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LEZIONE
“TRASFERIMENTO D’AZIENDA”
PROF. GIULIO QUADRI
Università Telematica Pegaso
Trasferimento d’azienda
Indice
1
Il trasferimento d’azienda e di ramo d’azienda: la fattispecie ----------------------------------- 3
2
I limiti applicativi dell’art. 2112 c.c. ------------------------------------------------------------------- 9
Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 13
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Trasferimento d’azienda
1 Il trasferimento d’azienda e di ramo d’azienda: la
fattispecie
Il trasferimento d’azienda costituisce una fattispecie tipica di modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro, assai ricca di profili giuridici in ragione di una particolare ed articolata
disciplina. Infatti, mentre dal lato del lavoratore la natura necessariamente personale
dell’obbligazione rappresenta una limitazione all’ammissibilità delle vicende modificative, il
mutamento soggettivo della parte datoriale non implica di per sé una vicenda estintiva del rapporto,
che sopravvive ogni qual volta permanga l’organismo aziendale, pur in presenza di un cambiamento
della persona del datore di lavoro. Nel complesso organizzativo infatti rientrano anche i contratti di
lavoro che, nel caso di trasferimento dell’azienda, subiscono la sola modificazione del titolare del
credito lavorativo rimanendo tuttavia impregiudicata la posizione contrattuale del prestatore di
lavoro, il quale conserva tutti i diritti connessi.
La disciplina del trasferimento d’azienda, inteso come la cessione del complesso dei beni
produttivi da un imprenditore ad un altro, è stato oggetto di una significativa evoluzione normativa,
contrassegnata dal susseguirsi di una pluralità di provvedimenti legislativi emanati in attuazione di
tre direttive comunitarie (la dir. 77/187/CEE del 14 febbraio 1977 e la dir. 98/50/CE del 29 giugno
1998, trasfuse nella dir. 2001/23/CE del 12 marzo 2001). Il trasferimento d’azienda è regolato, in
particolare, dagli artt. 2112 c.c. e 47 l. 29 dicembre 1990, n. 428, come modificati dal d.lgs. 2
febbraio 2001, n. 18 e dall’art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, recanti una molteplicità di
disposizioni finalizzate a tutelare la posizione dei prestatori di lavoro coinvolti nelle vicende
traslative dell’azienda.
La questione principale che ha interessato la giurisprudenza, sia sul piano del diritto interno,
che su quello del diritto comunitario, ha riguardato, in particolare, la precisa determinazione delle
nozioni di trasferimento di azienda e di ramo di azienda, presupposto indispensabile per la corretta
delimitazione dell’ambito di applicazione della relativa disciplina.
Sul piano del diritto comunitario occorre evidenziare come le incertezze derivanti dalla
mancanza nella prima direttiva (la 77/187/CEE) di una definizione di “trasferimento di impresa”
siano state superate, in un primo tempo, dalla ricca elaborazione giurisprudenziale della Corte di
Giustizia e, solo a distanza di circa venti anni, dall’intervento della seconda direttiva (la 98/50/CE),
che ha delineato nell’art. 1 una nozione piuttosto elastica di trasferimento, concernente ogni “entità
economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di
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svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. L’ampiezza di una simile
definizione sembra rispondere all’obiettivo, perseguito dal legislatore comunitario, di allargare per
quanto più possibile l’ambito di applicazione delle norme di tutela dei lavoratori coinvolti nelle
vicende traslative dell’impresa, prescindendo, invece, dalla precisa delimitazione della relativa
fattispecie.
Anche nel diritto interno, il principale nodo problematico della materia consiste, appunto,
nella corretta delimitazione della fattispecie del trasferimento d’azienda e dell’ambito di
applicazione della relativa disciplina.
Al centro delle dispute, così, è stata posta la nozione stessa di azienda, definita dall’art. 2555
c.c. quale “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, ma che,
anche a causa di interpretazioni non di rado restrittive del termine “beni”, alla stregua dell’art. 810
c.c., intesi come “le cose che possono formare oggetto di diritti”, è parsa spesso inadeguata in vista
della prevalente esigenza di tutela dei lavoratori, costantemente richiamata a sostegno della
rivendicazione di una estensione dell’ambito operativo dell’art. 2112 c.c.
Già la dottrina aziendalista, peraltro, sottolinea da tempo l’opportunità dell’adozione di
un’accezione ampia dell’espressione “beni”, comprensiva non solo delle cose materiali e dei beni
immateriali, ma anche dei servizi, ossia quelle prestazioni di carattere personale inserite
dall’imprenditore nel complesso organizzato e anch’esse indispensabili per l’effettivo svolgimento
dell’attività di impresa: allargamento, questo, indispensabile, per far rientrare nella nozione di
azienda pure le attività rientranti nel settore dei servizi, spesso contrassegnate dalla rilevanza
prevalente (c.d. attività labour intensive), nell’ambito dei mezzi di produzione, delle prestazioni di
lavoro rispetto ai beni materiali (capitali, macchine, attrezzature).
Proprio per superare simili problemi interpretativi, il legislatore del 2001 ha aggiunto all’art.
2112 c.c. un quinto comma recante una specifica definizione di trasferimento di azienda ai fini
dell’applicazione della norma medesima, da intendersi come “qualsiasi operazione che … comporti
il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata … preesistente al trasferimento e
che conserva nel trasferimento la propria identità”.
Si tratta, a ben vedere, di una nozione piuttosto ampia di trasferimento di azienda, poiché la
formulazione legislativa non ne fornisce una definizione tecnica e sembra, invece, rispondere,
principalmente, alla necessità che la disciplina in esso contenuta si applichi in tutte le ipotesi in cui
la gestione dell’attività di impresa passi da un soggetto ad un altro. Il nuovo testo dell’art. 2112 c.c.,
dunque, risente in maniera rilevante dell’influenza dell’elaborazione comunitaria in materia, che,
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ostile al formalismo, non distingue in modo netto e chiaro tra il concetto di impresa e quello di
azienda, sicché risulta far testuale riferimento, nel delineare la nozione di trasferimento d’azienda, a
quella di imprenditore contenuta nell’art. 2082 c.c.
In tale prospettiva legislativa, il nucleo della vicenda traslativa è, insomma, rappresentato
dal “mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata” al fine della produzione o
dello scambio di beni o servizi, cioè, dall’effetto di sostituzione di un soggetto ad un altro nella
gestione dell’attività di impresa, rivolgendosi l’attenzione – considerata irrilevante la tipologia
negoziale sulla cui base il trasferimento è attuato – alle conseguenze dell’operazione, con una chiara
prevalenza del profilo effettuale su quello strutturale.
Nonostante il tenore letterale della disposizione, nella quale manca ogni riferimento alla
nozione di azienda quale “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa” (così come delineata dall’art. 2555 c.c.), deve, comunque, ritenersi indispensabile, ai
fini dell’applicabilità della disciplina contenuta nell’art. 2112 c.c., il trasferimento di un complesso
aziendale, risultando l’azienda comunque lo strumento necessario per l’esercizio dell’impresa.
Secondo una tale impostazione, l’azienda può essere considerata come un insieme di beni e
servizi, caratterizzato dal presupposto dell’organizzazione, elemento di congiunzione tra le due
nozioni di impresa e di azienda. Proprio l’organizzazione, in effetti, sembra assumere una rilevanza
di primo piano nella individuazione della nozione di azienda oggetto del trasferimento,
imponendosi quale strumento di coesione degli elementi personali e patrimoniali in un complesso
suscettibile di essere valutato in maniera unitaria. In tanto, quindi, un aggregato di beni e servizi
potrà essere considerato come un’azienda, in quanto questi risultino tra di loro coordinati e,
nell’insieme, idonei a costituire il mezzo per l’esercizio di un’attività di impresa.
Rientra nella fattispecie disciplinata dall’art. 2112 c.c. pure il trasferimento di ramo
d’azienda, inteso, secondo l’attuale definizione normativa (introdotta dal d.lgs. n. 18 del 2001 e
modificata dal d.lgs. n. 276 del 2003), come una “articolazione funzionalmente autonoma di
un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario”.
Occorre subito rilevare come sia proprio il trasferimento di ramo d’azienda ad aver originato
i maggiori contrasti interpretativi in dottrina ed in giurisprudenza. A seguito della grande diffusione
dei processi di esternalizzazione, si è, infatti, verificata un’inversione di prospettiva: la pratica dei
trasferimenti parziali di azienda sembra aver determinato una sorta di crisi di identità dell’art. 2112
c.c., il quale, offuscata la sua natura di norma di tutela dei lavoratori, è divenuto, nelle mani degli
imprenditori, un incontrollato strumento di esasperata flessibilità nell’organizzazione del processo
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produttivo. Sulla base di simili considerazioni, una parte rilevante della dottrina, seguita, tra l’altro,
da non meno significative pronunce giurisprudenziali, ha mostrato una propensione a sostenere, in
maniera decisa, seppur con diversità di argomentazioni e di soluzioni, l’opportunità di
un’applicazione per quanto più possibile restrittiva della disciplina contenuta nell’art. 2112 c.c. alle
fattispecie di trasferimento aventi ad oggetto, non l’intera azienda, bensì soltanto una parte di essa,
concentrando l’attenzione sull’esatta determinazione della nozione di ramo d’azienda.
Come precisato della ormai costante giurisprudenza della Suprema Corte si deve trattare del
trasferimento di un insieme di elementi produttivi, personali e materiali, organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, che si presentino prima del trasferimento come una
entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa
e che conservi nel trasferimento la propria identità.
Anche dalla definizione di ramo d’azienda, quindi, emerge la già accennata valorizzazione
del profilo organizzativo, con il riconoscimento di un ruolo di assoluta centralità al requisito della
“autonomia funzionale”, intesa come integrazione funzionale ed organizzativa degli elementi
ceduti, idonea a far considerare il complesso come un’unità produttiva autonoma. E tale elemento
dell’autonomia funzionale, in seguito alla modifica introdotta dall’art. 32 d.lgs. n. 276 del 2003, non
può che essere valutata al momento del trasferimento, essendo stato eliminato, nella nuova
formulazione dell’art. 2112 c.c., dai requisiti per l’identificazione della “parte dell’azienda” oggetto
del trasferimento il riferimento alla “preesistenza” ed alla “conservazione dell’identità”.
Una simile modifica, che ha dato luogo ad opinioni fortemente discordanti in dottrina, pare
innegabilmente determinare un ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina del
trasferimento d’azienda, anche attraverso una valorizzazione della volontà contrattuale del cedente e
del cessionario. Mentre, infatti, nell’originaria formulazione introdotta dal d.lgs. n. 18 del 2001,
occorreva che il ramo d’azienda si presentasse come dotato di una propria identità e funzionalmente
autonomo già presso il cedente, adesso, invece, dopo il d.lgs. n. 276 del 2003, potrà essere delineato
dalle parti anche solo al momento del trasferimento, risultando anteriormente caratterizzato,
dunque, da un’autonomia soltanto potenziale. Ovviamente, ciò non significa che alle parti stesse
venga riconosciuta la possibilità di disporre liberamente della fattispecie, qualificando, ai fini
dell’applicazione della disciplina prevista dall’art. 2112 c.c., come ramo d’azienda un’entità che
non si presenti obiettivamente come un insieme coeso ed unitario di elementi materiali e personali,
idoneo a consentire lo svolgimento di un’attività economica.
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In tale prospettiva, quindi, emerge chiaramente come lo stesso legislatore abbia dimostrato
di preferire – nell’accennata prospettiva di un deciso ampliamento dell’ambito di applicazione
dell’art. 2112 c.c. – una definizione alquanto sfumata di trasferimento di ramo d’azienda, capace
sostanzialmente di ricomprendere anche le ipotesi in cui l’entità economica trasferita sia
caratterizzata da una netta prevalenza degli elementi personali su quelli patrimoniali, fino alle
ipotesi più estreme, pure considerate dalla giurisprudenza della Suprema Corte, in cui ad essere
ceduto sia soltanto un gruppo di lavoratori organizzati, che per essere stati addetti ad un ramo della
impresa e per aver acquisito un complesso di nozioni e di esperienze, siano capaci di svolgere
autonomamente – e, quindi, pur senza il supporto di beni immobili, macchine, attrezzi di lavoro o
altri beni – le proprie funzioni anche presso il nuovo datore di lavoro.
Né, del resto, pare condivisibile il timore espresso da una parte della dottrina, secondo la
quale una simile interpretazione estensiva della nozione di ramo d’azienda potrebbe comportare un
eccessivo ampliamento dell’ambito di applicazione dell’art. 2112 c.c., fino a ricomprendere ogni
ipotesi di esternalizzazione, con sostanziale pregiudizio per gli interessi dei lavoratori. Neppure
l’interpretazione restrittiva della norma, fondata su una rigorosa indagine sul contenuto del negozio
traslativo, si dimostra, infatti, capace di impedire possibili utilizzazioni fraudolente dei processi di
esternalizzazione, valendo a rendere invalida la successione nella titolarità del rapporto di lavoro
soltanto nel caso in cui il complesso di elementi materiali e personali non sia suscettibile di essere
valutato, unitariamente, quale autonomo ramo dell’azienda.
E non si rivela, pertanto, idonea a colpire le situazioni più gravi, alle quali consegua
addirittura la perdita del posto di lavoro, che si verifica quando l’imprenditore si serve dello
strumento del trasferimento di ramo d’azienda solo ed esclusivamente allo scopo di liberarsi di
personale sgradito o esuberante e, dunque, con la finalità di eludere l’applicazione di norme
imperative, come quelle previste in tema di licenziamenti individuali e collettivi (ad es., quando si
trasferisce il ramo d’azienda a società costituite ad hoc o in stato di crisi avanzata, destinate a
cessare l’attività produttiva in un tempo non lontano dal trasferimento).
In tutte queste ipotesi, strumento più adeguato ad offrire tutela ai lavoratori coinvolti nel
trasferimento d’azienda si rivela l’applicazione dell’art. 1344 c.c., che sanziona il contratto in frode
alla legge, quando costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Accertata la sussistenza degli estremi della frode alla legge, ad esito di un’attenta verifica di tutte le
circostanze di fatto e di un’accurata disamina degli interessi sottostanti, il giudice non può che
dichiarare la nullità della cessione di azienda: con il risultato per i lavoratori di restare alle
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dipendenze del datore di lavoro originario, senza subire alcun pregiudizio dal negozio illecito, come
tale assolutamente inidoneo a produrre l’effetto traslativo voluto dalle parti. Per superare, poi, i
problemi sul piano della prova dell’intento fraudolento si può ammettere l’ampio ricorso alla prova
presuntiva, adatta a consentire un’adeguata valorizzazione di una serie di «elementi sintomatici»
della natura fraudolenta dell’operazione, in maniera da far emergere la mancanza di un interesse
delle parti meritevole di tutela e, comunque, idoneo a giustificarla (quali, ad es., la qualità del
soggetto acquirente, le modalità di vendita del complesso aziendale, l’inserimento dell’atto
traslativo all’interno di una più ampia combinazione negoziale per realizzare un risultato unitario
vietato da norme imperative).
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2 I limiti applicativi dell’art. 2112 c.c.
Se il nucleo centrale del trasferimento d’azienda è rappresentato dal mutamento nella
titolarità dell’attività di impresa, irrilevante si rivela il mezzo tecnico-giuridico attraverso cui
l’effetto viene realizzato. L’art. 2112 c.c., infatti, ricomprende «qualsiasi operazione» idonea a
produrre l’effetto traslativo, prescindendo dalla «tipologia negoziale» utilizzata dalle parti (cessione
contrattuale o fusione di società), dal carattere definitivo o temporaneo del trasferimento (non solo
vendita o donazione di azienda, ma anche usufrutto o affitto), dal carattere negoziale o meno della
vicenda (successione mortis causa o «provvedimento» della pubblica autorità).
Un particolare problema concerne il settore pubblico, poiché l’art. 31, d.lgs. 30 marzo 2001,
n. 165, dispone che, fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di
attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri
soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applica l’art.
2112 c.c. e si osservano le procedure di informazione e consultazione previste dall’art. 47, commi
da 1 a 4, della l. 29 dicembre 1990, n. 428. Tuttavia, mentre l’art. 31, d.lgs. 165/2001, richiama
l’applicabilità della disciplina privatistica del trasferimento d’azienda anche al lavoro pubblico,
l’art. 1, comma 2, d.lgs. 276/2003, esclude dal suo campo di applicazione le pubbliche
amministrazioni ed il loro personale. Con la conseguente inapplicabilità delle modifiche apportate
da quest’ultimo decreto all’istituto in esame, anche se il rinvio contenuto nell’art. 31, d.lgs.
165/2001, alla disciplina privatistica è limitato alla tutela del lavoratore coinvolto nella vicenda
traslativa, delineata in modo autonomo dalla normativa speciale sul pubblico impiego, riferita al
trasferimento o conferimento di attività e funzioni svolte dalle amministrazioni pubbliche.
Sin dall’originaria formulazione della norma codicistica è stata contemplata invece la
possibilità di rendere il complesso aziendale oggetto di contratto di affitto o di usufrutto, che
modificano solo temporaneamente la titolarità del rapporto di lavoro attraverso il cambiamento del
datore. Così la cessione temporanea del godimento dell’impresa nelle forme specifiche
dell’usufrutto e dell’affitto sono equiparate al trasferimento d’azienda sotto il profilo della
circolazione dei rapporti contrattuali. Infatti, un complesso di beni funzionalmente collegati
all’esercizio dell’attività d’azienda può essere oggetto di usufrutto, che si sostanzia in diritto reale di
godimento su beni altrui idoneo a costituire oggetto di poteri di disposizione dell’usufruttuario, il
quale avrà a disposizione il godimento dei beni funzionali all’esercizio dell’attività economica in
forma di impresa. Tuttavia, con la costituzione dell’usufrutto non si determina una vicenda
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traslativa in senso proprio, ma una modificazione soggettiva della titolarità del complesso aziendale,
senza alterazione della struttura funzionale, e questo spiega la produzione dell’effetto successorio
anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda al nudo proprietario.
Per quanto riguarda l’affitto, il contratto deve avere ad oggetto l’azienda come complesso di
beni funzionalmente organizzati, con esclusione dalla vicenda modificativa nella locazione di un
solo immobile con le sue pertinenze. Come per l’usufrutto, anche nell’affitto la vicenda traslativa si
determina a causa della modificazione del soggetto titolare dell’impresa sebbene solo
temporaneamente. Ciò avviene anche nell’ipotesi in cui il concedente, anziché proseguire
direttamente l’attività di impresa, sostituisca al concessionario precedente altro soggetto con la
medesima qualità, senza soluzioni di continuità nello svolgimento dell’attività stessa.
Questioni specifiche si pongono poi in relazione a talune vicende regolate dal diritto
societario, quali la modificazione della denominazione sociale, la cessione del pacchetto azionario,
la trasformazione societaria, che tuttavia non determinano la circolazione dell’azienda e non
rientrano pertanto nella disciplina dell’art. 2112 c.c.
In particolare, la trasformazione di società (v. artt. 2498-2500 novies c.c.), non provoca
l’estinzione della società preesistente e quindi la nascita di una nuova società, ma è la stessa società
che continua a vivere in una veste rinnovata, conservando i diritti e gli obblighi in tutti i rapporti
anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione (v. art. 2498 c.c.,). Pertanto la
trasformazione provoca una modificazione dell’atto costitutivo, ma non produce alcun mutamento
soggettivo, per cui va esclusa una vicenda successoria nell’organizzazione sociale e non ricorre il
presupposto per l’applicazione dell’art. 2112 c.c., cui invece può essere sottoposto il conferimento
in società di un complesso di beni aziendali, in quanto in tale operazione si concreta una
modificazione nella titolarità del complesso e di conseguenza un effetto successorio nei rapporti di
lavoro.
Il fenomeno della fusione di società va qualificato allo stesso modo della trasformazione in
termini di esclusione di una modificazione soggettiva nei rapporti di lavoro collegati alla società
sottoposta all’operazione. La fusione è rappresentata dalla possibile unificazione di due o più
società; può consistere nella costituzione di una nuova società che prende il posto di tutte le società
che si fondono, oppure nella incorporazione, con assorbimento in una società preesistente di due o
più società. La fusione determina la riduzione ad uno dei patrimoni delle singole società e la
riconduzione ad una unica struttura organizzativa che continua l’attività delle società preesistenti,
che invece si estinguono. Tale estinzione non interessa i rapporti con i terzi e quello fra i soci, e
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nemmeno quelli interni con i lavoratori, poiché la società incorporante, o risultante dalla fusione,
assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro
rapporti anteriori (v. art. 2504-bis, comma 1), indipendentemente dalla previsione dell’art. 2112 c.c.
Va comunque rilevato che, sotto la spinta delle direttive comunitarie, l’art. 2112 c.c., comma 5,
come modificato dall’art. 32, comma 1, d.lgs. 276/2003, ha ricompreso nella nozione di
trasferimento d’azienda anche l’ipotesi di «cessione contrattuale o fusione».
Una modificazione soggettiva può essere individuata invece nel processo di scissione della
società, la quale dà luogo ad un cambiamento nella titolarità del patrimonio aziendale e quindi ad
una successione nei rapporti di lavoro esistenti al momento dell’operazione regolata dall’art. 2112
c.c., sia nel caso di scissione totale (trasferimento dell’intero patrimonio a più società esistenti o di
nuova costituzione) sia nel caso di scissione parziale (trasferimento di una parte del patrimonio ad
una o più società esistenti o di nuova costituzione) (v. artt. 2506-2506 quater c.c.).
Nella scissione parziale solo una parte del patrimonio della società viene trasferita; la società
scissa resta invece in vita, non si estingue e la responsabilità solidale opera nei limiti del patrimonio
residuo. Nella scissione totale si ha estinzione delle società scisse senza liquidazione delle stesse,
poiché l’attività continua tramite le società beneficiarie della scissione, che assumono i diritti e gli
obblighi corrispondenti alla quota di patrimonio trasferita.
La disciplina dell’art. 2112 c.c. non trova applicazione, invece, nell’ipotesi di cessione del
pacchetto azionario, la quale non comporta alcuna vicenda traslativa del complesso aziendale, né
un mutamento soggettivo del datore di lavoro, ma soltanto una modificazione dell’assetto azionario
interno alla società.
Un’ipotesi di possibile disapplicazione della disciplina del trasferimento d’azienda contenuta
nell’art. 2112 c.c. è prevista, infine, dall’art. 47, l. n. 428/1990, che stabilisce alcune deroghe alla
normativa codicistica, con la finalità di favorire la circolazione dell’azienda in crisi e di
salvaguardare, anche non integralmente, i livelli occupazionali, norma di recente modificata dalla
legge n. 166 del 2009, emanata in conseguenza di una pronuncia della Corte di Giustizia che nel
2009 ha ritenuto lo Stato italiano inadempiente nell’attuazione della direttiva n. 2001/23/CE.
Ai sensi dell’art. 47, comma 4 bis, nell’ipotesi di trasferimento di imprese per le quali sia
accertato in via amministrativa lo stato di crisi o sia disposta l’amministrazione straordinaria con
continuazione dell’attività, qualora sia raggiunto un accordo sindacale circa il mantenimento anche
parziale dell’occupazione, l’art. 2112 c.c. trova applicazione “nei termini e con le limitazioni
previste dall’accordo medesimo”. In queste ipotesi, quindi, non essendo la procedura finalizzata alla
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liquidazione dell’azienda, il legislatore non prevede una disapplicazione automatica dell’art. 2112,
ma semplicemente la facoltà di derogare, anche parzialmente, alle garanzie da esso previste
attraverso l’accordo sindacale.
Ai sensi dell’art. 47, comma 5, nel caso in cui il trasferimento riguardi imprese soggette a
procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa,
amministrazione straordinaria) finalizzate alla liquidazione del complesso aziendale, qualora venga
raggiunto in sede sindacale un accordo sul mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai
lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’art. 2112 c.c.,
salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. La disapplicazione dell’art. 2112 c.c.,
quindi, opera automaticamente qualora ricorrano due requisiti: il primo, spesso ricondotto in
dottrina alla sola procedura di amministrazione straordinaria, costituito dalla mancata continuazione
o dalla cessazione totale dell’attività dell’impresa; il secondo, rappresentato dal raggiungimento, nel
corso della procedura di consultazione sindacale, di un accordo gestionale avente ad oggetto il
mantenimento anche parziale dell’occupazione. Tale contratto gestionale può anche prevedere che il
trasferimento non riguardi il personale eccedentario, che continui a rimanere, in tutto o in parte, alle
dipendenze dell’alienante.
Così, per effetto dell’accordo sindacale, una parte del personale dell’azienda in crisi o fallita
può essere trasferita alle dipendenze del datore di lavoro che acquisti ovvero affitti l’azienda o il
ramo d’azienda, con esclusione dei diritti acquisiti e senza la responsabilità solidale dell’acquirente
per i crediti vantati dai lavoratori nei confronti dell’alienante.
In ogni caso per i lavoratori che non passano al cessionario, si applica il diritto di precedenza
nelle successive assunzioni che il nuovo datore di lavoro abbia ad effettuare, entro un anno dalla
data del trasferimento o nel termine più lungo previsto dagli accordi collettivi. Nei confronti di tali
lavoratori non trovano applicazione le garanzie dell’art. 2112 c.c.
Per approfondimenti:
Santoni, F., (2008), Lezioni di diritto del lavoro, II, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
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Trasferimento d’azienda
Bibliografia
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• Lambertucci, P., (1999), Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda,
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• Marinelli, M., (2002), Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Giappichelli,
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