Come mai le donne non fanno carriera accademica?
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Come mai le donne non fanno carriera accademica?
Come mai le donne non fanno carriera accademica? di Manuel Bagüés, Aalto University, Helsinki, Finlandia Paola Profeta, Università Bocconi, Milano, Italia Tags: conciliazione, leadeship, mentoring, networking Il numero di donne che intraprendono la carriera accademica in Italia è aumentato sensibilmente. Secondo l’ultimo rapporto She Figures della Commissione Europea del 2012, in Italia le donne hanno ormai superato gli uomini tra i dottori di ricerca (52%), hanno accorciato le distanze con i ricercatori uomini, ma poche riescono a raggiungere la posizione diprofessore associato (il 34%), e pochissime quella di professore ordinario, solo il 20% in media. Si tratta di una situazione simile a quella che osserviamo nel resto d’Europa e negli Stati Uniti e in linea con il fenomeno generale della sottorappresentanza femminile ai vertici delle professioni, istituzioni, aziende. L’assenza di donne ai gradini più alti della carriera accademica è preoccupante, non solo per motivi di equità, ma anche per motivi di efficienza: poiché la carriera accademica richiede un notevole investimento in capitale umano durante la sua fase iniziale, è paradossale che la maggior parte delle donne, dopo aver compiuto questo investimento, non riesca a coglierne a pieno i frutti, completando la propria carriera. Questo fenomeno ha ricevuto una grande attenzione nella letteratura economica. Varie spiegazioni sono state proposte. Alcuni autori vedono l’assenza di donne ai gradini più alti della professione accademica come il risultato della divisione del lavoro sbilanciata all’interno della famiglia. Anche a parità di titolo di studio tra uomini e donne nella coppia, il lavoro di cura e domestico grava principalmente sulla donna, con la conseguenza che la produttività delle donne in ambito professionale può diminuire. In Italia questo sbilanciamento è particolarmente accentuato: secondo un recente rapporto OCSE, le donne lavorano ogni giorno 326 minuti in più degli uomini, mentre la media del Paesi OCSE è 131 minuti. D’altra parte non è ovvio trovare una soluzione a questo sbilanciamento: per esempio, la riduzione delle ore di insegnamento per le neo-mamme al rientro dalla maternità, proposta in alcune università spagnole, potrebbe avere sì effetti positivi sulla produttività scientifica delle mamme, liberando tempo da dedicare alla ricerca, ma al tempo stesso rappresenta un meccanismo che perpetua la divisione dei ruoli tra uomini e donne, visto che non è concessa ai neo-papà. Servizi di asili nido nelle università potrebbero essere una valida alternativa per le famiglie. Un altro elemento che può spiegare la scarsa presenza femminile ai gradini più alti delle facoltà universitarie è la carenza di networks appropriati. Il network di ricerca può infatti avere effetti molto importanti. Negli Stati Uniti, l’introduzione da parte dell’Associazione delle Economiste Americane di un programma di mentoring e networking a favore di un gruppo di giovani ricercatrici selezionate casualmente all’interno di un pool di candidate con caratteristiche omogenee ha avuto l’effetto di aumentare significativamente nei cinque anni successivi la produttività scientifica delle giovani selezionate rispetto a quella delle altre ricercatrici escluse dal programma. Il successo di questa esperienza è arrivato anche in Europa:l’associazione europea delle economiste ha cominciato ad organizzare programmi di mentoring per le giovani ricercatrici. Altri studi sottolineano l’importanza delle abilità non cognitive: sono le donne stesse che spesso rinunciano ad importanti opportunità professionali per mancanza di abilità di negoziazione o per provare adevitare situazioni troppo competitive. Un’ulteriore causa dell’assenza di donne ai gradini più alti della carriera accademica può risiedere nel pregiudizio dei valutatori che devono decidere le promozioni. È difficile provare l’esistenza di discriminazioni. Gli studi più recenti utilizzano la tecnica di mostrare ai valutatori CV di candidati uomini e donne molto simili di cui, a loro insaputa, viene modificato il genere. In questi casi i cv di candidate donne con caratteristiche equivalenti a quelle degli uomini ricevono una valutazione significativamente peggiore. La potenziale esistenza di stereotipi di genere tra i valutatori ha spinto alcuni paesi, come la Norvegia, la Svezia, la Finlandia e la Spagna, ad introdurre sistemi di quote di genere nelle commissioni di valutazione. Naturalmente è importante valutare costi e benefici di queste misure. Dato il limitato numero di professoresse con i requisiti necessari per far parte delle commissioni di valutazione, l’introduzione delle quote aumenta sproporzionatamente il numero di commissioni a cui ciascuna donna è chiamata a partecipare e che, inevitabilmente, avrà meno tempo per dedicarsi alla ricerca. D’altra parte, anche se l’adozione generale di queste misure presuppone che esse servano ad aumentare la promozione di donne, non sempre questo è il risultato che si ottiene. Una ricerca recente condotta da Zinovyeva e Bagüés con dati spagnoli mostra che, nel caso di promozioni a livello di professore ordinario, la categoria più alta della carriera accademica, l’assenza di donne nelle commissioni giudicatrici riduce la possibilità di successo delle candidate donne. L’effetto è molto significativo: una donna in più nella commissione giudicatrice aumenta il numero di donne vincitrici del 14%. Nel caso di promozione a professore associato invece, si verifica un effetto opposto: le commissioni giudicatrici composte da soli uomini sono quelle che favoriscono la promozione di donne, anche se l’effetto è modesto. I fattori che limitano la presenza delle donne ai livelli più alti della carriera accademica sono dunque molti e la loro eliminazione presuppone una riflessione approfondita ed uno sforzo istituzionale forte da parte delle università. Ci aspettiamo un effetto positivo di tutte le misure che facilitano la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, così comeprogrammi di mentoring mirati. Anche le quote di genere nelle commissioni giudicatrici possono avere un ruolo, ma la loro efficacia deve essere valutata con cautela. In Italia, mentre un intenso dibattito ha portato alla legge sulle quote di rappresentanza di genere temporanee nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e controllate pubbliche (legge 120/2011) con ottimi risultati sulla presenza femminile nei boards, non è mai stata avviata una riflessione attenta sulle cause e possibili soluzioni della così bassa presenza di donne ai vertici delle facoltà universitarie.