Giuseppe De Lorenzo-Agricoltura nel tempo e nella storia (PDF

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Giuseppe De Lorenzo-Agricoltura nel tempo e nella storia (PDF
Giuseppe Giovanni Angelo De Lorenzo
(Lagonegro, 24 aprile 1871 – Napoli, 27 giugno 1957)
è stato un geografo e geologo italiano, docente presso l'Università di Napoli. Si occupò
anche di indologia e divulgò in Italia la conoscenza del Buddhismo.
Fu socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei.
OPERE PRINCIPALI
-
Le montagne mesozoiche di Lagonegro (1894)
Studi di geologia nell'Appennino meridionale (1896)
Geologia e geografia fisica dell'Italia meridionale (1904)
La terra e l'uomo (1919)
L'Elephas antiquus nell'Italia meridionale (1927)
Un genio del Novecento italiano ed europeo, conosciuto ed apprezzato fin nel lontano
Giappone, misconosciuto nella sua terra natale, la Lucania. A Lagonegro, dove
nacque, una volta c’era una targa di pietra che lo ricordava. Fu posta dalla Società
Geologica Italiana, nel 1957, tre mesi dopo la morte di De Lorenzo. Faceva bella
mostra di sé nei pressi del ponte Cararuncedde, sulla statale 19 delle Calabrie, la
strada che collegava Salerno a Reggio. Poi, fu costruito un nuovo tracciato della strada
e si sfondò la montagna perché una galleria l’attraversasse. La targa fu frantumata e i
pezzi dispersi. Nessuno sa dove siano. La Società Geologica Italiana non ha però
dimenticato il suo grande socio. E di tanto in tanto, attraverso convegni e seminari di
studio, ne celebra le gesta letterarie, filosofiche e scientifiche.
Giuseppe Giovanni Angelo de Lorenzo
nacque a Lagonegro nel 1871, il 24
aprile. La madre, Carolina Rinaldi, era di famiglia agiata che fin dai tempi di Napoleone
gestiva un’impresa per il trattamento delle stoffe, una gualchiera, e un mulino nei
pressi del torrente Serra. Suo padre, Lorenzo, era impiegato dell’ufficio telegrafico del
paese.
Giuseppe prima di imparare a camminare andava carponi, si muoveva a quattro
zampe, a contatto pieno con la terra: guardava, toccava, osservava, palpava e
afferrava gli oggetti. Un giorno, in braccio al padre, percorreva a cavallo la mulattiera
che portava a Maratea e, per la prima volta nella sua vita, vide il mare.
Dopo qualche anno raccontò così questo viaggio:
..ai miei occhi apparve una cosa nuova, mirabile, portentosa che è rimasta poi
nella mia mente indelebilmente impressa con l’immagine di quella prima
visione: una distesa infinita, cerulea, che in suo giro lontano confinava col cielo:
il mare, e all’orizzonte un cono: "Ecco lo Stromboli" disse mio padre, e cercò di
spiegarmi quella essere una montagna cinta dal mare, la quale dalla sommità
caccia fuoco e fumo. Il suo nome… e l’idea di quel fuoco sotterraneo, acceso tra
mare e cielo, destava in me una sorpresa estatica, uno stupore,
un’ammirazione grandissima.
A tredici anni Giuseppe perse il padre. La madre, amatissima, era scomparsa sette
anni prima. Si trovò da solo. Fu aiutato da amici di famiglia cui rimase molto legato.
L’inclinazione per le ricerche naturalistiche e geologiche cominciava già a farsi strada.
Ma pur seguendo la sua passione scientifica, non tralasciò mai gli studi di
approfondimento delle antiche civiltà, delle lingue classiche, della letteratura italiana e
internazionale, delle discipline storiche e filosofiche. Quella visione del mare e dello
Stromboli non l’abbandonava. Voleva capire. E ancora studente, per osservare cosa
fosse un vulcano attivo e spento, salì più volte sul Vesuvio, ascese all’Etna, si recò sul
Vulture, cercò di spiegarsi i fenomeni delle solfatare e delle stufe di Pozzuoli, delle
fumarole, delle mofete e delle putizze dei campi Flegrei, delle sorgenti termali di
Agnano. Cercò di comprendere le cause del vulcanismo. Scrisse ventotto libri
sull’argomento. E sintetizzò il suo pensiero nel volume "Terra madre" pubblicato a
Bologna, da Zanichelli, nel 1920.
De Lorenzo non aveva che ventuno anni quando pubblicò, sulla rivista dell’Accademia
dei Lincei, le Osservazioni geologiche nei dintorni di Lagonegro. Un lavoro sulla
regione compresa fra il Vallo di Diano e il massiccio del Pollino.
Ne estrapoliamo un brano:
"Qui le cause orogenetiche hanno innalzato al cielo i superbi colossi, ammantati
di neve l’inverno, profumati dai fiori l’estate, slanciando in curve maestose le
rigide rocce, stipando in pieghe fittissime gli strati argillosi, spezzando e
spostando masse enormi di materiale sedimentario, mentre l’acqua e l’aria, nei
loro componenti e nelle loro modificazioni, lavorano quietamente e
incessantemente a modellare da artefici puri quello che l’orogenesi ha
grandiosamente abbozzato. Effetto mirabile di questo avvicendarsi di forze è il
paesaggio che, se può colpire nei suoi lineamenti superficiali l’occhio di
chiunque ha sentimento estetico, solo però all’occhio e alla mente del geologo
rivela le sue sfumature più delicate, le sue linee più ardite, i suoi mirabili toni di
forma e di colore. Pel geologo ogni abisso pauroso, ogni musicale cascata, ogni
morbida collina ha un significato, un’intenzione, una vita speciale,
verginalmente nascosta all’occhio dei profani, e pel geologo, che vi abbia
studiato, il paesaggio dei dintorni di Lagonegro costituisce un quadro di
meravigliosa fattura, le cui singole parti concorrono a formare un corpo
armonioso, vibrante di un’onda caldissima di vita".
Un esordio scientifico di grande efficacia letteraria che sarebbe piaciuto anche ad
Orazio di cui De Lorenzo era fervido ammiratore. Fossero stati coevi al tempo di
Roma, Mecenate avrebbe aiutato anche il giovane scienziato come fece col figlio del
liberto venosino. Se il preambolo del suo primo lavoro era lirico, il contenuto risultava
ricco di notazioni rigorose e di osservazioni scrupolose. Il tutto reso in una prosa
bella da leggere e perciò efficace e divulgativa insieme.
Seguirono altri studi su Lagonegro e dintorni. Una mezza dozzina di pubblicazioni che
contribuirono a fare luce sulla formazione, nei millenni, di una parte importante
dell’Appennino meridionale, complicata da analizzare e interessante da studiare.
Prima di scrivere De Lorenzo era solito girovagare in lungo e in largo per le zone
oggetto dei suoi studi. Quando si occupava di geologia cresceva forte in lui il bisogno
di "sentire" la materia, di toccarla, di padroneggiarla fisicamente. Aveva percorso,
solitario esploratore, le aree più interne e più sconosciute del comprensorio di
Lagonegro. Passeggiava, guardava, osservava, raccoglieva pietre e sedimenti. Si
sedeva sulle rocce sotto le quali sprofondavano gli orridi montani. Si riposava
sdraiandosi sull’erba dei pianori. Liberava il pensiero e, prima di prendere appunti, si
lasciava andare alla speculazione filosofica, cercando incessantemente il tratto che
unifica spirito e materia.
Si laureò in Scienze naturali nel 1894, a Napoli, col massimo dei voti e con la lode.
Aveva ventitré anni. Subito cominciò a pubblicare i suoi lavori. Un fiume. Tutti molto
apprezzati dalla comunità scientifica.
Giustino Fortunato, di casa a Napoli e nell’Università fondata da Federico II, si
accorse del giovane genio, suo conterraneo. Volle conoscerlo. Lo invitò nel suo salotto
insieme con quello di Benedetto Croce, molto frequentato dai nobili e dagli intellettuali
partenopei. Lo apprezzò ancora di più. De Lorenzo si appassionò alla terra avita di
Don Giustino. E cominciò a studiare, da par suo, la natura vulcanica di quelle plaghe
fra Lucania e Puglia. Nel 1899 pubblicò una monografia: Studio geologico del Monte
Vulture. Rigorosa sotto l’aspetto scientifico, bellissima nella prosa.
Inizia così:
"Chi scende dai nudi sassi dello scabro Appennino verso l’Apulia siticulosa, vede
sull’orizzonte sorgere isolata e superba una montagna, che, nell’armonica
semplicità delle sue linee, rivela un’origine del tutto diversa da quella dei monti,
che le s’innalzano aspri di contro, e dei colli che si allungano con dolci
ondeggiamenti alle sue falde. Ed infatti quella montagna, il Vulture, è un estinto
vulcano, che nella pace dei boschi e dei campi e tra il murmure delle acque
musicali già da tempo immemorabile dorme il suo sonno secolare".
Alla pubblicazione dell’opera non mancarono i calorosi complimenti di don Giustino e
don Benedetto. Proseguì per la strada intrapresa e, ancora giovanissimo, fece due
sensazionali scoperte: l’una riguardante l’esistenza di terreni triassici in Lucania, l’altra
relativa alla presenza di morene glaciali nel gruppo del monte Sirino.
De Lorenzo si appassionò anche alla matematica, alla mineralogia, alla botanica, alla
paleontologia, alla petrografia, all’astronomia. Lesse. Viaggiò con i libri, al Polo nord e
al Polo sud. La fantasia lo portò nelle impenetrabili plaghe africane, nelle misteriose
contrade dell’America settentrionale.
Pubblicò monografie interessanti e ben illustrate a carattere divulgativo.
Scrisse:
- Campania, TCI, Milano, 1936;
- Lucania, TCI, Milano 1937;
- Venosa e la Regione del Vulture, Ist. It. D’Arti Grafiche Bergamo, 1906;
- Guardando da Potenza, Potenza, 1907;
- L’Etna, Bergamo 1907;
- L’isola di Capri, Roma, 1907;
- I campi Flegrei, Bergamo, 1909;
- Il Vesuvio, Bergamo 1931.)
BUDDISMO
Scienza e filosofia si fusero ben presto nel genio ormai maturo di Lagonegro. De
Lorenzo lesse e analizzò il pensiero di Talete, Empedocle, Eraclito, Democrito,
Aristotele, Epicuro, Lucrezio, filosofi dell’antichità che cercarono di scoprire e spiegare
il mistero della natura. Poi fu la volta di Giordano Giuseppe De Lorenzo Bruno e
Leonardo da Vinci. Lesse e studiò Kant, Schopenhauer, Spencer. Ma l’incontro che
diede una svolta formidabile alla vita di de Lorenzo fu quello con il geologo tedesco
Emilio Bose. Percorreva con il collega le strade della Calabria e della Basilicata.
Discutevano di scienza. Bose gli parlava anche di un indologo austriaco che stava
traducendo alcuni libri che raccontavano delle opere di Buddha. De Lorenzo ne rimase
colpito. Fece di tutto per conoscere l’Austriaco. Strinse amicizia con Karl Eugen
Neuman, così si chiamava lo studioso dell’India. Trascorse con lui alcuni giorni a
Vienna e sul Danubio, nel golfo di Napoli e a Lagonegro. Girarono per le montagne
dell’Italia meridionale, e lavorarono insieme alla traduzione dei discorsi attribuiti a
Buddha.
Esplorare, una grande passione. Un bisogno, spesso. Così, per soddisfarlo De Lorenzo
cominciò anche a viaggiare. Se ne andò lontano dalla sua terra. Utilizzò buona parte
degli anni migliori per conoscere nuove genti, per imparare altri usi, per capire e
raccontare altri costumi, per comprendere e analizzare altre filosofie di vita. Aveva
trent’anni, pochi soldi e due scarpe robuste.
Viaggiò. Come fece Marco Polo. Prese ad est. La magica via d’Oriente. Alla ricerca del
mai visto, alla ricerca di una parte di sé, di quella parte che non tocca mai terra e non
può essere confinata nelle viscere dei vulcani, o rinchiusa nei sedimenti planetari.
Viaggiò. Penetrò in nuovi paesi, solcò mari ben più grandi di quello che bagna il golfo
di Policastro. Conobbe gente poverissima e straordinariamente ricca, ignoranti senza
futuro e persone coltissime senza boria e prosopopea. Fu affascinato dalla natura che
si presentava ai suoi occhi.
Salì ben oltre i duemilacinque metri del padre Sirino, l’immensa montagna che
riempiva la sua infanzia. Si spinse ben più su, ben più su. Oltre i quattromila. Oltre i
cinquemila. Oltre i seimila. E voleva proseguire ancora, ma il corpo si rifiutò -non lo
spirito- di portarlo sul tetto del mondo. Attraversò la valle del Tibet, sforzandosi di
andare sempre più in alto con lo sguardo, per giungere a posare l’occhio sulle cuspidi
oltre gli ottomila che gli sfilavano davanti, come una possente, immensa processione
bianca. Quant’era piccolo il padre Sirino al cospetto di quei giganti imbiancati.
Oltre alle lingue europee che parlava perfettamente, De Lorenzo cominciò a studiare
la lingua Pali e il Sanscrito. Si dedicò allo studio della filosofia e delle religioni orientali.
Pubblicò una serie di articoli e di saggi per far conoscere in Italia e in Europa la
dottrina di Buddha. "È questa una dottrina" sosteneva, "con la quale l’uomo può dare
la soluzione al problema del dolore universale". Infine abbracciò il Buddismo, in modo
totalizzante, come soltanto un uomo determinato e ricco di interessi e di passioni
come lui poteva fare. Da quel momento anche nelle opere di carattere geologico e
scientifico di De Lorenzo l’eco dello spirito di Buddha sarà sempre presente. Il riferirsi
continuo alla filosofia orientale (cui non riconosceva un vero carattere di religione)
moltiplicò la sua forza interiore. Si mise a studiare i geni dell’Occidente, da lui definiti
"maestri di sapienza": Platone, Lucrezio, Dante, Bruno, Leonardo, Shakespeare ("il più
grande dei poeti"), Goethe, Schopenauer, Leopardi, Nietsche. Trentadue pubblicazioni,
nel giro di quattro, cinque anni, partorì da questi studi.
GLI ULTIMI ANNI
Nel 1941 De Lorenzo fu collocato a riposo, ma la Facoltà di Scienze e l’Istituto
orientale di Napoli non rinunciarono alla sua preziosa opera didattica. Che lo scienziato
offrì con la consueta generosità. La guerra, però, la guerra mondiale e le immense
rovine che lasciava dietro di sé lo coinvolgevano notevolmente. Il filosofo, lo
scienziato, il letterato De Lorenzo si chiudeva in se stesso e sempre più spesso si
rifugiava nella contemplazione della natura. Nel ‘45 il Giappone si arrese senza
condizioni, dopo le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Orrore degli orrori. Un episodio che lo sconvolse e che gli fece scrivere:
"Ritirandomi, quindi, sempre più in me, trovo che la migliore luce del mio spirito
m’è venuta dalla dottrina del Buddha Sakyamuni; la quale ha proclamato che
nel mondo "arcano è tutto, fuor che il nostro dolor" e ne ha indicato, come
Gesù, la via della salvazione. Non posso, quindi, che ripetere quel che ho scritto
nell’introduzione agli "ultimi giorni di Gotamo Buddho" che cioè, quella dottrina
è stata per più di mezzo secolo il conforto della mia vita e sarà, mi auguro, la
consolazione della mia morte".
Continuò a studiare, a scrivere, attività che considerava una vera e propria catarsi
spirituale. Pubblicò nell’arco della sua intensa vita 250 opere.
Giuseppe Giovanni Angelo De Lorenzo, colui che aveva fatto conoscere nella prima
metà del Novecento, in tutto il mondo, un paese sperso fra gli orridi dell’Appennino
meridionale, chiamato Lagonegro, e una negletta regione chiamata Lucania, morì a
Napoli, sua città d’adozione, il 27 giugno 1957. Da Mosca a Tokyo, da Londra a Parigi,
da Vienna a Berlino a Stoccolma e Katmandu, era considerato un grande maestro di
scienza, letteratura e filosofia. A Napoli, nell’Università Federico Secondo, la sua fama
in vita fu immensa. Tutti ammiravano il Professore di Lagonegro. Il maestro che, con
elegante e semplice linguaggio, rendeva facili gli argomenti più ostici, lo studioso che,
con la ricchezza delle citazioni classiche e con lo spessore di un sapere infinito,
attirava alle sue lezioni i giovani, il filosofo che avvinceva gli studenti con le grandi
visioni della vita e con i voli fantastici che spaziavano dalla poesia all’arte, dalla
filosofia alla scienza.
A testimoniare oggi tanta grandezza e personalità sono rimasti i numerosissimi saggi
da lui scritti. Sono a disposizione di chi è ancora scettico sull’uomo -scienziato,
filosofo, linguista, letterato, filologo- De Lorenzo.
Da Lagonegro. Lucania.
Lavoro a cura della rivista “Basilicata – Regione - Notizie”
STORIA DELLA CITTÀ DI LAGONEGRO
(Comm. Avv. Carlo Pesce)
CAPITOLO XII
Agricoltura, Industria e commercio
L'AGRICOLTURA E LE CAUSE DELLA SUA DECADENZA.
SISTEMA DI COLTIVAZIONE DELLE TERRE
Mi duole dover premettere a questo importante argomento che nessuno dei tre
principali fattori della prosperità e della ricchezza d’un popolo - agricoltura, industria e
commercio - abbia in Lagonegro considerevole sviluppo; e se nel passato fiorì qualche
industria, anche questa è tramontata miseramente.
Sia per la montuosità ed accidentalità del territorio, sia per la sua altimetria, sia per la
scarsa fertilità e la natura del suolo, sia per l’inclemenza del clima, sia per la
mancanza di lavoratori e d’operai, sia per l’elevatezza dei salari, sia, infine, per
deficienza di spinta e d’iniziativa, da parte dei cittadini per ogni ardita impresa,
l’agricoltura langue miseramente, e deplorevole è la condizione del proprietario di
terre, il quale, scoraggiato pei scarsi guadagni e per le perdite subite, spesso
abbandona ogni coltura o la riduce al più stretto necessario.
Oltre a ciò, sono concorsi, in gran parte, alla decadenza dell'agricoltura vari altri
fattori, che sono generali per le provincie meridionali, come il brigantaggio,
l’emigrazione ed i gravosi balzelli.
Vero è che anche prima dell’unificazione d'Italia, per mancanza di buon servizio di
sicurezza pubblica e per la miseria invadente, le nostre campagne erano percorse ed
infestate da malviventi, i quali depredavano e massacravano; ma principalmente
crebbe ed infierì la tremenda lue all’alba del nuovo regno, che spuntò sul nostro
orizzonte fosca e minacciosa.
I tristi orrori del brigantaggio, che fu figlio della più insana reazione, afflissero
tremendamente anche le nostre contrade, coi più nefandi delitti, coi massacri degli
uomini e delle bestie, con gli incendi delle masserie e dei tuguri, coi furti e con le
rapine, coi ricatti perpetrati audacemente fin nei paesi e nelle abitazioni, cogli oltraggi
all'onore delle donne e delle famiglie, e col favore e l’aiuto dei manutengoli, tennero
lontano dalle terre i padroni ed i coloni.
Le proprietà rurali rimasero perciò abbandonate e deserte, le campagne incolte, la vita
civile quasi sospesa e le comunicazioni tra paese e paese interrotte e spezzate,
mentre gli odi e i rancori crebbero fieri ed implacabili.
Appena l’ordine fu ristabilito alla meglio, e si cominciò a respirare un pò di libertà
civile, tra per la miseria prodotta dalle passate vicissitudini, tra pel desiderio di miglior
fortuna, cominciò il triste esodo dei contadini e dei proprietari per le lontane regioni
d'America, e così prima il brigantaggio e poscia l’emigrazione congiurarono ancora di
più a danno dell'agricoltura.
A questi mali si aggiunse la voracità del Fisco, che con tasse e balzelli ha oppresso il
proprietario, al quale son mancati perfino i mezzi per la coltivazione delle terre; e
mentre in Italia s' è avuta una colluvie di leggi a favore degli impiegati d'ogni ceto,
non si è mai convenientemente provveduto a favore dei proprietari di terre, ai quali,
per giunta, s' è data ingiustamente la taccia d'assenteismo.
In tale stato di cose la maggior parte delle terre o sono rimaste incolte, o sono
coltivate assai superficialmente ed imperfettamente, o sono lasciate alla libera
vegetazione degli alberi e dei prati naturali. Bisogna però riconoscere che in questi
ultimi anni, sia per lo sviluppo del commercio, delle industrie e della viabilità, sia per
un certo aumento della ricchezza sociale, sia per effetto della legge sulla Basilicata,
anche le terre hanno subito un rialzo di valore, i fitti d'esse sono sensibilmente
cresciuti ed il proprietario potrà forse essere in qualche modo rivalso delle ingenti
perdite e dei sacrifici sofferti per il lungo passato.
Per quanto riflette il sistema della coltivazione delle terre esso è assai rudimentale, ed
affidata principalmente all'aratro di legno ed alla zappa comune a doppio taglio od a
bidente, così come furono ereditati dagli antichi. Poco sono in uso gli strumenti
perfezionati moderni, le macchine agrarie ed i concimi chimici, nei quali si ha poca
fede perché male sperimentati.
La classe degli agricoltori è priva, in massima parte, d'ogni conoscenza d'agronomia,
né meritano grave taccia i proprietari, se, incalzati da incessante crisi agraria e dalla
mancanza di braccia per la coltivazione della terra, non si son curati di dare efficace
impulso alle riforme agrarie.
I VIGNETI ED I VINI
LA MOSTRA ENOLOGICA DEL 1890
I migliori terreni e più pianeggianti sono coltivati a vigneti, a cereali, ad ortaggi ed a
frutteti.
Le viti sono sposate a grossi pali e producono discrete qualità d'uve come quelle dette
volgarmente aglianico, zagarese, pinò, uva della marina, linguarda, nevurama, ecc.
I vini, confezionati con sistemi pressoché biblici, hanno poca forza alcoolica ed un
certo grado d'acidità, né sono adatti a lunga conservazione ed al trasporto, ma son
buoni pel pasto, ed in questi ultimi tempi hanno subito considerevole miglioramento
sia per la coltivazione delle viti, sia per la vinificazione. Tuttavia i vigneti richiedono
ingenti lavori con spese spesso superiori al reddito effettivo, onde corre l'adagio
volgare: “la vigna è tigna”.
Nel Settembre 1890, ad iniziativa del Comizio Agrario, ebbe luogo a Lagonegro una
mostra enologica Circondariale, nella quale furono esposti ben 70 qualità di vini,
provenienti da 60 proprietari del Circondario, e furono assegnati dal Ministero di
Agricoltura vari premi, alcuni dei quali spettarono ai vini di Lagonegro per la buona
qualità se non per la quantità.
I CEREALI GLI ORTAGGI ED I FRUTTETI
I cereali coltivati a preferenza sono: la giurmana, la carosella, la saraolla, il marzullo,
ecc, oltre delle biade e degli orzi. Il reddito è assai scarso, ed oscilla dal doppio al
sestuplo della semenza e raramente si va più in là.
In ordine alla produzione dei cereali, trascrivo qui alcuni dati desunti da una
deliberazione del Decurionato dell'11 luglio 1860 in risposta alle notizie chieste dal
Governo:
Questo Comune anche negli anni più ubertosi, non ha mai potuto fare l’intera
provvista per i bisogni della popolazione, e tanto meno può giungervi in quest’anno.
La raccolta dei grani duri seminati può ascendere a circa tomoli 960; dei grani teneri
circa 9000, di segala circa 7500, orzo circa 5200, avena 7500. Ai bisogni quindi della
popolazione possono mancare di grano circa 6000 tomoli e di biada altri tomoli 4000.
Quelle cifre di produzione d'allora sono scemate considerevolmente per le ragioni
dette innanzi, e la produzione e forse ridotta alla metà, mentre la popolazione è
rimasta quasi stazionaria, onde i bisogni annuali d'importazione sono assai aumentati.
Scarsi sono gli ortaggi ed i legumi per la mancanza di terreni irrigatori, ed ancora più
scarsi sono i frutteti, che, per lo più, sono coltivati in mezzo alle viti negli arbusti; anzi
si può concludere che in tutto il territorio non si producono ne vini, ne cereali, ne
frutti, ne verdure, ne legumi in quantità sufficiente ai bisogni della popolazione, e tutti
questi generi di prima necessità vengono importati dai paesi vicini e principalmente
dalle Puglie e dal Vallo di Diano, per cui in ogni Domenica si ha in piazza un ricco
mercato per le necessarie provvigioni delle famiglie.
LA CATTEDRA AMBULANTE D'AGRICOLTURA
Con la legge a favore della Basilicata del 31 marzo 1904 e con l’istituzione delle
cattedre ambulanti d'agricoltura, viticoltura, enologia, caseificio e zootecnia pareva e
si sperava che dovesse sorgere per le nostre terre quasi una nuova età di floridezza, e
Lagonegro, invaso forse da eccessivo zelo per avere la sede della Cattedra assegnata
al Circondario, non risparmiò agitazioni e spese, e così, acquistando il podere
sperimentale e donandolo allo Stato, ottenne una Sezione della Cattedra, stabilita a
Chiaromonte. Ma i benefizi conseguiti da questa istituzione sono stati, almeno per i
primi tempi, assai scarsi, e l’agricoltura paesana di poco se n'è avvantaggiata. Certo,
per quel che s'è detto innanzi, il nostro suolo non potrà mai mutar natura e
conformazione agricola, ne sarà mai un Eden di delizie agricole, ma un considerevole
miglioramento si potrà avere nella coltivazione delle terre e nella produzione di esse.
LA PASTORIZIA E LE CAUSE DELLA SUA DECADENZA
Strettamente connessa all'agricoltura e la pastorizia, la quale pel passato ebbe un
considerevole sviluppo per gli estesissimi pascoli, e costituì la maggiore ricchezza del
paese.
(S’apprende da Cassiodoro che la Lucania, regione eminentemente agricola, fu
sempre fertile di pascoli squisiti e feconda di porci, di cinghiali e viepiù di mandrie e,
che era tenuta a somministrare alla casa d’Augusto le carni. È pure risaputo che le
salsicce erano una produzione tutta Lucana, onde erano dette lucanicae).
Riferisce lo storico patrio Falcone che ai tempi suoi, verso la metà del secolo XVIII, nel
territorio di Lagonegro pascolassero ben 200 mila armenti, la maggior parte pecorini,
che quantunque piccoli di statura, sono però gentili e danno lana di buona qualità,
molto ricercata nei mercati.
Se quella cifra è assai esagerata, (e nel manoscritto originale si vede pure abrasa)
rivela l’importanza di quell’industria e la feracità dei pascoli, ricercati anche
dai forastieri.
Gli antichi nostri avi erano in gran parte massari e foresi, e dall’industria armentizia
trassero le loro modeste ricchezze. Le mandrie numerose di pecore, capre, vacche e
bovi, trovavano da Giugno a Novembre, nel nostro territorio, sui nostri monti, ottimi
pascoli estivi, ed acque abbondanti e terse, e nell’inverno passavano nelle marine del
Ionio a Montalbano, a Tursi, a Favale, a Cassano, come avviene tuttora per quei pochi
armenti rimasti. Mai frequentarono il Tavoliere di Puglia, ed è risaputo che la
Basilicata, meno una piccola parte, non volle mai dipendere dalla R. Dogana di Foggia
ne dalla Doganella d'Abruzzo.
Ora anche l’industria armentizia è ridotta in miserevoli condizioni, e le cause possono
rintracciarsi, oltreché nella decadenza dell’agricoltura, nei tempi e nei costumi
ingentiliti , nelle gravi perdite subite dai proprietari, nella mancanza di pastori e nei
gravi pesi fiscali, onde fu saggio provvedimento abolire, con la
legge sulla Basilicata, la tassa sul bestiame del 1906.
LA MOSTRA ZOOTECNICA DEL 1892
Nel Settembre 1892, per iniziativa del Ministero d'Agricoltura e col concorso del
Comizio Agrario, ebbe luogo in Lagonegro un’esposizione Circondariale di bestiame
bovino, ovino e suino con lo scopo non solo di premiare i migliori allevatori, ma altresì
di rilevare le vere condizioni dell'industria zootecnica e di porgere gli elementi di un
sollecito miglioramento. Nella Mostra, tenutasi nella piazza grande, furono esposti 49
animali bovini da 10 allevatori, 31 arieti e 199 pecore da 14 allevatori, ed i risultati,
almeno per le premiazioni concesse, furono molto soddisfacenti (dalla relazione della
mostra del prof. Baldassarre al Ministero d’Agricoltura).
IL CENSIMENTO DEL BESTIAME DEL 1908
Tuttavia, d'allora l’industria zootecnica ha subito anche maggiore diminuzione, ed i più
grossi proprietari o l'hanno smessa del tutto, o l'hanno ridotta a minime proporzioni
per la coltivazione delle proprie terre. Nel censimento ufficiale del bestiame
del 19 marzo 1908 furono denunziati e ritenuti 49 cavalli, 119 asini, 76 muli, 462
bovini; 481 porci, 3049 pecore e 2700 capre, ma bisogna por mente che in quel
tempo molti animali bovini ed ovini erano ai pascoli invernali delle marine fuori del
territorio di Lagonegro, forse altrettanti, e che, secondo il solito, dai proprietari si
cercò nascondere il numero esatto dei propri armenti per paura delle imposte.
Presentemente, da calcoli da me fatti con una certa approssimazione, risulta che le
pecore ascendano a circa 10 mila, le capre a circa 3 mila e la partita più grossa d'ovini
a 2000 capi, e che i bovini ascendano a circa 800, e giova sperare in un lodevole
incremento per l'avvenire.
LE INDUSTRIE DEI CAPPELLI E DEI PANNI DI LANA
Floridissime e rinomate erano pure nei tempi passati le industrie paesane dei cappelli
e dei panni di lana, che costituivano la fonte principale della ricchezza cittadina e la
risorsa delle famiglie.
Agli albori dell'unificazione italiana si noveravano in Città circa un centinaio di
fabbriche o botteghe di cappelli, alle quali erano addetti circa trecento operai. I
cappelli ivi confezionati con pura lana delle pecore paesane, acuminanti od a cono
tronco, erano esportati in grande quantità nei paesi vicini e lontani, per lo
più nelle provincie di Calabria, di Salerno e di Potenza, e si vendevano al mite prezzo
di 2 carlini l’uno (cent. 85).
Oltre dei cappelli ordinari pei contadini, venivano pure confezionati cappelli fini di pelo
di lepre e di seta, che furono pure mandati all'Esposizione industriale tenuta in Napoli
nel 1830 ed ebbero buona accoglienza.
LA SOCIETÀ DEI CAPPELLI DEL 1858
Nel 1858 si tentò pure una specie di alleanza delle fabbriche dei cappelli: 56
fabbricanti s’obbligarono con atto pubblico di vendere tutti i cappelli di loro
fabbricazione esclusivamente ai signori Gennaro Picardi e Gennaro Giliberti al prezzo
di ducati 2,60 (L. 11,06) la dozzina, ma l'impresa non ebbe buon successo e la Società
dopo pochi anni si sciolse.
Si calcola che ogni operaio confezionava 6 cappelli al giorno ed essendo 300 gli operai
s'aveva una produzione media di 1500 cappelli al giorno, che non era facile ed agevole
potere esitare.
INDUSTRIE CASALINGHE
Numerosi erano pure nelle famiglie i telai per la fabbricazione dei panni di lana, di
cotone e di lino, ai quali erano addette le donne, giovani e vecchie. I panni di lana
erano esportati e venduti in gran quantità nei paesi vicini, e da quel lavoro tutto
casalingo, che rendeva belli guadagni, molte famiglie trassero la loro agiatezza.
Presentemente l’industria dei cappelli è estinta, perché essa non ha subito nessun
perfezionamento, ne ha potuto resistere alla concorrenza delle grandi fabbriche, e,
d'altra parte, piace più al contadino, pur esso ingentilito nei costumi e negli indumenti,
usare i cappelli morbidi e fini delle città.
Permangono ancora pochi telai nelle famiglie, e 5 o 6 filande, alcune mosse dalla
corrente elettrica, che producono discrete quantità e qualità di panni di lana pesanti e
resistenti, che si consumano non solo in paese, ma sono pure esportati e venduti in
molte fiere dei paesi meridionali.
Si confezionano pure in alcune famiglie delle tele di lino e di cotone per biancheria,
che se non raggiungono la finezza e perfezione delle grandi fabbriche, sono pure
buone e resistenti.
Altre industrie importanti non vi sono in paese oltre dei soliti negozi, per comodità e
consumo della popolazione, nei quali non manca tutto ciò che occorre al ben vivere
sociale ed anche al lusso invadente.
E qui è uopo soggiungere che all'Esposizione di Milano del 1906 vari produttori
Lagonegresi mandarono non solo lane gentili, formaggi, legnami e liquori (Nettare
Sirino), ma pure panni di lana confezionati nelle filande paesane, ed ottennero premi
ed incoraggiamenti nella Mostra collettiva della Basilicata, per la quale fu costruito, nel
recinto dell'Esposizione, un apposito chiosco per la vendita dei prodotti lucani (Vedi il
numero unico per la Basilicata all’esposizione di Milano, anno 1906).
IL COMMERCIO E SUE CONDIZIONI
NEL PASSATO E NEL PRESENTE
Poco ci resta a dire in ordine al commercio, che, se è scarso generalmente in
Basilicata, in Lagonegro langue addirittura. Il cittadino Lagonegrese, come s'è detto
innanzi, non è fornito di sufficiente dose d'audacia e d'iniziativa, che sono
indispensabili nell’attività della vita, onde il commercio non ha avuto, ne ha grande
sviluppo, e spesso vengono e vi si stabiliscono dei forestieri per esercitare, con
profitto, industria e commerci, negozi, alberghi, bettole e simili, mentre il paesano
assiste, quasi indifferente, al movimento e preferisce tenere depositati al sicuro ed
impiegati i suoi danari al Debito Pubblico e sulla Cassa Postale. Spesso poi sono
tornati in patria dall’America dei cittadini che hanno esercitato colà industrie e
commerci proficui con buoni guadagni, e qui, forse perché Sirino incombe su tutti
come cappa di piombo, si diventa lassi ed ignavi.
Tuttavia, se i cittadini non sono troppo dediti agli atti di commercio, la Città, per la
sua posizione topografica, è stata ed è centro di considerevole movimento
commerciale e traffico.
Prima della costruzione delle ferrovie meridionali, non esistendo altra via di
comunicazione che l’antica strada delle Calabrie, per essa dovevano necessariamente
svolgersi il traffico ed il commercio delle provincie verso la Capitale, Napoli, ed in
continuazione si vedevano transitare carri e carrozze, che all'ingresso d'ogni paese
trovavano comodi alberghi e stalle. Ma quel commercio era assai disagevole e costoso,
e si viaggiava, dai più, per estrema necessità, anzi soleva dirsi che prima di partire
bisognava farsi il testamento e pensare ai casi propri. Oltre del procaccia, che
raccoglieva dalle provincie le pesanti monete di metallo del Fisco e le portava in Napoli
su d'un carretto scortato dai Gendarmi, passava per la strada delle Calabrie, prima
una volta per settimana, e poi ogni giorno, la diligenza postale, che portava la
corrispondenza con pochi passeggeri da Napoli fino a Reggio e viceversa. Apertesi le
nuove comunicazioni ferroviarie, il traffico ed il commercio si sono andati esplicando di
grado in grado, e Lagonegro, che dal 1892 è stato capolinea e sbocco della ferrovia, è
stato centro d'affluenza per molti Comuni del Circondario, né, è dato prevedere che ne
sarà dopo l’apertura della nuova costruenda ferrovia a sistema ridotto da Lagonegro a
Castrovillari.
Un considerevole sviluppo ha preso da alcun tempo nella nostra Città il commercio del
legname, che, tagliato nei boschi e ridotto a carboni, a legno da costruzione ed a
traverse è trasportato lontano per la ferrovia, Anche le castagne, che forse sono
l’unico prodotto mangereccio d'esportazione, sono ricercate e spedite dagli incettatori,
e danno ad ogni proprietario discreti guadagni.
Intanto giova far previsioni ed auguri che, pei cresciuti mezzi di viabilità, per quel
generale progresso verso nuovi orizzonti di civiltà e di benessere, cogli aiuti della
Cattedra ambulante e col buon volere dei cittadini, l’avvenire, anche in ordine
all’agricoltura, all’industria ed al commercio, sia più prospero ed onorevole per la
nostra Città.
IMPORTANZA GEOLOGICA DEL TERRITORIO
E ORIGINI D’ESSO
Se poco pregio ha il territorio di Lagonegro dal punto di vista agricolo, maggiore
importanza esso presenta sotto l'aspetto geologico, paleontologico e mineralogico,
studiato prima dal valente ed eroico Leopoldo Pilla, il quale fu in questi luoghi nel
Maggio 1838 e ne riferì in apposita pubblicazione, e poscia dall’illustre nostro
concittadino Prof. Giuseppe De Lorenzo, il quale coi suoi diligenti studi e con svariate
pubblicazioni ha rischiarato di vivida luce queste contrade.
I terreni che costituiscono la superficie della Basilicata appartengono, al dir dei
geologi, all'epoca mesozoica e neozoica, la quale comprende quei terreni nei quali si
riscontrano dei resti di animali antichissimi d'un tipo affatto estinto, come lucertole
gigantesche, rettili oceanici, e poscia il Mammouth o elefante primigenio, il
Rinoceronte, l'Orso, la Iena, il Tigre di mole gigantesca, ed altri animali ora scomparsi
dovunque. Prima di tale epoca i tre mari Adriatico, Tirreno e Jonio erano confusi, e la
Basilicata era sommersa nei profondi abissi oceanici. Coi primi sollevamenti emerse
l'Appennino col nostro Sirino e coi suoi maggiori contrafforti, determinando i primi
torrenti.
L'era neozoica è pure notevole per l’abbondante sviluppo dei ghiacciai, di cui
l’esistenza è stata pure accertata sul Sirino pel deposito lasciatovi delle morene
interessantissime.
Seguì poscia l’epoca antropozoica, che segna la comparsa dell’uomo sulla terra, del
quale si riscontrano sicure vestigia solo nel periodo postglaciale. Anche avanzi
fossilizzati di questi animali si sono riscontrati nel territorio di Lagonegro dal
Professore De Lorenzo.
Uscirei dai limiti propostimi se volessi qui descrivere il territorio di Lagonegro nella
parte geologica; per chi ha vaghezza di simili studi si può riscontrare la Guida
Geologica dei dintorni di Lagonegro del De Lorenzo, dalla quale trascrivo solo la parte
stratigrafica (pag. 6):
“Le montagne più alte e più grandi dei dintorni di Lagonegro, che si stendono a nord e
ad est del paese e formano lo spartiacque appenninico, sono essenzialmente costituite
dai terreni del trias, e propriamente quelli del trias medio, a cui solo qua e là si
sovrappongono accessoriamente piccoli lembi appartenenti a piani mesozoici più
elevati nella serie stratigrafica. Invece i monti del versante Tirreno, che si addensano
ad ovest e a sud di Lagonegro, sono nella loro gran massa formati da rocce del trias
superiore, del lias e della creta, sotto cui solo subordinatamente in pochi punti
affiorano le rocce più antiche. Le valli e le depressioni sono poi generalmente riempite
da materiali terziari appartenenti all'eocene superiore, a cui qua e là si aggiungono a
volte piccoli lembi di terreni quaternari”. E non credo d’aggiungere altro in tale astrusa
materia.
GLI SCHISTI SILICEI DELLE CARBONCELLE, LE MORENE DEL
SIRINO ED IL LAGO PLEISTOCENICO DEL FIUME SERRA
MINERALI
Non va però omesso uno spettacolo singolare e bellissimo, che s’ammira anche dal più
profano presso il paese, lungo la strada delle Calabrie, nel taglio artificiale presso il
ponte Carboncelle sul fiume Serra. Ivi si osservano molti strati silicei, che sembrano
quasi distaccati dal sovrastante monte Castagnareto. Questi strati sottili ed uniformi,
tagliati verticalmente dalla mano dell'uomo per la costruzione della strada,
presentano, in breve spazio, delle alternanze bellissime dei più vivi e svariati colori,
rosso, giallo, verde, violaceo, nero e simili; e lo spettacolo è reso ancora più pittoresco
dal corso del fiume che si dibatte nelle profonde forre gorgogliando cupamente.
Evidentemente quegli strati, che in origine erano in posizione orizzontale, si
conformarono a gradi a gradi per millenni nel fondo dei mari col deposito successivo di
sostanze schistose e di fossili, e poscia emersero dalle onde e furono spinte in alto da
ignote forze tettoniche. Tutti questi schisti - scrive il De Lorenzo - sono costituiti da
innumerevoli scheletri silicei di radiolarie e portano spesso sulla superficie degli strati
avanzi di fucoidi.
Sono poi rinomate, nel gruppo del Sirino, varie morene, le quali depongono
irrefragabilmente dell'esistenza d'antichi ghiacciai in queste basse latitudini
dell'Appennino. Una di queste morene occupa ora la Valle del Cacciatore, compresa tra
la Spalla dell'Imperatrice a oriente e le propaggini settentrionali del Sirino ad
occidente, e si presenta come un lungo cordone detritico sorpassante i 1600 m di
lunghezza con una larghezza media di 100, ed uno spessore di 80 m.
Un altro ghiacciaio occupava la stretta valle situata a sud del monte Papa, dove ha
lasciato una morena molto interessante perché può abbracciarsi con lo sguardo tutta
d'un colpo e se ne può studiare l’intima costituzione; e finalmente il terzo ghiacciaio, il
più importante per la sua massa e per la grandezza della morena depositata,
scendeva dalle alte cime del monte Papa, si incassava nella maestosa valle del Lago
Remmo, e s'estendeva per circa 4 chilometri a nord fino alla valle di Petinapiana, e la
morena terminale si protende per una lunghezza di quasi 2 mila metri con una
larghezza media di 400 metri.
Interessante è pure geologicamente il ricordo dell'antico lago pleistocenico, che
s'espandeva lungo il corso del fiume Serra tra il Timpone Rosso e il Monte Iatile
attorno alla rupe dolomitica del Castello, la cui cima si specchiava nel piccolo bacino
lacustre, l'emissario del quale si scaricava poco più a sud nel Noce, ed approfondendo
sempre più il suo corso, produsse infine lo svuotamento completo.
A testimonianza dell'antico laghetto rimangono i conglomerati, le sabbie e i fanghi su
cui ora sorge la stazione ferroviaria di Lagonegro. Dopo la scomparsa del lago, il Serra
continuò a scavare nelle rocce triassiche il suo corso per una profondità d'oltre 100
metri al di sotto dell'antico fondo d'esso. (Vedi la Guida Geologica dei dintorni di
Lagonegro del prof. De Lorenzo. (Roma 1898) e Reliquie di grandi laghi pleistocenici
nell’Italia Meridionale dello stesso illustre autore. Napoli 1908).
Per quanto riguarda infine la parte mineralogica, assicura il nostro Falcone che in
contrada Niella esisteva una miniera di ferro, il quale veniva di là estratto e poi
lavorato nell'opificio detto appunto Ferriera lungo il corso del fiume Serra, e che in
contrada Colla si trovassero pure miniere di talco e di lapillo, materia cretosa, egli
dice, che serve per fare pavimenti allo scoperto, acciò possano resistere ai
geli, ai quali siamo soggetti. Oggi non si trovano più tracce ne di ferro, ne di talco, ne
d'altri minerali, e le materie cretose della Colla non sono che un pessimo terreno di
coltivazione.
IL CONGRESSO GEOLOGICO DEL 1898
Per la sua importanza geologica Lagonegro fu sede, nel Settembre 1898, del
Congresso della Società Geologica Italiana. I congressisti, una trentina, venuti da
tutte le parti d'Italia, furono dal Comune e dalla popolazione bene accolti ed ospitati
nei locali della Scuola Normale, e compirono con vivo entusiasmo varie escursioni
scientifiche sui monti Arenazzo, Foraporto, Milego, Sirino, Papa, Monticello, Roccazzo,
Bitonto ed al lago Sirino (Vedi il Resoconto dell'adunanza estiva tenuta dalla società
Geologica Italiana nel Settembre 1898 In Lagonegro).
E qui mi sia consentito di trascrivere alcuni brani del mio discorso, pronunziato, quale
Sindaco della Città, nell'adunanza inaugurale del 6 Settembre, ed inserito negli atti
della Società, allora presieduta dal Prof. Bassani dell'Università di Napoli.
“Per noi, profani delle scienze naturali, questi monti e queste balze, da cui siamo
circondati, e che formano l'usato, quotidiano nostro spettacolo, sono muti ed
incompresi; quelle pietre sono inerti ed infeconde; i macigni non hanno altro pregio
che il ricordo e la testimonianza delle passate glorie e sventure cittadine; il monte
Sirino, pur anco il nostro pittoresco padre Sirino, che ci sta quasi a cavaliere, non è
conosciuto ed ammirato da noi che nel suo verde ammanto estivo, o nella sua nivea
veste d’inverno”.
“Per voi la scena della natura è ben differente; per Voi, che osate penetrar con lo
sguardo nelle inesplorate viscere della terra; per Voi che osate scomporre ed
analizzare quelle pietre nei loro primitivi elementi; che potete stabilire con tutta
precisione la loro conformazione ed il loro succedersi; che riscontrata perfino nel seno
dei macigni avanzi di piante e d'animali, ora non più esistenti; per Voi, o Signori,
quelle pietre parlano un linguaggio sublime, misterioso, ed in esso troverete la
migliore soddisfazione, il maggiore conforto che possiate desiderare.