leonardo agrella - Teatro Stabile del Veneto
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leonardo agrella - Teatro Stabile del Veneto
Recensione a Magazzino 18, di Leonardo Agrella Spettacolo/Denuncia/Storie/Emozione/Luci/ Musiche/ Scenografia/ Effetti /Canzoni: solo un elenco di parole scollegate e vuote senza la splendida interpretazione di un Simone Cristicchi degno di essere "attore", che rompe, con leggerezza, la quarta parete della cornice del teatro Verdi di Padova trasportandoci nel testo, dentro la storia, nelle profondità di vicende dimenticate, e noi pubblico improvvisamente diventiamo “personaggio”, prestando il nostro corpo e la nostra voce alle note di una canzone, tanto profonda da averla nel cuore e non saperlo: per un attimo Sergio Endrigo è in ognuno di noi. Simone Cristicchi ci ha tirati sul palco e abbiamo vissuto gli orrori di un pregiudizio vivo ancora oggi. Gli uomini di cultura e i professionisti dello spettacolo oltre che della letteratura possono colmare il vuoto ed evitare che ci siano “stati ciechi” (governi con gli occhi chiusi e popoli in stato di cecità), al fine di preservare la conoscenza delle storie. Un testo, Magazzino 18, scritto a quattro mani da Cristicchi con Jan Bernas, per la regia di Antonio Calenda, dove si percepisce la ricerca delle emozioni negli avvenimenti e non soltanto la cronaca, come lo stesso attore/autore ha sottolineato (“non volevo fare lo storico”) nell’incontro successivo allo spettacolo, illustrando il cammino nell’acquisizione di notizie, di fatti, di storie legate all’esodo degli Istriani dopo il secondo conflitto mondiale; nel 1947, quando per tutta l’Europa e l’Italia la guerra era terminata ma per il popolo istriano cominciava la guerra per una patria che nessuno voleva concedere. La guerra agli ultimi, a coloro che da italiani si sono visti cacciare dalle proprie case lasciando in un deposito, appunto il magazzino 18 a Trieste, luogo o meglio, cimitero della memoria, montagne di oggetti e di foto, che hanno dato il via alla splendida ricostruzione dei fatti. “Ho visto delle foto, dei volti e delle scritte e ho cominciato a ricostruire passo dopo passo, giorno dopo giorno il passato, presente e futuro di quei volti legati a quegli oggetti”: così Simone Cristicchi comincia il suo racconto nella drammaturgia di Magazzino 18. Tante le domande alle quali l’artista poliedrico e già affermato cantautore risponde con quella calma che alberga negli animi curiosi di capire e approfondire avvenimenti al fine di donare agli 1 altri visioni più ampie di storie comuni. Storie che si ripercorrono nello spettacolo singolarmente, che hanno un inizio e non una fine. Le luci dello spettacolo sono precise e puntuali, con un contrasto forte di ghiaccio e di colori caldi, che si contrappongono al freddo e al grigiore delle Foibe. Di grande impatto risultano musiche e canzoni, anche senza il supporto dell’orchestra dal vivo, (che forse avrebbe ampliato le emozioni ma certamente anche i costi), prive di retorica e capaci di dare importanza alla memoria: risultato che, per una vicenda come questa, senza colore politico, è stato raggiunto con maestria e semplicità. Niente risulta lasciato al caso dalla lineare regia di Antonio Calenda; tutto creato per riempirci con la professionalità di chi il teatro lo fa con il cuore e non solo per professione, confezionando uno spettacolo con la “S” maiuscola. Non sempre si assiste allo scambio emozionale che è alla base del gioco teatrale, ma in questo caso siamo stati davvero investiti dai messaggi e messi in condizione di viverli impregnandoci di ogni singola parola, di ogni singolo respiro, grazie alla precisione e cura di ogni fascio di luce, di ogni corda che scendendo dal graticcio mantiene alta la tensione. La presenza dei bambini in scena ha completato il tutto, ma l'intera scenografia è stata molto ben curata, così che ogni oggetto ha avuto la sua storia, il suo percorso drammaturgico; anche le sedie appaiono vive, vissute. Tutti i responsabili dello spettacolo sono stati in grado di creare i presupposti affinché l’immaginario prendesse corpo, con la fusione dell’anima del pubblico. I lunghi applausi finali hanno chiuso quel cerchio magico del dare e dell'avere, per il pubblico divertito ed emozionato nel vivere ciò che da sempre nel teatro si ricerca: la partecipazione. A mio parere, l'unica critica negativa è che sono sempre poche le repliche che uno spettacolo del genere fa. La vicenda metta in scena un dipendente del ministero italiano dei nostri giorni, mandato a Trieste per inventariare tutto ciò che è presente nel Magazzino 18, duemila metri quadrati dove nel 1947 gli abitanti dell'Istria avevano mandato o portato di 2 persona tutto quello che erano riusciti a trascinarsi dall'esodo dalla terra natia. Qui, dalla materializzazione simbolica degli oggetti, comincia il racconto di quarant'anni di storia dimenticata. Storie, di fratelli prima ancora che italiani, di uomini e di donne che hanno dato la vita per una patria, un ideale, una verità. Oggetti che come sotto incantesimo si trasformano in uomini e donne vivi e raccontano ciò che hanno vissuto e subìto, come per i milioni di profughi che ogni giorno arrivano sulle nostre coste, gente che non è italiana,e che deve essere ricacciata alle proprie terre, ai propri orrori perché a noi non compete la comprensione. Vivendo Magazzino 18, si ritrovo a chiedermi se, dopo essere stati capaci di tanto orrore verso dei connazionali, riusciremmo ad avere un po’ di pietà per chi italiano non è, e non lo sarà neanche dopo anni di vita e lavoro in Italia. La paura che si porta dietro il “diverso” non ha bagaglio, non si stiva, perché presente e viva, e solo la conoscenza di un passato non tanto remoto permetterebbe di non commettere almeno i medesimi errori ed orrori. Simone Cristicchi è ognuno di loro (uomo, donna, bambino), ma è anche la memoria presente, in quanto dipendente del ministero, che non sa e non può credere che tutto sia stato dimenticato. Allora con il suo staff ci conduce dentro la matrioska della storia recente, che ancora non riesce ad aprire l'ultima statuetta, e tirare fuori il colpevole. Ma forse non ci sarà mai una fine. Grazie al lavoro di questo gruppo di professionisti dello spettacolo, forse sarà almeno riconosciuta una memoria condivisa: come esiste sull’Olocausto, anche per queste persone dovrebbe esistere una memoria, dato che sono state sotterrate da sessant’anni di silenzio. Non si può contrapporre un dolore ad un altro dolore, però non si può nemmeno giustificare un crimine con un altro crimine. L’orrore è che qualcuno pensi che le foibe siano state un atto giusto, come conseguenza o una vendetta ai vent’anni di soprusi del Fascismo: questo è abominevole. Uno Stato che non ha occhi è quanto merita un popolo che non ha memoria e consapevolezza delle proprie origini. Confido che la visione di questo spettacolo possa aiutare a muovere scelte nel rispetto del prossimo. 3