La Grande Stella Drammaturgia e rinascita della comunità in

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La Grande Stella Drammaturgia e rinascita della comunità in
La Grande Stella
Drammaturgia e rinascita della comunità in Valsabbia
Arrivati a Gerusalemme i Re Magi non vedono più la stella che dal lontano Oriente
li ha condotti fino in Palestina. Chiedono informazioni ad Erode, il re della Giudea.
Il Bambino che sono venuti ad adorare, il Re di giustizia e di pace annunciato dagli
astri, dovrebbe infatti essere suo figlio. Erode casca dalle nuvole e convoca subito i
sacerdoti e gli scribi per sapere cosa dicono in proposito le Scritture. Lui, i Magi, i
Sapienti e il popolo scoprono che non è Gerusalemme, la capitale, il Centro, il luogo
della Natività, ma un piccolo e sconosciuto villaggio della periferia: Betlemme. I Magi
sono invitati dal Re a recarsi a Betlemme, a proseguire le loro ricerche. Erode sembra
considerare i Magi delle persone un po’ eccentriche e bizzarre. Non crede molto ai
loro studi, alla loro astrologia. O forse si augura che l’astro nel ciel sia in realtà una
stella cadente. Una chimera. Infatti se fosse vero quello che la stella annuncia, il suo
potere è destinato alla fine. Invita perciò i Magi, in caso di fortunato ritrovamento
del nuovo Re dei Giudei, a ritornare nella reggia perchè anche lui vuole, ovviamente,
rendere omaggio al nuovo Potere, certamente ingraziarselo, o meglio impadronirsene
o, meglio ancora, eliminarlo. Come fece. Poichè i Magi non tornarono ordinò la Strage
degli Innocenti1.
Erode ragionava come tutti i potenti e come tutti gli uomini. Non immaginava che
quella stella vista dai Magi annunciava il rovesciamento del Potere, la fine di un potere
dell’Alto e dall’Alto e l’inizio di un Potere dal Basso e per il Basso. La nascita di
Cristo segna infatti la crisi della società verticale o gerarchica, fondata sulla forza, sul
sopruso, sul dominio, su posizioni di privilegio e di vantaggio ineguale, e l’avvento
della società orizzontale o paritaria, fondata sulla uguaglianza di tutti gli uomini, sulla
cooperazione, sul dialogo, sulla reciprocità e il sostegno a chi è per qualsiasi motivo
svantaggiato.
Le sacre rappresentazioni di Natale, che siano i presepi con le statue o i presepi
viventi o i Canti della Stella o l’adorazione dei Magi, non rievocano semplicemente
l’evento fondatore del cristianesimo, tanto meno sono esibizioni folcloristiche. Il loro
vero scopo è sempre l’attualizzazione. Ripropongono la ricerca dei Magi, ossia la
ricerca di un re e di un regno o semplicemente di un angolo di pace e giustizia. Qui,
adesso, come stiamo? C’è o no «la grandissima gioia» che invade i Magi nel rivedere
la stella? Chi o cosa ci opprime? Qual canto angelico può risuonare nelle nostre terre
e quale risveglio può muovere senza indugi gli abitanti delle valli?
Nella realtà attuale della Valle Sabbia e delle comunità montane in generale, il
racconto dei Magi si traduce nell’evidenza del primato della città e della metropoli nel
governo dei «sudditi» e del «territorio» dal punto di vista economico e politico. Ancor
di più la luce del potere splende nel centro dei salotti delle case, con i nuovi soldati
di Erode, travestiti da vallette o conduttori, che fanno strage di comunità e relazioni
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sociali.
Perché una volta all’anno, alla vigilia dell’Epifania, gruppi di montanari, uomini e
donne, sfidano il freddo e girano ore e ore per le strade, le piazze e le valli a cantare
la Stella? «E’ una tradizione», «bisogna salvare la tradizione», spiegano i valligiani
a chi chiede il senso di questo antico rito. E infatti la Stella è certamente un fattore
di identità per la Valsabbia, serve a distinguerla da altre valli. Serve ad arginare la
massificazione o l’omogeneizzazione del Natale consumistico, il Natale del Centro,
del centro della città e dei centri commerciali. La Stella della Valsabbia è un evento
che ricostruisce e pone in essere le comunità valsabbine. Infatti, mentre la celebrazione
della tradizione è in continuo rinnovamento, adattandosi alle mutate circostanze
dei tempi (nei cori infatti ci sono le donne che un tempo non c’erano, ci si sposta
in macchina da una frazione all’altra, si usano le batterie e non più le candele per
illuminare le stelle eccetera)2, rimane immutato l’obiettivo di fondo: fare comunità.
Ieri e oggi: una comunità per essere tale deve produrre la propria cultura, deve entrare
in azione, deve occupare, almeno una volta all’anno, simbolicamente lo spazio del suo
ambiente di vita, deve rinforzare i legami familiari e amicali, celebrare i valori dei suoi
componenti, rinnovare la sua vita, trasmettere ai più piccoli il misterioso legame che
unisce gli uomini al cielo, alla terra, alla luce e alla notte.
La Stella della Valsabbia è uno dei più interessanti esempi di drammaturgia di
comunità della montagna alpina3. Non solo perché, come si faceva una volta, celebra,
costruisce o ricostruisce la comunità, ma soprattutto perché rivela una cosciente presa
di posizione su questioni cruciali non solo per la rinascita delle comunità montane,
ma anche per il rinnnovamento politico, culturale e sociale della vita di chi sta in
città o al centro e che guarda con sufficienza o estetismo turistico queste espressioni
spregiativamente definite «folcloristiche».
La questione della comunità è oggi una questione centrale perché riguarda lo
sviluppo e l’amministrazione del capitale sociale4 costituito dall’insieme di relazioni,
amicizie, associazioni, legami formali e informali, volontariato, organizzazioni di
solidarietà, partecipazione civile, religiosa, culturale, che sorreggono la vita privata
e pubblica di ognuno di noi, ma anche delle istituzioni e perfino delle imprese. La
questione «comunitaria» è tornata prepotentemente alla ribalta con la crisi dello Stato
assistenziale e il devastante monopolio non solo economico, ma anche morale e
culturale dell’economia globalizzata.
1. La notte della comunità
La questione del capitale sociale e delle comunità in Italia risveglia accesi dibattiti
sulla travagliata storia della nostra democrazia i cui albori tutti ritrovano nei Comuni
medievali, ma che risulta ai più incompiuta proprio a causa della netta separazione
avvenuta in epoca moderna tra cittadinanza e territorio. Se il fondamento della società
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è proprio il diventare soci in qualcosa, o compagni (coloro che condividono lo stesso
pane) o camerati (coloro che condividono la stessa camera), ogni vera societas deve
essere una communitas, l’associazione di persone che ha qualcosa da mettere in
comune, da decidere in comune, da fare insieme. La storia italiana rivendica in questo
campo, almeno al Centro e Nord Italia, una articolatissima vicenda di associazionismo.
La fraternità nell’era medievale toccava tutti gli ambiti della vita economica, religiosa,
politica, culturale. Si ridusse di molto sotto le Signorie, i Principati e i domini
stranieri, ma ebbe la sua radicale manomissione con l’avvento dello Stato borghese,
che soppresse e negò, e, dove non poteva, censurò, ostacolò, sfruttò e manipolò ogni
sistema comunitario e ogni autonomia locale. E’ forse utile ricordare che la costituzione
dello Stato moderno, in particolare quello sorto sul modello francese (come l’Italia),
si fonda su un patto tra il cittadino e un governo centralizzato, espressione di una
democrazia rappresentativa, che amministra capillarmente un territorio attraverso una
burocrazia più o meno efficiente.
In cambio dei diritti individuali e dei servizi resi dallo Stato (salute, sicurezza,
giustizia, educazione, cultura ecc.), il cittadino accetta una serie di doveri civici,
quali l’appartenenza esclusiva a quello Stato attraverso l’anagrafe, le tasse, il servizio
militare, il rispetto della legge, il culto della patria eccetera. In questa prospettiva
un luogo simbolico come la piazza del paese cessa di essere primariamente il luogo
dell’incontro e dello scambio formale e informale, religioso, economico, politico tra i
membri di una comunità, per diventare il sacrario, lo spazio simbolico di incontro, di
celebrazione e di formazione dello Stato e del cittadino, di elaborazione ed espressione
dei vissuti individuali e collettivi nazionali (e internazionali), quasi mai locali e
comunitari, se non esistesse, per fortuna, la resistenza popolare5.
Quello che non viene mai messo in evidenza nel contratto sociale tra Stato e Individuo
è la rinuncia, coatta da una parte e indotta dall’altra, alla fitta trama di relazioni costituite
dal sistema comunitario e associativo, quali sodalizi, compagnie, confraternite,
corporazioni, paese natale, vicinato, parentele, gruppi o minoranze linguistiche,
economiche, culturali, tradizioni amministrative, sociali e politiche locali, spesso
superiori a quelle statali, differenze regionali, ambientali, nicchie ecoantropologiche
eccetera. La conseguenza negativa principale dell’esproprio comunitario operato dallo
Stato è stata la fine o almeno la riduzione drastica della partecipazione delle persone alla
vita sociale, politica, culturale locale, quella dove il potere e le capacità di intervento
del singolo contano maggiormente. Lo Stato borghese programmaticamente vede il
natìo borgo selvaggio come principale ostacolo alla sua affermazione. Portatore di una
istanza universale, lo Stato considera ogni comunità (ed ogni autonomia collettiva)
come un dannoso «particolare»6.
Altrettanto interessato alla distruzione della produzione culturale e politica dei
sistemi comunitari si dimostra il Mercato, il quale ha tutto l’interesse a creare un
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enorme «vuoto» relazionale e sociale da riempire con profumi e balocchi e con i mille
succedanei e surrogati della communitas, dai villaggi turistici ai parchi di divertimento,
dalle chat-community al cellulare. Lo spettacolo e il sistema dello stars-system
(reality show compresi) creano processi di identificazione grazie al successo di gente
comune e alla «familiarità ed ordinarietà» dei divi televisivi che fanno dimenticare
l’insuccesso, le fragilità, lo squallore impressionante dei vissuti quotidiani e delle
periferie mediatiche.
Stato e Mercato per risolvere le loro difficoltà hanno sviluppato non la comunità,
ma la comunicazione, un massiccio e costante sforzo pubblicitario, soprattutto per via
televisiva, per convincere tutti che «la vita è bella». In difficoltà con il pane quotidiano,
lo Stato punta molto sui circenses e si affida, copiando il Mercato, ai maghi della
comunicazione.
Ora che lo Stato viene messo in difficoltà dal Mercato globale, la sua paterna
amministrazione e la sua pletorica legislazione non funzionano più. Lo Stato non
riesce più a garantire quello che fino ad oggi aveva in qualche modo garantito. Mentre
si auspica la costituzione di una comunità politica internazionale, all’interno degli
Stati la protesta e la difesa dei cittadini si esprime da una parte nella richiesta noglobal di un mondo equo e solidale, dall’altra nell’esasperata affermazione di identità
nazionalistiche, etniche, religiose. La crisi dello Stato moderno, fondato sul trinomio
sovranità (democratica), territorio, cittadinanza, evidenzia l’irrisolta conciliazione tra
il pactum unionis e il pactum subiectionis, ovvero che la cessione di poteri individuali
ad un terzo - lo Stato - per garantire la sicurezza ai suoi sudditi non doveva significare
l’esclusione del patto sociale come amicizia e patto di unione fondato sull’agire
continuo, relazionale e creativo degli uomini.
un po’ ambigua del nostro amore fatto ormai di sole cose». La crescita zero della nostra
economia è una grande occasione da sfruttare per passare dalla quantità alla qualità
di vita. «Ciò può avvenire incominciando magari a rinunciare all’individualismo
sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il “noi” rispetto all’“io”.
Il noi del volontariato, della reciproca assistenza, della familiarità del borgo rispetto
all’anonimato della metropoli. Il noi della convivialità, dei comportamenti virtuosi» in
ordine alle condotte a rischio e agli stili di vita. Dal lavoro come produzione dobbiamo
passare al lavoro come servizio, quello in cui la produzione non ha in mente solo beni
e merci, ma anche erogazione di tempo, cura, relazione.
Il rimedio dunque è produrre società. Appunto. Ma come?
Anche il mondo delle meraviglie promesso dal Mercato si rivela comunque di
cartapesta, soprattutto quando si ripresenta lo spettro della povertà e aumenta l’esclusione
di molti non dai mondi di favola pubblicizzati, ma dalla semplice sopravvivenza che
può dare un qualsiasi posto di lavoro7.
In un intervento su «La Repubblica»8, Umberto Galimberti riportava riflessioni
critiche sul concetto economico di crescita infinita che ci porta, ad esempio, a consumare
tanto per consumare, «in una spirale infinita che ci rende nevrotici e fatui». Molti uomini
di oggi sembrano funzionari di una macchina impazzita che ci fa lavorare per produrre
beni e fare soldi che servono per comprare nuovi beni che sostituiscono i beni da buttare.
Ma, come scriveva Gunther Anders, «l’umanità che tratta il mondo come un mondo da
buttar via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via». C’è un rimedio? Per
Galimberti, bisognerebbe «incominciare a riflettere sull’assurdo ritmo» che ha la nostra
esistenza, «sulla qualità della nostra comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura
Il disicanto nei confronti dello Stato e del Mercato sta in verità producendo in modo
sommerso la rinascita della comunità, che tutti pensavano morta e sepolta. Questa
rinascita viene spesso male interpretata o anzi sfruttata sia dallo Stato come recupero
del consenso e controllo del territorio, come valorizzazione del patrimonio artistico
e culturale, come volano di una nuova economia e formazione quaternaria, fondata
sui beni immateriali e sulla cultura, sia dal Mercato come commercializzazione o
vampirizzazione di amenità paesaggistiche, di curiosità folcloriche, di esperienze
«autentiche», di prodotti locali e arti etniche.
Il Gatto e la Volpe continuano a concepire come loro unico destinatario l’individuo,
sia esso cittadino o consumatore. Le batoste che continua a ricevere l’individuo - e
come cittadino e come consumatore - hanno ormai messo in chiaro che la tradizionale
difesa contro lo strapotere dei due, ossia il ricorso al Mercato contro lo Stato o l’aiuto
dello Stato contro il Mercato, si rivela sempre più inefficace per molti motivi e che
occorre un altro potere, il meno asservito e asservibile. Questo potere è appunto il
«noi», la comunità. Si potrebbe dire in modo più moderno l’associazionismo, ma,
siccome anche questo sistema è inquinato o dai modelli assistenziali statali o dai
modelli produttivistici delle imprese, non comprenderemmo fino in fondo alcune
mistificazioni in atto che consistono nel coinvolgere il più possibile le comunità senza
cedere nulla in termini di potere e di iniziativa. Oneri senza onori.
Il mondo dell’associazionismo infatti è diventato una specie di discarica politica,
economica e sociale, non solo perchè si occupa di tutti i rifiuti umani e materiali che
non interessano al Mercato e non riescono più ad essere «gestiti e assistiti» dallo Stato,
ma perché molte istanze politiche, economiche, ambientali, culturali e sociali, presenti
nel mondo del cosiddetto no-profit o del volontariato, vengono rifiutate o scaricate
impunemente, maldestramente e colpevolmente e dallo Stato e dal Mercato. Non
solo non se ne fanno carico, ma impediscono (magari ipocritamente strombazzando o
sostenendo, anche in maniera principesca, iniziative benefiche e umanitarie) ogni reale
emersione di queste istanze che sono di natura partecipativa e non rappresentativa.
La vera partecipazione non è informazione o consultazione, ma la possibilità
di decidere, di avere i mezzi e i modi per raggiungere i propri obiettivi9. Il dogma
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2. Fuochi artificiali
illuministico dell’Economia e della Politica moderne era infatti «Tutto per il popolo,
niente dal popolo». L’espressione concreta di un popolo è invece la comunità
deliberante. Sono la partecipazione effettiva delle comunità locali, la loro invenzione e
il loro sviluppo che permettono di progettare e realizzare quella mitica terza via tanto
discussa e tanto sognata tra Stato e Mercato.
In altre parole la partecipazione politica e il principio di sussistenza si attuano
completamente quando la partecipazione culturale, come quella che si registra per il
Canto della Stella in Valsabbia, la partecipazione sociale e la partecipazione territoriale
si compenetrano in un progetto unitario e in un processo di costruzione della vita
comunitaria. Un forte tessuto sociale è d’altra parte il contesto giusto per la cura, la
formazione, la realizzazione delle persone. A maggior ragione quando le condizioni
amministrative di un territorio, vasto e anche disperso come le montagne valsabbine,
sono difficili e i modelli centralizzati non funzionano per nulla. L’esempio classico che
viene portato in proposito per i piccoli paesi di montagna è la scomparsa dei piccoli
negozi di alimentari e quindi del pane fresco. I supermercati sono spesso distanti dal
paese e comunque accessibili solo a chi può spostarsi con l’auto. Una fascia ampia
della popolazione deve adattarsi, perché non è pensabile che il Comune sostenga un
esercizio commerciale in perdita. Se entrano in azione invece le risorse comunitarie si
trovano mille soluzioni al problema, che vanno dalla disponibilità degli automuniti a
fare la spesa a turno per altri, alla panetteria di casalinghe che producono pane in più per
i vicini, allo spaccio alimentare autogestito dai soci, alla cooperativa multiservizi che
unisce, per le fasce deboli della popolazione, l’assistenza sanitaria, sociale, materiale,
fino ad arrivare alle reti più complesse in cui le risorse economiche, amministrative,
associative, religiose, individuali sono così ben orchestrate che riescono a rispondere
efficacemente e prontamente ai bisogni della comunità, al punto, anzi, che riescono a
fornire aiuto e solidarietà ad altri territori.
Una comunità prospera quando dispone insomma di un forte capitale sociale da
spendere. Che per altro c’era, ma è stato dilapidato, saccheggiato, svilito e dal Mercato
e dallo Stato. Ora bisogna ricostruirlo, riformarlo. Il capitale sociale maggiore di un
territorio è la comunità, che, come abbiamo visto, è spesso debole o ridotta a esili fili
costituiti dai «vecchi del paese».
Il Canto della Stella in Valsabbia è un esempio cospicuo di ricostruzione,
drammaturgia e messa in atto della comunità. Prima dell’Epifania i cantori si ritrovano
per provare il canto, rinforzando e riattivando legami, amicizie, parentele. Condividono
gioie, dolori, problemi, passioni, giochi, scherzi sulla vita personale, locale, ma anche
extraterritoriale. Il 5 gennaio escono per le strade, percorrendo simbolicamente tutto
il territorio, visitando case, frazioni, paesi vicini, unendo in un abbraccio territoriale
e spaziale i nuclei abitativi. L’esecuzione del Canto è il pretesto per ritrovarsi, farsi
gli auguri, raccontarsi quello che è successo durante l’anno o negli ultimi tempi.
L’atmosfera allegra e accogliente, le porte e i cuori aperti, richiesti dal rituale, sciolgono
le distanze, le freddezze, riscaldano la convivialità, rafforzano l’orgoglio e l’identità
del gruppo, portano la luce e il calore della festa nel freddo e nel gelo dei rapporti
umani, nell’«inverno del nostro scontento». L’esperienza straordinaria di societas, non
fondata sui diritti e sui doveri, né sullo scambio e sul lavoro o sull’interesse, ma sul
dono, sulla giovialità, sulla fraternità, contagia tutti.
Tuttavia il Canto della Stella sarebbe anch’esso un rituale vuoto, un sogno effimero
di comunità, un esorcismo o semplicemente un augurio, se tutto durasse uno o due
giorni. Come il Carnevale era un tempo in cui era lecito folleggiare e sperperare per
sopportare il resto dell’anno estremamente duro e oppressivo, così il Canto della
Stella potrebbe risultare l’illusione annuale di «pace e bene» di comunità per nulla
coese, anzi fortemente in crisi durante l’anno, perché attraversate e sconvolte da feroci
individualismi, settarismi ed egoismi.
Nei colloqui e nelle rilevazioni fatte per documentare l’attuale esecuzione della
tradizione valsabbina è emersa invece una profonda consapevolezza della posta in
gioco, ovvero la necessità innanzitutto di mantenere viva la tradizione per evitare la
disgregazione e la perdita di identità della comunità locale. Negli incontri informali
con organizzatori e cantori e valligiani è emersa anche la necessità di estendere al resto
dell’anno la tessitura sociale così ben esibita nel corteo dell’Epifania. I fondi raccolti
nelle questue della Stella, spesso cospicui, sono tutti destinati non solo al pranzo dei
cantori, ma ad iniziative benefiche interne e anche esterne al paese. La cena o le cene
ovviamente non mancano, ma costituiscono ulteriore occasione di coesione sociale e
di condivisione di beni. Fra i cantori e gli organizzatori della Stella spiccano sempre
persone inserite in gruppi formali e informali che hanno a cura le sorti e i legami
della comunità, promuovendo altre iniziative o collaborando tra loro, tenendo alta la
sensibilità sui problemi e sulle possibili soluzioni del territorio. I loro sforzi si scontrano
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3. L’astro del ciel
L’attivazione delle comunità per ora sembra marginale, e quindi politicamente ed
economicamente improduttiva. Si fonda infatti in gran parte sulla creazione di feste,
eventi, sagre, manifestazioni pubbliche, rievocazioni storiche, festival, mostre, gare,
concorsi, tradizioni e invenzioni di ogni genere. Né i professionisti del Mercato né
i funzionari dell’Ente pubblico potrebbero realizzare tutto quello che fanno per «la
gente» senza il concorso straordinario di gruppi, associazioni e volontari. Ma quanto
migliorerebbero il governo della cosa pubblica, il benessere e l’economia di una
località se anche in questi e in altri campi la comunità non fosse solo cooptata, annessa,
manipolata, sopportata, ma realizzata? Il capitale sociale di una comunità non può
essere solo utilizzato per l’effimero e la partecipazione festiva, ma va utilizzato per
tutti i problemi della comunità, la cui risoluzione implica la vera partecipazione - e non
consultazione o informazione, ma decisione e attivazione - della collettività.
con un coacervo di ostacoli che vengono più dall’alto che dal basso, per ovvi motivi
di interesse «extracomunitario» e «controcomunitario». Si spera che anche in valle
si segua l’esempio di quelle amministrazioni che finalmente stanno abbandonando la
democrazia rappresentativa e promuovono la democrazia partecipativa. Lo sviluppo
del capitale sociale è sempre più l’arma per il miglioramento complessivo della vita
pubblica e privata e perfino delle imprese10.
Per ricostruire una comunità occorre una consapevolezza, un progetto, una
drammaturgia, un processo. Come è quello della Stella.
I grandi eventi, quelli che il potere finanzia volentieri perché sono tessuti del nulla,
magie della finzione, non creano società, ma relazioni illusorie11. Aggregazioni, mai
associazioni.
Il boom, in città e paesi, di tradizioni perse nel tempo, l’affollarsi di festival e
spettacoli di ogni tipo, il diffondersi di eventi culturali e di proposte gastro-turistiche,
ma anche culturali, in tutto l’anno, pur avendo come obiettivo di fondo l’esplicito
tentativo di risvegliare la società e di ricostruire una comunità, sono il più delle volte
operazioni effimere e superficiali, o perché gli attori del processo festivo e culturale
non sono del luogo o, soprattutto, perché le grandi capacità organizzative e le risorse
umane che si manifestano in sagre, feste, manifestazioni culturali, ludiche, religiose e
sportive non vengono assolutamente chiamate in causa per risolvere i piccoli o grandi
problemi della comunità, al contrario di un tempo quando sull’uso dei beni pubblici o
privati, sulle proprietà comuni, su tutta una serie di questioni, la «magnifica comunità»
discuteva, decideva e realizzava.
Le comunità che più ci interessano sono quelle locali, definite dall’appartenenza
ad un preciso territorio, sia esso una frazione, un paese, un quartiere, una città, una
valle, un distretto o ambiente geo-antropico. Sono sempre più importanti però anche
le comunità non territoriali, aggregazioni di persone per le più diverse e libere finalità,
d’ordine non solo politico o religioso, ma sportivo, ludico, solidale, perfino amicale.
Al centro di entrambi i modelli di comunità sta la relazione, la costituzione di legami
volontari e di interessi comuni, in cui il raggiungimento del fine associativo si rivela in
realtà come mezzo per un’esperienza antica e sempre emergente della vita umana: la
partecipazione, la bellezza e la ricchezza dello stare insieme, il fare società.
E’ questa la Stella che ci guida.
Quella che scompare a Gerusalemme dove vivono Erode e i Sommi Sacerdoti (il
potere della religione e la religione del potere) e che brilla invece a Betlemme, sopra
una grotta tra gente povera di soldi, ma ricca di cuore. Nel Canto della Stella si ricorda
quell’evento in cui si apriva per gli uomini una nuova strada diversa dalla legge dello
Stato e dallo scambio del Mercato.
La forza della legge o l’interesse economico infatti non possono unirci.
Il Canto della Stella sì..
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1
Mt, 2, 1-17.
Si confronti lo svolgimento attuale del rito con quello degli anni Settanta descritto da Ghidoli P.,
Sanga G., Sordi I., 1976, pp. 149-168.
3
Sulla drammaturgia di comunità cfr. Bernardi C., 2004, pp. 155-189; Pontremoli A. (a cura di),
2002 e Id., 2005.
4
Sul concetto di capitale sociale vedi Putnam R.D., 2004.
5
Preziosa lettura sulla questione è Bauman Z., 2003.
6
Per una concisa informazione sul problema della comunità cfr. Fistetti F., 2003.
7
Sull’argomento vedi Bauman Z., 1999.
8
Del 2/9/2005, p. 47.
9
Cfr. Mannarini T., 2004.
10
Cfr. lo studio sulla drammaturgia di comunità dei grandi gruppi economici americani e delle
multinazionali in Burke E.M., 2005.
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I Tre Re
Storie, riti e rappresentazioni del Natale e dell’Epifania
1. L’anno che verrà
Le feste di Natale e di Capodanno che si concludono con l’Epifania racchiudono in
Dodici Giorni (tanti quanti i mesi dell’anno) una grandiosa rappresentazione delle aspettative umane sulla felicità personale, famigliare, sociale. La frenesia natalizia è costellata
di azioni e rituali per propiziarsi un futuro di benessere e pace.
Anche una società disincantata, laica e postmoderna come la nostra, riattiva nel periodo di passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo antichi riti magici, in parte apotropaici,
cioè destinati ad allontanare ogni tipo di male dalla nostra esistenza, e in parte, la maggior
parte, propiziatori, volti ad ottenere il maggior numero e il più alto potenziale di forze ed
energie benefiche per noi e per i nostri cari nell’anno che verrà.
La gran parte delle tradizioni di Natale risalgono all’antico sostrato magico-religioso
delle nostre culture pre-cristiane. L’arrivo dell’inverno era per l’uomo preistorico un’esperienza terribile e paurosa di morte: la luce del giorno si riduceva sempre più, gli animali
andavano in letargo, il freddo incalzava, gli alberi diventavano spogli, il cielo incombeva
grigio, plumbeo, le terre si ricoprivano di neve, brina, ghiaccio, spariva ogni traccia di
vita, non si trovava nulla di commestibile se non si era provveduto in anticipo. La natura
esangue, bianca, algida, gelida, livida sembrava perdere a poco a poco la vita.
Per salvarla e per salvarsi l’uomo immaginò che qualcosa o qualcuno portasse la morte e che qualcosa o qualcuno donasse la vita e cercò di individuare negli esseri viventi,
nelle essenze delle cose, nei fenomeni naturali poteri malefici e benefici. Classificò variamente ciò che apparteneva al mondo dei morti e ciò che poteva alimentare la vita e
da questa semplice opposizione ricavò atti, rituali, racconti, per superare la stagione dei
morti e preparare la rinascita della natura.
Il nostro Natale ripete, spesso inconsapevolmente, le azioni magiche di un tempo.
L’albero di Natale è infatti, come l’agrifoglio, l’alloro e altre piante, un sempreverde. Le
piante che mantengono le loro foglie verdi o che addirittura fioriscono conservano nell’inverno la loro forza vitale. L’abete di Natale è simbolo dell’albero cosmico che unisce
i cieli, la terra e gli inferi nutrendo con i suoi frutti tutti gli esseri ed è emblema di entità
dispensatrice di ogni bene agli uomini. Il simbolismo di origine pre-cristiana dell’albero
di Natale non poteva attecchire e svilupparsi nei paesi cristiani senza una sua assimilazione, rievocando sia gli alberi generosi di doni dell’Eden sia la croce e dunque la fonte
di ogni bene e grazia per i credenti.
Così si addobba l’albero con tante luci colorate perché esse si oppongono al buio della
notte e al mondo bianco, grigio, nero del cielo e della terra, ma le luci rappresentano anche la nascita della Nuova Luce, Cristo, e la luce che Dio dispensa all’umanità1.
Il ceppo di Natale che brucia nel camino non dona solo luce, ma anche calore, fuoco.
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Sostituisce il sole, simboleggiato a Natale dal rosso, il colore del vestito di Babbo Natale,
colui che riempe di doni le nostre case. Un tempo, quando la fame, la povertà e la carestia
erano endemiche, dolci e cibarie, spesso rari, erano promesse di abbandonanza materiale.
Oggi l’abbandonanza di doni, e regali, che sembrano bisogni indotti dalla società dei consumi, rivelano piuttosto una ricerca inappagata di relazioni, di considerazioni e di affetti
familiari, amicali, ma anche professionali e sociali2.
Le feste di Natale contemporanee ruotano infatti su due grandi polarità, il Natale in
famiglia e il Capodanno con gli amici. Per Natale sociologi e antropologi parlano di una
grande regressione infantile. In effetti è un periodo di sospensione del nostro modo abituale di fare e di comportarci. Si diventa tutti buoni. Tutti si fanno gli auguri. Tutti cercano di essere più o meno generosi. Tutti abbandonano il cinismo professionale, la fretta,
la durezza, la razionalità, l’efficienza della vita quotidiana, del lavoro, per regredire in un
mondo di dolcezza, calore, pace, serenità, allegria, bontà. Che gli auguri spesso non si
realizzino non significa nulla. Ogni anno non possiamo fare a meno di raccontarci questa
favola e soprattutto di rappresentarla. Ogni anno il Magico Natale continua ad essere
minuziosamente preparato, allestito, vissuto e cercato.
Ancora più evidente è la persistenza del rito magico nella festa di Capodanno. Si
sparano i botti per spaventare e far scappare le potenze malefiche, si riempe il cielo di
mirabolanti fuochi artificiali per creare la massima fantasmagoria nelle tenebre mortali.
Si sta svegli tutta la notte per fare il pieno di vita. Si sta con le persone che più ci sono
care, familiari, ma soprattutto amici, con cui il legame è voluto, libero e non coatto come
nella parentela. Si scelgono per il veglione località, case, ristoranti, spettacoli fuori dall’ordinario3.
La tavola è imbandita di cibi preziosi e raffinati. Tutti gli alimenti festivi hanno un significato simbolico e propiziatorio. Lo zampone, portafortuna, serve a mettere una «zampa» avanti sul benessere che arriverà. Il concentrato di grassi annuncia un anno di grasso
e non di magro. E’ accompagnato da tante lenticchie che, ricordando gli zecchini di un
tempo e quindi tante monete, promettono un anno ricco. Lo spumante garantisce un anno
frizzante, ma anche prezioso e raro. Per questo non bisogna lesinare anche con gli altri
vini e le altre bevande. Il panettone è il dolce che più di tutti è un concentrato di ingredienti ben auguranti, perchè ricco di burro, zucchero, rari canditi di frutta, uva sultanina,
ben lievitato, dorato, morbido, profumato.
A Capodanno si buttano via le vecchie cose, si indossano abiti nuovi. Da qualche anno
è quasi obbligatorio indossare biancheria intima rossa4. L’abbigliamento e l’atteggiamento sexy sono il nuovo modo di proporre gli antichi riti di fertilità. Il rosso non indica solo
passione, ma è anche un simbolo solare. L’intimo indica la sede della massima vitalità
dell’uomo e della donna. Una botta di vita a Capodanno scaccia ogni minaccia di morte
e di malattia. Occorre scoppiare di salute. I giochi, il ballo, l’allegria, lo sfarzo mirano
tutti allo stesso obiettivo: augurarsi e propiziarsi un anno ricco, felice, dolce, fecondo,
fortunato, vitale5. Capodanno è il massimo rito di propiziazione di tutto il bene di questo
mondo.
22
2. Il Natale è pagano o cristiano?
Nel periodo di dicembre, intorno alle stesse date del Natale, i Romani celebravano
la libertas decembris, in onore del dio Saturno. Folle di schiavi, portando il pileum
(il berretto che veniva dato ai liberti al momento della loro liberazione dalla schiavitù), percorrevano la città urlando di gioia. I tribunali erano chiusi. Tutto era permesso: ubriachezza, orgia, giochi d’azzardo. Per sette giorni gli schiavi si consideravano
uguali ai padroni e non esitavano a rimproverarli, ad indossare le loro ricche vesti, a
diventare loro i padroni. Le parti erano rovesciate, i padroni servivano e i servi mangiavano e festeggiavano in lunghi conviti. Travestimenti e maschere facevano parte
della festa. Nelle guarnigioni militari i soldati sceglievano tra i condannati un re dei
Saturnali che travestivano e portavano in giro tra lazzi e oscenità. Al termine dei Saturnali il «re» veniva messo a morte. Quando i soldati romani vestirono Cristo con uno
straccio di porpora, una corona di spine e una canna come scettro e si inginocchiavano
per adorarlo beffardamente riprendevano proprio la tradizione del «re dei Saturnali»,
un re da burla. L’Ecce homo è una parodia del potere, una mascherata che smaschera
però la violenza e la crudeltà dell’uomo contro l’uomo. Ma il primo smascheramento
del potere e del suo sistema violento è Gesù Bambino, che nasce «in una grotta, al
freddo e al gelo». L’adorazione dei pastori rovesciava come i Saturnali la logica gerarchica, o meglio fondava in modo irreversibile l’uguaglianza degli uomini. Da allora
l’umanità continuamente cerca l’associazione, la partecipazione e il movimento delle
persone che si riconoscono pari tra loro.
La voce comune, sia nell’ambito degli studi scientifici come nei settori della divulgazione mediatica, sostiene che il Natale cristiano sia la sostituzione di una precedente
festa pagana dedicata al dio Sole che risorge al solstizio d’inverno (il Sol Invictus) e in
seguito al culto del dio Mitra, altra divinità solare di origine orientale. I recenti studi
di Talley sull’origine dell’anno liturgico dimostrano invece che il Natale dipende dall’evento centrale del mistero cristiano, ossia la Pasqua.
Poiché la Pasqua ebraica in cui morì Gesù corrispondeva all’equinozio di primavera del calendario giuliano, la tradizione cristiana ritenne il 25 marzo (corrispondente al
14 di Nisan del calendario ebraico) la data storica della morte di Gesù. Essa fu perciò
la prima data di celebrazione della Pasqua cristiana e continuò ad essere seguita da
coloro, come i quartodecimani (cioè seguaci del quattordici di Nisan), che rifiutavano
la Pasqua mobile decisa dal Concilio di Nicea6.
L’universale accettazione della data di celebrazione della Pasqua avvenne tardi,
nell’VIII secolo.
Il 25 marzo era anche la festa dell’Annunciazione o meglio dell’Incarnazione di
Cristo perché si riteneva che Cristo fosse stato concepito lo stesso giorno in cui morì.
Nella cristianità occidentale la festa dell’Incarnazione assunse un fortissimo potere
simbolico in quanto data-evento della storia della salvezza. In molte città, come Ve23
nezia e Firenze, era il Capodanno civile. In tale giorno le rubriche liturgiche, come
quelle redatte dal milanese Beroldo (XII sec.), commemoravano oltre al concepimento
o incarnazione di Cristo, la sua crocifissione (e quindi la morte dell’uomo vecchio e la
nascita dell’uomo nuovo), il martirio di san Giacomo, fratello di Gesù, la «creazione»
del primo uomo, Adamo, il sacrificio di Isacco ed altri eventi di prefigurazione e avveramento storico dell’evento pasquale7.
Grazie al suo legame con la data storica della morte di Cristo, il 25 marzo continuò
a mantenere i significati simbolici e teologici della Pasqua ebraica e cristiana e viceversa. Il 25 marzo era considerato il giorno perfetto dell’anno in quanto equinozio di
primavera, inizio della bella stagione, un tempo anche Capodanno degli ebrei. La festa
di Pasqua, inoltre, veniva considerata il tempo perfetto della salvazione. A Pasqua infatti Dio creò il mondo. Sempre a Pasqua, secondo la tradizione ebraica, Dio intervenne per salvare e rifondare il popolo eletto e l’umanità, come successe con Noè e l’Arca
con il diluvio universale, poi con il sacrificio di Abramo e con la liberazione d’Israele
dalla schiavitù di Egitto. Sempre a Pasqua, alla fine del mondo, il Messia inaugurerà
il suo regno eterno8.
Il 25 marzo, in quanto data dell’incarnazione e della morte di Cristo, divenne l’origine, il centro e il perno di tutto l’anno liturgico. Nella ricostruzione di Thomas Talley,
fondata sull’accurato spoglio delle fonti patristiche, la formazione dell’anno liturgico
si spiega proprio con la centralità che assumono la Pasqua e la festa dell’Annunciazione. Se infatti l’incarnazione è avvenuta il 25 marzo, la natività di Cristo cade il
25 dicembre, nove mesi dopo il concepimento. Il Natale dunque non ha origine dal
tentativo della Chiesa di sostituire feste e culti pagani molto radicati a Roma. Così la
nascita del Battista cade nel solstizio d’estate, il 24 giugno, in quanto, secondo il racconto evangelico di Luca, il Precursore venne concepito da Elisabetta sei mesi prima
di Gesù, dunque il 25 settembre, equinozio di autunno9.
Talley spiega anche la differenza di data per la celebrazione della natività tra Chiesa greca e Chiesa latina. La prima festeggia la nascita di Cristo il 6 gennaio, giorno
dell’Epifania, la seconda il 25 dicembre. La diversità di data si deve alla differenza di
vedute tra il calendario giuliano e la scuola astrologica di Alessandria d’Egitto, secondo la quale la data della morte di Cristo e quindi l’equinozio di primavera dovevano
essere assegnati al 6 aprile e non al 25 marzo. Lo stesso ragionamento valeva per
l’incarnazione e per la natività di Gesù, avvenuta, appunto, il 6 gennaio. Con i papi di
origine orientale nel VII e VIII secolo si incominciò a tenere a Roma la doppia celebrazione del Natale e dell’Epifania, caratterizzando questa festività come manifestazione
di Cristo alle genti di tutto il mondo.
3. Il fascino dell’Oriente
La tradizione del canto della Stella in Val Sabbia e in altre numerose comunità
24
dell’arco alpino fa parte dell’articolato patrimonio di sacre rappresentazioni, cortei,
processioni, teatro e religiosità popolare che dal lontano Medioevo segna i tempi forti
della liturgia e della vita cristiana. Ancora oggi sono pochi i paesi del tutto privi di
rappresentazioni comunitarie di presepi viventi, passioni, teatri mariani, vicende di
santi10. Oggi tali rappresentazioni si svolgono indifferentemente all’aperto, sui sagrati
o nelle chiese, in altri spazi comunitari, nei teatri.
Le prime drammatizzazioni degli eventi cristiani e della liturgia cristiana sono già
attestate nel IV secolo. I primi drammi liturgici a noi noti risalgono al X secolo. Nelle
chiese dei monasteri benedettini si diffuse un breve dialogo inscenato dai chierici.
Nella notte di Pasqua si preparava un sepolcro vicino al quale si poneva un angelo che
chiedeva alle Tre Marie venute a completare l’opera di sepoltura di Gesù: «Chi cercate
nel sepolcro?» (Quem quaeritis in sepulchro?). Ed esse rispondevano: «Gesù Nazareno». L’angelo allora annunciava la resurrezione di Cristo e tutta l’assemblea intonava
l’inno di lode. In modo analogo si svolgeva la scena della Natività e dell’Adorazione
dei Magi:
era sempre un angelo a porre la domanda; alle tre Marie del dramma liturgico della Resurrezione corrispondevano i tre magi o i pastori di quello della Natività. Anche sul piano teologico, la
corrispondenza tra il Cristo Bambino e il Cristo crocifisso è puntuale: il Fanciullo nel presepe e
il Moribondo sulla croce sono entrambi nudi e impotenti, e in ciò la loro gloria maggiormente
rifulge: il dono della mirra sottolinea questo legame tra Betlemme e il Calvario, tra Natività e
Resurrezione; talora, nell’iconografia, la mangiatoia nella quale è deposto il Bambino sarà addirittura un sarcofago, e l’ingresso della grotta di Betlemme ricorderà quello del Sepolcro11.
Si conoscono una ventina di drammi liturgici dedicati ai Magi, eseguiti tra l’XI e
il XIV secolo12. Nell’Auto de los Reyes Magos (sec. XII), della cattedrale di Toledo
in Spagna, i Magi entrano in scena uno per uno e separatamente, prima Gaspar, poi
Balthasar e infine Melchior. Ognuno ha riconosciuto nella stella il segno della nascita
del Salvatore. Quando
s’incontrano, confrontano le loro rispettive scoperte, le trovano concordi, e Gaspar definisce
come «cometa» la stella. Dinanzi al dilemma posto da Melchior - come faranno a capire se è
uomo mortale, o re, o Dio? -, Balthasar risponde: «Volete che vi dica come lo sapremo? Oro, incenso e mirra gli offriremo. Se è re terreno, sceglierà l’oro; se è uomo mortate, prenderà la mirra;
ma se è re celestiale, preferirà a questi due doni, come quello che a lui si addice, l’incenso»13.
Nell’Ufficio della Stella (Officium Stellae) di Rouen i tre Re provengono da direzioni differenti est, nord e sud, si incontrano e si abbracciano dinanzi all’altare. Con il
loro seguito formano poi «una processione lungo la navata centrale della chiesa, preceduti da una stella resa lucente da alcuni lumi accesi. Giunti dinanzi a una statua della
Vergine, compiono atto di adorazione e offrono i loro doni». La provenienza dai tre
punti cardinali svela i complessi riferimenti simbolici dei Re Magi, in quanto rappresentano «i tre continenti - Asia a est, Europa a nord, Africa a sud - ciascuno dei quali
25
è rappresentato da un re differente, discendente da Sem, da Jafet e da Cam, e anche da
un differente dono rispettivo»14. Oltre ad indicare le tre razze scaturite dai tre figli di
Noè e i tre continenti conosciuti nel mondo antico, i Re Magi raffigurano anche le tre
età dell’uomo - la giovinezza, la maturità, la vecchiaia, come pure le tre scansioni della
storia umana: passato, presente, futuro. Le tre età dell’uomo, a loro volta, sono state
connesse ai tre «stati» o alle tre funzioni (sacerdoti, guerrieri, lavoratori) individuate
da Dumézil come basilari nelle culture indoeuropee. La tradizione iconografica15 si è
ben presto assestata su una raffigurazione costante dei Magi in cui la vecchiaia ben
si «attaglia al sacerdozio e all’incenso», la «piena maturità» esprime il vigore «della
funzione regale, quindi guerriera» e si avvale del metallo dei re, l’oro; infine la giovinezza, pur soggetta alle altre due età, ha una funzione produttiva e riproduttiva, incarna
il lavoro e la fecondità dell’uomo, il cui simbolo è appunto la mirra16.
Il culto dei Magi si accrebbe notevolmente in Europa con la traslazione dei loro corpi da Milano a Colonia nel 1164. I preziosi corpi santi erano comparsi a Milano quasi
miracolosamente nel 1158, ritrovati nella chiesa suburbana di Sant’Eustorgio, uno dei
primi vescovi di Milano a cui la leggenda attribuiva il merito di aver recato da Costantinopoli le reliquie dei magi. Poichè non si trova traccia di tale culto a Milano prima
del XII secolo, ed essendo la città allora mobilitata per difendersi da Federico I detto il
Barbarossa, appare logico pensare che non si trattò di un ritrovamento quanto piuttosto
di «uno dei tanti sistemi escogitati dai milanesi, allora in difficoltà, per infondere fiducia a se stessi e ai loro alleati»17. Quando la città venne presa e rasa al suolo dall’imperatore, le reliquie, dapprima nascoste, furono poi cedute dall’arcivescovo di Milano
in cambio della vita a Rinaldo di Dassel, arcicancelliere dell’impero e arcivescovo di
Colonia, che pensò di far della città tedesca il centro del culto «cattolico-imperiale»
attraverso un sistema di segni, reliquie, corpi regali. I milanesi si guardarono bene dal
delegittimare le reliquie, per non fare la figura dei falsari. Anzi, quando sotto i Visconti, la città da guelfa divenne ghibellina, a testimoniare pubblicamente il nuovo corso
filo-imperiale fu proprio l’istituzione di un celebre corteo dei Magi, i cui corpi e il cui
culto più degnatamente erano stati collocati nel cuore religioso-politico dell’impero.
Il corteo dei Magi attraversava l’intera città seguendo «una stella che probabilmente era issata in cima ad un’asta» e «si recava nel tempio di San Lorenzo dove si
rappresentava l’arrivo dei tre re al cospetto di Erode, in Gerusalemme; da lì il viaggio
riprendeva fino alla chiesa di Sant’Eustorgio». Qui
più importanti del tempo, ma soprattutto per l’enorme influenza che vi avevano i Medici. Ogni tre anni (dal 1447 ogni cinque), il giorno dell’Epifania, i confratelli organizzavano la cavalcata dei Magi. Tre cortei arrivavavno separati davanti al Battistero (dal
1429, però, in piazza della Signoria) e proseguivano uniti fino alla chiesa domenicana
di San Marco dove veneravano Gesù Bambino cantando una lauda che cominciava
così: «Noi siamo i tre re venuti dall’Oriente/ che abbiam visto la stella/ annunciare la
novella/ del Signore...». La Compagnia dei Magi venne soppressa nel 1494, dopo la
cacciata dei Medici. I locali dove la congrega si riuniva vennero ceduti ai frati domenicani di San Marco e la festa non fu più celebrata perchè aveva assunto aspetti troppo
«politici» e profani.
In seguito, nel gergo popolare Epifania divenne a Firenze Befanìa o Befana, indicando la festa che dava inizio ai cortei e ai mascheramenti di Carnevale, che, come
in altre città europee, derivavano direttamente dalle sacre rappresentazioni medievali
dedicate al viaggio dei Magi a Betlemme.
La Befana era spesso attorniata da «Befanotti» o «Befani», giovani dal volto tinto
di nero, abbigliati in modo sgargiante e spesso ridicolo, che in qualche modo richiamavano i Re Magi19. Parte integrante dell’Epifania era la questua, che veniva fatta da
gruppi di giovani la sera della vigilia, prima a vantaggio degli stessi questuanti e poi
per la pubblica beneficenza. Le canzoni di questua, dette «befanate», accompagnavano
la raccolta20.
Fu proprio il prevalere degli elementi comici, burleschi e profani all’interno delle
sacre rappresentazioni e delle feste religiose a determinare un cambiamento di rotta
nel Cinquecento, con l’opera radicale di epurazione della teatralità popolare, sia sacra
che profana, da parte dei protestanti e con la riforma delle tradizioni popolari da parte
delle autorità cattoliche.
I Re Magi non sparirono, ma trovarono una nuova vita nel canto della Stella.
a lato dell’altar maggiore era allestito il presepio con il Bambino in braccio alla Vergine, il bue e
l’asino. Dopo l’adorazione e l’offerta dei doni i magi si addormentavano; e in sogno l’angelo li
avvertiva di non tornare indietro per la medesima strada dalla quale erano venuti: ed essi, infatti,
per un cammino diverso dal precedente uscivano di città passando dalla Porta Romana18.
Analoga, anche se sotterranea, aspirazione «regale», ebbe la Compagnia dei Magi
di Firenze. La Compagnia, il cui stemma era una stella d’oro a sei punte simboleggiante la cometa, divenne famosa nel XV secolo perché era una delle congreghe fiorentine
26
27
La Dodicesima Notte
Il Canto della Stella la vigilia dell’Epifania
1. Origine e diffusione del Canto della Stella
Cardini F., 1983, pp. 131-138.
Cfr. Perrot M., 2001.
3
Cfr. Isambert F.-A., 1982, pp. 164-211. A p. 166 l’autore mette in rilievo gli attributi antitetici delle
due feste: Natale-bambini/Capodanno-adulti; Natale-famigliari/Capodanno-simpatia generale;
Natale-religioso/Capodanno profano; Natale-raccolto e intimo-rinforzo dei tabù/Capodanno- esuberanza-eccessi permessi.
4
Sugli inizi della nuova moda di Capodanno in Italia cfr. Sotis L., 1985, p. 6.
5
Sulla cultura magico-religiosa della civiltà agraria cfr. Grimaldi P., 1993.
6
Cfr. Bernardi C., 1991, pp. 22-24.
7
Cfr. Beroldus sive Ecclesiae Ambrosianae Mediolanensis Kalendarium et Ordines, saec. XII, ex codice
Ambrosiano, 1894, p. 4. Nel XIII sec. Iacopo da Varazze nella Legenda aurea (Vitale Brovarone A.
e L. (a cura di), 1995, p. 275) sintetizzava con gli «eccellenti versi» di un «autore ignoto» le «molte
cose nel volgere del tempo» che Dio compì «in questo giorno»: «Salve, giorno di giustizia, che
richiudi le nostre ferite!/ L’angelo fu mandato, Cristo patì in croce,/ Adamo fu creato, e nello stesso
tempo cadde,/ Per il merito acquisito con la decima/ Cade Abele sotto la spada del fratello,/ Offre
Melchisedech, Isacco è posto sull’ara,/ è decollato il beato battista di Cristo,/ Pietro ucciso, Giacomo
fatto giustiziare da Erode./ Con Cristo risorgono molti corpi di santi,/ Il buon ladrone ottiene grazie
a Cristo una dolce fine». 8
Bernardi C., 1991, pp. 24-29.
9
Cfr. Talley T.J., 1991, p. 98: «Non è più soltanto la Pasqua a dare significato all’anno.
Il ciclo annuale, con il cambiamento delle stagioni, parla [...] dei misteri che circondano l’incarnazione:
il concepimento del Precursore nell’equinozio d’autunno e la sua nascita nel solstizio d’estate, il
concepimento del Redentore nell’equinozio di primavera (il giorno della sua passione) e la sua
nascita nel solstizio d’inverno».
10
Sulle rappresentazioni natalizie in Piemonte cfr. Leydi R., 2001.
11
Cardini F., 2000, pp. 56-57.
12
Cfr. Young K., 1933, I, pp. 29-101 e pp. 432-452.
13
Cardini F., 2000, p. 58.
14
Ibi, p. 60.
15
Sulla tradizione iconografica dei Magi si veda almeno la parte seconda di Bussagli M., Chiappori
M.G., 1985, pp. 117-225.
16
Cardini F., 1983, pp. 130-131. Sui Magi si veda anche Galvagni F., 2005, pp. 7-23.
17
Cardini F., 2000, p. 68.
18
Ibi, p. 123.
19
Ventrone P., La festa dei Magi. 6 gennaio, in http://www.storia.unifi.it/SDF/feste/magi.htm.
20
Sulle befanate si veda Toschi P., 1976, pp. 383-390.
La fine del teatro religioso medievale fu determinata da due movimenti antirituali:
l’umanesimo e la riforma protestante. Entrambi consideravano vera religione solo il
rapporto interiore con Dio. I protestanti, in particolare, accusavano la Chiesa di circuire i fedeli per i propri interessi attraverso riti, immagini, pratiche superstiziose o
teatrali, cioè pagane. La riforma cattolica si concentrò invece sulla netta distinzione
tra elementi che nel medioevo erano mescolati: il sacro e il profano. Particolarmente
colpito fu appunto il teatro religioso, che aveva di profano lo spettacolo, il comico, il
corpo e la parola del laico, l’attore e la realtà quotidiana1. Dunque, nel Cinquecento,
secondo i dettami del Concilio di Trento, si fa strada una netta separazione tra la liturgia ufficiale, riservata al clero, e le forme devozionali dei laici.
Questo non significa che gli ecclesiastici non considerassero possibili interessanti
veicoli di propaganda anche i riti e le tradizioni che i credenti portavano avanti al di
fuori della Chiesa. Nonostante condannassero in continuazione, con bolle e sanzioni, la
religiosità popolare che manteneva caratteri troppo liberi, incontrollati, talvolta licenziosi, accolsero, riformandole, alcune tradizioni festive come possibili strumenti di catechesi e di moralizzazione. La Riforma cattolica, per esempio, incentivò la diffusione
delle cosiddette ‘laudi a travestimento spirituale’, con lo scopo di divulgare anche fra
il popolo la retta dottrina. Testi di carattere religioso-morale vennero adattati in modo
da poter essere eseguiti sulla melodia di note canzoni anche profane, così che la gente
potesse impararle con facilità. Questa forma di comunicazione immediata e capillare,
in tempi in cui la stampa a caratteri mobili muoveva i primi passi e l’analfabetismo
era dilagante, servì alla Chiesa anche a realizzare, per così dire, un cordone sanitario
nell’arco alpino contro le eresie protestanti provenienti dal Nord Europa. Secondo le
ricerche di Hans Moser, il rito della Stella avrebbe avuto origine e diffusione, a partire
da località immediatamente a nord delle Alpi, per consapevole impulso da parte dei
Gesuiti2. Dall’analisi di documenti cinquecenteschi sembra infatti che il Canto della
Stella fosse, almeno inizialmente, un privilegio di certe scuole di canto legate all’ambito gesuitico, che andavano per le vie a portare la Stella e a fare la questua.
Lutero, che nella sua Riforma rigettava ogni forma di culto dei Santi, a partire dal
1531 rifiutò anche il culto dei Tre Santi Re Magi, le cui reliquie erano state traslate da
Milano a Colonia nel 1164 e avevano mosso nei secoli un imponente meccanismo di
pellegrinaggi e indulgenze. La data del 6 gennaio fu riportata così, nelle intenzioni di
Lutero, al suo significato antico di festa del Battesimo di Gesù e autentico Capodanno cristiano3. «In questo senso, secondo D.R. Moser, la risposta della Controriforma
troverebbe nell’iniziativa gesuitica un efficace tampone contro il dilagare» della posi-
28
29
1
2
zione eretica di Lutero sull’Epifania. In coerenza con l’azione didascalica e propagandistica dei Gesuiti, «l’elemento teatrale delle questue dei Tre Re e della Stella» serviva
a ribadire il significato cattolico dell’Epifania, «legato all’apparizione dei Magi. La
diffusione di testi specifici in lingua volgare, veicolata attraverso il repertorio profano
‘travestito spiritualmente’ avrebbe completato l’opera, soprattutto in quelle zone» più
esposte alla penetrazione delle idee e dei canzonieri riformati in lingua tedesca o ladino-romancia4.
Il successo della Stella è documentato fin verso la fine del XVII sec., quando iniziò un processo di degenerazione che portò l’usanza ad essere vietata ed aspramente
condannata sia dalle autorità civili sia da quelle religiose. «I divieti riguardarono inizialmente i territori germanofoni a nord delle Alpi», poi, nella seconda metà del XVIII
sec., anche il Principato vescovile di Trento, con una lunga sequela di proibizioni,
emanate la vigilia di Natale, ininterrottamente e regolarmente ogni anno, a partire dal
1737 fino al 17705. In conseguenza di ciò, nelle regioni dell’arco alpino, l’usanza della
Stella registrò un progressivo e definitivo declino innanzitutto nelle città, una persistenza in aree più periferiche (la cui lontananza dal centro rendeva forse poco efficaci
gli editti vescovili) e una tenace continuità in particolari contesti etnografici, come ad
esempio quello della Val dei Mòcheni, in Trentino6.
La tradizione del canto della Stella dunque ha attraversato tenacemente i secoli, probabilmente con qualche battuta d’arresto a livello locale. La crisi più recente è quella
degli anni ’50 e ’60 del Novecento, periodo in cui dominanti furono i cambiamenti
socioeconomici e culturali: dilagante la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (in primis la televisione) e apparentemente inarrestabile la trasformazioni dei modi
del lavoro e dei ritmi della vita che, se assicuravano condizioni di esistenza meno dure
e precarie, riducevano alla marginalità cospicue fasce di popolazione. Già all’interno
di quel periodo, però, gli studiosi notano un processo molto interessante di ripresa di
alcuni aspetti della vita popolare, riferibili in particolare alle situazioni collettive: i
motivi, di varia natura, sono riconducibili all’emergere di una più o meno consapevole
insoddisfazione per il ‘nuovo’, che non era in grado di assolvere per intero il bisogno
di comunicazione e socializzazione. Così, a partire dalla fine degli anni ’60, alcune
‘celebrazioni’ rituali superano la crisi e rinascono, quasi mai per imposizione, ma per
necessità interne alla collettività7.
L’usanza della Stella, chiamata anche ‘dei Tre Re’, è documentata oggi in un arco
geografico che va dal Ticino alla Slovenia8. Questo arco geografico costituisce l’appendice meridionale di un ambito molto più esteso di diffusione del rito della Stella,
che interessa vaste zone dell’Europa centrale non riformata, soprattutto germanofona
ma anche boema, ungherese e slava. La tradizione è molto diffusa dunque anche nei
paesi transalpini di lingua tedesca col nome di Sternsingen.
30
2. I canti della Stella
«L’usanza di eseguire canti di questua, da parte di cantori itineranti, nel periodo
che va da Natale all’Epifania» è documentata «in varie località dell’Italia centro-settentrionale. Le modalità cerimoniali e musicali, pur variando da zona a zona, sono»9
riconducibili a tre tipologie: le Stelle, diffuse come abbiamo visto nei territori alpini e
prealpini di Lombardia10, Trentino Alto Adige11, Veneto12, Friuli13 e Istria veneta14; le
Befanate, diffuse in Toscana e in Umbria; le Pasquelle (o Pasquette) in Emilia, Marche e Abruzzo15. Affinità testuali con i canti della Stella sono presenti in un’altra tradizione del periodo di Natale, il Pastor Gelindo, una sacra rappresentazione popolare
natalizia diffusa in particolare tra il Piemonte, la Liguria e la Lombardia16. All’Epifania
è legato inoltre il canto dei Tre Re, «documentato in Sardegna, dove un tempo veniva
eseguito da cantori – mascherati da Re Magi – che avevano il compito di portare i doni
ai bambini»17.
Vengono denominati ‘canti della Stella’ quei canti di questua a soggetto religioso
eseguiti nella notte dell’Epifania, o nei giorni immediatamente antecedenti, da gruppi
di cantori itineranti muniti di una stella che simboleggia il viaggio dei Re Magi.
I canti ora in uso dai gruppi della Stella sono numerosi, e ancora più numerose le
varianti dello stesso canto anche in località geograficamente limitrofe18. Qual è la loro
origine? E’ sempre stata condivisa, per il repertorio dei testi dei canti della Stella, l’ipotesi della presenza di «una non meglio identificata origine colta o sub colta, risalente
ad epoca precedente, con una relativa ‘discesa’ veicolata dal clero, dalle confraternite o
da altri movimenti religiosi»19. Il lavoro di studiosi e ricercatori, in particolare quello,
decisivo, di Renato Morelli, ha permesso effettivamente di reperire raccolte cinquecentesche e secentesche di Laudi a travestimento spirituale, il cui confronto con i canti
della Stella in uso ha evidenziato inequivocabili analogie. Nel corso di una ricerca sui
canti della Stella condotta nella seconda metà degli anni Ottanta in Val dei Mòcheni,
il Morelli pervenne alla scoperta di un volumetto a stampa, contenente una raccolta
di Sacri canti utilizzati dai locali Stelari20. Il frontespizio, privo di indicazioni di data,
riportava tuttavia il nome dell’autore, Don Giambattista Michi di Fiemme. Ricerche
d’archivio, soprattutto ad opera dello studioso fassano padre Frumenzio Ghetta, hanno
parzialmente ricostruito la vita e l’opera di Don Giambattista Michi, vissuto dal 1651
al 1690, «risolvendo contestualmente anche il problema della datazione del volumetto»21. La scoperta della raccolta Michi ha consentito di «affrontare con documenti di
prima mano la questione della derivazione da fonti scritte di canti devozionali di larga
circolazione orale» e di rinnovare l’interesse sull’argomento da parte di etnomusicologi, filologi, storici, antropologi22.
Allo stato attuale delle ricerche, la raccolta Michi contiene la più antica attestazione di un ‘corpus’ di testi natalizio-epifanici riscontrabili nei repertori popolari delle Stelle sul versante italiano dell’arco alpino e prealpino [...]. Il corpus raccolto dal sacerdote teserano comprende 36
31
canti per le Feste di Natale, 18 dei quali in latino e altrettanti in volgare. Quindici di questi testi
risultano ancora documentati nell’uso di oggi (o di anni recenti) nel patrimonio etnomusicale
dell’arco alpino italiano, dal Ticino all’Istria23.
Le ricerche di altri due studiosi, Domenico Alaleona24 e Alberto Colzani25, che hanno rinvenuto raccolte cinquecentesche di laudi a travestimento spirituale contenenti
alcuni testi della raccolta Michi, sono servite al Morelli per consolidare l’ipotesi che
anche le fonti di tale raccolta «debbano essere collocate all’interno di quel vasto movimento musicale-spirituale promosso dal Concilio di Trento che vide nella produzione
di ‘laudi a travestimento spirituale’ uno fra gli esiti musicali più significativi della
Controriforma». Tale produzione era indispensabile per contrastare «la pericolosa infiltrazione dei libri di canto riformati, sia calvinisti che luterani»26.
Nel corso degli anni sono state scoperte e studiate numerose raccolte secentesche e
settecentesche di canti contenenti i testi oggi in uso per le celebrazioni natalizie e per
la tradizione della Stella27. Non è ben chiaro, però, come sia avvenuto il passaggio dal
testo scritto alle numerosissime varianti dei canti locali: probabilmente la conoscenza
era affidata alla memoria e alla comunicazione orale o a trascrizioni spontanee successive, che possono aver introdotto gli errori e gli scarti presenti nello stesso canto in
luoghi anche vicini.
Fra i canti della Stella in uso in Valsabbia, alcuni derivano da tre laudi presenti nella
raccolta Michi col titolo Noi siam li tre Re d’Oriente, Iddio Benedetto e Dolce felice
notte28. Più diffuso, invece, fra le località valsabbine, il canto dal titolo Noi siamo i tre
Re venuti dall’Oriente, che ha la sua versione a stampa più antica nella Nuova operetta
spirituale sopra la venuta dei Santi tre Magi venuti dall’Oriente in Betlemme ad adorare la nascita del Redentore Gesù Bambino, stampata a Bassano senza indicazioni di
data (ma risalente al XVII o al XVIII sec.) e rinvenuta a Fierozzo S. Felice (TN)29.
3. Il rito della Stella
La collocazione di frontiera fra popolare e colto, scritto e orale, sacro e profano,
cantato e agito, di questi riti epifanici impone un approccio pluridisciplinare e non
sono etnomusicologico. In particolare, risulta necessario approfondirne l’aspetto antropologico, per restituire alla tradizione la ricchezza di significato che, assistendo in
alcune località al rito attuale, si può solo intuire.
Renato Morelli, nell’analizzare la realtà musicale della Val dei Mòcheni, isola etnico-linguistica del Trentino orientale, ha dovuto dare conto degli aspetti socio-antropologici delle comunità della valle, che rappresenta un terreno di ricerca particolarmente
favorevole e privilegiato per
l’esistenza di un vasto ciclo rituale-simbolico ancora in funzione secondo modalità tradizionali,
gravitanti soprattutto attorno ai due ‘poli’, rispettivamente religioso e profano, della Stella/Stéla
32
e dei Vecchi/Bèce [...]. I dati emersi dalla ricerca sul campo hanno permesso di dimostrare che
entrambi questi poli, come del resto l’intera struttura cerimoniale del ciclo dell’anno, si configurano in realtà come un unico rito di passaggio dei giovani coscritti/Koskrötn all’età adulta. Un
passaggio sancito dal superamento di prove fissate dalla tradizione, come ad esempio, l’organizzazione della Stéla, del Carnevale e di alcune processioni30.
Sia nel rito della Stella sia nel Carnevale i protagonisti sono i maschi celibi della
comunità, nello specifico i coscritti, cioè «i giovani che nel corso dell’anno entrante
accederanno ai ranghi dell’età adulta». Ai coscritti, infatti, viene affidato il compito di
gestire l’intero ciclo festivo dell’anno per dimostrare la raggiunta maturità sociale31.
Nel mese di dicembre, i coscritti «insieme alle coscritte – aggregate soltanto in anni
recenti – imparano i canti della Stéla dagli Stelàri, il gruppo di cantori depositari della
tradizione»32; poi, dalla notte di San Silvestro cominciano i canti itineranti di questua
lungo i masi sparsi, che durano fino all’Epifania, con lo sfoggio del prezioso Kronz,
il cappello che ogni coscritto si prepara, decorato con pietre, fiori secchi e fili dorati.
«Mezzanotte dell’Epifania sancisce ufficialmente l’inizio del periodo di carnevale; la
Stéla viene messa da parte per dare spazio ai balli»33. Durante il carnevale i coscritti
organizzano mascherate itineranti e hanno il compito di scegliere le tre persone che
devono vestire i costumi fondamentali del carnevale tradizionale: il Bècio/Vecchio;
la Bécia/Vecchia e l’Oeartrogar/Portatore di uova. Hanno poi l’incarico, il 22 luglio,
di portare in processione la statua della patrona, santa Maria Maddalena, e, la prima
domenica di ottobre, la statua della Madonna del Rosario.
Renato Morelli ha messo inoltre in evidenza lo stretto legame fra il Canto della
Stella e il culto dei morti: in Val dei Mòcheni, parte delle offerte in denaro raccolte
con la questua venivano e vengono destinate alla celebrazione di messe in suffragio
dei defunti; il resto della cifra viene usato per i membri più bisognosi della comunità
(un tempo il denaro raccolto veniva concesso in prestito a chi ne avesse più necessità:
il ‘capitale dei morti’ serviva come banca di credito per i vivi). Di frequente, al coro
della Stella spetta il compito di partecipare ai funerali avendo in reperterio canti funebri e lamentazioni, se non l’intero ufficio dei defunti34. I giovani coscritti, mascherati
durante il carnevale, sono le figure liminali, in transizione, attraverso i quali i morti
riescono a tornare fra i vivi nel mezzo del rovesciamento sociale, degli scherzi, dei
balli sfrenati35.
Cosa rimane del rito antico, esemplificato dai ‘casi resistenti’ in Val dei Mòcheni,
nel canto della Stella attuale? Si è quasi del tutto perso il ruolo dei giovani a guida delle
attività festive comunitarie. Rimane, forse, il valore del rito in sé, nel periodo ‘caldo’
del Natale, in cui dare l’offerta ai cantori della Stella, quasi ‘ambasciatori della luce’ al
posto dei Magi, è come assicurarsi protezione e fortuna. Rimangono la spinta collaborativa, il bisogno di stare insieme. Lo vedremo specificamente nel capitolo dedicato al
Canto della Stella in Valsabbia.
33
4. I Canti della Stella nel bresciano
Nel territorio bresciano, la tradizione del Canto della Stella, pur avendo il suo massimo centro di diffusione in Valsabbia, è presente anche in altre zone della provincia,
in particolare nelle valli e limitatamente in pianura36.
In territorio adiacente alla Valle Sabbia, la Stella si canta a Bollone e Magasa in
Valvestino37. La tradizione permane anche in diverse località del Lago di Garda, specialmente nella parte alta del bacino, a Costa di Gargnano, a Tremosine, a Tignale, a
Campione, a Limone e a Desenzano38.
A Tremosine l’esecuzione del Canto della Stella avviene in diversi momenti: nelle
sere che precedono il Natale (nelle frazioni di Pieve, Voltino, Vesio, Sermerio) o solo
alla vigilia dell’Epifania (Campione); viene inoltre replicato all’interno della chiesa il
giorno dell’Epifania. Un gruppo di cantori accompagnati dalla fisarmonica e da altri
strumenti va per le frazioni del paese con una grande stella di legno e carta, illuminata e fissata all’estremità di un’asta; la stella luminosa viene fatta ruotare grazie a un
semplice meccanismo, formato da corda e carrucola, azionato a mano. Soffermandosi
davanti alle case i cantori intonano strofe di canti natalizi e augurano a gran voce il
buon Natale, mentre alcuni incaricati raccolgono offerte per la parrocchia (in passato
si trattava di semplici cibi). Nella frazione di Vesio non viene portata in giro la Stella,
ma un piccolo catafalco con la statua di Gesù Bambino riscaldato dalla fioca fiamma
di una lanterna (sormontata dalla preghiera «Caro Gesù Bambino, chiudi un occhio e
non ti stancare di questo mondo...»). Quando si ripete l’uscita la vigilia dell’Epifania,
varia il canto (non più i tradizionali canti natalizi ma una versione del canto della Stella: «Noi siamo i tre Re, venuti dall’oriente per adorare Gesù, quel Re superiore a tutti,
maggiore di quanti al mondo ne furono giammai...») e tre cantori si abbigliavano da
Re Magi. A Campione, insieme al gruppo dei cantori, accompagna la Stella anche la
Befana. Tutti gli abitanti si affacciano all’uscio o alle finestre della propria abitazione
ed accolgono il gruppo con qualche cibo e bevanda di conforto. Nelle diverse parrocchie di Tremosine il canto della Stella O notte splendida viene eseguito con modalità
simili, ma variano leggermente i testi e le musiche39.
Domenico Poinelli, nato a Tignale nel 1914, ricorda che negli anni Trenta, nelle
notti immediatamente successive al Natale, il gruppo dei cantori muoveva per le vie
del centro di Gardola e raggiungeva a piedi le frazioni di Aer, Olzano e Oldesio. Da
quest’ultima frazione provenivano i musicisti che accompagnavano il canto col suono
dei loro strumenti: una cornetta, uno o due clarinetti e dei bombardini. Il gruppo era
solito recare con sé delle piccole damigiane, che venivano utilizzate per raccogliere il
vino offerto dagli abitanti delle case visitate durante il tragitto. Un tempo la Stella luminosa - afferma il testimone - non esisteva ancora: essa fu costruita solo dopo l’arrivo
di don Andrea (il parroco del paese negli anni Sessanta) e da allora divenne il vero e
proprio simbolo di questa tradizione di Tignale. Oggi la Stella viene fissata a un’auto
ed è illuminata da una serie di lampadine azzurro-verdi che la rendono ben visibile
34
anche da lontano. L’interno della Stella contiene un piccolo presepio con le immagini
di Giuseppe, Maria, il bue, l’asinello e i Re Magi. I componenti del coro seguono, ove
possibile, la Stella a piedi in corteo, come vuole la tradizione, ma per raggiungere le
frazioni più distanti si spostano in auto. La raccolta dei generi alimentari e delle offerte in denaro è tuttora in uso, i cantori accettano inoltre volentieri di ristorarsi con
vin brulé o altre calde bevande40. Alla fine trippa e ossa di maiale per tutti, cucinate in
piazza all’interno di grandi paioli sul fuoco vivo.
Fino a qualche tempo fa, quando la popolazione di Limone era concentrata solo
nel centro storico, il rito della Stella si svolgeva unicamente nella notte di Natale. In
seguito alla recente espansione dell’abitato è stato necessario protrarre il canto per
più giorni in modo da poter raggiungere tutte le famiglie del paese, anche quelle che
vivono nelle case più isolate. La sera della vigilia di Natale i cantori si ritrovano verso
le ore 20 sul sagrato della chiesa parrocchiale; i partecipanti sono circa una ventina
di persone, tra cui molti ragazzi, guidati da due-tre uomini che, ormai da tempo, ogni
anno si impegnano a promuovere la tradizione. Non hanno costumi particolari, nè
strumenti, ma si limitano a cantare dietro a una Stella fatta in legno, rivestita di nylon
trasparente e colorato, posta su un’asta alta circa quattro metri. La Stella è illuminata
all’interno da alcune lampadine alimentate da una batteria. Negli spostamenti brevi la
Stella viene portata a mano mentre, per i percorsi più lunghi viene caricata su un’auto.
Il gruppo dei cantori si ferma davanti ad ogni gruppo di case: l’asta della Stella viene
appoggiata a terra, il capo coro intona il canto e le persone si affacciano alla porta o
alle finestre per ascoltare e ammirare la Stella che viene fatta girare tramite una corda.
La sera della vigilia di Natale i cantori percorrono il centro storico (vie Fontana, Orti,
Castello, Rovina, Corda, Concordia, Comboni, ecc.). Nelle serate successive si raggiungono le località più a Nord (Sopìno, Nua, Se, ecc.), poi quelle più a Sud (Fasse,
Nanzello, ecc.) e infine si va verso il confine con Tremosine terminando in località
Campaldo, dove un privato offre ai cantori la cena a base di polenta taragna. Nelle
varie sere è tradizione avere dei punti di ristoro fissi dove riscaldarsi con vin brulè e
cioccolata calda e assaggiare qualcosa. A Limone rimane una precisa relazione con la
pratica rinascimentale «dove i cinque canti in forma zingaresca sono effettuati tutti
sulla medesima linea melodica, analogamente alle indicazioni fornite da quasi tutte le
raccolte seicentesche di Laudi Spirituali»41.
Più lontano dalla Valle Sabbia la Stella si canta a Palazzolo sull’Oglio e a Vezza
d’Oglio, dove il rito si lega anche alla tradizione del falò42. A Vezza d’Oglio «è ancora
eseguita la lauda Dormi Dormi bel bambin, anch’essa contenuta nella raccolta Michi,
diffusissima come ninna nanna in diverse zone della Lombardia e ancora in funzione
come canto della vigilia di Natale non solo in area bresciana ma anche pavese»43.
35
1
Si veda Bernardi C., 2005, p. 105.
2
Moser H., 1985, pp. 74-97.
3
Morelli R., 1996, p. 115.
4
Ibidem. Morelli cita Moser D.R., 1973, pp. 105-133.
5
Morelli R., 1996, pp. 115-116.
6
Ibi, p. 116.
7
Leydi R., 1988, p. 54.
8
Morelli R., Poppi C., 1998, p. 131. Per la Slovenia Radole G., 1965, pp. 97-99.
9
Morelli R., 2001, p. 21.
10
Per i canti della Stella di Premana e Bellano si veda Albonico E., 2003. Per il cremonese (Rivolta
d’Adda) Ghidoli P., Sanga G., Sordi I., 1976, p. 156. Sulla Stella nell’alto mantovano vedi Tassoni
G., 1964.
11
Morelli R., 1996. Morelli R., Poppi C., 1998.
12
Contiene un gruppo di 24 testi di canti della Stella di varie località del vicentino Paiola V. (a cura
di), 1975. Si veda inoltre Zamboni D., 2001, pp. 117-137. Su Vicenza e sulla Ciarastèa di Padova
vedi Brian M., 2001, pp. 139-157.
13
Frisano R., Vidoni M., 2003.
14
Radole G., 1965, pp. 97-99.
15
Morelli R., 2001b, p. 21.
16
Leydi R., 2001. Morelli R., in fase di stampa.
17
Morelli R., 1996, p. 105.
18
Nell’Archivio Provinciale della Tradizione Orale (APTO) della Provincia Autonoma di Trento sono
oggi conservati circa duecento documenti sonori afferenti al repertorio dei canti di questua natalizioepifanici, legati all’usanza della Stella o dei tre Re.
19
Morelli R., 1996, p. 106.
20
Ibi. Si vedano anche le ricerche contenute in Chiocchetti F., 1997-1998 sul canto dei Trei Rees ed il
rito della Stella in tutto il Trentino.
21
Morelli R., 2001a, pp. 15-16.
22
Ibi, pp. 16-17.
23
Morelli R., 1996, p. 110. I canti documentati sono: Noi siamo i tre re dell’oriente; Dormi dormi bel
bambin; Dolce felice notte; Oggi è nato un bel bambino; Oggi è quel giorno santo; Verbum caro
factum est – Bell’infante piccolino; L’unico figlio dell’eterno padre; Dio ti salvi o cara madre; Per
tua somma clemenza; Amato e riverito; O mirando e gran stupore; O angeli correte subito; Iddio è
benedetto; Puer natus (Laetamini); Puer natus (per l’Epifania).
24
Alaleona D., 1909, pp. 1-55
25
Colzani A., 1983.
26
Morelli R., 1996, p. 112.
27
Morelli R. (a cura di), 2001.
36
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
Morelli R., 1996, pp. 124-129; pp. 157-159.
Ibi, pp. 160-165.
Ibi, p. 19.
Ibi, p. 33. «Nel linguaggio corrente il termine coscritto viene ormai associato alla leva militare, in
quanto verrebbe fatto risalire all’introduzione della coscrizione obbligatoria, dunque non prima del
18esimo secolo; è però probabile che a quel tempo le nuove tradizioni abbiano finito per incorporare
elementi culturali più arcaici, vale a dire quei riti di passaggio all’età adulta, sanciti dal superamento
di prove di forza e di coraggio, che coincidevano con i mutamenti stagionali dell’anno», ibidem.
Morelli fa riferimento al testo capitale di Van Gennep, 1981.
Morelli R., 1996, p. 35.
Ibi, p. 37.
Ibi, pp. 82-85.
Sull’argomento si rimanda a Poppi C., 1988 e Id., 1990.
In alcuni casi, in particolare per la Valtrompia, la tradizione del canto della stella era dovuta alle
visite dei gruppi valsabbini vicini: così Brozzo veniva visitato dai cantori di Casto, ma la tradizione
risulta in disuso dal 1961. Guiotto G., 1999, p. 112.
Ibi, pp. 113-114 e Ghidoli P., Sanga G., Sordi I., 1976, p. 150: «La Stella viene cantata anche nei
paesi circonvicini che non possiedono una propria tradizione di canto: così i cantori di Magasa rag
giungono anche Cadria, Armo, Moerna, Turano».
Sui testi e le musiche della Stella di Magasa, Costa di Gargnano, Limone, Tignale, Campione si
faccia riferimento a Grasso G., 2005, pp. 27-99.
http://www.atlantedl.org/brescia/feste/116tremosine/stela.htm. Cfr. Grasso G., 2001, p. 76.
http://www.atlantedl.org/brescia/feste/114tignale/stella.htm. Grasso G., 2001, pp. 98-99.
Grasso G., 2001, p. 81. Cfr. http://www.atlantedl.org/brescia/feste/99limone/stella.htm.
Guiotto G., 1999, p. 112.
Grasso G., 2001, p. 82.
37
I Canti della Stella in Valsabbia
1. Lo stato degli studi
Il rituale della Stella in Valsabbia è partecipe della tradizione natalizia dell’arco
alpino, confermata dal forte imparentamento che esiste tra i significati antropologici, i
testi e le modalità esecutive del canto.
La tradizione della Stella copre si può dire perfettamente il territorio valsabbino,
senza tralasciare le convalli o i centri montani più isolati. Le aree interessate dalla
tradizione risultano essere la Valle del Chiese, la Val Nozza o Savallese, il lago d’Idro
e la Valvestino, con una isolata propaggine sul lago di Garda. Intorno a tali nuclei territoriali, i canti della Stella sono nati o rinati, negli ultimi trent’anni, in numerosi paesi
dove oggi il rituale appare definitivamente ripristinato.
Ad oggi, risulta impossibile ricostruire precisamente la storia più antica della tradizione della Stella in Valsabbia.
Allo stato attuale non disponiamo, per la provincia di Brescia, di importanti fonti scritte antecedenti la ricerca sul campo. [...] Questa lacuna appare oggi quantomeno singolare, forse dovuta ad
una oggettiva scarsa visibilità del rituale, che si esauriva nel giro di poche ore notturne in frazioni
sperdute, o forse al fatto che per i demologi ottocenteschi di ispirazione romantica non dovevano
certo apparire interessanti testi di evidente sapore ‘dotto’, senza alcuna epressione dialettale e
quindi lontano da quella presunta genuinità e spontaneità popolare oggetto dei loro studi1.
L’Inchiesta Napoleonica del 1811, all’interno della quale si trova la relazione delle
feste e delle usanze della Valle Sabbia nella parte che riguarda il Dipartimento del
Mella, non riporta notizie sulla tradizione della Stella2.
Il primo testo raccolto del canto della Stella valsabbino risale al 1936, quando Giovanni Bignami prendeva nota, con la particolarità dell’incipit in dialetto No somm i
Tre Re, del canto adottato a Turano in Valvestino. Tale testo rimase comunque inedito
fino agli anni ’70, periodo in cui un’equipe di ricercatori (Paola Ghidoli, Italo Sordi e
Glauco Sanga) ha documentato sistematicamente la ritualità del Canto della Stella in
Valle, con l’individuazione di un nucleo di paesi nei quali risultava ancora attiva e di
un altro nucleo in cui l’usanza si era persa da alcuni anni3.
A partire dagli anni ’90 del Novecento sono da segnalare nello specifico gli studi
e le ricerche compiuti da Giuliano Grasso, sfociati da una parte nella pubblicazione
su cd, nel 1998, di parte del repertorio dei canti della Stella valsabbini (Collio, Treviso Bresciano, Comero, Sabbio Chiese, Bione, Lavenone, Capovalle, Crone, Vobarno,
Mura, Pompegnino, Carpeneda), dall’altra nella partecipazione, come esperto del rito
in Valsabbia, al convegno di studi sull’argomento tenutosi a Tesero nel gennaio del
19994.
38
Nel 1989, tutti i gruppi della Stella della Valsabbia sono stati invitati a Idro per un
grande raduno: è stata l’occasione perché i cantori si conoscessero, presentassero il
loro canto, confrontassero modalità esecutive e riflettessero sul senso della tradizione.
Dopo quell’esperienza non c’è più stato un incontro collettivo di tutti i gruppi valsabbini e le diverse Stelle continuano ad essere cantate e portate nelle vie dei paesi e delle
frazioni in maniera autonoma, ma con la consapevolezza di essere parte di un rito più
grande.
Nel 2006 è stato infine realizzato un dvd sui Canti della Stella del territorio di Vobarno, con testi di Fabrizio Galvagni, frutto della collaborazione di tutta la comunità
vobarnese.
La sera del 5 gennaio tutta la valle si illumina di canti.
Analizzando con uno sguardo sintetico i diversi riti della Stella nei paesi e nelle
frazioni valsabbine, le linee generali che se ne ricavano sono le seguenti:
- la gestione del rito della Stella non è più affidata a categorie sociali particolari, nel passato invece risultava quasi sempre di competenza dei giovani
coscritti.
- un tempo il rito era quasi esclusivamente laico, mentre negli ultimi decenni «i preti hanno assunto un atteggiamento decisamente favorevole all’iniziativa, ponendosi in diversi casi essi stessi come promotori della rinascita dei
Canti della Stella in alcuni paesi dove la tradizione si era interrotta»5.
- la data generalmente e tradizionalmente fissata per il Canto della Stella
è la sera della vigilia dell’Epifania. Solo alcuni gruppi che devono visitare diverse località anticipano l’inizio del rito il 2 o il 3 gennaio.
- i cantori si muovono di solito a piedi, ma è comune l’uso della macchina per raggiungere le frazioni più lontane.
- i cantori sono vestiti o con abiti comuni o con mantello scuro e cappello; solo in alcune località c’è l’uso, comune ad altri centri alpini, di far travestire tre cantori del gruppo da Re Magi e da altri personaggi del presepe.
- l’apparato della Stella è spesso quello tradizionale, semplicissimo, con
poche recenti migliorie atte a rendere la Stella più sicura e luminosa. In alcuni
paesi la Stella è stata collocata su un veicolo (furgoncino, automobile, trattore)
per renderne più agevole il trasporto ed usufruire dell’impianto elettrico.
- per quanto riguarda il canto più diffuso, Noi siam i tre Re, «la concordanza melodica [...] induce a supporre una più generale discendenza da una
unica melodia diffusa in forma scritta, nel tempo leggermente modificatasi nella tradizione orale»6.
- il repertorio rituale è normalmente costituito da un solo canto. Fanno
eccezione Vallio Terme, Vobarno Pompegnino, Lavenone e Casto - capoluogo
e frazioni -, località in cui il canto è inserito in un repertorio parrocchiale di
recente composizione o sostituito da nuovi testi dedicati alla Stella.
39
- la questua, quasi sempre, non mira più a generi alimentari, ma a denaro
da utilizzare per scopi benefici o da donare alla parrocchia o ad altre realtà del
paese.
2. Gli organizzatori e gli esecutori del Canto della Stella
Un posto di rilievo nello studio sul Canto della Stella in Valsabbia occupano gli esecutori-attori della rappresentazione tradizionale e gli effetti di coesione sociale favoriti
dai processi di rinascita e rifunzionalizzazione della tradizione (quali riproduzione,
perpetuazione, (ri)proposizione dei legami sociali e di appartenenza locale). Erano i
coscritti del paese che, nei tempi passati, di anno in anno organizzavano e realizzavano
il Canto della Stella, in un vero e proprio rito di passaggio all’età adulta. I giovani in
procinto della leva, infatti, assumevano il ruolo di organizzatori di alcuni appuntamenti festivi tradizionali del paese, come la Stella e il Carnevale. Imparavano il canto della
Stella dai cosiddetti Stelari, gli uomini più anziani che portavano avanti la tradizioni e
facevano da maestri.
Attualmente è quasi del tutto scomparso il valore rituale del Canto della Stella,
anche perché il servizio di leva ha perso nel corso degli anni il suo significato di momento di passaggio all’età adulta, essendo stato eliminato come impegno obbligatorio.
I cantori della Stella appartengono ora a tutte le età e in alcuni paesi, da qualche anno,
sono state accolte anche le donne a sostegno del canto. Il numero di cantori varia da
una decina risicata a gruppi di una quarantina di elementi, fra cantori, musicisti e figuranti (per esempio Sabbio Chiese).
Talvolta il gruppo è strutturato (coro del paese – il Coro Rosignolo di Vobarno capoluogo, coro parrocchiale – Casto, Agnosine), è guidato da un maestro (ricordiamo,
per tutti, Tonino Nolli, indimenticato fondatore del Coro Rosignolo di Vobarno), ha un
‘capo’ di riferimento, o è legato ad un’associazione o ad una istituzione (la Biblioteca
comunale per esempio ha dato forte stimolo al mantenimento del Canto della Stella e
di tutte le tradizioni natalizie nelle due frazioni ‘rivali’ di Idro, Crone e Lemprato; la
Stella di Lavenone è organizzata e sostenuta dall’Associazione Sportiva del paese).
A proposito della storica rivalità fra frazioni e comuni limitrofi, rimangono gustosi
aneddoti degli anni passati, di cui si dà conto nelle schede relative ai singoli paesi. Ora
invece si è giunti quasi sempre alla collaborazione o almeno alla convivenza pacifica: per esempio, dei due gruppi che cantavano la Stella a Trebbio e a Vico di Treviso
Bresciano, ne è rimasto uno misto fra le due frazioni, a causa anche del progressivo
spopolamento del paese.
Un discorso particolare merita il paese di Vobarno, il maggior centro della media
Valsabbia. A Vobarno sono attivi ben 6 gruppi della Stella, uno nel capoluogo e 5 nelle
frazioni, a testimonianza, probabilmente, di quando alcune delle frazioni erano comuni
a sé stanti7. Tutti i gruppi convivono pacificamente con i loro canti e le loro tradizioni.
40
Da qualche anno, trovano poi l’occasione di trovarsi tutti insieme in occasione del
Mara-nathà, incontro comunitario che avviene qualche giorno prima di Natale nella
Chiesa dell’Immacolata, in cui ogni gruppo presenta il proprio canto ed esegue per la
cittadinanza anche altri canti natalizi, con l’accompagnamento della Compagnia delle
Pive, di cui si deve ricordare il tenace lavoro di riscoperta degli stumenti antichi e dei
canti tradizionali. A Vobarno centro, da qualche anno, tutto il paese si mobilita attorno
al Canto della Stella: protagonista del rito non è più il solo Coro Rosignolo, depositario del canto; tutte le associazioni e i gruppi locali, la Compagnia delle Pive, il Coro
parrocchiale, il Corpo bandistico, gli Amici della lirica, il Coro dei giovani e diverse
altre realtà locali partecipano a un imponente festeggiamento itinerante, fra falò, canti,
personaggi in costume, tappe ristoro...
3. Tempi e percorsi del rito
La sera deputata al Canto della Stella e all’arrivo dei Magi è il 5 gennaio, come vuole la tradizione e la narrazione biblica. In alcune località in cui si devono raggiungere e
percorrere frazioni lontane, il rito viene anticipato anche alle sere precedenti. Per fare
due esempi, a Casto i cantori del capoluogo di solito visitano la sera del 4 le frazioni
di Alone e Malpaga; i cantori delle frazioni alte, invece, percorrono le frazioni di Comero e Famea. A Pertica Alta, i giovanissimi cantori del gruppo, la sera del 4 gennaio,
raggiungono con la Stella le frazioni più lontane (Lavino, Noffo, Navono, Odeno).
E’ ormai quasi caduta in disuso la tradizione di visitare anche altri comuni portando
la Stella nei giorni vicini all’Epifania: i cantori di Anfo, per esempio, negli anni in cui
il rito era ancora praticato, raggiungevano il comuni di Bagolino fino a Ponte Caffaro.
Continua la tradizione della visita fuori dalla Valsabbia solo il gruppo dei cantori delle
frazioni alte di Casto, che la sera del 5 gennaio portano il loro canto e la loro Stella a
Lodrino, in Valtrompia.
L’orario di ritrovo dei gruppi varia dalle 16 alle 20, a seconda del percorso da
compiere e nel rispetto degli orari legati alle tradizioni delle diverse comunità. Per
esempio, in alcune località si attende la fine della messa serale per cominciare il Canto
(Bione, Treviso Bresciano, Carvanno di Vobarno...). Nei paesi a fondovalle, poi, il ritrovo e lo svolgimento del Canto è generalmente ritardato di un paio d’ore rispetto alle
località di alta montagna, dove, per esempio, il banchetto viene approntato per le 21
poichè permane l’abitudine di cenare prima. Nelle varie frazioni di Vobarno ad esempio, il Canto comincia più tardi anche per dar modo ai cantori e ai paesani di rientrare
a casa dalle sedi di lavoro che spesso sono lontane.
In alcuni comuni il canto viene proposto anche all’interno della chiesa, spesso alla
fine della messa serale della vigilia (per esempio, a Vobarno capoluogo il canto della Stella comincia nella Parrocchiale, dove il celebrante simbolicamente consegna ai
cantori una lanterna per illuminare la notte) o pomeridiana dell’Epifania (Agnosine,
41
Comero di Casto). Anche questo è un segno di come la tradizione, un tempo di esclusiva pertinenza laica, sia stata accettata e venga talvolta incentivata proprio dal mondo
ecclesiastico. Faccio l’esempio di Anfo, dove il Canto, era stato ripreso all’inizio degli
anni Novanta proprio dal coro parrocchiale dietro sollecitazione dall’allora parroco.
I vari percorsi dei gruppi di cantori sono realizzati per lo più a piedi all’interno
degli abitati, ma è ormai consuetudine l’uso delle automobili o del pullmino (Vobarno
Carpeneda) per spostarsi di frazione in frazione.
Gli itinerari sono predefiniti di frazione in frazione, di via in via, si ripetono negli
anni con poche variazioni per rispettare lo svolgimento del rito. Recentemente si è
deciso di estenderli anche ai nuovi insediamenti abitativi, industriali o commerciali
sorti ai margini del paese. I cantori, talvolta, eseguono un canto più lungo o ripetuto in
quei luoghi dove c’è maggior concentrazione di abitazioni o dove qualcuno, disposto
a contribuire lautamente alla questua, ne ha fatto esplicita richiesta (in genere davanti
a pubblici esercizi o davanti ad abitazioni di anziani e ammalati).
Generalmente il percorso di ogni gruppo della Stella rimane all’interno degli attuali
confini comunali. In alcuni casi, invece, le cose sono diverse: per esempio, Clibbio,
frazione di Sabbio Chiese, viene visitato, per tradizione e per vicinanza geografica,
dal gruppo della Stella di Carpeneda di Vobarno. Il rito antico della Stella porta avanti
abitudini che a volte non collimano con la realtà amministrativa attuale.
4. I costumi
I gruppi più organizzati e strutturati (come Vobarno Carpeneda e Mura) si sono
dotati nel corso degli anni di mantelli e cappelli uguali, di pesante panno scuro, ispirati
agli antichi pastrani e copricapi dei pastori locali. I cantori di Carpeneda hanno aggiunto una lucina sul bavero del mantello, alimentata da una batteria: è un segno distintivo
del gruppo e amplifica l’effetto luminoso del gruppo che arriva con la Stella nel buio
della notte.
In diversi comuni, invece, i cantori si vestono liberamente, indossando solo accessori ispirati al Natale (cappelli di Babbo Natale, berretti e sciarpe di lana colorata,
come i giovani del gruppo di Pertica Alta)
In qualche località (per esempio Sabbio Chiese, Lavenone, Capovalle, Idro) permane l’uso di far travestire tre figuranti, o cantori del coro o giovani del paese, anche
extracomunitari (Vestone), da Re Magi. Sono infatti loro i personaggi principali del
Canto della Stella e un tempo avevano il ruolo esclusivo di intonare il canto e portare
la Stella8. Occasionalmente accompagnano i cantori Babbi Natale, Befane e bambini
vestiti da pastorelli.
Si aggiungono al gruppo gli addetti alla questua, i cosiddetti sercocc, spesso vestiti
come i cantori, ma riconoscibili, oltre che per la gerla sulle spalle o per borse e contenitori capienti adatti ad ospitare le offerte più ingombranti, per il ruolo che impersonano
di anno in anno, che li ‘legittima’ nelle richieste.
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5. L’apparato della Stella
L’apparato della Stella tradizionale è rimasto quasi invariato per secoli; una Inchiesta napoleonica del 1811 così lo descrive:
Al Natale si accostuma formare una grande stella di carta le di cui facce essendo da un certo
spazio fra di loro disgiunte, lasciano luogo ad ascondervi nel mezzo una accesa candela, che tutta
la illumina. Questa stella viene raccomandata ad un perno fitto sulla sommità d’una pertica. Essa
girevole viene ruotata ora a sinistra ora a destra col mezzo di due funicelle che scendono fino al
mano di quelli che portano la stella. Con questa vanno sotto le finestre delle abitazioni cantando
certe stanze sopra la storia della stella e dei Magi e stimolando la cortesia dei padroni di casa in
mezzo agli auguri di felicità per l’anno entrante9.
Si tratta quasi sempre di strutture di legno o di ferro a forma di Stella o di Cometa,
rivestite di stoffe o di carte plastificate colorate, addobbate di ornamenti natalizi e,
talvolta, di scritte benauguranti. Fra gli apparati in uso in Valsabbia si possono distinguere le Stelle portate a mano, montate sopra un palo di legno o un’asta di ferro, fisse
o ruotanti e illuminate da lampadine che sono alimentate da una batteria che spesso è
collocata nella tasca o nello zaino dello stesso portatore; le Stelle montate su una autovettura, a volte rifatte recentemente con una semplice struttura in ferro in cui il profilo
della Stella è illuminato da lampadine alimentate dalla batteria del veicolo (Collio di
Vobarno); le Stelle poste su una slitta o su un calesse, un tempo trascinato da cavalli o
asini e ora da trattorini: l’apparato in questo caso è ricchissimo, addobbato di decorazioni natalizie e completo di scena del presepe (Treviso Bresciano e Capovalle).
Aggiunta insolita è dunque la rappresentazione del presepe o l’immagine del Bambin Gesù, più comune in altre zone. Al confine del territorio che riguarda questa ricerca,
a Vesio di Tremosine, i cantori non portano la Stella ma una statua di Gesù Bambino.
6. I testi dei canti della Stella in Valsabbia
Nel territorio interessato dal presente studio, Giuliano Grasso ha identificato tre
diverse aree che presentano caratteristiche peculiari rispetto al Canto della Stella:
1) la valle del Chiese, dove ha predominanza assoluta il testo Noi siamo i tre Re (Nuova operetta
spirituale), con minime varianti testuali dovute alla tradizione locale;
2) il Savallese, dove viene eseguito un canto originale: Noi siamo i tre Re venuti dall’oriente,
formato prevalentemente dall’unione di due laudi presenti nella raccolta Michi: Noi siam li tre
Re d’Oriente e Iddio benedetto;
3) la zona lago d’Idro/lago di Garda, dove non solo non vi è un modello predominante ma si
trova anche l’inserimento di testi legati al tema della Novena e della Sacra Rappresentazione
sull’intera vita di Gesù piuttosto che al canto strettamente epifanico. Questi ultimi, inoltre, si differenziano dai precedenti per essere strutturati in forma narrativa invece di possedere un soggetto
recitante, i Magi, che parla in prima persona10.
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Quello che risulta certo, dalle ricerche finora effettuate, è che le laudi spirituali
secentesche, in particolare la raccolta dei Sacri Canti di Don Giambattista Michi, non
sono, né possono essere, le fonti dirette degli attuali canti della Stella valsabbini. Non
è escluso, però, che la fonte dei canti, nei secoli passati, possa essere stata qualcuna
delle numerosissime ristampe a carattere popolare che il vasto repertorio laudistico ha
subito11.
A Vobarno capoluogo, Vobarno Degagna, Vobarno Carpeneda, Vobarno Teglie,
Sabbio Chiese, Provaglio, Lavenone, Treviso, Pertica Alta, Avenone di Pertica Bassa,
Anfo (praticamente tutti i paesi situati lungo il corso del fiume Chiese) e Preseglie,
che ha ripreso recentemente il canto adottando il testo in uso a Sabbio, viene eseguito,
con un testo lievemente modificato di località in località e a fronte di alcune varianti
melodiche, il canto Noi siamo i tre Re / venuti dall’oriente. E’ il canto della Stella per
eccellenza, il più diffuso anche nelle altre regioni.
La grandissima diffusione di questo canto è certamente da imputarsi alla sua circolazione popolare in libretti e fogli volanti fino a tempi molto recenti, nonchè alla sua presenza su molti
Manuali di pietà, fatto che è all’origine dell’assoluta identità testuale riscontrabile in versioni
provenienti da località molto distanti tra loro, dalla pianura pavese all’Istria. Il titolo di questo
canto nelle fonti a stampa è Nuova operetta spirituale, la cui edizione più antica risulta essere
quella rinvenuta a Fierozzo S. Felice (Tn) avente per titolo Nuova operetta spirituale sopra la venuta dei Santi tre Re Magi venuti dall’Oriente in Betlemme ad adorare la nascita del Redentore
Gesù Bambino, stampata a Bassano senza indicazioni di data ma, dalle caratteristiche di stampa,
presumibilmente risalente al XVII o XVIII12.
A Barghe il medesimo incipit introduce un canto di fattura apparentemente più recente: Noi siamo i tre Re Magi / venuti alla tua capanna/ noi portiamo i doni / al nato
redentor13.
A Mura, Collio, Comero di Casto, Casto e Bione i canti della Stella adottati hanno
legami significativi con i testi presenti nella raccolta Michi; in particolare si fa riferimento a quattro laudi: Dolce felice notte, Noi siamo li tre Re d’Oriente; Iddio benedetto; Oggi è quel giorno santo. Spesso si tratta di mescolanze fra diverse laudi, e ciò
è reso possibile dalla medesima struttura formale, la cosiddetta zingaresca, in cui la
facile struttura ABBC-CDDE ecc. favorisce la memorizzazione del testo e lo scambio
delle strofe.
bientazione con i testi natalizi friulani»14.
Accanto a questi testi che vengono da lontano alcuni gruppi propongono canti di
recente composizione. Faccio riferimento al canto di Pompegnino di Vobarno, composto nel testo e nella musica degli anni ’90 del Novecento e depositato presso uno studio
notarile nel 1995; o ai canti ‘creati’ dal maestro Stefano Garnelli di Casto su musiche
ispirate ad arie verdiane (Verso il tramonto, Rigida notte e In cammino).
Nei paesi in cui la tradizione è più radicata, il testo, anche se lungo, viene eseguito
a memoria. In diversi casi, invece, c’è l’esigenza di aiutarsi con fogli fotocopiati, specialmente se il gruppo ha struttura ‘fluida’, cioè è aperto di anno in anno a nuovi cantori che devono imparare il canto, oppure in quelle località, come Capovalle e Idro, in
cui il lungo canto di stampo narrativo non viene cantato interamente ma ad ogni sosta
il leader del coro sceglie una o due strofe da eseguire. «I testi sono presenti, in ogni
paese dove si esegue una Stella, in varie copie manoscritte in possesso di privati, che
hanno tutte l’aspetto di essere state più o meno recentemente trascritte dalla tradizione
orale, e presentano perciò varie divergenze»15. A Capovalle il testo del canto è tuttora
conservato su un foglio protocollo a righe di diversi decenni fa; visti gli errori comunque presenti, si tratta probabilmente di «una approssimativa trascrizione ‘a memoria’
di un testo più volte ascoltato»16.
La facilità di accesso ai più semplici mezzi di riproduzione tipografica ha negli ultimissimi anni
rivoluzionato il concetto stesso di oralità provocando talvolta delle conseguenze di grande portata come la conservazione del testo indipendentemente dalla sua effettiva vitalità e comunque la
sua ‘fissazione’ in una forma soggetta solo a variazioni consapevoli e non anche a quelle microvarianti idiolettiche solitamente frutto della prassi esecutiva e della memoria orale17.
A Ponte Caffaro di Bagolino, dove da diversi anni non si canta la Stella, veniva
usato un testo non comune in Valsabbia. Localmente veniva chiamato Gelindo ma è
documentato col titolo A Cesare ci venne e rimane in uso in area lombarda e veneta.
Si dice che «era stato fatto stampare da un abitante del paese dopo averlo appreso nel
1915 da un cantastorie che si esibiva nella locale fiera»18.
7. Musica e strumenti
Canti completi sulla nascita e l’arrivo dei Magi, fino alla predizione della passione,
sono quelli in uso per la Stella a Capovalle, Idro Crone e Idro Lemprato. A Capovalle
il canto è in prima persona, come se fosse un cantastorie a narrare del Natale e dell’Epifania agli ascoltatori: risulta essere «un tipico testo da Sacra Rappresentazione
che nelle prime strofe (la ricerca dell’albergo) presenta punti di contatto con il testo
teatrale del Pastor Gelindo, mentre nella parte centrale mostra affinità di stile e di am-
Nella maggior parte dei casi i gruppi della Stella cantano a cappella. L’utilizzo degli
strumenti è quasi sempre recente e occasionale e serve per intonare e sostenere il canto. In Trentino, infatti, da dove arriva la tradizione, l’accompagnamento strumentale
del canto è affidato ad un solo strumento, la fisarmonica, non a caso chiamata semplicemente musica.
Solo a Sabbio Chiese, a Casto e, parzialmente, a Lavenone, molti sono gli strumenti
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che accompagnano il canto: violini, chitarre, clarinetti e sax. L’unica vera parte strumentale presente nel repertorio valsabbino dei canti della Stella è infatti il «postludio
del canto di Sabbio, formalmente analogo agli intermezzi ritmati caratteristici delle
Pive natalizie, composizioni strumentali particolarmente diffuse nell’area lombarda»19,
da qualche anno eseguito dai suonatori del Carnevale di Bagolino.
Il canto della Stella è da sempre un canto corale, i cui esecutori variano da un minimo di sei-otto esecutori ad un massimo indefinito, con una polivocalità a carattere
lineare-orizzontale. Tradizionalmente il canto riguardava solo voci maschili (le voci
dei coscritti, appena adulti), oggi spesso si aggiungono voci femminili e talvolta voci
bianche o adolescenti. Si creano dunque due-tre blocchi armonici sovrapposti, una vera
e propria eterofonia20. D’altra parte, per quanto alcuni gruppi si trovino prima dell’Epifania per fare le prove, il Canto della Stella ‘vive’ nella sua effettiva esecuzione, con
tutte le variabili che una simile performance può implicare (mancata partecipazione di
alcuni cantori, voci ‘non specializzate’ che si aggiungono lungo il tragitto, stanchezza
nelle ultime tappe del canto...).
In alcune località in cui il gruppo che esegue il canto è più strutturato e guidato da
un maestro, l’eterofonia si avvicina ad una più controllata polifonia, che talvolta però
appiattisce le esecuzioni e contiene la spontaneità dei cantori. Esempio, invece, di
esecuzione spontanea, quasi naif, del canto è quella del gruppo di giovani di Pertica
Alta, così come la forza e la rudezza delle voci esclusivamente maschili di Treviso
Bresciano restituiscono l’immediatezza e la carica che immaginiamo appartenessero
al canto nei secoli scorsi.
8. La questua e il banchetto finale
Un tempo la questua di esclusivi prodotti alimentari aveva una maggiore impellenza: spesso infatti venivano raccolti durante il giro gli ingredienti che sarebbero poi
serviti al banchetto comunitario, quasi sempre a base di polenta taragna (nelle schede
viene mantenuta la variante locale del nome di questo piatto tipico: in alcuni luoghi
viene detta ‘tiragna’, in altri ‘teragna’). Dunque farina, burro, pezzi di formaggi vari,
un po’ di vino.
La questua ancora viene effettuata da tutti i gruppi di cantori: alcuni raccolgono
generi alimentari in genere confezionati (le norme igieniche, con tutta evidenza, modificano questo aspetto del rito antico), che verranno poi consumati insieme dal gruppo
o ridistribuiti ai bambini o agli anziani del paese; altri chiedono esclusivamente cifre in
denaro, che talvolta utilizzano per le attività del gruppo ma più spesso devolvono interamente per scopi benefici. Per esempio alcuni gruppi (quello di Carpeneda di Vobarno, quello di Vestone e quello di Treviso Bresciano) hanno stretto adozioni a distanza
di bambini in difficoltà e li sostengono e comunicano con loro come gruppo.
La quasi totalità dei gruppi ha mantenuto l’uso del banchetto alla fine del Canto:
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che si tenga in abitazioni private, in ristoranti o in luoghi della comunità (oratori, centri sociali ecc.) il convivio ha lo stesso significato di un tempo: crea vicinanza calda,
scaccia il gelo e le tenebre, offre cibi beneauguranti per il futuro. In alcune località,
anche la preparazione e l’offerta della cena diventano momenti significativi del rito
comunitario.
9. Altri riti natalizi
Spesso le amministrazioni e altre realtà dei comuni della Valsabbia organizzano,
per il periodo natalizio, iniziative più o meno strutturate, più o meno legate alla tradizione, che si uniscono e accompagnano la ritualità della Stella.
A Idro, ogni anno, la Biblioteca comunale bandisce il concorso dei presepi, per
sostenere questa tradizione nelle famiglie e nella comunità. Spesso i presepi vengono
allestiti all’aperto, in vari punti del paese, con la collaborazione dei giovani studenti
delle scuole.
A Treviso bresciano tutto il paese diventa un presepe: vengono costruite e dipinte
scene della Natività in tutti gli angoli più suggestivi e sotto tutti i volti.
Ad Avenone, frazione di Pertica Bassa, il Canto della Stella si inserisce nella serie
più ampia dei rituali natalizi, che hanno forti legami con l’elemento fuoco come luce
e calore: già alla mezzanotte della vigilia di Natale, dopo la celebrazione della messa,
in uno spiazzo vicino alle case arde il tradizionale ‘sìer’, un’enorme catasta di legno
raccolta attorno ad un abete fin lì trascinato dal bosco più vicino. Da secoli si racconta
che lo scopo del falò è quello di asciugare i panni del Bambino Gesù. La tradizione
del falò la vigilia di Natale è comunque diffuso in molte località valsabbine e in altri
paesi del bresciano.
Il giorno dell’Epifania è dedicato all’infanzia e spesso sono protagonisti i bambini
più piccoli, che partecipano alla Santa Messa e ricevono la benedizione: a Comero di
Casto, durante il pomeriggio, i bambini dell’asilo e delle elementari, con la guida delle
catechiste, mettono in scena delle piccole recite vestiti come i personaggi del presepe.
A Nozza, durante la celebrazione pomeridiana in parrocchiale, arrivano i Tre Magi
con i loro doni, impersonati da tre extracomunitari (un indiano, un nero e un bianco).
In chiesa sono presenti anche decine di persone vestite come i personaggi del presepe.
Dopo la celebrazioni, il gruppo dei neocatecumenali del paese anima una discussione
su argomenti locali e su temi spirituali.
10. Partecipazione della comunità
Sono pochissime le località in cui il rito passa quasi inosservato e i cantori portano
avanti strenuamente una tradizione che la popolazione non è più in grado di ricono47
scere, decodificare e comprendere. Quasi ovunque la conoscenza del canto e il sentimento di comunità rimangono vivi, tutto il paese accoglie i cantori con trepidazione e
partecipazione, allestendo punti di ristoro e unendosi al Canto della Stella; è il caso, in
particolare, delle località di alta montagna come Treviso Bresciano, in cui, in occasione dell’Epifania e del Canto della Stella, molte famiglie trasferitesi altrove ritornano
nella comunità originaria e partecipano al rito e al banchetto finale.
Il Canto della Stella non è una tradizione che appartiene solo al gruppo dei cantori
che esegue fisicamente il rito. Tutto il paese è coinvolto, volente o nolente, nelle varie
fasi che lo strutturano: la preparazione del canto, dei costumi, della Stella, la visita
itinerante in tutte le vie del paese, l’esecuzione del canto e l’accompagnamento musicale, la questua, le tappe ristoro, il banchetto finale. Nessuno è escluso dalla partecipazione, o almeno dalla conoscenza dell’esistenza del Canto della Stella.
Nel confronto con l’assoluta permanenza delle caratteristiche rituali del Canto analizzate per la Val dei Mocheni, in Valsabbia si è perso quasi del tutto il ruolo dei giovani coscritti a guida dei momenti celebrativi e festivi della comunità, così come, per
i giovani stessi, vanno perdendosi, o perlomeno vanno cambiando natura, quei riti di
passaggio che testimoniavano un tempo il raggiungimento della maturità. A ben guardare, però, rimangono, nel rito della Stella valsabbino, più o meno leggibili, elementi
originari legati al culto dei morti: per esempio, il travestimento e il colore nero di mantelli e cappelli. A Idro Crone una delle tappe tradizionali del percorso della Stella è proprio davanti al cimitero, per salutare col canto i defunti e per chiederne la protezione.
Il rito della Stella dimostra, durante il periodo di Natale e in particolare la Dodicesima notte, la vigilia dell’Epifania, l’esistenza una comunità vera, collaborante e
significativa, che struttura il proprio tempo e abita i propri spazi, che aiuta i più deboli
e porta il proprio messaggio in tutte le case, che celebra la propria festa nella piena
libertà, libertà che è la ragione della sua esistenza da secoli.
1
Le tradizioni patiscono l’opinione comune di essere isole fuori dal tempo nella
società moderna. In realtà feste e cerimonie sono solo apparentemente realtà statiche,
per quel carattere di permanza e atemporalità che ha il rito per sua natura. Sono anzi
oggetto di innovazioni continue più o meno evidenti: i cambiamenti sociali, l’incontro
con culture diverse, l’adattamento al mutare del contesto, le imposizioni da parte di
soggetti interni o esterni alla tradizione stessa, sono alcune delle forze che contribuiscono all’innovazione ed alla trasformazione di un rito. Sia espressione della cultura
popolare o di quella d’élite, arcaica o attuale, la tradizione è sempre strettamente connessa alla trasmissione del sapere e alla costruzione, nel presente, di un orizzonte di
senso condiviso e di una comunità. «Non v’è società senza tradizioni: non v’è società
nella quale i contenuti culturali e strutturali che ne caratterizzano le dinamiche storiche non si manifestino come l’intersezione perennemente mutevole fra un patrimonio
consegnato dal passato e le costanti esigenze di innovazione insorgenti a tutti i livelli
della vita collettiva»21.
All’interno di una tradizione come il Canto della Stella si costruiscono spazi di
identità che permettono al singolo di esercitare la propria appartenenza sociale con
compiti e incarichi definiti e responsabilizzanti. Il Canto della Stella, come tutti i riti,
perpetua il proprio senso, risignificandolo di anno in anno, scandisce e dà valore allo
scorrere delle stagioni, crea partecipazione, permette la condivisione di saperi.
Grasso G., 2001, p. 72.
Tassoni G., 1973, Le inchieste napoleoniche sugli usi e costumi del regno italico, Bellinzona, La
Vesconta, citato in Grasso G., 2005, p. 28.
3
Ghidoli P., Sanga G., Sordi I., 1976, pp. 149-169.
4
Intervento pubblicato negli atti del convegno: Grasso G., 2001, pp. 71-107.
5
Ibi, p. 77.
6
Ibi, p. 83.
7
Un breve riassunto sulla storia di Vobarno si trova sul sito ufficiale del comune:
http://www.comune.vobarno.bs.it/territorio/territorio_ns.htm.
8
Grasso G., 2001, p. 78 n. 7.
9
Inchiesta Napoleonica del 1811. Dipartimento dell’Adige, Verona. Relazione di G.B. Conati, citata
in ibi, p. 76.
10
Ibi, p. 84. Grasso G., 2005, pp. 37-38.
11
Ibi, p. 85. Grasso G., 2005, pp. 27-99. A questi saggi rimando per tutte le questioni legate all’analisi
musicologica e testuale dei diversi canti della Stella valsabbini.
12
Ibi, p. 89. Cfr. Morelli R., 1996, pp. 160-165. Per i manuali di pietà contenenti questo canto si veda
Migliavacca V., 1987.
13
Grasso G., 2001, p. 90.
14
Ibi, pp. 90-91.
15
Ghidoli P., Sanga G., Sordi I., 1976, p. 151.
16
Grasso G., 2001, p. 92.
17
Ibi, p. 78.
18
Ibi, p. 94. Grasso G., 2005, p. 41. Alle p. 36 e p. 65 Giuliano Grasso fa riferimento ad un canto di
Ponte Caffaro, ancora in uso, legato alla tradizione delle Pive natalizie.
19
Ibi, p. 81.
20
Così la definisce Giuliano Grasso in ibi, p. 79.
21
Prandi C., 1981, pag. 438.
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