IN PALIO IL FUTURO Della Valle

Transcript

IN PALIO IL FUTURO Della Valle
IL NUOVO MAGAZINE DELLA PALLACANESTRO
3.2013
4.2014
SIENA
IN PALIO IL FUTURO
Della Valle
Padre e figlio a confronto
SASHA
DJORDJEVIC
TUTTI INSIEME:
Intervista esclusiva
al nuovo CT serbo
I Cremascoli, la città,
gli impianti e i tifosi
BASKET
ITALIANO
STORIE
Messina e Poz, la
ragione e l’istinto
Alle radici del
basket slavo
Speciale
Reyer Venezia
Wooden e Walton,
uomini contro
CANTÙ!
LNP
›
A tu per tu
con la LNP
Speciale
Pallacanestro Ferrara
COSA
SUCCEDE IN…
Serie A, LNP, NBA,
Coppe Europee,
estero e femminile
4.2014
IL NUOVO MAGAZINE DELLA PALLACANESTRO
BASKET ITALIANO
> Mens Sana in corpore insano
4
> Eterna invettiva
10
> Tutti insieme: Cantù!14
> La ragione... e l’istinto64
> La nuova GIBA, 13 mesi dopo66
ON THE
ROAD
BASKET
EUROPEO
NBA
Alle radici del
basket slavo
55
Il giro del mondo
(NBA) in 30 giorni
20
John e Bill,
uomini contro
24
LNP
La galassia del
basket italiano
L’oracolo di Sasha
52
FEMMINILE
NCAA
NO LIMITS
Alla corte
di Brugnaro
Nel nome del
padre
Il bivio di Roberta
62
STORIE
60
RUBRICHE
> L’editoriale di Werther Pedrazzi
> Perché il Papa non è il Re...
> Verba volant
> Nella Grande Mela
> Fronte SKY
> Dall’osservatorio romano
> Giù dalla Torre (degli Asinelli)
> La posta dei lettori
> Gente di Basket
> La Giornata Tipo
> Opinion Leader
22
3
12
13
26
27
30
31
45
46
67
68
Il re delle minors
44
36
DNA
ADECCO
SILVER
Cronache dal
Rinascimento
ferrarese
COSA SUCCEDE IN...
> Serie A Beko
> NBA
> Eurolega
> Eurocup
> DNA Adecco Gold
> DNA Adecco Silver
> Adecco DNB
> Adecco DNC
> Europa
> Serie A Femminile
40
8
18
28
29
32
39
42
43
50
59
BASKET EUROPEO
BASKET
ITALIANO
MENS SANA
IN CORPORE INSANO
di Nicola Martinelli
Il rapporto sulla crisi di un
patrimonio da salvare.
Protagonisti e strategie.
Una città e la sua squadra, la
Mens Sana Siena, che è
diventata un po’ come il Palio,
da più parti attaccato, ma
che resiste come simbolo
storico e identitario.
SIENA – Si potrebbe dire che, in un certo senso, anche la Mens Sana Basket
Siena sta attraversando la proverbiale
“crisi del settimo anno”, dopo un’epopea di otto scudetti vinti, gli ultimi
sette consecutivi. Come ogni umano
ciclo, forse si sta esaurendo anche l’età
dell’oro della società toscana, che ha
radici profonde, riconducibili a quando, undici anni fa, Ferdinando Minucci
affidò la panchina al vulcanico Ergin
Ataman.
Sotto la guida del coach turco arrivarono le prime finali per i biancoverdi:
Coppa Italia, persa contro la Virtus
Bologna reduce dal Grande Slam, Coppa Saporta, il primo trofeo, vinta sul
Pamesa Valencia, e nel maggio 2003 il
primo ballo alle Final Four di Eurolega
in quel di Barcellona, evento bissato
nel 2004 con Charlie Recalcati in panchina, e nel 2009 e 2011 sotto la guida
di Simone Pianigiani.
I vessilli appesi al tetto del PalaEstra
si sono moltiplicati: 8 scudetti, 5 Coppe Italia e 7 Supercoppe italiane, cui
vanno aggiunti 12 titoli nazionali
giovanili. Risultati ottenuti grazie al
passaggio sotto l’egida Montepaschi
di campioni quali Petar Naumoski, Alphonso Ford, Mirsad Turkcan, David
Vanterpool, Bootsy Thornton, David
Andersen, Shaun Stonerook, Rimas
Kaukenas, Terrell McIntyre, Romain
Sato, Ksystof Lavrinovic, Bo McCalebb
e Nikos Zizis.
UNA BANCA PER AMICA?
Già, proprio la grande Banca è al centro di tutto. Apparsa sulle maglie della Mens Sana nel 2000/01, la Banca
Monte dei Paschi di Siena permise il
salto di qualità attraverso una lunga e
generosa sponsorizzazione. Al culmine delle sue fortune l’Istituto di Rocca
Salimbeni sosteneva tutto lo sport senese, calcio compreso, con donazioni
annue da oltre 50 milioni di euro.
Oggi il vento è cambiato, i problemi
in seno all’Istituto di credito sono diventati un caso nazionale tristemente
noto, e la scelta è stata quella di tagliare tutte le sponsorizzazioni. Se al
calcio, in estate, la Banca ha prestato
10 milioni di euro per l’iscrizione alla
Serie B (pare siano rientrati), al basket,
nell’ultimo dei 3 anni di sponsorizzazione concordata, sono stati riservati
solo gli spiccioli, oltre a essere stato
tolto il fido.
Nella pagina precedente:
Ferdinando Minucci, General Manager
della Mens Sana (Foto: Alessia Bruchi)
4.2014
Di fatto, la Mens Sana Basket si è trovata senza risorse per il presente e, soprattutto, senza garanzie per il futuro.
Stando ad alcune fonti, nelle casse
della società biancoverde, invece degli
8 milioni di euro pattuiti, tra mancati
premi della scorsa stagione e saldo del
fido ne sono entrati solo 2,25.
Ragioni di sopravvivenza, dunque,
hanno imposto economie all’osso sugli acquisti e, soprattutto, la privazione dei gioielli di famiglia, con le cessioni di David Moss prima e Daniel
Hackett poi, smantellando la squadra
che lo scorso anno, sorprendendo tutti, centrò il settimo scudetto consecutivo sotto la guida di Luca Banchi.
Crisi conclamata, dunque.
DIASPORA SENESE
Per Terrell McIntyre nell’estate del 2008, dopo essere stato inserito nel primo quintetto di Eurolega, l’Olympiacos Pireo offrì 2,5 milioni di dollari di
buy-out. Restò a Siena perché l’Assemblea dei Soci rifiutò l’offerta e nel
2010 fu ceduto a Málaga per 300.000 dollari.
Nell’estate del 2012 Bo McCalebb passò al Fenerbahce per 1,1 milioni di
euro, denaro che servì per rimpiazzare il primo mancato pagamento della
Banca MPS. Motivazione per cui nell’estate successiva David Moss è passato a Milano per circa 300.000 euro.
Daniel Hackett, dopo aver rifiutato il trasferimento a Milano a luglio, era
stato ceduto al Galatasaray per Malik Hairston e un ricco buyout. Incassato il no del giocatore per l’assenza della licenza A di Eurolega, la trattativa
con Milano è stata chiusa per 500.000 euro e il prestito fino al termine della
stagione di MarQuez Haynes, con stipendio a carico dell’EA7.
Sotto: l’addio a Siena di Daniel Hackett
(Foto: Alessia Bruchi)
COMITATO MENS SANA UNA FEDE
“La Mens Sana è una fede, la fede è vita”, questa è lo slogan del Comitato che alcuni tifosi biancoverdi hanno fondato per riunire le tante voci singole in un coro.
Formato da oltre 300 iscritti e capace di raccogliere fin qui più di 1.500 firme
a sostegno della campagna di sensibilizzazione verso le istituzioni, sportive e
non, della città. «Il Comune di Siena nelle figure del sindaco Valentini e dell’assessore
allo sport Tafani, la Polisportiva, e la Società hanno accolto le nostre richieste di confronto, che sono state cordiali e costruttive. Solo il Monte dei Paschi fin qui non ha risposto
ai nostri inviti – racconta Michele Petricci, presidente del Comitato –. Continueremo a invitare i vertici della banca. Non pretendiamo che nessuno si erga a salvatore
della patria, ma serve uno sforzo comune. Sarebbe un peccato se alle future generazioni
di senesi venissero negate le opportunità di cui noi abbiamo goduto. Il tavolo di dialogo
allestito il 7 gennaio è un buon inizio, uno spiraglio».
4
5
BASKET
ITALIANO
BASKET ITALIANO
4.2014
TUTTI INSIEME: CANTÙ!
di Fabrizio Provera e Carlo Perotti
Gli artigiani di Brianza sulla via di un capolavoro. Dall’annunciato disimpegno dei Cremascoli, al coinvolgimento di
tutta la Comunità, Sindaco e aziende del territorio in testa, con il coinvolgimento di tifosi e vecchie glorie. Tutti per una
squadra che è un simbolo identitario. E alla fine, forse, anche una bella sorpresa…
SOGNATORI E “RAGIUNAT”
(FP) - Hai voglia a ironizzare sui miracoli che i “pretoni” di Cantù, avrebbe
chiosato il grande Oscar Eleni, si sono
messi in mente di fare. Hai voglia ad
ammettere che ancora una volta, in
questo lembo di Lombardia operoso
e resistente alla più dura crisi del Dopoguerra, dove i forzieri delle banche
custodiscono patrimoni importanti,
si sta realizzando quello che nessuno
(o quasi) ha avuto l’ardire di tentare
nel recente passato.
Tutto principia in un pomeriggio di
sole, nel Pianella dalle lamiere arroventate, la scorsa estate: l’ingegner
Anna Cremascoli annuncia il disimpegno della sua famiglia, che dalla
prossima stagione agonistica non
potrà più sostenere da sola il gravoso, e mecenatesco, e in perenne perdita, sostegno economico alla gloriosa società che fu di Aldo Allievi: la
più piccola città d’Europa a fregiarsi
di due Coppe dei Campioni, più tanti
altri trofei posti a mo’ di labari, appesi al glorioso ancorché vetusto soffitto del Pianella, che il mai banale
Claudio Sabatini ribattezzò “l’hangar
di Cucciago”.
Detto fatto. Col piglio del “ragiunat”,
figura su cui si è sempre basato il razionale accumulo di ricchezza a queste latitudini, si fanno i conti. Dunque, per una stagione e una squadra
degna della storia di Cantucky in
serie A, servono 4 milioni e mezzo di
euro. Mica bruscolini, o trucioli di legno con cui si fanno i famosi mobili
canturini. Alura fioeu, fem i cunt: 2 milioni e mezzo di euro ci sono, frutto
dei proventi di biglietteria, sponsor
già presenti e altre voci sicure in entrata. Ga na mancan du, ne mancano
altri due.
Bene. Prima scatta una sottoscrizione di azionariato popolare, si crea
un sito (www.tuttinsiemecantu.
com), per la prima volta nel mondo
si ricorre al crowdfunding, modalità
di raccolta fondi tipica delle Nazioni anglosassoni, per stimolare micro
o macro interventi economici dal
basso. Vengono coinvolti tutti: la tifoseria organizzata, gli Eagles, l’associazione Tradizione Canturina, le
vecchie glorie come Marzorati, Bosa
e Ciccio Della Fiori, persino Manu
Markoishvili, dalla Turchia, aderisce
A sinistra: Pietro Aradori, uno degli italiani su
cui si basa il progetto canturino
(Foto: Alessandro Vezzoli)
Nella pagina accanto; Luca Orthmann,
amministratore delegato della Pallacanestro
Cantù (Foto: Alessandro Vezzoli)
14
al progetto. Si vendono magliette, si
organizzano cene, si giocano partite rievocative, si mettono in mostra
i vessilli dell’antica gloria cestistica
canturina.
Quindi si tirano le prime somme. A
fine dicembre, dei 2 milioni di euro
necessari, è stato raccolto circa 1
milione e mezzo. Uno dal cosiddetto “azionariato popolare” e dalle
imprese del territorio; 500.000 euro
sono invece quelli garantiti da un
pool di cui si fa garante l’ex presidente, nonché influente commercialista
canturino, Franco Corrado.
Nel frattempo sulle maglie è arrivato il prestigioso marchio Acqua Vitasnella, che sottoscrive un accordo
triennale. Inoltre, a fine stagione, se
va avanti così, potrebbero persino arrivare i 370.000 euro del premio per il
maggiore impiego di giocatori italiani. L’obiettivo è a un passo.
La politica, dal canto suo, gioca un
ruolo di regia illuminata. Il sindaco Claudio Bizzozero, eletto con
una lista civica e sostanzialmente
apartitico, indossa la casacca del
playmaker. Mette le strutture comunali a completa disposizione del
progetto. A ottobre, quando gli chiedemmo cosa prevedesse, dichiarò il
suo incrollabile ottimismo. «Cantù
si salverà. Cantù non muore, perché la
pallacanestro è innervata nel tessuto più
profondo e radicato di questa piccola città». A metà strada tra il sognatore e
il ragiunat, Bizzozero aveva visto lontano. Dando implicitamente ragione
a chi sostiene che se le storie passano, le leggende restano. E che se
Cantù è storia, forse il resto è solo
geografia…
LUCA IL TRAGHETTATORE
(FP) - Si è calato in un mondo per
lui teoricamente alieno, che non gli
apparteneva né per professione (era
dirigente d’azienda) né per origine
(non è canturino). Eppure Luca Orthmann, amministratore delegato della Pallacanestro Cantù e plenipotenziario della famiglia Cremascoli, ha
assunto un ruolo indiscutibilmente
centrale, nell’arco di questi anni. Ovvio che sia anche uno dei perni del
progetto di salvezza societaria. E che
il suo orizzonte, forse, non si esaurisca a giugno, con la fine di questa
stagione agonistica. Almeno, questo
pare essere il suo desiderio.
Luca Orthmann, che Basket Magazine incontra nella sala stampa del
Pianella, parla di «un bilancio positivo,
sino a questo punto. Per i famosi 2 milioni necessari, siamo più di metà strada, e al di là dell’azionariato popolare,
che da solo ovviamente non può bastare, l’arrivo del marchio Acqua Vitasnella
e la disponibilità di Francesco Corrado
ci portano a pensare positivo. Se queste
sono le premesse, non possiamo che essere ottimisti. I 2 milioni, è bene ricordarlo,
servono a tenere Cantù a un rango a lei
confacente».
La risposta del mondo imprenditoriale è arrivata in modo forse inatteso, dopo anni nei quali i Cremascoli,
e Orthmann, hanno fatto di tutto
per coinvolgere realtà economiche
locali. Con risultati non sempre
all’altezza delle aspettative.
Il mondo economico canturino è fatto di
tifosi, perciò nel momento in cui è scattata la chiamata alle armi c’è stata una
risposta positiva.
Instilliamo un dubbio malefico:
ma le aziende s’avvicinano perché
i Cremascoli chiamano, o perché i
Cremascoli si congedano?
No, non vedo malefici. I Cremascoli hanno riportato Cantù a livelli attesi da decenni, attorno a loro non può che esserci
affetto e riconoscenza. La risposta arriva
perché viene messa in discussione l’esistenza stessa della società, perciò è naturale attendersi una reazione.
Si lavora consci del fatto che le strade battute sono nuove, del tutto
nuove. Potenzialmente utili anche
ad altri?
Il crowdfunding può essere certamente replicato, anche perché per lo sport si
tratta di una novità assoluta. L’unica
precauzione d’uso da considerare è che si
tratta di strumenti da utilizzare in realtà
dove c’è un forte sentimento di appartenenza. Quindi applicherei questo modello
a Cantù, molto più difficile sarebbe applicarlo a Milano oppure a Roma.
Ma è gestibile, una società, senza
“uomo forte al comando?
Sì, perché se una società ha un presidente
e un amministratore delegato, il problema non si pone. Anche in una compagine
allargata, il problema può essere naturalmente risolto dagli eventi. Oggi il basket
è un modello di business in perdita, poi ci
sono società sane e meno sane, chi spende
quel che ha e chi spende di più. Un simile
contesto, stante la situazione economica
generale, penso si regga ancora per poco.
È necessario guardare oltre, lavorando
sulle sinergie possibili con le altre società, come avviene col Progetto Giovani
Cantù, che coinvolge la bellezza di 3000
famiglie.
15
4.2014
semifinale. L’idea di prendere chi vince
contro di te non è un’idea vincente. Mi
sono sentito tradito perché avevo lavorato tanto e superato diversi ostacoli,
ma non il loro: hanno fatto un autogol,
lo dico senza arroganza. Ho amato anche Treviso per la sua storia, sarei rimasto volentieri, ma non siamo riusciti a
“salvare” la squadra, pur provandoci per
un’estate intera. La perdita di Enzo Lefebre ci scombussolò completamente, fu
come aver perso una mano. Ad un certo
punto si è fatto il mio nome a Cantù e a
Milano, ma poi le offerte non si sono concretizzate. Altre offerte non mi hanno
convinto e sei mesi prima degli Europei
avevo avuto dei colloqui informali per la
panchina della Nazionale serba. Milano però è sempre stata la squadra a cui
aspiravo, dopo il Partizan. Sono sempre
stato tifoso dell’Olimpia, la cui storia
vincente mi ha sempre affascinato. Io so
che tornerò a Milano da allenatore. È
uno dei miei obiettivi.
E quella di giocatore?
Rimane fortissimo il dispiacere dei tre
anni di embargo verso la Jugoslavia. Ci
bloccarono cinque giorni prima di entrare al villaggio Olimpico nel ’92 a Barcellona. Ci tolsero l’occasione di giocare
contro la Croazia di Drazen Petrovic e
contro il Dream Team di Michael Jordan e Magic Johnson. Passammo estati
di allenamenti inventandoci amichevoli per continuare a migliorare insieme.
L’embargo ci tolse anche l’Europeo del
’93 e i Mondiali del ’94, che avrebbero
dovuto giocarsi proprio a Belgrado. Dopo
la Coppa dei Campioni con il Partizan,
nel ’92, e la Korac con Milano nel ’93, in
quegli anni avrei sicuramente vinto altri
titoli. Poi però ci rifacemmo con gli interessi: nel ’95 trionfammo agli Europei in
Grecia e fu una gioia enorme per il nostro Paese. Ci sono dei filmati che testimoniano la follia totale della gente, con
200.000 persone a festeggiare con noi in
Piazza della Repubblica a Belgrado. In
quella finale contro la Lituania segnai
41 punti con 9/12 da tre, ancora oggi
è un record per una finale. Poi arrivò
l’argento ad Atlanta ’96, vinsi da MVP
l’oro Europeo del ’97, vinsi da capitano
54
ON THE
ROAD
Tappa #1
NO LIMITS
Pellegrinaggio nella terra del
basket più bello e feroce,
conoscendo luoghi e racconti
legati a campioni che hanno
fatto la storia della
pallacanestro italiana,
europea e mondiale
Il carattere focoso di Djordjevic era già evidente ai tempi in cui sedeva sulla panchina dell’Olimpia
Milano (Foto: Euroleague)
e, dopo aver subito un’operazione, l’oro
ai Mondiali del ’98. Insomma, ho tanta
storia bellissima alle mie spalle.
E l’NBA?
Nel 1992/93 avrei potuto andare a Golden State o a Houston, ma scelsi Milano. E non me ne sono pentito, anche
perché poi lo sfizio me lo sono tolto. A
volte però del mondo americano non mi
piace l’arroganza: basti pensare a come
Coach K non rispettò Papaloukas e il
pick and roll greco ai Mondiali del 2006,
tanto che disse: «quel numero 4 ci ha
fatto male con il pick and roll». Solo
coach Popovich ha un approccio diverso, infatti vince perché mischia la superiorità statunitense al senso di squadra
tipicamente europeo. Popovich non è
prevenuto verso i non americani: Parker, Duncan, Ginobili, Diaw e Splitter
sono diventati dei fuoriclasse con lui e
lo hanno ripagato. Ora tocca a Belinelli,
che a San Antonio farà un grande salto
di qualità.
Gli manca ancora la vita da cestista?
Certo, mi manca tantissimo! Chi non
ha giocato a questi livelli non può capire cosa ti danno le vittorie di squadra,
vanno oltre qualsiasi traguardo individuale. La forza del gruppo è la forza dei
grandissimi campioni. Unità e umiltà
sono il segreto: per avere un gruppo vincente devi rinunciare a qualcosa di tuo
per avere di più tutti insieme. Sembra
un concetto banale ma non è così: io, per
esempio, l’ho capito verso i trent’anni.
Nell’immagine in alto: l’itinerario della
prima tappa del viaggio alle radici del
basket slavo: da Opicina a Lubiana, e da
Lubiana a Zagabria
ALLE RADICI
DEL BASKET SLAVO
di Marco Bogoni
Cosa spinge tre ragazzi a percorrere
3.817 chilometri, attraversando i Balcani, su una scassata Peugeot 106 color
verde sbiadito? Tanta voglia di avventura e un libro, La Jugoslavia, il basket e un
telecronista, scritto da Sergio Tavcar, storico telecronista di Telecapodistria. L’opera di Tavcar non narra solamente le
gesta di tutti i grandi campioni che hanno reso leggendario il basket jugoslavo,
ma descrive anche le differenze tra i
popoli e le anime che hanno composto
quel pezzo di terra che negli anni ’90 è
stato teatro di una guerra fratricida.
E il viaggio non poteva che iniziare da
Tavcar, nostro Virgilio. Per incontrarlo
siamo andati a Opicina, popolosa borgata sul Carso, frazione del comune
di Trieste, dove risiede la minoranza
slovena in Italia. Gli comunichiamo il
percorso che abbiamo intenzione di
percorrere: toccheremo sia le capitali
Lubiana, Zagabria, Sarajevo e Belgrado,
sia le zone più remote della Bosnia fino
a giungere in Kosovo, territorio conteso
tra Serbia e Albania. Tavcar ci guarda
stupito e declama un vecchio detto sloveno: «In Kosovo non ci si va nemmeno in
spalla a Dio».
Il personaggio è schietto, ruvido ma mai
spigoloso, e con un po’ di teatralità ci
racconta quali tipologie di personalità
incontreremo: «Gli sloveni sono tirchi, in-
troversi, pessimisti e gran lavoratori. I croati
hanno una grandissima dignità nazionale al
limite del nazionalismo e sanno essere cattivi come tutti i popoli che hanno espresso
soldati di grande levatura. I serbi sono oppressi da un immenso complesso di superiorità, si sentono il popolo eletto dei Balcani,
per cui sono strafottenti di natura. I bosniaci
sono sempre più musulmani, come del resto
la Serbia meridionale. Non scorderò mai uno
striscione che vidi esposto nella finale degli
Europei del 2001 tra i padroni di casa della
Turchia e la Jugoslavia di Bodiroga e Stojakovic. Recitava così: “Vai, Mirsad, che tutta Novi Pazar è con te!”. Il destinatario era
Mirsad Jahivic, nato nel capoluogo del Sangiaccato, una regione della Serbia, prima di
trasferirsi da bambino in Turchia cambiando
cognome in Turkcan…».
Quando informiamo Tavcar che andremo a onorare il monumento a Mirza
Delibasic a Sarajevo, riceviamo la sua
laica benedizione. Delibasic è considerato dal giornalista di Telecapodistria il
più grande giocatore jugoslavo di tutti i
tempi dopo il “sommo” Kresimir Cosic.
E Drazen Petrovic? Il Mozart dei canestri si accomoda sul terzo gradino del
podio.
Dopo esserci abbeverati alla fonte di
conoscenza di Tavcar, il nostro viaggio
riprende in direzione di Lubiana. La
città è meta di un turismo in costante
55
4.2014
NO LIMITS
IL BIVIO DI ROBERTA
di Claudio Di Renzo
Da qui in su è Basket… da qui in giù, una vera Battaglia!
Roberta Cogliandro: il destino,
il talento, l’impegno, di una vita
vissuta controcorrente.
Sopra e nella pagina a fianco: Roberta
Cogliandro con la maglia della Nazionale
(Foto: Claudio Di Renzo)
62
impossibile proseguire oltre su questa maledetta strada che Roberta si
mette a correre: reagisce e lo fa con
la testardaggine di chi non accetta il
destino e mai lo farà completamente.
Fonda insieme alla sua famiglia (protagonista silenziosa ma decisiva in
questa storia), l’Associazione Kleos
per far sentire alla sua stessa città la
voce di una ragazza messa da parte.
La parola greca kleos spesso viene tradotta come prestigio o fama, in realtà
è un concetto più complesso, profondo: è ciò che gli altri dicono di te, come
vieni percepito. Roberta vuole levare
quella patina di pregiudizio misto a
pietismo che vede nello sguardo degli
altri e lo vuole fare divertendosi, trasformando la rabbia in musica, arte,
spettacolo, manifestazioni e, perché
no, anche sport.
L’idea è quella di fondare la prima
squadra di basket in carrozzina in
Calabria. Non esiste nulla del genere
da quelle parti e all’inizio sembra impossibile battere burocrazia e preconcetti. Eppure qualcosa si muove: tanta volontà e l’aiuto insperato di molti
che si avvicinano per la prima volta al
mondo paraolimpico e ne rimangono
catturati moltiplicano quelle divise
arancioni sul parquet: prima solo un
paio, poi quattro-cinque, infine una
vera squadra.
Ma oltre alla canottiera arancione
della Kleos presto per Roberta è pronta anche una canotta azzurra, quella
della Nazionale. Il delegato calabrese
della FIPIC nota questa ragazza durante un’esibizione, talento un po’
grezzo ma atleta già completa, i chilometri fatti in piscina tra terapie e gare
si vedono, è l’ideale per la rifondazione della Nazionale femminile voluta
dalla Federazione. E così in un baleno
è già aggregata alla rosa, un nuovo
mondo si svela, raduni e allenamenti al fianco delle giocatrici di Serie A,
gli Europei a Francoforte per capire
davvero il peso di quella maglia che
indossa.
La strada dopo il bivio di Favignana è ancora in salita, probabilmente
lo sarà ancora a lungo, ma Roberta
non ha smesso di correre: giocare a
basket, mettere tutta sé stessa in ogni
allenamento e partita per far conoscere in Italia e magari anche all’este-
ro il nome della Kleos: è questo il suo
scopo, l’idea che ha sempre in testa,
da Francoforte in avanti. La passione
per lo sport a Imola è stato uno strumento per stare meglio fisicamente,
ora si è trasformata in strumento per
far stare meglio gli altri, per combattere quello sguardo che l’ha accolta
nel suo paese dopo l’incidente e per
rendere giustizia a una terra che ama
e che tanto le potrebbe dare. La strada dopo il bivio è ancora lunga e dura,
ma Roberta ha deciso di percorrerla
tutta, fino alla fine.
we make it
Non ci pensiamo, d’altronde è impossibile farlo, ma nella vita di ognuno di noi ogni
giorno ci troviamo davanti a un bivio, magari anche a più di uno, e facciamo delle
scelte, spesso inconsapevoli. E da quelle scelte, il più delle volte banali, insignificanti,
dipende in realtà tutto quello che ci accadrà dopo. Se entri nel mondo dello sport
paraolimpico, di vite segnate da un bivio traditore ne conosci tante. Non metti mai a
fuoco la cosa durante le gare o le partite, specialmente nel basket per disabili: finché
la palla viaggia e le carrozzine duellano, l’agonismo è tale da farti dimenticare tutto
il resto. Ma quando la sirena suona per l’ultima volta e i giocatori tornano a essere
ragazzi, allora la crudeltà di quel bivio da cui tutto è partito torna a essere chiara.
Il bivio di Roberta Cogliandro ha la forma di uno scoglio di Favignana. Una caduta nell’agosto del 2009 e tutto quello
che poteva essere per una ragazza di 22
anni è andato in frantumi. Operazioni
e riabilitazione, quel calvario che non
puoi avere la presunzione di poter raccontare con le parole, questi sono i primi sei mesi della nuova vita di Roberta,
dopo il bivio. Siamo a Imola, la sua nuova casa è l’Unità Spinale di Montecatone
ed è qui che lo sport comincia a trasformarsi, da strumento per stare meglio,
a passione. Quasi per caso Roberta a
Imola si ritrova a provare il basket, tra
le altre attività che le propongono: oggi
ricorda con un sorriso quella ragazza a
bordo campo che vedendola tirare a canestro quel primo giorno le predisse un
futuro in Nazionale. Nei ricordi di oggi
quei mesi hanno un gusto più dolce che
amaro: la sofferenza della riabilitazione
sì, ma anche la prima consapevolezza
che un’altra vita potesse essere possibile, nonostante due gambe semi addormentate per sempre.
L’illusione però svanisce presto: la strada che Roberta ha imboccato dopo Favignana all’improvviso torna a essere una
salita proibitiva, proprio quando è ora di
tornare a casa, a Motta San Giovanni,
pochi chilometri da Reggio Calabria. Per
una ragazza che da poco sta imparando
a convivere con carrozzina e stampelle
vivere qui è una battaglia quotidiana:
i servizi sono pochi e le barriere sono
grandi quasi quanto il pregiudizio che
vede riflesso negli occhi della gente.
La salita a questo punto diventa tostissima. Ma è proprio quando sembra
63