La moda islamica cambia. Dal Cairo ci dicono che

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La moda islamica cambia. Dal Cairo ci dicono che
[ISLAM/MODA]
DI EMANUELA CHIUMEO
I
n Egitto, anche la moda è espressione della variegata società che la compone.
Quando si parla della fiorente industria
che da essa ne deriva, non bisogna incorrere
nell’errore di pensare a una moda solo di tipo
occidentale. Nuove proposte si
registrano anche nell’abbigliamento islamico. Modelli talvolta provenienti
da Paesi lontani, che
vengono acquisiti da donne e uomini che vogliono sentirsi liberi di indossare l’abito islamico più consono alle proprie esigenze. Oggi
sembra sia veramente trendy ordinare all’estero lo hijab (velo islamico). I modelli sono ideati da stilisti che da anni operano fuori dai
confini della madre patria. È a loro che il più
delle volte si rivolgono le classi più facoltose.
«Vivo ad Heliopolis, uno dei quartieri più
cosmopoliti del Cairo, insieme ai miei genito-
La moda islamica cambia. Dal
L’Egitto, come molti Paesi del Terzo mondo, sta vivendo un momento di crisi. Per molti, il passaggio dalla fase rurale all’industrializzazione ha provocato nella società un grave
choc. «Siamo alla ricerca di una nostra identità», dice Shahira. «Quando avevo 14 anni
ho iniziato a chiedermi chi fossi. Sono cresciuta in una scuola francese, ho sempre parlato
francese e letto i classici di un mondo che non
era il mio. Io sono nata e vissuta in Egitto, so-
Cairo ci dicono che...
C’È VELO E VELO
ri. Nella strada in cui abitiamo siamo considerati stranieri. E sa perché? Perché io e mia
madre siamo le uniche donne musulmane a
non portare il velo e a vestire all’occidentale, anche se con sobrietà. Non porto, insomma, pantaloni a vita bassa o minigonne», dice
una giornalista. Vorrebbe lasciare l’Egitto,
che non è più quello della sua infanzia.
«Vogliamo parlare di moda? Io sono antimoda»: queste le prime parole usate da Shahira per spiegarmi il suo legame con le tradizioni e in particolare con l’abbigliamento tradizionale che per lei è stato per secoli garanzia
di giustizia sociale ed economica. «Oggi
una t-shirt come questa che indosso, senza
maniche, è considerata sopra le righe», dice
Dina, star della danza orientale. Dina fa parte
di quella schiera di egiziani che vive e lavora
in Egitto come si faceva negli anni Settanta,
nel periodo di massimo liberismo. Periodo in
cui la norma era vedere ragazze in minigonna e l’eccezione erano le ragazze velate. Oggi questa statistica è capovolta, l’80% delle ragazze porta il velo. «Da sei mesi indosso il velo», dice Fatma, una ragazza dal bel
viso truccato che lavora al Teatro dell’Opera del Cairo. Le chiedo perché.
Guarda in cielo, si pone una mano
sul petto e mi dice: «Allah ha voluto così, ho sentito in me la
necessità di coprirmi».
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no figlia di egiziani. Ma a casa, a scuola, vivevo e vestivo all’occidentale. Solo intorno ai 20
anni, grazie a un amico architetto di larghe vedute, ho capito quanto fosse importante appartenere a due mondi così ricchi di storia e cultura».
Shahira ha così iniziato un
processo di ricerca del passato, un passato che, secondo lei, rischia di soccombere sotto il peso della globalizzazione.
Il punto di partenza è stato il
costume tradizionale egiziano. Ha finito per scoprirne vari, nei villaggi dei governatorati (le regioni
amministratrive in cui è
suddiviso l’Egitto): alcuni più preziosi per le
donne ricche, altri meno preziosi, «ma tutti
capaci di donare dignità a chi li indossava, a prescindere dallo status sociale».
Tante le ragazze che, pur abitando in piccoli villaggi fortemente tradizionali, ormai rifiutano di sposarsi con l’abito tra-
dizionale, considerato desueto. Preferiscono indossare l’abito bianco, di chiara matrice occidentale, che non ha nulla a che vedere
con la preziosità dei ricami e dei tessuti di
quegli abiti che le loro madri e le loro nonne amorevolmente cucivano per un intero anno. Oggi Shahira all’attività di ricerca e documentazione ha voluto affiancare un’attività di realizzazione.
Tra gli innumerevoli abiti tradizionali da lei riportati alla luce va ricordato, per la raffinatezza, un
modello ottomano tra Settecento e Ottocento, non propriamente turco ma un ibrido facilmente ritrovabile in altre
aree del Mediterraneo: Albania, Grecia, Libano.
Questo modello, tradizionale abito egiziano cittadino, era composto in origine
da un cappottino con maniche lunghe e larghe, volutamente aperte per lasciar scorgere la fodera,
talvolta più preziosa del
tessuto stesso, pantalone bouffon (sostituibile
con un abito), camicia
e cintura (eliminata nella
versione più moderna).
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Nelle foto in queste pagine:
una sfilata di moda
tradizionale islamica al Cairo
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Nel 1923 le donne
egiziane si toglievano il
velo, oggi lo rimettono
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Ma c’è anche chi, all’ombra
delle Piramidi, sente ben definita la propria identità. È la fascia di egiziani che vive all’occidentale. Espressione ormai non corretta, visto che i loro usi e costumi sono anch’essi parte integrante della società locale. È per soddisfare questa categoria di esigenti modaioli egiziani che sono sorti
interi quartieri di boutique dov’si trova ciò che per Shahira
serve a “clonare” l’individuo:
ciò che è di moda.
Talvolta basta entrare in
una discoteca, un ristorante o
in un club cairota per essere
catapultati in una realtà che
penseresti di trovare solo a
migliaia di chilometri.
Tutto è rigorosamente
improntato a ciò che è più “in” al
mondo. Io stessa scopro di essere,
da straniera europea, un pò retro.
Molte mode arrivano qui dall’America, talvolta prima ancora
di sbarcare in Europa.
Va ricordato che nel lontano 1923 Hoda Charaoui,
femminista nazionalista,
decise con un clamoroso
gesto pubblico di liberarsi del velo. All’epoca era un
atto di emancipazione. Oggi, paradossalmente, alcune
donne si velano per lo stesso motivo. «Una donna velata può muoversi liberamente, può lavorare e occupare posti dirigenziali.
L’università è un esempio», dice Tawfiq Aclimandos, ricercatore in
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Storia e Scienze politiche.
Per Nahed Nasrallah, designer che ha lavorato con famosi registi del calibro di
Yousef Chahine, un forte
cambio dei costumi si è registrato negli anni Ottanta.
«Le commedie», dice, «che
avevano avuto grande successo negli anni Settanta e che
erano girate sulle spiagge di
Alessandria e di Beirut, iniziarono ad avere nuove ambientazioni, più interni e meno esterni; i costumi divennero definitivamente più morigerati. Fummo costretti a girare in presenza di un censore proveniente dal Golfo,
essendo queste produzioni
destinate principalmente al
mercato del Kuwait e dell’Arabia Saudita. Attraverso un monitor, veniva controllato quanto avevamo filmato. La censura talvolta riguardava anche un abbraccio tra padre e figlio. I serial,
però, erano proiettati anche
in Egitto: si diffondeva, così,
attraverso cinema e televisione, un modello di
vita che non era propriamente egiziano». Modelli che, nel tempo, sono stati acquisiti anche
dalle classi più abbienti.
I negozi di moda islamica si sono moltiplicati anche nei quartieri dove prevalevano i negozi di moda “occidentale”. Le richieste sono varie: per talune come Zainab, il velo dev’essere colorato e va solo appoggiato sul capo, lasciando uscire un ciuffetto di capelli. I colori vanno dal giallo limone al verde pistacchio.
Altre, con un tocco di malizia, aggiungono degli strass. Nulla a che vedere con la abaya, il
lungo velo nero che copre tutto il corpo, utilizzato nei Paesi del Golfo e che anche qui ha fatto la sua comparsa. Effetto emulativo da parte
degli egiziani che, dopo aver lasciato l’Egitto
alla ricerca di un pò di fortuna, rientrano con
più soldi ma con abitudini e costumi diversi,
che vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti.
Malgrado tutto, si può dire che in Egitto ce
n’è, ancora, per tutti i gusti.
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