Introduzione - Corriere della Sera

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Introduzione - Corriere della Sera
Introduzione
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di Marzio Breda
Il presidente della Repubblica è la sola persona
cui il cerimoniale militare consente di non chinarsi
davanti alla bandiera tricolore che, all’opposto, deve
essere inchinata quando lui passa. È uno dei tanti
piccoli esempi formali di simbolico omaggio (e sottomissione) studiati per dare riconoscimento all’autorità del capo dello Stato, che incarna il ruolo di
«garante e custode della Costituzione». Un ruolo al
quale sono attribuite funzioni «altissime, vaghissime,
imprecisate e imprecisabili» – come ha sottolineato il giurista Carlo Fusaro – che sono state a lungo esercitate in una chiave minimalista, notarile, o,
tutt’al più, all’insegna di un attivismo tanto blando
e prudente da non turbare con troppe polemiche
i partiti e il Paese. Non per nulla era consuetudine
dire che quella carica aveva un significato poco più
che decorativo, da «taglianastri». Poi, dal crollo del
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Muro di Berlino (novembre 1989) e dal terremoto di Tangentopoli (febbraio 1992), l’equilibrio di
potere instauratosi nel primo dopoguerra si è rotto,
le vecchie famiglie ideologiche si sono annichilite, nuovi partiti e movimenti si sono affermati e lo
stesso sistema istituzionale ha cominciato a entrare
in torsione, cambiando molte cose anche per chi sta
di casa al Quirinale.
Un processo cominciato in tempi ormai distanti, con risvolti comunque meno impegnativi e vistosi di quelli cui ci siamo abituati nelle stagioni di
Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Con loro,
in un continuo e crescente attivismo, l’influenza
dei presidenti è progressivamente aumentata. Fino a imporli – quasi sempre, quasi tutti – come
l’unico punto di riferimento condiviso, la Cassazione cui far sbrogliare i casi politici più complessi, la cattedra morale in grado di proteggerci dai
conflitti più acuti, il motore di riserva che può
riattivare i meccanismi inceppati del processo democratico, l’antidoto al collasso di una nazione
in ogni senso depressa e sfiduciata. Si è insomma
realizzata la situazione descritta con preveggenza
mezzo secolo fa dal grande costituzionalista liberale Carlo Esposito, che avvertiva come nelle crisi
di sistema il presidente avrebbe dovuto vestire i
panni del «reggitore dello Stato».
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Tra pressioni, ammonimenti, veti, mediazioni,
negoziati irrituali, condizionamenti, vere e proprie supplenze, i presidenti della Repubblica hanno
colmato i deficit di governi e Parlamento. Con un
interventismo incisivo che a volte li ha indotti a
spingersi perfino oltre lo schema dei «vasi comunicanti», secondo cui la dialettica istituzionale non
ammette vuoti e, quando questi si producono, qualcuno deve riempirli. Un cambio di passo per il quale qualcuno parla di modello borderline, descrivendo
chi «regna» dal Colle come una sorta di contropotere che sconfina in un semipresidenzialismo di
fatto. E con il risultato che la pretesa neutralità dei
capi dello Stato si è rivelata in certe fasi recenti, se
non impossibile, quantomeno vacillante, al punto
da rendere fatale che, quando l’interesse nazionale
lo ha richiesto, divenissero arbitri in gioco. Pronti a
farsi sentire sui fronti più disparati, in una posizione
di pungolo o di freno al potere della maggioranza. Così, li abbiamo visti dire la loro sulle riforme
istituzionali, la politica estera, l’economia, i conflitti
sulla giustizia, la questione morale, il federalismo, le
memorie divise…
Una capacità di leadership e un protagonismo
legittimati da un’opinione pubblica confusa, sempre più intollerante verso i partiti e sempre più
orientata a investire sul presidente della Repub11
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blica un enorme carico di aspettative, ciò che è
corrisposto alla prassi del dialogo diretto con i
cittadini attraverso le esternazioni. E lo stesso vale per il surplus di forza che al Quirinale viene
riconosciuto nei fori internazionali, in particolare
nell’ambito dell’Unione Europea. Trasformazione
resa possibile anche da quell’«enigmatico coacervo
di poteri non omogenei», come li definiva il costituzionalista Paolo Barile, assegnatigli dalla nostra
Magna Charta e che a volte possono provvidenzialmente dispiegarsi «a fisarmonica» senza produrre lesioni istituzionali.
L’esito del voto del 24 e 25 febbraio 2013, che
ha sancito l’esistenza di tre grandi minoranze in uno
scenario di difficilissima governabilità, ha rimesso il
presidente della Repubblica al centro della scena.
Nell’impotenza generale ci si affida ancora a lui, a
costo di qualche fraintendimento sulle reali risorse
di cui dispone.
Questo volume a più voci del Corriere della Sera racconta com’erano e come sono diventati gli
undici inquilini del Quirinale in età repubblicana,
spiegando i passaggi cruciali della loro metamorfosi.
E aiuta a capire come potrà battersi, e con quali armi, il dodicesimo, davanti ai problemi aperti dall’irrisolta transizione italiana. Sfide che nessuno ormai
sottostima: 1) mettere in sicurezza un sistema istitu12
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zionale sotto stress da troppo tempo; 2) civilizzare
un confronto politico che, scivolando in un’isteria
quotidiana, ha già largamente delegittimato i partiti; 3) farsi promotore delle riforme indispensabili a
modernizzare il Paese; 4) assicurare una difesa dei
valori fondanti della nazione, minacciati da qualunquismo e antipolitica.
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Evoluzione di un potere
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di Sergio Romano
Quando si discussero il ruolo e i poteri del presidente della Repubblica, la maggioranza dei costituenti sapeva bene ciò che non voleva. Non voleva
un monarca repubblicano autorizzato a scavalcare
la volontà del Parlamento, come aveva fatto Vittorio Emanuele III nell’ottobre del 1922. Non voleva
un presidente governante, autorizzato a decidere le
politiche del governo e a valersi del primo ministro
come di un collaboratore. I presidenzialisti del Partito d’Azione (fra cui un noto e rispettato giurista,
Piero Calamandrei) erano intellettualmente autorevoli, ma quantitativamente irrilevanti. Nei dibattiti
della Commissione dei 75, a cui era stato affidato
il compito di redigere il testo della Costituzione,
prevalse quindi la tesi che il capo dello Stato dovesse rappresentare e impersonare «l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al
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disopra delle fuggevoli maggioranze». Nelle parole
di Meucci Ruini, presidente della Commissione, il
presidente «è il grande consigliere, il magistrato di
persuasione e d’influenza, il coordinatore di attività,
il capo spirituale, più ancora che temporale, della
Repubblica. Ma perché possa adempiere a queste
essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità
di posizione nel sistema costituzionale».
Non sarebbe stato un presidente governante,
quindi, ma neppure un semplice notaio della Repubblica. Nella relazione all’Assemblea che accompagna il testo della Costituzione proposto dai 75,
Ruini scrisse anche: «Il capo dello Stato non governa, la responsabilità dei suoi atti è assunta dal primo
ministro e dai ministri che li controfirmano, ma le
attribuzioni che gli sono specificamente conferite
dalla Costituzione, e tutte le altre che rientrano nei
suoi compiti generali, gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di coordinamento e di
equilibrio che gli è propria». Le «attribuzioni» più
importanti erano la nomina del primo ministro e,
«su proposta di questo», dei ministri; «lo scioglimento delle Camere»; la presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di
difesa. Il profilo del presidente era apparentemente
chiaro, ma i suoi poteri, come era stato implicitamente riconosciuto dallo stesso Ruini, erano, forse
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intenzionalmente, imprecisi. Non basta. Il presidente doveva impersonare l’unità nazionale, ma sarebbe stato eletto da un Parlamento dove sedevano i
rappresentanti dei partiti politici. Sarebbe stato facile eleggere un personaggio rappresentativo e decorativo; molto più difficile scegliere una persona
che avrebbe nominato il presidente del Consiglio
e, all’occorrenza, sciolto le Camere. Il «magistrato
di persuasione e d’influenza», quindi, sarebbe stato
eletto da una maggioranza politica. Sino a che punto sarebbe riuscito a prenderne le distanze o evitare accuse di partigianeria, se la situazione lo avesse
costretto a tagliare nodi con decisioni destinate a
favorire una parte contro l’altra? La storia della Repubblica, quindi, è anche la storia del modo in cui
ogni presidente interpretò le proprie funzioni e
riempì il vuoto lasciato dai costituenti.
Luigi Einaudi sembrò a molti italiani la migliore delle scelte possibili. Era notoriamente monarchico, ma aveva accettato lealmente il risultato del
referendum costituzionale. Proveniva dal Senato del
Regno, ma ne aveva fatto parte soprattutto per i
suoi meriti accademici. Era stato ministro del Bilancio nel governo De Gasperi, ma aveva conservato
la guida della Banca d’Italia ed era noto soprattutto
per le sue competenze. Alcide De Gasperi desiderava Carlo Sforza, ma scelse di appoggiare Einaudi
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non appena capì che l’elezione del suo ministro degli Esteri si sarebbe scontrata con difficoltà insormontabili. Quando prese possesso della sua carica,
quindi, Einaudi era espressione dei nuovi equilibri
politici che De Gasperi aveva instaurato nel Paese
con la formazione di un governo che non era più,
dopo l’uscita dei comunisti e dei socialisti, quello
del Comitato di liberazione nazionale. Ma era anche l’economista liberale che nell’Assemblea Costituente aveva proposto l’articolo 81 («ogni altra
legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte») e che al ministero
del Bilancio aveva difeso l’ortodossia dei conti pubblici anche contro i petulanti consigli keynesiani
dell’amministrazione americana. Non era disposto
a tollerare che i suoi principi venissero dimenticati
e i suoi consigli ignorati. Rinviò alle Camere alcuni
provvedimenti che non avevano copertura e prese
posizione pubblicamente, con un articolo sul Mondo del 2 febbraio 1952, contro i 45 miliardi concessi
agli statali senza pretendere contemporaneamente
alcun miglioramento del servizio e senza tenere
conto delle condizioni dei «braccianti pugliesi, sardi, veneti». Pungolava il governo con consigli che
erano al tempo stesso liberali e sociali, raccomandava l’abolizione del valore legale del titolo di studio,
lanciava strali contro le baronie accademiche, difen18
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deva i concorsi pubblici contro i semplici «giudizi
d’idoneità» (la porta larga da cui passeranno, nella
storia della Repubblica, milioni di assunzioni clientelari). Fu quindi un presidente «interventista». Ma
non avrebbe pubblicato, dopo la fine del mandato,
un libro intitolato Prediche inutili, se le sue raccomandazioni fossero state ascoltate.
I suoi interventi furono più efficaci quando il
quadro politico italiano venne messo a soqquadro
dalle elezioni del giugno 1953, dal fallimento della
«legge truffa» (la legge elettorale voluta da Alcide
De Gasperi) e dal graduale declino dell’uomo politico trentino. Quando la Camera negò la fiducia a
un governo De Gasperi composto soltanto da democristiani, Einaudi accettò l’indicazione del presidente dimissionario e dette l’incarico ad Attilio
Piccioni. Ma non appena questi fallì nel tentativo di
comporre una nuova coalizione, Einaudi convocò
un cattolico liberale, Giuseppe Pella, e gli dette l’incarico. Il colloquio non ebbe luogo al Quirinale ma
nella Villa Farnese di Caprarola, dove Einaudi passava una breve vacanza, e non fu preceduto da alcuna
consultazione. Quando Vittorio Gorresio, giornalista della Stampa, gliene chiese il motivo, Einaudi
rispose: «La Costituzione non parla di consultazioni
e si affida al criterio del capo dello Stato, e il mio
criterio mi dice che in questo momento quello che
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è necessario è il governo». Nacque così il primo
«governo del presidente» della storia repubblicana.
Una delle ragioni per cui Einaudi poté invocare
la necessità di un governo era la questione di Trieste,
che scoppiò di lì a poco quando la Jugoslavia sembrò prepararsi a un colpo di mano sulla città. Mal
tollerato dalla Democrazia cristiana, il governo Pella
dovette dimettersi il 3 gennaio 1954, ma la questione di Trieste rimase da allora saldamente nelle
mani del presidente della Repubblica. Sulla legittimità degli interventi del capo dello Stato in politica
estera, Einaudi non aveva dubbi. Intratteneva una
frequente corrispondenza con alcuni ambasciatori, li riceveva durante i loro passaggi a Roma, era
convinto che il presidente della Repubblica avesse
ereditato le prerogative, in materia di relazioni internazionali, a cui il re aveva solo temporaneamente
rinunciato fra il 28 ottobre del 1922 e il 25 luglio
del 1943. Non vi furono gravi screzi né divergenze con l’esecutivo perché le sue idee sull’Europa e
sull’Alleanza atlantica erano sostanzialmente quelle
degli uomini che governarono il Paese fra il 1948
e il 1955. Era europeista e poteva legittimamente
vantarsi di avere nutrito con i suoi suggerimenti le
riflessioni di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli mentre lavoravano al Manifesto di Ventotene. Era atlantico
perché credeva che la costruzione dell’unità euro20
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pea richiedesse una sicurezza che soltanto gli Stati
Uniti, in quegli anni, potevano garantire.
Il clima fra il Quirinale e il Viminale (dove era
allora la presidenza del Consiglio) cambiò dal giorno alla notte dopo l’elezione di Giovanni Gronchi
alla presidenza della Repubblica. Gronchi non era
«atlantico» al modo di De Gasperi e lasciò comprendere sin dal suo discorso inaugurale che nel
Patto d’alleanza dell’aprile del 1949 apprezzava soltanto l’articolo 2: una elencazione di buoni principi
e di generosi auspici in cui si parlava soprattutto di
pace, stabilità, benessere, cooperazione economica.
Voleva migliorare i rapporti con l’Unione Sovietica, sognava una Germania riunificata, era convinto
che l’Italia avrebbe potuto recitare nei rapporti EstOvest la parte dell’onesto sensale. Quando decise
di andare a Mosca per trattare direttamente con la
dirigenza sovietica, dovette superare molti ostacoli:
la riluttanza del governo, l’ostilità della Chiesa romana, la diffidenza degli Stati Uniti. Ma il maggiore nemico del suo progetto si rivelò Nikita
Chruščëv. Il leader sovietico non era interessato alle
idee di Gronchi e le seppellì con una memorabile
tirata anti-capitalista nel corso di un ricevimento
all’ambasciata d’Italia.
Ma Gronchi aveva anche progetti mediterranei.
Dopo il fallimento dell’impresa anglo-francese a
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Suez nel 1956, ritenne che l’Italia, forte della sua
presunta verginità colonialista, avesse le qualità necessarie per diventare il partner privilegiato degli
Stati Uniti e avviare insieme a Washington nuovi
rapporti con i Paesi arabi. Nel marzo 1957 scrisse
una lettera al generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti, e chiese al ministero degli Esteri di
inoltrarla. Ma il segretario generale Alberto Rossi
Longhi la trattenne e informò il ministro Gaetano
Martino, che ebbe, insieme al presidente del Consiglio (Antonio Segni), un brusco scambio di vedute con il presidente della Repubblica. Gronchi
non era isolato. Le sue idee mediterranee erano in
perfetta sintonia con i progetti petroliferi di Enrico
Mattei e riflettevano le ambizioni di altri esponenti
della Democrazia cristiana, fra cui Amintore Fanfani. Ma al governo non piaceva che il presidente
della Repubblica si attribuisse il diritto di fare dal
Quirinale la politica estera del Paese.
Lo scontro, tuttavia, toccò il suo punto più alto in
politica interna quando Gronchi nominò alla presidenza del Consiglio un uomo politico democristiano, Fernando Tambroni. Era una mossa «gollista»
che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del presidente,
accorciare i tempi per la successiva creazione di un
governo di centrosinistra. Ma Tambroni tradì le attese del capo dello Stato, accettò i voti della destra
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missina e provocò un putiferio di cui la Democrazia
cristiana si servì per sbarazzarsi di un compagno di
partito divenuto ormai imprevedibile e ingombrante. Se quello di Tambroni fu il secondo «governo del
presidente», la rivolta democristiana contro la sua
persona fu un voto di sfiducia indirizzato al capo
dello Stato.
Dopo Gronchi venne Antonio Segni, notabile
sardo di buona cultura, persona affabile, autore di
una riforma agraria che lo privò di alcune proprietà. Fu scelto per controllare il centrosinistra, nato
formalmente con il governo Moro del dicembre
1963, ed evitare che l’arrivo al governo dei socialisti
di Nenni rendesse la Dc meno affidabile agli occhi
degli elettori moderati. Fu questa la ragione per cui
venne additato al Paese come il regista di una sorta di colpo di Stato che sarebbe stato organizzato
con i piani dell’Arma dei carabinieri. Ho sempre
avuto l’impressione che questa tesi appartenga alla storia del complottismo italiano piuttosto che a
quella della Repubblica. Segni comunque non poté difendersi. Fu colpito da una trombosi cerebrale
nell’agosto 1964 e dovette dimettersi in dicembre.
Il nuovo presidente fu eletto, quindi, con un forte anticipo sulla naturale scadenza del mandato, nel
dicembre del 1964. Era Giuseppe Saragat, socialista,
esule in Austria e in Francia durante il fascismo, am23
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basciatore a Parigi per pochi mesi dopo la fine della
guerra, protagonista della scissione di Palazzo Barberini quando i socialdemocratici si erano staccati
dai socialisti di Pietro Nenni, alleati dei comunisti,
per creare un nuovo partito. Fu eletto al Quirinale
con i voti dei comunisti sulla base di un equivoco.
Il Pci decise di appoggiarlo perché Giorgio Amendola sperava che la sua presenza al vertice dello Stato avrebbe favorito la nascita di un grande blocco
delle sinistre. Ma Saragat pagò il debito concedendo
qualche amnistia per reati commessi da partigiani
durante la Resistenza e dedicò da allora gran parte del suo tempo a un obiettivo che lo impegnava
ormai da parecchi anni: la riunificazione socialista.
Aveva diviso i socialisti agli inizi della guerra fredda
ed era deciso a riunirli. Il partito riunificato nacque nel 1966, ma durò soltanto un paio d’anni e
l’obiettivo di Saragat fu sostanzialmente mancato.
Il Paese scoprì comunque che la «missione» di un
presidente della Repubblica poteva essere alquanto
diversa da quella di «coordinamento ed equilibrio»
che Meuccio Ruini aveva descritto nella sua relazione all’Assemblea Costituente.
Giudicato con i criteri di Ruini, il «migliore»
fra i presidenti fu probabilmente il successore di
Saragat, Giovanni Leone. Era un brillante giurista
napoletano, bonario, gioviale, gradevolmente pro24
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vinciale e devoto (forse troppo) alla sua ambiziosa
famiglia. Come notabile democristiano si era dimostrato particolarmente adatto per compiti utili
e decorosi come la presidenza della Camera e la
guida di due governi «balneari», vale a dire formati
per tappare un buco nelle fasi in cui i partiti non
riuscivano a mettersi d’accordo. Ebbe la sventura
d’essere coinvolto in uno scandalo di provvigioni
segrete per la vendita di aerei militari americani in
Italia. La sua responsabilità non fu mai accertata, ma
divenne, grazie alla sua natura compiacente, il capro
espiatorio delle laboriose trattative fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista per il loro «compromesso storico».
Il successore di Leone, Sandro Pertini, dette un
prodigioso colpo d’acceleratore alla crescente presenza del capo dello Stato nella politica. Aveva un
obiettivo politico: interrompere la lunga egemonia
democristiana spostando a sinistra l’asse del governo per accentuare il ruolo dei socialisti e, in prospettiva, dei comunisti. Durante la crisi del governo
Andreotti, nel 1979, incaricò dapprima il presidente
dimissionario, poi, quando questi fallì nel tentativo
di rattoppare il vecchio governo, dette l’incarico,
senza promuovere nuove consultazioni, a Ugo La
Malfa. E quando il leader del Partito repubblicano
abbandonò la partita, Pertini inventò una sorta di
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triarchia presidenziale in cui il presidente del Consiglio sarebbe stato il segretario della Dc (Zaccagnini), affiancato da due vicepresidenti nelle persone di
Saragat e La Malfa.Vi fu una sollevazione della Dc,
che mandò all’aria il progetto di Pertini, e l’incarico
finì ancora una volta, dopo questa curiosa recita a
soggetto, nelle mani di Andreotti. Il presidente prese
una nuova iniziativa nella stessa direzione quando,
dopo le elezioni del giugno 1979, chiamò al Quirinale Bettino Craxi e lo incaricò della formazione
del governo. Ma il segretario del Partito socialista
non riuscì a superare le resistenze della Dc e il governo venne formato in ultima istanza da Francesco
Cossiga. Pertini non era più un regista neutrale. Era
il vecchio combattente socialista, sceso in campo
dall’alto del Quirinale per influire sull’esito della
partita con il peso del suo ruolo. Ebbe maggiore
fortuna quando riuscì finalmente a rompere la catena dei presidenti del Consiglio democristiani dando
l’incarico a un repubblicano, Giovanni Spadolini. E
coronò la sua strategia chiamando a Palazzo Chigi
Bettino Craxi, il «primo presidente del Consiglio
socialista della storia d’Italia»: una definizione che
ignora le origini socialiste di Benito Mussolini e
Ivanoe Bonomi.
Nel frattempo Pertini aveva «risolto» il problema
dei controllori di volo, abolito il giuramento di fe26
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deltà che i funzionari dello Stato dovevano prestare
prima di prendere servizio, trascorso parecchie ore
accanto al pozzo in cui era caduto il piccolo Alfredino Rampi, applaudito fragorosamente la vittoria
della nazionale italiana a Madrid, preso impegni in
nome dell’Italia con uomini di Stato stranieri, dialogato con gli studenti dell’Università di Pechino e
portato a Roma sul proprio aereo la salma di Enrico Berlinguer. Non è facile tracciare un confine, in
queste «esternazioni», tra le strategie politiche del
presidente e la sua irresistibile vocazione tribunizia.
Di certo ebbe l’effetto di ampliare l’area degli interventi presidenziali e di rendere ancora più imprevedibile il ruolo del capo dello Stato nella politica
nazionale.
La prima parte della presidenza di Francesco
Cossiga fu un ritorno all’ordine. Il nuovo presidente sembrava deciso ad accompagnare diligentemente, con funzioni pressoché notarili, il corso della
politica nazionale. Ma il suo stile cambiò dopo il
crollo del Muro di Berlino e la crisi del sistema comunista. Cossiga capì che la fine della guerra fredda
avrebbe rimosso le ultime riserve a un maggiore
ruolo dei comunisti e credette che a questa svolta dovesse corrispondere il rifacimento del sistema
istituzionale italiano. Era una posizione ragionevole, ma questo obiettivo fu perseguito con uno stile
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chiassoso, goliardico e stravagante che fece la gioia
dei mezzi d’informazione. I comunisti avrebbero
dovuto dimostrare una certa gratitudine per le intenzioni del presidente, ma reagirono stizzosamente
e si servirono dell’inchiesta su «Gladio» per trattarlo
alla stregua di un incurabile golpista. Gladio era una
delle formazioni militari segrete create in alcuni
Paesi dell’Alleanza atlantica per condurre operazioni partigiane dietro il fronte nell’eventualità di una
invasione degli eserciti del Patto di Varsavia. Cossiga era attratto dalle questioni militari, aveva partecipato alla nascita della branca italiana, ne andava
orgoglioso e non resistette alla tentazione di rivendicare i suoi meriti. I comunisti diventati pidiessini,
dal canto loro, reagirono istintivamente come se la
guerra fredda non fosse finita e chiesero l’incriminazione del capo dello Stato. Cossiga, a sua volta,
ne approfittò per alzare il volume dei suoi continui
interventi nella vita pubblica. La sua iniziativa più
interessante e promettente (un lungo messaggio alle
Camere nel giugno 1991 sulla riforma della Costituzione) fu sommersa in un mare di lazzi, invettive
e polemiche.
Oscar Luigi Scalfaro divenne presidente in uno
dei peggiori momenti della storia nazionale. Gli
scandali di Tangentopoli, lo sfaldamento dei vecchi
partiti e l’offensiva terroristica della mafia lo au28
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torizzavano a usare tutta l’autorità morale di cui
dispone il capo dello Stato. Nelle incertezze provocate dalla crisi dei vecchi partiti di governo fece un
suo esecutivo, ne scelse il presidente (Carlo Azeglio
Ciampi) e in buona parte i ministri, sciolse le Camere dopo la riforma della legge elettorale. Era ciò
che il Paese attendeva in quel momento dal capo
dello Stato. Ma la lettera a Silvio Berlusconi con cui
pretese di delimitare l’azione del suo governo in
politica estera e in politica interna, dopo le elezioni
del 1994, confermò che il Quirinale diffidava del
nuovo arrivato e lo avrebbe tenuto d’occhio severamente. Più tardi, quando il presidente del Consiglio fu abbandonato dalla Lega e dovette dimettersi,
Scalfaro rifiutò di rinviare il presidente alle Camere,
come accade frequentemente in queste circostanze,
e il governo di Lamberto Dini, costituito nei giorni
seguenti, fu a tutti gli effetti, ancora una volta, il governo del presidente. Nessuno fu sorpreso quando
Scalfaro, qualche anno dopo la fine del suo mandato, accettò di guidare la campagna referendaria contro le riforme costituzionali approvate dalle Camere
durante il governo Berlusconi. Era questo lo spirito
con cui aveva «vigilato» negli anni del suo mandato.
Carlo Azeglio Ciampi non era un uomo politico
e il suo stile, al Quirinale, durante il governo Berlusconi, fu alquanto diverso da quello del predeces29
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il grande gioco del quirinale
sore. Ma nella sua campagna per l’unità nazionale
e per la diffusione del tricolore vi era un evidente
ammonimento al Paese contro gli umori separatisti
della Lega. Cercò di correggere le leggi ad personam, confezionate sulla base degli interessi del presidente del Consiglio, vi riuscì soltanto in parte e le
promulgò con visibile fastidio. Inviò un messaggio
alle Camere sul pluralismo nell’informazione che
produsse, come quasi tutti i messaggi presidenziali,
effetti modesti, ma lasciò agli atti il suo dissenso per
l’uso che il presidente del Consiglio faceva delle
proprie televisioni e della Rai. Rivendicò contro il
ministro leghista della Giustizia il diritto di concedere personalmente la grazia e ricorse alla Consulta
per ottenerne conferma. Fu marcatamente europeista, anche per reagire a certe sortite euroscettiche
del governo, e rinviò parecchie leggi alle Camere. Il
caso in cui ebbe maggiore successo concerneva la
politica estera. Quando il governo Berlusconi fu sul
punto d’intervenire militarmente in Iraq, agli inizi del 2003, Ciampi convocò il Consiglio supremo
di difesa e sostenne che l’art. 11 della Costituzione
(«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali») impediva la nostra partecipazione al conflitto. Fu una
mossa europeista, fatta per evitare una posizione ita30
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liana totalmente diversa da quella dei Paesi schierati
contro la guerra (Francia, Germania, Belgio) e una
frattura nel cuore dell’Europa comunitaria. Ma il
ricorso a un articolo della Costituzione scritto nel
clima del dopoguerra poteva rappresentare un pericoloso precedente per un Paese che non intendesse
rinunciare a uno strumento dei rapporti internazionali. Berlusconi, comunque, fu probabilmente felice
che il capo dello Stato lo togliesse d’imbarazzo. Il
papa si era pronunciato contro la guerra e il Paese
era tappezzato di bandiere arcobaleno.
Lo stile è diverso, ma anche la presidenza Napolitano ha avuto con il governo Berlusconi un rapporto di reciproca diffidenza non troppo diverso da
quello di altri presidenti con altri governi: Gronchi
con Segni, Segni con Moro, Cossiga con Andreotti, Scalfaro con Berlusconi, Ciampi con Berlusconi.
La formazione del governo Monti nel novembre
del 2011 ricorda quella del governo Pella nel 1953,
del governo Tambroni nel 1960, del governo Ciampi nel 1993 e del governo Dini nel 1995, per non
parlare dei numerosi tentativi più o meno falliti di
Sandro Pertini. Esiste dunque, al di là delle differenze caratteriali fra le singole personalità, un rapporto
dialettico fra il Quirinale e Palazzo Chigi che la
Costituzione non esclude e che contribuisce in ultima analisi alla difesa della democrazia? Potremmo
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accontentarci di questa tesi se il presidente intervenisse soltanto quando il sistema è inceppato e facesse un passo indietro, dopo la conclusione della crisi,
per lasciare al governo una sfera d’azione comparabile a quella degli esecutivi delle maggiori democrazie europee. Ma la situazione è alquanto diversa. Anche nei momenti in cui il governo è stabile,
il presidente interviene per giudicare, ammonire,
esortare, pungolare, manifestare sentimenti e convinzioni. Come appare evidente dal libro di Marzio
Breda La guerra del Quirinale (Garzanti) e dalle sue
pagine in questo libro, la storia della Repubblica
è anche una storia di «esternazioni». Cominciarono con Luigi Einaudi, proseguirono con Gronchi
e Saragat, divennero innumerevoli e tribunizie con
Pertini, clamorose e scandalose con Cossiga, arcigne
con Scalfaro, pedagogiche con Ciampi, politiche,
sociali e istituzionali con Napolitano. Il presidente
non è soltanto il simbolo dell’unità nazionale e il
ricorso d’ultima istanza per i nodi che governo e
partiti non riescono a sciogliere. È continuamente
in scena nel dibattito nazionale, è chiamato in causa,
è invitato a parlare e ad agire. Non è sorprendente
che Giorgio Napolitano, dopo le elezioni del febbraio 2013, sia subito apparso a molti come l’unico
possibile arbitro della crisi.
Esiste quindi in Italia una istituzione che cresce
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evoluzione di un potere
nella stima generale quando le altre perdono credito e rispettabilità, che deve la sua fortuna alla sfortuna dell’esecutivo. Sollecitata dalla sua popolarità,
la presidenza risponde all’appello del Paese moltiplicando i suoi interventi e crea così l’illusione che
il Quirinale possa risolvere i problemi della nazione. Non è necessario disconoscere i meriti di molti presidenti per constatare che una tale situazione
rischia di pregiudicare la governabilità del Paese e il
buon funzionamento delle sue istituzioni. Che cosa
accadrebbe se il capo dello Stato cercasse d’imporsi
contro la volontà del governo o del Parlamento?
Che cosa accadrebbe se il governo rivendicasse il
diritto di decidere e il conflitto paralizzasse il Paese?
In Europa non mancano modelli a cui ispirare una
riforma: la Germania e la Spagna, se vogliamo rafforzare il ruolo del premier; la Francia, se vogliamo
rafforzare quello del capo dello Stato. Dopo quello
che è accaduto negli scorsi mesi vorremmo che di
questo si occupasse, anzitutto, la legislatura appena
cominciata.
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IL GRANDE GIOCO DEL QUIRINALE
A cura di Marzio Breda
Di Michele Ainis, Marzio Breda, Antonio Carioti, Giuseppe Galasso, Ernesto
Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Antonio Puri Purini, Sergio Romano
In edicola e in e-book nei migliori store digitali DAL 5 APRILE
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