paesi ricchi della Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 7 penisola arabica e nel Medio Oriente. Il ricorso alle ricchezze dell’export per mantenere o stabilizzare un equilibrio socio-politico rappresenta anche una mancanza di vero e proprio progetto di investimenti, in grado di avviare un processo di industrializzazione che potrebbe rappresentare la vera sfida del futuro per questi paesi. La maggior parte delle risorse finiscono nell’edilizia di lusso, nei beni di consumo prodotti all’estero e nei capricci dei tiranni di turno. In parte, come visto, per sviluppare una politica di panem et circensens per anestetizzare le richieste di libertà e di partecipazione democratica. Tale situazione ha rafforzato le aspettative di un cambiamento legato soprattutto alle opposizioni islamiche, in Egitto con i Fratelli Musulmani e i Salafiti, in Tunisia con il Partito della Rinascita, Ennahda. Questi movimenti hanno saputo costruire un consenso popolare grazie all’attività di sostegno caritatevole alle famiglie in difficoltà, proprio mentre le leadership filooccidentali sperperavano immensi capitali, incuranti dei bisogni della gente. La speranza è che non vi siano pretesti, né per interventi dall’esterno per ricollocare “obtorto collo” le leadership di questi paesi nell’orbita degli interessi delle potenze economiche e militari in cerca di recupero di terreno rispetto alle debacles subite in Asia, né per instaurare nuovi regimi dispostici, nemici delle libertà individuali e collettive di stampo fondamentalista. Il percorso è lungo e pieno di ostacoli. I paesi del sud del mondo stanno sempre più acquisendo autonomie e poteri economici. Gli scambi commerciali transitano sempre meno dall’Europa o 8 Interventi dal Nord America e la filiera sud-sud diventa sempre più consistente. Questo è un elemento importante per leggere in modo appropriato gli eventi del 2011 e collocare nel contesto attuale, non solo del Mediterraneo, ma dello stesso pianeta, i cambiamenti epocali in atto. L’Europa si trova pian piano alla periferia del mondo e dei grandi interessi e il continuo ricorso alle armi, sempre più impiegate nelle cosiddette “missioni umanitarie”, non fa altro che accelerare questa deriva. Il suo passato coloniale, la sua influenza pervasiva del periodo successivo, che ha concentrato i centri degli affari e degli scambi commerciali nelle mani di grossi trader europei, ha mantenuto l’intero continente africano, incluso il Nord Africa, in una condizione di subalternità economico-politica. La presenza di basi militari nel Mediterraneo e in molti paesi dell’area medio -orientale o sub sahariana dimostra che ad un processo di decolonizzazione dei territori e degli stati è succeduta una condizione di dipendenza economica, culturale e politica. Ora le rivolte , ancora in corso di evoluzione, possono essere definite come uno dei prodotti dei cambiamenti postmoderni che segnano le società occidentali. È attuale la percezione di larghe parti delle società del Sud del Mediterraneo di potersi dare un assetto politico culturale definitivamente fuori dal corso della storia del ‘900, fuori delle retoriche dell’indipendenza, dei regimi connaturati agli interessi e alle dipendenze socio-culturali delle ex potenze coloniali, dai prodotti della contrapposizioni Est-Ovest proprie del tempo della guerra fredda. Potremmo forse dire che finalmente si apre una stagione costitutiva delle libertà politiche e della gestazione di autonomi assetti socio-politici. È il compimento dei movimenti per l’indipendenza . Questo processo richiede la maturazione di un senso di appartenenza delle società in cui le istituzioni vengono rifondate e legittimate nell’interesse collettivo e nel rispetto delle prerogative delle libertà personali. Non sappiamo quale sarà il tempo e il prodotto di tale processo. L’ Europa, attanagliata da una crisi economica devastante, sia per il sua entità che per le macerie sociali che stanno riempiendo sempre più la vita dei nostri giorni, appare incapace di cogliere il senso dei cambiamenti. È intrappolata in una immagine di passato in cui le era dovuto rispetto e riconoscimento. I suoi governi, a cominciare dai nostri recenti, non hanno saputo comprendere ciò che stava inevitabilmente cambiando e non hanno saputo offrire, sia nel passato che nel presente, una sponda credibile ai movimenti, latenti sì, ma ben presenti da tempo. Si è preferito far finta che tutto durasse per sempre, e, con maldestra tempistica sono stati fatti accordi con dei regimi ormai in catalessi e imbevuti della propria immagine ed arroganza. Questi regimi si sono sentiti traditi da cittadini finora imboniti sia con garanzie economiche di sopravvivenza, che con le minacce sostenute da imponenti e costosi apparati di polizia e di controllo. Non dimentichiamo gli accordi fatti dai governi italiani con Gheddafi; non dimentichiamo gli accordi scellerati di riammissione, con la Libia o la Tunisia, di cittadini immigrati respinti in mare e consegnati ai nuovi mercanti di carne umana. Il sipario è caduto. L’Europa si è sco- perta debole e inconcludente, incapace di progetti di larghe vedute, impegnata a non perdere le opportunità di sfruttamento di risorse naturali di cui sono ricchi i paesi sull’uscio di casa . I suoi governi si muovono in ordine sparso, cercando di concludere nuovi affari o di mantenerne di vecchi con i nuovi governanti. Anche questo può segnare in modo visibile sia la crisi economica che il deficit di coesione politica del nostro continente. I popoli della terra si muovono senza Europa, pian piano diventeranno essi stessi un’alternativa all’assetto attuale di potere e di influenza. In questo scenario molti si chiedono quale possa essere il ruolo di un paese euroasiatico come la Turchia. La Turchia ha avviato un processo di modernizzazione sin dalla rivoluzione dei Giovani Turchi, con Kemal Ataturk, con tutte le ambiguità che la modernizzazione del XX secolo ha portato con sé. Basti ricordare il genocidio e l’esodo delle popolazioni armene o la questione kurda, tuttora irrisolta. Oggi la Turchia rappresenta la via intermedia tra i cosiddetti assetti democratici degli stati occidentali e la continuazione di una tradizione legata all’Islam. Lo Stato turco, imbevuto di principi di laicità occidentali, sia nelle leggi che nell’alfabeto latino adottato, ha trovato una via originale di ripristino, in chiave rinnovata e moderna, della sua cultura secolare collegata alla cultura islamicoottomana. Un esempio da citare nella direzione della crescita economica e degli investimenti esteri nel paese è quello della Fiat di Marchionne. Probabilmente il futuro dell’area euromediterranea dovrà tener conto del fatto Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 9 che il mare rappresenta, per dirla con lo storico Braudel, un continente che unisce tutte le sponde del mare interno. Per secoli la via del mare ha messo in contatto culture e civiltà meticciandone gli usi e costumi e moltiplicandone le influenze . La situazione attuale ci porta a ripensare sia gli accordi di cooperazione euromeditteranea, che a riconoscere a questi popoli il diritto all’autodeterminazione. Tale diritto comporta la legittimità delle esperienze di ristrutturazione degli apparati dello Stato di cui attualmente sono attrici diverse forze politiche sia in Tunisia, che negli altri paesi. Certo in Europa si guarda con benevolenza agli accordi commerciali possibili, e si farà a chi arriva prima, ma già nascono delle perplessità per la ricerca in atto di coniugare le appartenenze politiche con le convinzioni religiose. È un dato oggettivo di cambiamento, anche nelle ultime elezioni nel Marocco. È, a mio avviso, un progetto legittimo di ricompattamento sociale partendo da valori fondativi condivisi, in questo caso dei valori dell’Islam, purché si rispetti la pluralità delle idee, delle convinzioni e dei codici comportamentali, propri di tutte le libertà soggettive di cui possiamo andar ancora fieri anche in occidente. Una espressione di tale libertà è rappresentata dal popolo degli Indignados, o dallo slogan Occupy Wall Street . L’area euro mediterranea può iniziare un percorso di riavvicinamento e di scambi vantaggiosi come nei bei tempi d’oro del dialogo tra le due sponde, e ricostruire, pur nella pluralità delle differenze, un’area di sviluppo di mutuo riconoscimento, rendendo sempre più deboli le tracce del colonialismo e del postcolonialismo. 10 Interventi Si accentua la convinzione che il destino di questa parte del mondo è indissolubilmente comune. Inoltre, gli accordi commerciali vanno affiancati ad accordi per il rispetto reciproco in materia di diritti fondamenti della persona umana . Altri patti devono prevedere, soprattutto per le generazioni future, una maggior possibilità di movimento tra le due sponde, senza retropensieri di legittimazione di egemonie o di interessi a senso unico. Solo nella ricerca di un rapporto solidale, fondato sulla condivisione sia di obiettivi che di percorsi, si potrà immaginare un bacino mediterraneo che recuperi la sua funzione naturale di luogo di incontro di popoli e di persone e non rivesta più la sua attuale, tragica, condizione di cimitero di corpi e di buone intenzioni. Non so se sarà facile e possibile nel breve periodo produrre un contributo utile allo scopo, abbiamo però il dovere di provarci. Intervento di Antonio Cantaro Università di Urbino I n questi decenni, troppe volte, la retorica ufficiale ha speso fiumi di parole sulla necessità della cooperazione fra l’Europa e i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Oggi avvertiamo, però, di essere in un passaggio storico un po’ diverso, anche se difficile da affrontare, che può far diventare il tema della cooperazione politicamente e socialmente importante. Prendere sul serio tale tema non è facile, anche emotivamente. Il rischio di ridurlo ad una fiera dei buoni sentimenti, a qualcosa che assomigli ad un cerimonia poco sentita, è un rischio reale con cui dobbiamo fare i conti. Dobbiamo affrontare il tema senza buonismi. Sappiamo che il Mediterraneo è stato a lungo anche area di drammatici conflitti. Non è stato sempre tutto rose e fiori. La storia è una storia complicata. Ci sono aree di grandi conflitti che sono diventate col tempo anche aree di grande cooperazione. Ci sono problemi storici che non vanno sottovalutati. Oggi c’è inoltre la paura e il timore della “periferizzazione”. Noi, oggi siamo sotto attacco. La parte prevalente dei paesi del Mediterraneo - in senso allargato, perché consideriamo anche Portogallo, Spagna, Grecia - è sul banco degli imputati. Ancora in questi giorni c’è l’idea che il destino dell’Europa, dell’euro, dipenda dal fatto se sapremo fare bene i ‘compiti a casa’. Sappiamo cosa comportano questi compiti soprattutto per i pensionati, per i lavoratori italiani, per la parte più debole della popolazione. Non si può nascondere che tale condizione, questo rischio della periferizzazione - con tutte le conseguenze drammatiche e sociali che già si cominciano ad intravedere per il 2012 e il 2013 - sia un rischio che cominciamo ad avvertire anche sulla nostra pelle. Iniziamo con il dirci che non c’è un destino ineluttabile di crescita assoluta, di crescita destinata a riassorbire le contraddizioni delle politiche degli stati, le conseguenze drammatiche delle speculazioni della finanza nel corso di questi anni. Siamo immersi sino al collo nella vera prima crisi della globalizzazione. In realtà, la crisi per il momento non si è ancora manifestata come crisi globale a tutti gli effetti. Ci sono paesi come la Cina, l’India, il Brasile in grande crescita e sviluppo culturale. Nella globalizzazione c’è qualcuno che emerge (come è del tutto evidente, anche nei nostri paesi e fra le nostre classi sociali) e qualcuno che ci perde. Anche nell’orizzonte globale non siamo, pertanto, tutti figli dello stesso Dio. Noi, europei e italiani, siamo stati a lungo, per tanti versi figli di un dio ‘maggiore’, ma potremmo uscire alla fine di questa crisi come figli di un dio ‘minore’. E, a loro volta, i figli di un dio ‘minore’ diventare figli di un dio ‘maggiore’. Stanno cadendo molti tabù. Non pensiamo però che, caduto il tabù di Berlusconi o, a livello europeo, il tabù dell’unione fiscale ad ogni costo, tutto resterà come prima. È in gioco il nostro destino. Non ci sarà soltanto la moneta unica, la politica di bilancio unico, ma un intervento a tutto campo. Vi ricordate la lettera della BCE, i ‘compiti a casa’ che dobbiamo fare. Ci dicono quello che dobbiamo fare per le pensioni, poi ci diranno quello che dobbiamo fare per il mercato del lavoro, poi per la sanità, e così via. Quelle che nel linguaggio convenzionale vengono definite “le politiche strutturali”. Le sfide, che si giocano a livello europeo e a livello globale e, per quanto ci riguarda sulla sponda del Mediterraneo, stanno “ripoliticizzando” temi che pensavamo superati e lontani. Tutto sommato pensavamo ci fosse una classe dirigente che si occupa a Bruxelles o a Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, delle questioni sopranazionali e noi (che non abbiamo più la lira, non abbiamo più il franco e così via), che avremmo, comunque, continuato a fare Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 11 le nostre politiche nazionali. Invece, in Italia abbiamo oggi Mario Monti, come in Grecia c’è un altro governo di ‘tecnocrati’, espressione difficile e complicata su cui non voglio intervenire, che però simbolicamente ci dice non solo che dobbiamo fare i ‘compiti a casa’, ma anche che i maestri che ci vengono mandati da fuori devono essere accettati e riveriti. Perciò, se facciamo di questa giornata soltanto la fiera dei buoni sentimenti, perdiamo un’occasione per capire quanto sia politicamente importante il nuovo corso montiano e quanto sia necessaria una riflessione su questa inedita fase politica. C’è da fare una battaglia delle idee, una battaglia culturale, perché la tendenza che abbiamo avuto in questi mesi da parte dell’opinione pubblica, dei media, di alcuni osservatori (politici, sociologi, economisti) è stata quella di dare una lettura riduttiva della Primavera Araba. Un po’ per auto-consolarsi, un po’ perché alcuni effettivamente credono che si possa dare una simile lettura e, cioè, che noi da questo punto di vista possiamo disinteressarcene. Si tratterebbe di rivolte da parte di minoranze della popolazione, in particolare dei giovani, che vivono nella rete dei social network, contro l’indistinta casta di dittatori e despoti, che hanno perso il controllo della situazione interna. Una lettura riduttiva che spesso si accompagna all’inossidabile convinzione che comunque alla fine il mondo arabo tornerà all’ordine, affidandosi all’Islam. Si ricordano, così, i risultati recenti delle elezioni tunisine, di quelle egiziane, rischiando di fare di tutta l’erba un fascio. Ci dirà il nostro amico e gradito ospite, Mustapha Tlili, se la realtà dei fratelli 12 Interventi musulmani sia la stessa di Al Qaeda e se dentro i fratelli musulmani non ci sia una dialettica politica. Se tutto sia un monolite. Se c’è una pluralità di idee soltanto nelle nostre democrazie e, invece, lì tutto è meccanicamente determinato dalla Sharia, dai principi del Corano. Io non credo. Credo che anche lì la realtà sia molto più articolata. Anche le semplificazioni, quali Islam moderato vs. Islam non moderato, non tengono conto dei compromessi all’interno di tali movimenti. Basta richiamare la storia italiana, per constatare che, in realtà, non abbiamo uno Stato completamente laico. Abbiamo nel corpo della nostra Costituzione i Patti Lateranensi, il Concordato, i grandi compromessi tra culture religiose, tra culture politiche, tra prospettive diverse del mondo. Perché loro dovrebbero essere così semplificati? A cosa ci aiuta una lettura che rappresenta il mondo arabo-musulmano come un mondo indistinto, pronto comunque ad affidarsi direttamente all’ideologia, alla religiosità islamica per ricostruire i suoi passi? No, la questione credo sia molto più articolata. Un’altra lettura, altrettanto riduttiva, ci dice che tutto poi verrà deciso dalla geopolitica, dal gioco delle grandi potenze globali - dagli Stati Uniti, dalla Cina – da quelle regionali come la Turchia, l’Iran, Israele. Non si capisce, così, che lì è successo qualcosa di radicalmente nuovo che rappresenta anche una formidabile opportunità per l’Europa. Oliver Roy, acuto studioso di questi temi, ha più volte sottolineato come queste rivolte non possano essere ricondotte (non che non ci siano anche questi elementi) alle questioni sovranazionali, come la questione palestinese, il socialismo arabo, il vecchio nazionalismo arabo, con il richiamo appunto alla dimensione islamica come dimensione sovranazionale. Ma ritiene, invece, Roy che si tratta di lotte patriottiche nazionali, di movimenti radicati, anzitutto, dentro il proprio territorio. Di lotte nelle quali i rivoltosi non chiedono la testa dei loro capi, perché reputati marionette di potenze straniere. Niente a che vedere quindi con quel ‘primitivismo’, che tante volte ha caratterizzato il mondo arabo-musulmano: siamo di fronte a richieste politiche, economiche, sociali, direi costituzionali che evocano passaggi importanti (rivoluzionari e costituenti) della storia europea. Abbiamo gli strumenti - se vogliamo leggere con attenzione quelle realtà - per offrire il nostro contributo di comprensione. Una lettura troppo facile (alla Lucio Caracciolo, per intenderci) ci dice che la Primavera Araba è già finita e siamo nel pieno dell’autunno delle contro-rivoluzioni. Il destino sarebbe già segnato. Questa rischia di essere una di quelle profezie che si auto avverano. Io penso che questa profezia possa essere contrastata ed è nostro interesse, dei paesi mediterranei, dell’Italia, di un’Europa rinnovata, respingere questa semplicistica lettura e cogliere le opportunità che sull’altra sponda del Mediterraneo oggi si offrono. È nell’interesse europeo superare l’indifferenza con la quale in questi mesi si è guardato a quelle vicende, salvo mandare qualche aereo in Libia, salvo mandare il Presidente dell’ENI a fare qualche accordo energetico, salvo sino a ieri rinnovare gli accordi di cooperazione, gli accordi commerciali e pensare che ciò basti. No, c’è un interesse europeo ad un investimento strategico politicoeconomico oggi più di ieri. Diciamocelo con franchezza, quest’Europa, così com’è, che guarda tutta al nord, comunque la si ristrutturi, non è che abbia un grande futuro davanti. Se non esercita la sua egemonia, se non comincia a guardare complessivamente al sud, ai paesi dell’area euro-mediterranea, l’Europa non potrà avere un grande futuro. Vorrei dire questo agli amici tedeschi: non è neanche nel loro interesse. Vorrei dirlo anche agli amici inglesi, poiché se è vero che un rapporto privilegiato della Gran Bretagna con l’Europa non c’è mai stato, è altrettanto vero che sta venendo meno per certi versi anche quello con il mondo statunitense. Gli Stati Uniti guardano da un’altra parte, da molti decenni ormai, anche dal punto di vista militare e la vicenda libica nel bene e nel male lo ha plasticamente dimostrato. Deve essere nostro interesse guardare al sud dell’Europa, perché è un nostro interesse non essere condannati alla periferizzazione, perché è nostro interesse poter giocare un ruolo nella scena globale. Naturalmente dare questa risposta non può essere una questione di pura buona volontà. Questo Convegno è, in un certo senso, una prosecuzione di un’iniziativa che si è svolta all’Università di Urbino e che continuerà a Granada con altre iniziative. E altri centri di ricerca organizzano iniziative simili. Naturalmente questa risposta, questa traccia, questa strada, che invito noi tutti a percorrere, questa lettura non riduttiva, ma storicopolitica della vicenda del Mediterraneo e delle sue straordinarie opportunità, significa leggere con verità quello che sta avvenendo. Con le sue contraddizioni, sapendo che non sarà una passeggiata, Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 13 che ci saranno dei contraccolpi, come già sempre ci sono stati. Chi non ricorda la storia europea? Non è che dopo la Rivoluzione Francese non ci sia stata la Restaurazione! Non è che dopo il 1848, espressione che è rimasta scolpita nel nostro immaginario, non ci sia stata la reazione al 1848! C’erano forze radicali e socialiste che volevano la costituzionalizzazione del “diritto al lavoro”, ma vinsero le forze conservatrici e reazionarie. Poi, dopo mezzo secolo, c’è stato, però, Weimar, c’è stata la Costituzione Italiana: c’è stato quello che io chiamo il ‘secolo lungo’ dello Stato sociale e del Movimento dei Lavoratori. Spero che non siano tempi così lunghi, ma abbiamo le lenti per capire che se c’è una rivoluzione, c’è un tentativo di controrivoluzione. Non facciamoci abbagliare dagli articoli dei giornali, per non capire quanto siano lunghe e complicate le transizioni. Perdonerete se, a questo punto, faccio tre affermazioni, che sono, in qualche modo, anche tre domande rivolte al nostro ospite Mustapha Tlili, che vive in quella realtà. Tre affermazioni che sono anche tre domande che ci aiutano a capire se è possibile una lettura più complessa della Primavera Araba. E se tale lettura può essere più vicina ai nostri interessi e quali sono le condizioni perché tale visione si concretizzi. Innanzitutto io penso che ci sia un qualche rapporto assai stretto tra quella che è chiamata la globalizzazione occidentale, cioè una globalizzazione fondata sul dominio della finanza e dei mercati, e le rivolte arabe. Noi non possiamo, infatti, dimenticare che ci sono stati grandi speculatori negli anni precedenti che scommettevano sul rialzo dei prezzi delle materie prime. Sapete come fanno gli 14 Interventi scommettitori, se inizia uno, scommette anche l’altro, e si realizza un rialzo dei prezzi artificiale (una bolla speculativa). Naturalmente questa è stata la scintilla, un microepisodio. Però è stato un microepisodio che ha avuto un suo valore significativo. Ci sono state le rivolte del pane, le rivolte per i prezzi alti dei generi alimentari. Ci sono state rivolte tipicamente sociali. Quando ancora la globalizzazione funzionava, quando sembrava espansiva, e secondo gli esperti questi paesi, (soprattutto quelli del Maghreb) erano – come dicono gli esperti – al “centro della periferia”. Anche se sempre più periferizzati. Pensiamo a quanto è in passato accaduto e accade ancora oggi nel Mezzogiorno d’Italia e non solo. Una serie di produzioni non viene più fatta, con effetti di impoverimento forte dei territori, che hanno invece una tradizione manifatturiera, una tradizione agricola forte. A tutto questo si è aggiunto poi il blocco, o comunque il rallentamento dell’immigrazione, e infine la grande speculazione internazionale. Tutto questo non è un effetto casuale della globalizzazione. Questo, purtroppo, è uno dei suoi caratteri, è la sua morfologia, il suo modo di essere. La globalizzazione è necessità e libertà allo stesso tempo. La ragione del suo grande successo, anche tra le giovani generazioni, ma anche nei nostri modi di vita, è la libertà che ci offre, la promessa di maggiore indipendenza da tutti i vincoli. Nel momento in cui la globalizzazione diventa solo necessità senza libertà, si scatenano le reazioni. Si scatenano nei paesi europei e si sono scatenate in forma, secondo me, rivoluzionaria nei paesi dell’area euro-mediterranea. Le rivolte arabe, certamente molte dif- ferenziate al loro interno (ma questa è una banalità: un discorso è la Libia, un discorso la Siria, un discorso è l’Egitto, uno la Tunisia, un altro ancora è il Marocco, così come molte differenze c’erano nell’ambito della grande rivoluzione liberale in Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo) sono accomunate dall’essere rivolte in alcuni casi economiche, in ogni caso politiche. Si tratta, in realtà, di rivolte sociali e democratiche insieme. Guardiamolo il trittico che è un po’ lo slogan della rivoluzione egiziana, che è un po’ la carta d’identità di tutte le rivoluzioni del mondo arabo: libertà, dignità e giustizia. C’è qualcosa che non è semplicemente la rivolta del pane, ma qualcosa che unisce più fattori e più elementi. Io lo chiamerei un movimento costituente dal basso, un costituzionalismo dei governati, una declinazione del termine dignità che, in una sede sindacale come questa, si può capire al volo. Tante volte si parla di dignità nel nostro paese come dignità meramente individuale, mentre noi abbiamo il ricordo vivo della Costituzione, in cui la dignità è innanzitutto dignità sociale, dignità dei lavoratori. Ecco un modo d’intendere la dignità che non è quello tipicamente e semplicemente liberale ma che è un modo di sottolineare che la dignità è una dignità tanto individuale quanto collettiva, tanto economica quanto sociale. Se tutto questo è vero, le letture enfaticamente retoriche (“Un nuovo ’89! È caduto un altro muro!”) non reggono. Siamo certamente di fronte ad un grande evento epocale, ma il senso di questo evento è ancora da decifrare. Nutriamo la speranza di celebrare la caduta di un altro muro – per altro abbiamo visto come abbiamo gestito male quell’allargamento ad est e le sue conseguenze negative – ma non c’è da essere aprioristicamente celebrativi.La Primavera Araba sta facendo piazza pulita non solo di decennali regimi autocratici, ma anche degli immaginari – di destra e di sinistra, politicamente scorretti e politicamente corretti – con i quali l’opinione pubblica europea ha sinora letto l’Africa mediterranea. Nel momento in cui la grande maggioranza della gioventù nordafricana sembra invocare quello che retoricamente Europa e Stati Uniti predicano da tempo – promozione della democrazia e dei diritti umani – è proprio il discorso normativo occidentale a vacillare. A mostrarsi inidoneo a fornire una narrazione credibile degli sviluppi politici, geopolitici, costituzionali della regione. Colpisce e preoccupa l’enorme distanza che separa le piazze della Primavera Araba e delle rivolte mediterranee dall’opinione pubblica e dalla politica europea. È tempo di cominciare a costruire un altro immaginario. Bisogna porre sempre più al centro della riflessione europea la questione mediterranea, la sua rinnovata centralità nel mondo globale e nella crisi della globalizzazione. Intervento di Mustapha Tlili Coordinatore Csi - Ituc Medio Oriente e Nord Africa (Testo non rivisto dall’autore) I nnanzitutto, vorrei dire quanto sia contento di essere tra voi, anche per gli ottimi rapporti che sempre abbiamo avuto con la Cgil Nazionale, in particolare con il Dipartimento Politiche Globali. La Cgil è stata una delle organizzazioni europee più attive nella Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 15 nostra terra. Sono, dunque, felice di aver accettato questo invito. Il tema di questo convegno è di grande rilievo per tutti coloro che lavorano nella Regione Araba - come è stato detto nei precedenti interventi - soprattutto in rapporto alle vicende europee. Da quanto ho ascoltato questa mattina ho potuto constatare che siete molto informati su tutto ciò che è accaduto nel 2011 nella sponda sud del Mediterraneo. Non vi farò, quindi, un resoconto di tutti gli eventi, ma cercherò di rispondere alle domande del Prof. Cantaro e trasmettervi la nostra visione, cosa abbiamo capito di quanto è successo e sottolineerò alcuni aspetti di quella che viene chiamata Primavera Araba, aspetti talvolta deformati dai media. Alcuni non lo fanno intenzionalmente, altri invece sì. Il Prof. Cantaro mi ha agevolato molto porgendomi la domanda in merito alla reale natura della Primavera Araba e alle sue motivazioni profonde. Certamente ci sono stati fattori economici e sociali, ma questi fattori, come la povertà e la disoccupazione, sono in realtà sempre esistiti in questa parte del mondo. Cosa ha fatto sì che un anno fa (il 17 dicembre 2010), da un giorno all’altro, tutto sia iniziato in un villaggio in Tunisia? Un giovane venditore ambulante è stato umiliato dalla polizia comunale per aver messo il suo carretto in un posto in cui ciò non era consentito, e da lì fu cacciato via. La sua collera e il senso di umiliazione lo hanno portato ad immolarsi. Nei paesi del Sud del Mediterraneo non era comunque né la prima né l’unica volta che una cosa del genere accadeva. Un caso di suicidio sulla pubblica strada, non è isolato, è frequente. Questa volta, però, la popolazione del 16 Interventi villaggio ha provato esattamente lo stesso sentimento del giovane venditore ambulante. Di villaggio in villaggio, di regione in regione, tutta la Tunisia si è mobilitata contro le decennali umiliazioni patite. Il Presidente nei suoi discorsi, all’epoca, ha cercato di minimizzare l’accaduto, riducendolo ad un problema di povertà e di disoccupazione. I media di tutto il mondo hanno riportato questa tesi e cioè che i tunisini si erano ribellati in strada contro la disoccupazione e la povertà, ma nelle settimane successive hanno posto agli osservatori un serio problema: cosa fa sì che in un paese dopo l’altro, in sequenza, si mettano tutti ad occupare le strade, a chiedere ai propri governanti, ai dirigenti di andarsene? I tunisini hanno occupato le strade per tre settimane, gli egiziani per cinque, i libici sono stati costretti a difendersi con una guerra contro il potere che è durata mesi. In Siria la gente scende in piazza tutti i giorni da otto mesi. Nello Yemen milioni di persone manifestano per strada tutti i giorni da dieci mesi. Dappertutto ci sono manifestazioni, in Algeria, in Marocco e anche nei paesi del Golfo, come Kuwait, Bahrein. Noi della Confederazione Sindacale Internazionale abbiamo osservato e analizzato la situazione e sono lieto che il Prof. Cantaro dica, più o meno, la stessa cosa. Ossia che in questo 2011 abbiamo assistito ad una rottura storica e i popoli della regione araba non accettano più il sistema autoritario che nel tempo è diventato un sistema di grande dispotismo. La nuova generazione, più istruita, che dispone di mezzi di comunicazione moderni, può informarsi attraverso le tv satellitari, sa che la gente al di fuori di queste regioni non vive come loro. Sa- pete bene che è una terra che non ha mai conosciuto il rispetto dei diritti fondamentali. Quattordici secoli fa la nostra area era una regione abitata da molte etnie, con molte religioni. Poi sono arrivate le conquiste musulmane e l’Islam è giunto non come è avvenuto con altre religioni, con apostoli o predicatori, ma con la forza. Da allora ci sono stati che hanno dominato le loro popolazioni in nome della religione. L’Impero Ottomano – un grande Impero – si è instaurato pur sempre con la forza. C’è stato poi il colonialismo europeo, che si è imposto a sua volta con la forza. Dopo la decolonizzazione chi ha governato la regione, lo ha fatto ancora una volta con la forza. Ad un certo punto questi regimi, che per la maggior parte si definivano repubblicani, hanno finito per trattare i cittadini peggio che se fossero stati sudditi. Compaiono il divieto della libertà di espressione, il divieto della libertà di associazione, la negazione dei diritti fondamentali elementari. Negli ultimi anni abbiamo persino assistito ad un presidente egiziano che voleva lasciare il paese in eredità al proprio figlio. Lo stesso avveniva in Libia. Il presidente tunisino che voleva lasciare il paese in eredità alla propria moglie e, infine il presidente siriano, per il quale è stata modificata la Costituzione in trenta minuti, non avendo ancora l’età per ricoprire quel ruolo. Quindi, il punto comune tra tutti questi paesi è il dispotismo politico, ed è per questo che tutti hanno reagito contemporaneamente. L’attuale situazione mondiale, l’attuale circolazione delle persone, delle idee, delle informazioni non permette più questa forma di governo dispotico. Questo è il problema. Torno a una delle domande del Prof. Cantaro riguardo al legame tra la Primavera Araba e la globalizzazione. Il legame che sussiste è questo: la globalizzazione organizza un sistema politico ed economico su scala mondiale e impone un ruolo soprattutto ai paesi più piccoli che devono accettarlo. Il dispotismo nei paesi arabi non era un segreto per nessuno, come hanno riconosciuto Zapatero, Sarkozy e anche Berlusconi. Affermavano, però, di non sapere che la situazione fosse giunta a quel punto. Cosa chiedeva a questa regione il sistema globalizzato? Che fornisse energia a basso prezzo, che dichiarasse di collaborare in materia di lotta al terrorismo e che aprisse le proprie frontiere ad accordi di libero scambio, o ad accordi preferenziali all’Occidente per vendere i suoi prodotti. In alcuni paesi del Medio Oriente si chiedeva anche di avere un atteggiamento di pace incondizionato con Israele. Quindi, “se accettate queste condizioni potete fare quello che volete del vostro paese e del vostro popolo”. La rivolta dei popoli arabi contro le loro dittature può essere considerata come un rifiuto di questo tipo di globalizzazione. Nei media si parla di rivoluzione e non di Primavera Araba, come se ci fosse stato un profondo cambiamento in questi paesi. Dimenticano però di dire alcune cose. Le forze e i gruppi di interesse che sostenevano i regimi all’interno sono ancora lì al loro posto. Le popolazioni tentano di farli andare via, ma questi resistono. Ovviamente, come potete immaginare, non resistono a volto scoperto ma utilizzano mille tecniche: dal sabotaggio economico fino al controllo dei media per manipolare la popolazione, oppu- Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 17 re il sostegno di alcune forze politiche contro altre. Nei paesi in cui i presidenti sono andati via, ci troviamo in una fase di transizione molto complessa, perché le popolazioni che si sono ribellate non avevano una direzione né un programma politico. Quando ci sono state le rivoluzioni bolscevica, cubana, vietnamita, all’indomani c’era già un altro governo con una direzione ben precisa, perché sapevano quali obbiettivi perseguire, ma questo da noi non è ancora successo. Se dobbiamo parlare di rivoluzione, è una rivoluzione che cerca ancora la sua strada. E la sua strada può passare solo attraverso le elezioni. Ora i media vi hanno certamente detto che le elezioni in Tunisia e in Egitto sono andate benissimo, vi diranno anche che in Libia le elezioni andranno benissimo, ma non è vero! Prendiamo il caso della Tunisia, un paese di cultura e di religione musulmana. C’è un partito che dice “io sono il partito dell’Islam”, in un paese in cui l’analfabetismo riguarda il 24-25% della popolazione. Un partito che raccoglie denaro da ogni parte, senza alcuna forma di controllo, avallato dai media dei paesi del Golfo, perché il Partito Islamista non è un partito nazionale, è una sezione di un partito internazionale. Quando Ben Ali è stato cacciato via, abbiamo creato in Tunisia un’Alta Commissione per la realizzazione degli obiettivi della Rivoluzione di cui ho avuto l’onore e il privilegio di far parte. Abbiamo elaborato un codice elettorale con la partecipazione degli islamisti e abbiamo detto che l’utilizzo delle moschee era vietato, che non era ammesso denaro dall’estero e che non avremmo utilizzato i media stranieri durante la campagna elettorale. Tutti erano d’ac18 Interventi cordo, ciò è stato inserito nel codice elettorale, ma nulla è stato rispettato. Sono stati chiusi gli occhi su tutto, e non dimenticate che in Tunisia il 53% della popolazione non ha votato. La Tunisia ha 8 milioni e 600 mila elettori, gli islamisti alla fine hanno ottenuto quasi 2 milioni di voti. Tutti hanno detto che il risultato delle elezioni è stato positivo perché ha permesso alla Tunisia di raggiungere la stabilità di cui gode da poco. Ma voi conoscete bene la Tunisia, conoscete la popolazione, la sua cultura, diciamo che non è nelle mani degli Islamismi; è un processo comunque che ci sarà anche in Marocco e in altri paesi e che va avanti. Ci troviamo davanti a diversi scenari e ad un processo che durerà da due a quattro anni un po’ ovunque, in tutti i paesi. Abbiamo davanti uno scenario in cui gli islamici che sono al governo vogliono rimanerci e si rifiutano di rispettare il prossimo scrutinio e quindi di garantire l’eventualità dell’alternanza. Vorrei rassicurarvi però, non penso che siano in grado di farlo, in Tunisia, in Egitto e in Marocco, per motivi oggettivi. Le economie di questi paesi sono collegate con i paesi del Nord, quindi per motivi di geopolitica non saranno aiutati e autorizzati a farlo. C’è poi una capacità, in questi tre paesi, della società civile e dei partiti progressisti. Il secondo scenario è che ci sarà un altro regime non dispotico questa volta, non il potere concentrato in una sola persona, ma un potere istituzionale eletto in modo democratico, ma senza contenuto sociale, senza politica sociale, senza riconoscimento dei diritti sociali fondamentali. Abbiamo l’esempio del Marocco. Il Marocco da venti anni si trova in un sistema elettivo, ha delle istituzioni, i partiti della sinistra erano al governo dal 1998, però è uno dei paesi arabi in cui c’è maggiore disparità sociale, maggiore povertà e disoccupazione. Quindi, a prescindere dallo scenario che vivremo nella sponda Sud del Mediterraneo, dobbiamo ricordare una verità: con il dispotismo non esisteva un vero partito politico (a parte il caso un po’ particolare del Marocco) per motivi storici. La società civile non è organizzata molto bene, per cui con qualsiasi situazione, con qualsiasi scenario, il ruolo dei sindacati, come abbiamo visto, in Tunisia e in Egitto sarà molto importante. La situazione sociale dopo la Rivoluzione è molto particolare, in Egitto, in Tunisia, in Marocco e anche in Libia: c’è stata un’esplosione della questione sociale. Ci vorrebbero sindacati forti, perché in questi paesi in cui le fabbriche si sono fermate non c’erano rappresentanti sindacali. I datori di lavoro non volevano i sindacati. Quindi in questa fase di transizione hanno bisogno di un sindacato forte. Ci sono altre questioni internazionali che sono state sollevate. In Palestina e Israele, il processo di pace è bloccato dal 1995, perché apparentemente Israele non sentiva, prima della Primavera Araba, la necessità di negoziare. Era preoccupato per la sicurezza, però comunque aveva delle garanzie, la garanzia di Mubarak, di Assad, e di altri dirigenti arabi che hanno mantenuto una sorta di status quo con Israele. Oggi questi dirigenti sono stati defenestrati e le garanzie non esistono più. In Egitto quindi c’è un grande dibattito sull’accordo di pace e, per Israele, oggi è estremamente importante ritornare al tavolo dei negoziati, per trovare un accordo che garantisca la sua sicurezza, ma anche i diritti del popolo palestinese. Questo per dirvi che la Primavera Araba sarà positiva se ci sarà il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e si potrà instaurare una pace duratura nei paesi arabi. Ieri sera c’è stata una buona notizia in merito alla Siria. La Russia comincia a cambiare posizione, ieri ha sottoposto una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza. Questo mi porta a parlarvi della Turchia. Con i regimi appena caduti, soprattutto con la Siria, tutta la regione araba si trovava, almeno in questi ultimi anni, sotto l’influenza iraniana. La nuova politica turca verso i paesi arabi ha controbilanciato l’influenza iraniana perché tutti i regimi arabi che adesso sono caduti si preoccupavano di raccogliere denaro per gestire la corruzione e non per gestire la loro regione. La Turchia ha trovato un’opportunità, perché nella regione c’erano solo l’Iran e l’Arabia Saudita. La situazione, quindi, sta evolvendo, oggi la Turchia ha un’influenza nella regione araba - ne ha parlato Ernesto Cadenelli - anche se alcuni paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar estendono la loro influenza fino al Maghreb. Per questo motivo sono del tutto d’accordo con il Prof. Cantaro quando afferma che è molto importante ed urgente ripensare al progetto euro-mediterraneo e vorrei concludere dicendo che mai in passato c’è stata come adesso la prospettiva di creare qualcosa di solido, concreto e duraturo nella zona del Mediterraneo che sia l’unione per il Mediterraneo oppure il processo di Barcellona, o una politica mediterranea rinnovata. Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 19 Faccio un pronostico: fra pochi mesi, uno o due anni al massimo, i partiti islamici per governare dovranno abbandonare il loro credo politico, l’idea che la religione possa fornire tutte le risposte, perché davvero questa è l’unica possibilità per loro. I fattori che hanno fatto crescere il Partito dell’Islam al punto da fargli vincere le elezioni oggi stanno scomparendo. I motivi che hanno costituito la forza del Partito islamico stanno scomparendo: in queste regioni avremo un processo di difficile transizione, ma nei paesi arabi la democrazia non sarà più un’eccezione. I paesi arabi sono ormai entrati nell’era democratica. Un po’ tardi, ma con grande coraggio e con grande eroismo. Conclusioni di Danilo Barbi Segretario confederale Cgil – responsabile dipartimento Politiche Globali Siamo tutti quanti così presi dai drammatici problemi della quotidianità italiana che si finisce qualche volta per dimenticare quella che è invece una vecchia vocazione della Cgil: pensare che ci sono sempre dei fili e dei legami potenti fra quello che ci succede ogni giorno e quello che succede nel mondo. È ancora così e forse in questa fase è, come non mai, così. Io provo a sottolineare un argomento complementare a quello proposto dal prof. Cantaro e dall’importante testimonianza del compagno Mustapha. Provo a prendere le questioni dal punto di vista dell’economia sia per quanto riguarda il ragionamento sulla crisi globale che quello sulla situazione europea. E vorrei così anche rispondere ad alcune questioni proposte 20 Interventi dal compagno della Segreteria della Camera del Lavoro. Partendo dal titolo: quanto è globale la crisi che stiamo vivendo? Siamo abituati a chiamarla crisi globale. A me capitava, circa un anno fa, quando usavo questa espressione, incontrando i sindacati della Cina o del Brasile, che loro rispondessero, sorridendo: “la crisi è la vostra”. Effettivamente avevano ragione, bisogna dire una cosa in modo più preciso: c’è una profondissima crisi economica dei paesi di più antica industrializzazione, è la crisi del vecchio G8. È la crisi dei paesi che hanno sviluppato la prima e la seconda rivoluzione industriale. È la crisi dell’Europa, dell’America, del Giappone, del Canada, dell’Australia. Questo è logico, in verità, se si torna ad un punto chiave per discutere della crisi: perché c’è la crisi? Vorrei farvi notare che moltissimi commentatori che vogliono imporre alcune strategie di uscita dalla crisi non dichiarano mai quali sono le cause della crisi. Le cause della crisi, e su questo la CGIL ha un’analisi di riferimento fin dal precedente congresso, sono essenzialmente due e sono collegate fra di loro. La prima causa è che l’aumento di produttività tecnologica, soprattutto nella produzione industriale, non è stato negli ultimi venti anni redistribuito. Il secondo motivo è quella che chiamiamo la finanziarizzazione. Sembra una parola misteriosa ma concretamente vuol dire che buona parte dei profitti realizzati nella produzione di merci e servizi, sul piano economico generale, invece che andare a finanziare nuovi investimenti produttivi, che producono cioè nuova occupazione, vanno in attività finanziarie. Viene seguito, quindi, un modello generale in cui il surplus prodotto dall’insieme della società non viene reinvestito per l’insieme della società realizzando, alla fine, uno schema per il quale non si producono più soldi attraverso i prodotti ma si vogliono produrre soldi attraverso i soldi. La crisi è quindi dovuta ad un cambiamento di sistema nel quale il capitalismo finanziario ha mangiato il capitalismo industriale. Anche questo spiega la crescita impetuosa di alcuni paesi che siamo abituati a chiamare “in via di sviluppo” ma che oggi dovremmo abituarci a chiamare “in rapida crescita” (Cina, India, Brasile, Sud Africa…). Questi paesi non hanno avuto, in questi anni di crescita, nessuno dei due problemi di fondo. Infatti in questi paesi la crescita, pur fra tante contraddizioni, è stata reinvestita nell’aumento dei salari e dell’occupazione e in questi paesi, sia pure in modo diverso fra di loro, c’è un forte controllo politico della finanza e degli investimenti. Oggi, però, anche Cina India e Brasile sono preoccupati di quello che succede in Europa e anche in Italia. Non siamo più tanto abituati, anche molti di noi che da giovani lo erano, a collegare quello che succede in Italia a quello che succede nel mondo, come conseguenza anche culturale della debolezza della politica o come conseguenza del berlusconismo. Invece il mondo ci riguarda anche quando non lo sappiamo, anzi il mondo ci riguarda soprattutto quando non lo sappiamo e quando non lo riusciamo a capire. A questo proposito dobbiamo dire che nella crisi il mondo è comunque cambiato. Dalle rivolte arabe che hanno cambiato lo scenario del Mediterraneo del Sud, e oggi hanno di fronte diversi possibili esiti, alla novità storica che ha cambiato il pianeta e cioè lo sviluppo cinese. Negli ultimi due secoli di storia il mondo è stato costruito, ed anche distrutto, dai paesi dell’Atlantico: l’Europa e gli Stati Uniti. Oggi c’è una terza colonna nel mondo ed è la Cina. In Cina si è realizzato, negli ultimi quindici anni, un fatto che dal punto di vista sociale non ha precedenti nella storia dell’umanità:seicento milioni di persone sono diventate da contadini, operai. Cinquecento milioni di persone sono usciti dalla linea di povertà ed altri quattrocento milioni hanno moltiplicato per cinque il loro reddito. Secondo le statistiche ufficiali che utilizziamo anche in Europa oggi la Cina ha una disoccupazione del 4%. Calcolando il PIL manifatturiero, il primo produttore del mondo, ormai da sette anni, non sono più gli Stati Uniti, ma i cinesi che producono ormai il 32% dei prodotti industriali di tutto il pianeta e i cui piani quinquennali, a differenza di quelli russi, funzionano. Negli ultimi cinque anni seguendo il piano quinquennale chiamato “sviluppo scientifico” le produzioni cinesi hanno fortemente innalzato il loro livello qualitativo. Oggi la Cina è il paese che produce più brevetti e che investe di più nelle energie rinnovabili. Tutto ciò ha cambiato il mondo in modo irreversibile perché gli operai cinesi non torneranno a fare i contadini. Questo pone problemi straordinariamente cruciali soprattutto all’Europa. Oggi l’Europa è il centro della crisi globale. In verità l’Europa dell’euro, solo quella dell’euro, sarebbe, nel suo insieme, il posto al mondo dove si vive di più, si vive meglio, si produce di più per abitante, si consuma di più per abitante e si inventa di più. L’insieme dei paesi dell’euro sono, se calcolati nel loro insieme, il posto dove si creano più brevetti e c’è il minor debito pubblico Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 21 fra i paesi di più antica industrializzazione. Il debito pubblico dei paesi dell’euro, sempre nel loro insieme, vale l’87% del loro PIL mentre quello americano vale il 110% e quello giapponese il 220%. Inoltre l’Europa dell’euro è ancora il posto nel mondo dove la ricchezza è più distribuita realmente. L’Europa nel suo insieme avrebbe quindi molto da dire per risolvere la crisi globale, per essere un partner importante dei paesi in rapida crescita e anche per i paesi della Primavera Araba. Ma il problema è che l’Europa nel suo insieme non esiste. E così paradossalmente diventa oggi il centro della crisi. L’Europa ha due grandissimi problemi: uno di architettura e uno di scelte economiche. La sua architettura e le sue scelte economiche stanno diventando un moltiplicatore della crisi. Proviamo a vedere perché. Ho detto un problema di architettura che è contemporaneamente di architettura politica e di architettura economica. Sull’architettura politica non voglio approfondire e me la cavo con una battuta: l’Europa è quella che nell’epoca moderna ha inventato la democrazia parlamentare basata sul suffragio universale ma, da ultimo, ha anche inventato l’unico parlamento (quello europeo) che non fa leggi. La parte economica, di fronte alla crisi, è ancora peggio. Di recente molti di voi avranno orecchiato un’ espressione, paradossalmente utilizzata dalla destra italiana, che dice che nell’Europa dell’euro “non c’è una banca di ultima istanza”. Questo è effettivamente vero ed è uno dei punti nevralgici della questione. Vorrei provare a spiegare che cosa esattamente vuole dire. Gli stati nazionali che si ricostruirono dopo la seconda guerra mondiale impararono la lezione della 22 Interventi crisi degli anni ’30 e vennero inventate le banche di ultima istanza che, negli anni ’30, non esistevano. Esistevano sì, in qualche paese, le banche nazionali ma non avevano, sempre negli anni ’30, la funzione di ultima istanza. Quale sarebbe questa funzione? È quella per cui lo Stato, in quel caso nazionale, garantisce sia il debito pubblico che il risparmio privato. E come fa a garantirlo? Stampando moneta. In questo modo nessuno che ha comprato un Titolo di Stato corre il rischio che non gli venga restituito, non solo gli interessi, ma anche il capitale investito e così anche una parte del risparmio privato, di fronte al fallimento di una banca, viene garantito dallo Stato. Lo Stato dà quindi garanzie assolute perché nelle monete non è scritta nessuna data di emissione e valgono sempre. Certo, stampando troppa moneta aumenta sicuramente l’inflazione ma l’effetto panico della crisi si interrompe di fronte alla funzione dello Stato. In questo modo lo Stato regola, di fatto, anche il mercato finanziario perché gli dice quello che non può fare, che è inutile che faccia, come per esempio speculare sui titoli pubblici. Ancora oggi tutti gli stati del mondo, che hanno una moneta e una banca di riferimento, funzionano così. In tutti gli stati del mondo, tranne quelli dell’euro; anche negli stati europei che hanno una loro moneta, come la Svezia e l’Inghilterra. Viceversa, la Banca Centrale Europea non può svolgere questa funzione per un vincolo del suo statuto fondativo. La Banca Centrale non può farlo, ma neanche le banche nazionali lo possono fare. Questo fa sì che gli stati possano essere insolventi e nessuno ha più la certezza che i prestiti verranno onorati. E tutto ciò sta diventando un moltiplicatore dell’attuale crisi finanziaria. Noi stati dell’euro e popoli dell’euro siamo seduti ad aspettare che i mercati finanziari siano clementi e a questo si aggiunge una politica economica sbagliata che è prevalsa in Europa. La politica economica imposta dal governo tedesco è questa: ognuno paghi i suoi debiti. Sembra giusto, sembra equo, ma ha qualcosa che non funziona e cioè che avendo la stessa moneta è semplicemente impossibile che ognuno, a partire dai paesi più deboli, paghi completamente i propri debiti. Perché un paese in difficoltà la prima cosa che fa è svalutare la propria moneta. Si tratta di una cosa che gli stati dell’euro non possono fare e non potendo svalutare la moneta un paese storicamente debole, in crisi finanziaria, non potrà mai pagare il suo debito. La Germania dice “dovete fare tutti come noi”, trascurando un dettaglio: che di nuovo è impossibile. Infatti dove vanno l’80% delle esportazioni tedesche, che sono quelle che permettono alla Germania di avere un grande attivo della bilancia commerciale? Vanno negli altri paesi d’Europa, in particolare in quelli chiamati PIGS. E’ quindi chiaro che, se tutti facessero come la Germania, bisognerebbe trovare qualcuno altro che compri i prodotti di tutti i paesi europei che a quel punto dovrebbero esportare, fuori dall’Europa, l’80% di quello che producono. Mi sembra abbastanza chiaro che anche questo non è possibile. Silvano Andriani, un grande economista italiano, ha fatto un’osservazione molto acuta dal punto di vista politico, e cioè questa: tutti i governi d’Europa, di centro, di destra e di sinistra, perdono tutti le elezioni perché comunque fanno tutti la stessa politica economica, cioè quella che gli impone il Consiglio d’Europa. La sostanza di questa politica è: prima risolviamo il debito pubblico e poi, dopo averlo risolto, cresceremo. Questo è quello che dice il patto, ironicamente chiamato, di “stabilità e crescita”. Ora pensate bene a questo cosa vuole dire, vuole dire che se il mercato privato, soprattutto finanziario, ha prodotto la crisi, si pensa che la soluzione sia nel mercato privato soprattutto finanziario. Sembra incredibile ma è esattamente questo che viene imposto. Un economista americano, Paul Krugman ha detto che in questo momento “… l’Europa è il trionfo delle idee fallite”. Dentro lo scenario italiano, nel cercare di capire, di fronte al governo Monti, dopo la fine di Berlusconi, ma non ancora del berlusconismo, dentro la grande ansia che attraversa le persone comuni che rappresentiamo, che hanno capito comunque che i rischi sono grandi, noi dobbiamo essere consapevoli che, anche dentro tutto ciò, è quasi impossibile pensare ad un’alternativa nazionale alla crisi se non cambieranno le istituzioni e la politica economica europea. Questo è il punto su cui vorrei concludere. Cambiare la politica europea è molto difficile. Il sindacato europeo non ha abbastanza forza per poter spostare gli equilibri della politica europea. Comunque dobbiamo sapere che il 2012 sarà quasi sicuramente un anno cruciale. Sicuramente ci saranno le elezioni in Francia e si aprirà il percorso che porterà poi alle elezioni in Germania. Il cosiddetto patto di “stabilità e crescita” è già fallito e nel 2012 buona parte dei paesi, compresa l’Italia, andranno in recessione e pochissimi rimarranno con un PIL sopra lo zero. L’aumento degli interessi sui ti- Crisi globale, declino europeo e rivolte arabe 23 toli pubblici italiani di breve periodo si normalizzerà probabilmente, ma la tensione su quelli di lungo periodo rimarrà inevitabilmente; questa si aggiungerà alla recessione. Le idee per una riforma economica dell’Europa ci sono: dagli eurobond alla transation tax. Noi dobbiamo vedere il 2012 in questo modo, in questo mondo che cambia, che anche le rivolte del Mediterraneo hanno cambiato e cioè che l’Europa è sempre più vicina al momento della verità: o saprà riformare se stessa integrando le sue forze e le sue debolezze oppure l’attuale situazione europea non reggerà al protrarsi della crisi che diventerà, a breve, una crisi sociale formidabile. Non è un pensiero ottimista ma mi sembra la verità. Dentro una grande crisi bisogna sforzarsi di essere contemporaneamente ottimisti e pessimisti. Finito di stampare nel mese di aprile 2012 per i tipi della GAM di A. Mena e C. snc in Rudiano (Bs)