Giuseppe De Lorenzo-Agricoltura nel tempo e nella storia (PDF
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Giuseppe De Lorenzo-Agricoltura nel tempo e nella storia (PDF
Giuseppe Giovanni Angelo De Lorenzo (Lagonegro, 24 aprile 1871 – Napoli, 27 giugno 1957) è stato un geografo e geologo italiano, docente presso l'Università di Napoli. Si occupò anche di indologia e divulgò in Italia la conoscenza del Buddhismo. Fu socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei. OPERE PRINCIPALI - Le montagne mesozoiche di Lagonegro (1894) Studi di geologia nell'Appennino meridionale (1896) Geologia e geografia fisica dell'Italia meridionale (1904) La terra e l'uomo (1919) L'Elephas antiquus nell'Italia meridionale (1927) Un genio del Novecento italiano ed europeo, conosciuto ed apprezzato fin nel lontano Giappone, misconosciuto nella sua terra natale, la Lucania. A Lagonegro, dove nacque, una volta c’era una targa di pietra che lo ricordava. Fu posta dalla Società Geologica Italiana, nel 1957, tre mesi dopo la morte di De Lorenzo. Faceva bella mostra di sé nei pressi del ponte Cararuncedde, sulla statale 19 delle Calabrie, la strada che collegava Salerno a Reggio. Poi, fu costruito un nuovo tracciato della strada e si sfondò la montagna perché una galleria l’attraversasse. La targa fu frantumata e i pezzi dispersi. Nessuno sa dove siano. La Società Geologica Italiana non ha però dimenticato il suo grande socio. E di tanto in tanto, attraverso convegni e seminari di studio, ne celebra le gesta letterarie, filosofiche e scientifiche. Giuseppe Giovanni Angelo de Lorenzo nacque a Lagonegro nel 1871, il 24 aprile. La madre, Carolina Rinaldi, era di famiglia agiata che fin dai tempi di Napoleone gestiva un’impresa per il trattamento delle stoffe, una gualchiera, e un mulino nei pressi del torrente Serra. Suo padre, Lorenzo, era impiegato dell’ufficio telegrafico del paese. Giuseppe prima di imparare a camminare andava carponi, si muoveva a quattro zampe, a contatto pieno con la terra: guardava, toccava, osservava, palpava e afferrava gli oggetti. Un giorno, in braccio al padre, percorreva a cavallo la mulattiera che portava a Maratea e, per la prima volta nella sua vita, vide il mare. Dopo qualche anno raccontò così questo viaggio: ..ai miei occhi apparve una cosa nuova, mirabile, portentosa che è rimasta poi nella mia mente indelebilmente impressa con l’immagine di quella prima visione: una distesa infinita, cerulea, che in suo giro lontano confinava col cielo: il mare, e all’orizzonte un cono: "Ecco lo Stromboli" disse mio padre, e cercò di spiegarmi quella essere una montagna cinta dal mare, la quale dalla sommità caccia fuoco e fumo. Il suo nome… e l’idea di quel fuoco sotterraneo, acceso tra mare e cielo, destava in me una sorpresa estatica, uno stupore, un’ammirazione grandissima. A tredici anni Giuseppe perse il padre. La madre, amatissima, era scomparsa sette anni prima. Si trovò da solo. Fu aiutato da amici di famiglia cui rimase molto legato. L’inclinazione per le ricerche naturalistiche e geologiche cominciava già a farsi strada. Ma pur seguendo la sua passione scientifica, non tralasciò mai gli studi di approfondimento delle antiche civiltà, delle lingue classiche, della letteratura italiana e internazionale, delle discipline storiche e filosofiche. Quella visione del mare e dello Stromboli non l’abbandonava. Voleva capire. E ancora studente, per osservare cosa fosse un vulcano attivo e spento, salì più volte sul Vesuvio, ascese all’Etna, si recò sul Vulture, cercò di spiegarsi i fenomeni delle solfatare e delle stufe di Pozzuoli, delle fumarole, delle mofete e delle putizze dei campi Flegrei, delle sorgenti termali di Agnano. Cercò di comprendere le cause del vulcanismo. Scrisse ventotto libri sull’argomento. E sintetizzò il suo pensiero nel volume "Terra madre" pubblicato a Bologna, da Zanichelli, nel 1920. De Lorenzo non aveva che ventuno anni quando pubblicò, sulla rivista dell’Accademia dei Lincei, le Osservazioni geologiche nei dintorni di Lagonegro. Un lavoro sulla regione compresa fra il Vallo di Diano e il massiccio del Pollino. Ne estrapoliamo un brano: "Qui le cause orogenetiche hanno innalzato al cielo i superbi colossi, ammantati di neve l’inverno, profumati dai fiori l’estate, slanciando in curve maestose le rigide rocce, stipando in pieghe fittissime gli strati argillosi, spezzando e spostando masse enormi di materiale sedimentario, mentre l’acqua e l’aria, nei loro componenti e nelle loro modificazioni, lavorano quietamente e incessantemente a modellare da artefici puri quello che l’orogenesi ha grandiosamente abbozzato. Effetto mirabile di questo avvicendarsi di forze è il paesaggio che, se può colpire nei suoi lineamenti superficiali l’occhio di chiunque ha sentimento estetico, solo però all’occhio e alla mente del geologo rivela le sue sfumature più delicate, le sue linee più ardite, i suoi mirabili toni di forma e di colore. Pel geologo ogni abisso pauroso, ogni musicale cascata, ogni morbida collina ha un significato, un’intenzione, una vita speciale, verginalmente nascosta all’occhio dei profani, e pel geologo, che vi abbia studiato, il paesaggio dei dintorni di Lagonegro costituisce un quadro di meravigliosa fattura, le cui singole parti concorrono a formare un corpo armonioso, vibrante di un’onda caldissima di vita". Un esordio scientifico di grande efficacia letteraria che sarebbe piaciuto anche ad Orazio di cui De Lorenzo era fervido ammiratore. Fossero stati coevi al tempo di Roma, Mecenate avrebbe aiutato anche il giovane scienziato come fece col figlio del liberto venosino. Se il preambolo del suo primo lavoro era lirico, il contenuto risultava ricco di notazioni rigorose e di osservazioni scrupolose. Il tutto reso in una prosa bella da leggere e perciò efficace e divulgativa insieme. Seguirono altri studi su Lagonegro e dintorni. Una mezza dozzina di pubblicazioni che contribuirono a fare luce sulla formazione, nei millenni, di una parte importante dell’Appennino meridionale, complicata da analizzare e interessante da studiare. Prima di scrivere De Lorenzo era solito girovagare in lungo e in largo per le zone oggetto dei suoi studi. Quando si occupava di geologia cresceva forte in lui il bisogno di "sentire" la materia, di toccarla, di padroneggiarla fisicamente. Aveva percorso, solitario esploratore, le aree più interne e più sconosciute del comprensorio di Lagonegro. Passeggiava, guardava, osservava, raccoglieva pietre e sedimenti. Si sedeva sulle rocce sotto le quali sprofondavano gli orridi montani. Si riposava sdraiandosi sull’erba dei pianori. Liberava il pensiero e, prima di prendere appunti, si lasciava andare alla speculazione filosofica, cercando incessantemente il tratto che unifica spirito e materia. Si laureò in Scienze naturali nel 1894, a Napoli, col massimo dei voti e con la lode. Aveva ventitré anni. Subito cominciò a pubblicare i suoi lavori. Un fiume. Tutti molto apprezzati dalla comunità scientifica. Giustino Fortunato, di casa a Napoli e nell’Università fondata da Federico II, si accorse del giovane genio, suo conterraneo. Volle conoscerlo. Lo invitò nel suo salotto insieme con quello di Benedetto Croce, molto frequentato dai nobili e dagli intellettuali partenopei. Lo apprezzò ancora di più. De Lorenzo si appassionò alla terra avita di Don Giustino. E cominciò a studiare, da par suo, la natura vulcanica di quelle plaghe fra Lucania e Puglia. Nel 1899 pubblicò una monografia: Studio geologico del Monte Vulture. Rigorosa sotto l’aspetto scientifico, bellissima nella prosa. Inizia così: "Chi scende dai nudi sassi dello scabro Appennino verso l’Apulia siticulosa, vede sull’orizzonte sorgere isolata e superba una montagna, che, nell’armonica semplicità delle sue linee, rivela un’origine del tutto diversa da quella dei monti, che le s’innalzano aspri di contro, e dei colli che si allungano con dolci ondeggiamenti alle sue falde. Ed infatti quella montagna, il Vulture, è un estinto vulcano, che nella pace dei boschi e dei campi e tra il murmure delle acque musicali già da tempo immemorabile dorme il suo sonno secolare". Alla pubblicazione dell’opera non mancarono i calorosi complimenti di don Giustino e don Benedetto. Proseguì per la strada intrapresa e, ancora giovanissimo, fece due sensazionali scoperte: l’una riguardante l’esistenza di terreni triassici in Lucania, l’altra relativa alla presenza di morene glaciali nel gruppo del monte Sirino. De Lorenzo si appassionò anche alla matematica, alla mineralogia, alla botanica, alla paleontologia, alla petrografia, all’astronomia. Lesse. Viaggiò con i libri, al Polo nord e al Polo sud. La fantasia lo portò nelle impenetrabili plaghe africane, nelle misteriose contrade dell’America settentrionale. Pubblicò monografie interessanti e ben illustrate a carattere divulgativo. Scrisse: - Campania, TCI, Milano, 1936; - Lucania, TCI, Milano 1937; - Venosa e la Regione del Vulture, Ist. It. D’Arti Grafiche Bergamo, 1906; - Guardando da Potenza, Potenza, 1907; - L’Etna, Bergamo 1907; - L’isola di Capri, Roma, 1907; - I campi Flegrei, Bergamo, 1909; - Il Vesuvio, Bergamo 1931.) BUDDISMO Scienza e filosofia si fusero ben presto nel genio ormai maturo di Lagonegro. De Lorenzo lesse e analizzò il pensiero di Talete, Empedocle, Eraclito, Democrito, Aristotele, Epicuro, Lucrezio, filosofi dell’antichità che cercarono di scoprire e spiegare il mistero della natura. Poi fu la volta di Giordano Giuseppe De Lorenzo Bruno e Leonardo da Vinci. Lesse e studiò Kant, Schopenhauer, Spencer. Ma l’incontro che diede una svolta formidabile alla vita di de Lorenzo fu quello con il geologo tedesco Emilio Bose. Percorreva con il collega le strade della Calabria e della Basilicata. Discutevano di scienza. Bose gli parlava anche di un indologo austriaco che stava traducendo alcuni libri che raccontavano delle opere di Buddha. De Lorenzo ne rimase colpito. Fece di tutto per conoscere l’Austriaco. Strinse amicizia con Karl Eugen Neuman, così si chiamava lo studioso dell’India. Trascorse con lui alcuni giorni a Vienna e sul Danubio, nel golfo di Napoli e a Lagonegro. Girarono per le montagne dell’Italia meridionale, e lavorarono insieme alla traduzione dei discorsi attribuiti a Buddha. Esplorare, una grande passione. Un bisogno, spesso. Così, per soddisfarlo De Lorenzo cominciò anche a viaggiare. Se ne andò lontano dalla sua terra. Utilizzò buona parte degli anni migliori per conoscere nuove genti, per imparare altri usi, per capire e raccontare altri costumi, per comprendere e analizzare altre filosofie di vita. Aveva trent’anni, pochi soldi e due scarpe robuste. Viaggiò. Come fece Marco Polo. Prese ad est. La magica via d’Oriente. Alla ricerca del mai visto, alla ricerca di una parte di sé, di quella parte che non tocca mai terra e non può essere confinata nelle viscere dei vulcani, o rinchiusa nei sedimenti planetari. Viaggiò. Penetrò in nuovi paesi, solcò mari ben più grandi di quello che bagna il golfo di Policastro. Conobbe gente poverissima e straordinariamente ricca, ignoranti senza futuro e persone coltissime senza boria e prosopopea. Fu affascinato dalla natura che si presentava ai suoi occhi. Salì ben oltre i duemilacinque metri del padre Sirino, l’immensa montagna che riempiva la sua infanzia. Si spinse ben più su, ben più su. Oltre i quattromila. Oltre i cinquemila. Oltre i seimila. E voleva proseguire ancora, ma il corpo si rifiutò -non lo spirito- di portarlo sul tetto del mondo. Attraversò la valle del Tibet, sforzandosi di andare sempre più in alto con lo sguardo, per giungere a posare l’occhio sulle cuspidi oltre gli ottomila che gli sfilavano davanti, come una possente, immensa processione bianca. Quant’era piccolo il padre Sirino al cospetto di quei giganti imbiancati. Oltre alle lingue europee che parlava perfettamente, De Lorenzo cominciò a studiare la lingua Pali e il Sanscrito. Si dedicò allo studio della filosofia e delle religioni orientali. Pubblicò una serie di articoli e di saggi per far conoscere in Italia e in Europa la dottrina di Buddha. "È questa una dottrina" sosteneva, "con la quale l’uomo può dare la soluzione al problema del dolore universale". Infine abbracciò il Buddismo, in modo totalizzante, come soltanto un uomo determinato e ricco di interessi e di passioni come lui poteva fare. Da quel momento anche nelle opere di carattere geologico e scientifico di De Lorenzo l’eco dello spirito di Buddha sarà sempre presente. Il riferirsi continuo alla filosofia orientale (cui non riconosceva un vero carattere di religione) moltiplicò la sua forza interiore. Si mise a studiare i geni dell’Occidente, da lui definiti "maestri di sapienza": Platone, Lucrezio, Dante, Bruno, Leonardo, Shakespeare ("il più grande dei poeti"), Goethe, Schopenauer, Leopardi, Nietsche. Trentadue pubblicazioni, nel giro di quattro, cinque anni, partorì da questi studi. GLI ULTIMI ANNI Nel 1941 De Lorenzo fu collocato a riposo, ma la Facoltà di Scienze e l’Istituto orientale di Napoli non rinunciarono alla sua preziosa opera didattica. Che lo scienziato offrì con la consueta generosità. La guerra, però, la guerra mondiale e le immense rovine che lasciava dietro di sé lo coinvolgevano notevolmente. Il filosofo, lo scienziato, il letterato De Lorenzo si chiudeva in se stesso e sempre più spesso si rifugiava nella contemplazione della natura. Nel ‘45 il Giappone si arrese senza condizioni, dopo le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Orrore degli orrori. Un episodio che lo sconvolse e che gli fece scrivere: "Ritirandomi, quindi, sempre più in me, trovo che la migliore luce del mio spirito m’è venuta dalla dottrina del Buddha Sakyamuni; la quale ha proclamato che nel mondo "arcano è tutto, fuor che il nostro dolor" e ne ha indicato, come Gesù, la via della salvazione. Non posso, quindi, che ripetere quel che ho scritto nell’introduzione agli "ultimi giorni di Gotamo Buddho" che cioè, quella dottrina è stata per più di mezzo secolo il conforto della mia vita e sarà, mi auguro, la consolazione della mia morte". Continuò a studiare, a scrivere, attività che considerava una vera e propria catarsi spirituale. Pubblicò nell’arco della sua intensa vita 250 opere. Giuseppe Giovanni Angelo De Lorenzo, colui che aveva fatto conoscere nella prima metà del Novecento, in tutto il mondo, un paese sperso fra gli orridi dell’Appennino meridionale, chiamato Lagonegro, e una negletta regione chiamata Lucania, morì a Napoli, sua città d’adozione, il 27 giugno 1957. Da Mosca a Tokyo, da Londra a Parigi, da Vienna a Berlino a Stoccolma e Katmandu, era considerato un grande maestro di scienza, letteratura e filosofia. A Napoli, nell’Università Federico Secondo, la sua fama in vita fu immensa. Tutti ammiravano il Professore di Lagonegro. Il maestro che, con elegante e semplice linguaggio, rendeva facili gli argomenti più ostici, lo studioso che, con la ricchezza delle citazioni classiche e con lo spessore di un sapere infinito, attirava alle sue lezioni i giovani, il filosofo che avvinceva gli studenti con le grandi visioni della vita e con i voli fantastici che spaziavano dalla poesia all’arte, dalla filosofia alla scienza. A testimoniare oggi tanta grandezza e personalità sono rimasti i numerosissimi saggi da lui scritti. Sono a disposizione di chi è ancora scettico sull’uomo -scienziato, filosofo, linguista, letterato, filologo- De Lorenzo. Da Lagonegro. Lucania. Lavoro a cura della rivista “Basilicata – Regione - Notizie” STORIA DELLA CITTÀ DI LAGONEGRO (Comm. Avv. Carlo Pesce) CAPITOLO XII Agricoltura, Industria e commercio L'AGRICOLTURA E LE CAUSE DELLA SUA DECADENZA. SISTEMA DI COLTIVAZIONE DELLE TERRE Mi duole dover premettere a questo importante argomento che nessuno dei tre principali fattori della prosperità e della ricchezza d’un popolo - agricoltura, industria e commercio - abbia in Lagonegro considerevole sviluppo; e se nel passato fiorì qualche industria, anche questa è tramontata miseramente. Sia per la montuosità ed accidentalità del territorio, sia per la sua altimetria, sia per la scarsa fertilità e la natura del suolo, sia per l’inclemenza del clima, sia per la mancanza di lavoratori e d’operai, sia per l’elevatezza dei salari, sia, infine, per deficienza di spinta e d’iniziativa, da parte dei cittadini per ogni ardita impresa, l’agricoltura langue miseramente, e deplorevole è la condizione del proprietario di terre, il quale, scoraggiato pei scarsi guadagni e per le perdite subite, spesso abbandona ogni coltura o la riduce al più stretto necessario. Oltre a ciò, sono concorsi, in gran parte, alla decadenza dell'agricoltura vari altri fattori, che sono generali per le provincie meridionali, come il brigantaggio, l’emigrazione ed i gravosi balzelli. Vero è che anche prima dell’unificazione d'Italia, per mancanza di buon servizio di sicurezza pubblica e per la miseria invadente, le nostre campagne erano percorse ed infestate da malviventi, i quali depredavano e massacravano; ma principalmente crebbe ed infierì la tremenda lue all’alba del nuovo regno, che spuntò sul nostro orizzonte fosca e minacciosa. I tristi orrori del brigantaggio, che fu figlio della più insana reazione, afflissero tremendamente anche le nostre contrade, coi più nefandi delitti, coi massacri degli uomini e delle bestie, con gli incendi delle masserie e dei tuguri, coi furti e con le rapine, coi ricatti perpetrati audacemente fin nei paesi e nelle abitazioni, cogli oltraggi all'onore delle donne e delle famiglie, e col favore e l’aiuto dei manutengoli, tennero lontano dalle terre i padroni ed i coloni. Le proprietà rurali rimasero perciò abbandonate e deserte, le campagne incolte, la vita civile quasi sospesa e le comunicazioni tra paese e paese interrotte e spezzate, mentre gli odi e i rancori crebbero fieri ed implacabili. Appena l’ordine fu ristabilito alla meglio, e si cominciò a respirare un pò di libertà civile, tra per la miseria prodotta dalle passate vicissitudini, tra pel desiderio di miglior fortuna, cominciò il triste esodo dei contadini e dei proprietari per le lontane regioni d'America, e così prima il brigantaggio e poscia l’emigrazione congiurarono ancora di più a danno dell'agricoltura. A questi mali si aggiunse la voracità del Fisco, che con tasse e balzelli ha oppresso il proprietario, al quale son mancati perfino i mezzi per la coltivazione delle terre; e mentre in Italia s' è avuta una colluvie di leggi a favore degli impiegati d'ogni ceto, non si è mai convenientemente provveduto a favore dei proprietari di terre, ai quali, per giunta, s' è data ingiustamente la taccia d'assenteismo. In tale stato di cose la maggior parte delle terre o sono rimaste incolte, o sono coltivate assai superficialmente ed imperfettamente, o sono lasciate alla libera vegetazione degli alberi e dei prati naturali. Bisogna però riconoscere che in questi ultimi anni, sia per lo sviluppo del commercio, delle industrie e della viabilità, sia per un certo aumento della ricchezza sociale, sia per effetto della legge sulla Basilicata, anche le terre hanno subito un rialzo di valore, i fitti d'esse sono sensibilmente cresciuti ed il proprietario potrà forse essere in qualche modo rivalso delle ingenti perdite e dei sacrifici sofferti per il lungo passato. Per quanto riflette il sistema della coltivazione delle terre esso è assai rudimentale, ed affidata principalmente all'aratro di legno ed alla zappa comune a doppio taglio od a bidente, così come furono ereditati dagli antichi. Poco sono in uso gli strumenti perfezionati moderni, le macchine agrarie ed i concimi chimici, nei quali si ha poca fede perché male sperimentati. La classe degli agricoltori è priva, in massima parte, d'ogni conoscenza d'agronomia, né meritano grave taccia i proprietari, se, incalzati da incessante crisi agraria e dalla mancanza di braccia per la coltivazione della terra, non si son curati di dare efficace impulso alle riforme agrarie. I VIGNETI ED I VINI LA MOSTRA ENOLOGICA DEL 1890 I migliori terreni e più pianeggianti sono coltivati a vigneti, a cereali, ad ortaggi ed a frutteti. Le viti sono sposate a grossi pali e producono discrete qualità d'uve come quelle dette volgarmente aglianico, zagarese, pinò, uva della marina, linguarda, nevurama, ecc. I vini, confezionati con sistemi pressoché biblici, hanno poca forza alcoolica ed un certo grado d'acidità, né sono adatti a lunga conservazione ed al trasporto, ma son buoni pel pasto, ed in questi ultimi tempi hanno subito considerevole miglioramento sia per la coltivazione delle viti, sia per la vinificazione. Tuttavia i vigneti richiedono ingenti lavori con spese spesso superiori al reddito effettivo, onde corre l'adagio volgare: “la vigna è tigna”. Nel Settembre 1890, ad iniziativa del Comizio Agrario, ebbe luogo a Lagonegro una mostra enologica Circondariale, nella quale furono esposti ben 70 qualità di vini, provenienti da 60 proprietari del Circondario, e furono assegnati dal Ministero di Agricoltura vari premi, alcuni dei quali spettarono ai vini di Lagonegro per la buona qualità se non per la quantità. I CEREALI GLI ORTAGGI ED I FRUTTETI I cereali coltivati a preferenza sono: la giurmana, la carosella, la saraolla, il marzullo, ecc, oltre delle biade e degli orzi. Il reddito è assai scarso, ed oscilla dal doppio al sestuplo della semenza e raramente si va più in là. In ordine alla produzione dei cereali, trascrivo qui alcuni dati desunti da una deliberazione del Decurionato dell'11 luglio 1860 in risposta alle notizie chieste dal Governo: Questo Comune anche negli anni più ubertosi, non ha mai potuto fare l’intera provvista per i bisogni della popolazione, e tanto meno può giungervi in quest’anno. La raccolta dei grani duri seminati può ascendere a circa tomoli 960; dei grani teneri circa 9000, di segala circa 7500, orzo circa 5200, avena 7500. Ai bisogni quindi della popolazione possono mancare di grano circa 6000 tomoli e di biada altri tomoli 4000. Quelle cifre di produzione d'allora sono scemate considerevolmente per le ragioni dette innanzi, e la produzione e forse ridotta alla metà, mentre la popolazione è rimasta quasi stazionaria, onde i bisogni annuali d'importazione sono assai aumentati. Scarsi sono gli ortaggi ed i legumi per la mancanza di terreni irrigatori, ed ancora più scarsi sono i frutteti, che, per lo più, sono coltivati in mezzo alle viti negli arbusti; anzi si può concludere che in tutto il territorio non si producono ne vini, ne cereali, ne frutti, ne verdure, ne legumi in quantità sufficiente ai bisogni della popolazione, e tutti questi generi di prima necessità vengono importati dai paesi vicini e principalmente dalle Puglie e dal Vallo di Diano, per cui in ogni Domenica si ha in piazza un ricco mercato per le necessarie provvigioni delle famiglie. LA CATTEDRA AMBULANTE D'AGRICOLTURA Con la legge a favore della Basilicata del 31 marzo 1904 e con l’istituzione delle cattedre ambulanti d'agricoltura, viticoltura, enologia, caseificio e zootecnia pareva e si sperava che dovesse sorgere per le nostre terre quasi una nuova età di floridezza, e Lagonegro, invaso forse da eccessivo zelo per avere la sede della Cattedra assegnata al Circondario, non risparmiò agitazioni e spese, e così, acquistando il podere sperimentale e donandolo allo Stato, ottenne una Sezione della Cattedra, stabilita a Chiaromonte. Ma i benefizi conseguiti da questa istituzione sono stati, almeno per i primi tempi, assai scarsi, e l’agricoltura paesana di poco se n'è avvantaggiata. Certo, per quel che s'è detto innanzi, il nostro suolo non potrà mai mutar natura e conformazione agricola, ne sarà mai un Eden di delizie agricole, ma un considerevole miglioramento si potrà avere nella coltivazione delle terre e nella produzione di esse. LA PASTORIZIA E LE CAUSE DELLA SUA DECADENZA Strettamente connessa all'agricoltura e la pastorizia, la quale pel passato ebbe un considerevole sviluppo per gli estesissimi pascoli, e costituì la maggiore ricchezza del paese. (S’apprende da Cassiodoro che la Lucania, regione eminentemente agricola, fu sempre fertile di pascoli squisiti e feconda di porci, di cinghiali e viepiù di mandrie e, che era tenuta a somministrare alla casa d’Augusto le carni. È pure risaputo che le salsicce erano una produzione tutta Lucana, onde erano dette lucanicae). Riferisce lo storico patrio Falcone che ai tempi suoi, verso la metà del secolo XVIII, nel territorio di Lagonegro pascolassero ben 200 mila armenti, la maggior parte pecorini, che quantunque piccoli di statura, sono però gentili e danno lana di buona qualità, molto ricercata nei mercati. Se quella cifra è assai esagerata, (e nel manoscritto originale si vede pure abrasa) rivela l’importanza di quell’industria e la feracità dei pascoli, ricercati anche dai forastieri. Gli antichi nostri avi erano in gran parte massari e foresi, e dall’industria armentizia trassero le loro modeste ricchezze. Le mandrie numerose di pecore, capre, vacche e bovi, trovavano da Giugno a Novembre, nel nostro territorio, sui nostri monti, ottimi pascoli estivi, ed acque abbondanti e terse, e nell’inverno passavano nelle marine del Ionio a Montalbano, a Tursi, a Favale, a Cassano, come avviene tuttora per quei pochi armenti rimasti. Mai frequentarono il Tavoliere di Puglia, ed è risaputo che la Basilicata, meno una piccola parte, non volle mai dipendere dalla R. Dogana di Foggia ne dalla Doganella d'Abruzzo. Ora anche l’industria armentizia è ridotta in miserevoli condizioni, e le cause possono rintracciarsi, oltreché nella decadenza dell’agricoltura, nei tempi e nei costumi ingentiliti , nelle gravi perdite subite dai proprietari, nella mancanza di pastori e nei gravi pesi fiscali, onde fu saggio provvedimento abolire, con la legge sulla Basilicata, la tassa sul bestiame del 1906. LA MOSTRA ZOOTECNICA DEL 1892 Nel Settembre 1892, per iniziativa del Ministero d'Agricoltura e col concorso del Comizio Agrario, ebbe luogo in Lagonegro un’esposizione Circondariale di bestiame bovino, ovino e suino con lo scopo non solo di premiare i migliori allevatori, ma altresì di rilevare le vere condizioni dell'industria zootecnica e di porgere gli elementi di un sollecito miglioramento. Nella Mostra, tenutasi nella piazza grande, furono esposti 49 animali bovini da 10 allevatori, 31 arieti e 199 pecore da 14 allevatori, ed i risultati, almeno per le premiazioni concesse, furono molto soddisfacenti (dalla relazione della mostra del prof. Baldassarre al Ministero d’Agricoltura). IL CENSIMENTO DEL BESTIAME DEL 1908 Tuttavia, d'allora l’industria zootecnica ha subito anche maggiore diminuzione, ed i più grossi proprietari o l'hanno smessa del tutto, o l'hanno ridotta a minime proporzioni per la coltivazione delle proprie terre. Nel censimento ufficiale del bestiame del 19 marzo 1908 furono denunziati e ritenuti 49 cavalli, 119 asini, 76 muli, 462 bovini; 481 porci, 3049 pecore e 2700 capre, ma bisogna por mente che in quel tempo molti animali bovini ed ovini erano ai pascoli invernali delle marine fuori del territorio di Lagonegro, forse altrettanti, e che, secondo il solito, dai proprietari si cercò nascondere il numero esatto dei propri armenti per paura delle imposte. Presentemente, da calcoli da me fatti con una certa approssimazione, risulta che le pecore ascendano a circa 10 mila, le capre a circa 3 mila e la partita più grossa d'ovini a 2000 capi, e che i bovini ascendano a circa 800, e giova sperare in un lodevole incremento per l'avvenire. LE INDUSTRIE DEI CAPPELLI E DEI PANNI DI LANA Floridissime e rinomate erano pure nei tempi passati le industrie paesane dei cappelli e dei panni di lana, che costituivano la fonte principale della ricchezza cittadina e la risorsa delle famiglie. Agli albori dell'unificazione italiana si noveravano in Città circa un centinaio di fabbriche o botteghe di cappelli, alle quali erano addetti circa trecento operai. I cappelli ivi confezionati con pura lana delle pecore paesane, acuminanti od a cono tronco, erano esportati in grande quantità nei paesi vicini e lontani, per lo più nelle provincie di Calabria, di Salerno e di Potenza, e si vendevano al mite prezzo di 2 carlini l’uno (cent. 85). Oltre dei cappelli ordinari pei contadini, venivano pure confezionati cappelli fini di pelo di lepre e di seta, che furono pure mandati all'Esposizione industriale tenuta in Napoli nel 1830 ed ebbero buona accoglienza. LA SOCIETÀ DEI CAPPELLI DEL 1858 Nel 1858 si tentò pure una specie di alleanza delle fabbriche dei cappelli: 56 fabbricanti s’obbligarono con atto pubblico di vendere tutti i cappelli di loro fabbricazione esclusivamente ai signori Gennaro Picardi e Gennaro Giliberti al prezzo di ducati 2,60 (L. 11,06) la dozzina, ma l'impresa non ebbe buon successo e la Società dopo pochi anni si sciolse. Si calcola che ogni operaio confezionava 6 cappelli al giorno ed essendo 300 gli operai s'aveva una produzione media di 1500 cappelli al giorno, che non era facile ed agevole potere esitare. INDUSTRIE CASALINGHE Numerosi erano pure nelle famiglie i telai per la fabbricazione dei panni di lana, di cotone e di lino, ai quali erano addette le donne, giovani e vecchie. I panni di lana erano esportati e venduti in gran quantità nei paesi vicini, e da quel lavoro tutto casalingo, che rendeva belli guadagni, molte famiglie trassero la loro agiatezza. Presentemente l’industria dei cappelli è estinta, perché essa non ha subito nessun perfezionamento, ne ha potuto resistere alla concorrenza delle grandi fabbriche, e, d'altra parte, piace più al contadino, pur esso ingentilito nei costumi e negli indumenti, usare i cappelli morbidi e fini delle città. Permangono ancora pochi telai nelle famiglie, e 5 o 6 filande, alcune mosse dalla corrente elettrica, che producono discrete quantità e qualità di panni di lana pesanti e resistenti, che si consumano non solo in paese, ma sono pure esportati e venduti in molte fiere dei paesi meridionali. Si confezionano pure in alcune famiglie delle tele di lino e di cotone per biancheria, che se non raggiungono la finezza e perfezione delle grandi fabbriche, sono pure buone e resistenti. Altre industrie importanti non vi sono in paese oltre dei soliti negozi, per comodità e consumo della popolazione, nei quali non manca tutto ciò che occorre al ben vivere sociale ed anche al lusso invadente. E qui è uopo soggiungere che all'Esposizione di Milano del 1906 vari produttori Lagonegresi mandarono non solo lane gentili, formaggi, legnami e liquori (Nettare Sirino), ma pure panni di lana confezionati nelle filande paesane, ed ottennero premi ed incoraggiamenti nella Mostra collettiva della Basilicata, per la quale fu costruito, nel recinto dell'Esposizione, un apposito chiosco per la vendita dei prodotti lucani (Vedi il numero unico per la Basilicata all’esposizione di Milano, anno 1906). IL COMMERCIO E SUE CONDIZIONI NEL PASSATO E NEL PRESENTE Poco ci resta a dire in ordine al commercio, che, se è scarso generalmente in Basilicata, in Lagonegro langue addirittura. Il cittadino Lagonegrese, come s'è detto innanzi, non è fornito di sufficiente dose d'audacia e d'iniziativa, che sono indispensabili nell’attività della vita, onde il commercio non ha avuto, ne ha grande sviluppo, e spesso vengono e vi si stabiliscono dei forestieri per esercitare, con profitto, industria e commerci, negozi, alberghi, bettole e simili, mentre il paesano assiste, quasi indifferente, al movimento e preferisce tenere depositati al sicuro ed impiegati i suoi danari al Debito Pubblico e sulla Cassa Postale. Spesso poi sono tornati in patria dall’America dei cittadini che hanno esercitato colà industrie e commerci proficui con buoni guadagni, e qui, forse perché Sirino incombe su tutti come cappa di piombo, si diventa lassi ed ignavi. Tuttavia, se i cittadini non sono troppo dediti agli atti di commercio, la Città, per la sua posizione topografica, è stata ed è centro di considerevole movimento commerciale e traffico. Prima della costruzione delle ferrovie meridionali, non esistendo altra via di comunicazione che l’antica strada delle Calabrie, per essa dovevano necessariamente svolgersi il traffico ed il commercio delle provincie verso la Capitale, Napoli, ed in continuazione si vedevano transitare carri e carrozze, che all'ingresso d'ogni paese trovavano comodi alberghi e stalle. Ma quel commercio era assai disagevole e costoso, e si viaggiava, dai più, per estrema necessità, anzi soleva dirsi che prima di partire bisognava farsi il testamento e pensare ai casi propri. Oltre del procaccia, che raccoglieva dalle provincie le pesanti monete di metallo del Fisco e le portava in Napoli su d'un carretto scortato dai Gendarmi, passava per la strada delle Calabrie, prima una volta per settimana, e poi ogni giorno, la diligenza postale, che portava la corrispondenza con pochi passeggeri da Napoli fino a Reggio e viceversa. Apertesi le nuove comunicazioni ferroviarie, il traffico ed il commercio si sono andati esplicando di grado in grado, e Lagonegro, che dal 1892 è stato capolinea e sbocco della ferrovia, è stato centro d'affluenza per molti Comuni del Circondario, né, è dato prevedere che ne sarà dopo l’apertura della nuova costruenda ferrovia a sistema ridotto da Lagonegro a Castrovillari. Un considerevole sviluppo ha preso da alcun tempo nella nostra Città il commercio del legname, che, tagliato nei boschi e ridotto a carboni, a legno da costruzione ed a traverse è trasportato lontano per la ferrovia, Anche le castagne, che forse sono l’unico prodotto mangereccio d'esportazione, sono ricercate e spedite dagli incettatori, e danno ad ogni proprietario discreti guadagni. Intanto giova far previsioni ed auguri che, pei cresciuti mezzi di viabilità, per quel generale progresso verso nuovi orizzonti di civiltà e di benessere, cogli aiuti della Cattedra ambulante e col buon volere dei cittadini, l’avvenire, anche in ordine all’agricoltura, all’industria ed al commercio, sia più prospero ed onorevole per la nostra Città. IMPORTANZA GEOLOGICA DEL TERRITORIO E ORIGINI D’ESSO Se poco pregio ha il territorio di Lagonegro dal punto di vista agricolo, maggiore importanza esso presenta sotto l'aspetto geologico, paleontologico e mineralogico, studiato prima dal valente ed eroico Leopoldo Pilla, il quale fu in questi luoghi nel Maggio 1838 e ne riferì in apposita pubblicazione, e poscia dall’illustre nostro concittadino Prof. Giuseppe De Lorenzo, il quale coi suoi diligenti studi e con svariate pubblicazioni ha rischiarato di vivida luce queste contrade. I terreni che costituiscono la superficie della Basilicata appartengono, al dir dei geologi, all'epoca mesozoica e neozoica, la quale comprende quei terreni nei quali si riscontrano dei resti di animali antichissimi d'un tipo affatto estinto, come lucertole gigantesche, rettili oceanici, e poscia il Mammouth o elefante primigenio, il Rinoceronte, l'Orso, la Iena, il Tigre di mole gigantesca, ed altri animali ora scomparsi dovunque. Prima di tale epoca i tre mari Adriatico, Tirreno e Jonio erano confusi, e la Basilicata era sommersa nei profondi abissi oceanici. Coi primi sollevamenti emerse l'Appennino col nostro Sirino e coi suoi maggiori contrafforti, determinando i primi torrenti. L'era neozoica è pure notevole per l’abbondante sviluppo dei ghiacciai, di cui l’esistenza è stata pure accertata sul Sirino pel deposito lasciatovi delle morene interessantissime. Seguì poscia l’epoca antropozoica, che segna la comparsa dell’uomo sulla terra, del quale si riscontrano sicure vestigia solo nel periodo postglaciale. Anche avanzi fossilizzati di questi animali si sono riscontrati nel territorio di Lagonegro dal Professore De Lorenzo. Uscirei dai limiti propostimi se volessi qui descrivere il territorio di Lagonegro nella parte geologica; per chi ha vaghezza di simili studi si può riscontrare la Guida Geologica dei dintorni di Lagonegro del De Lorenzo, dalla quale trascrivo solo la parte stratigrafica (pag. 6): “Le montagne più alte e più grandi dei dintorni di Lagonegro, che si stendono a nord e ad est del paese e formano lo spartiacque appenninico, sono essenzialmente costituite dai terreni del trias, e propriamente quelli del trias medio, a cui solo qua e là si sovrappongono accessoriamente piccoli lembi appartenenti a piani mesozoici più elevati nella serie stratigrafica. Invece i monti del versante Tirreno, che si addensano ad ovest e a sud di Lagonegro, sono nella loro gran massa formati da rocce del trias superiore, del lias e della creta, sotto cui solo subordinatamente in pochi punti affiorano le rocce più antiche. Le valli e le depressioni sono poi generalmente riempite da materiali terziari appartenenti all'eocene superiore, a cui qua e là si aggiungono a volte piccoli lembi di terreni quaternari”. E non credo d’aggiungere altro in tale astrusa materia. GLI SCHISTI SILICEI DELLE CARBONCELLE, LE MORENE DEL SIRINO ED IL LAGO PLEISTOCENICO DEL FIUME SERRA MINERALI Non va però omesso uno spettacolo singolare e bellissimo, che s’ammira anche dal più profano presso il paese, lungo la strada delle Calabrie, nel taglio artificiale presso il ponte Carboncelle sul fiume Serra. Ivi si osservano molti strati silicei, che sembrano quasi distaccati dal sovrastante monte Castagnareto. Questi strati sottili ed uniformi, tagliati verticalmente dalla mano dell'uomo per la costruzione della strada, presentano, in breve spazio, delle alternanze bellissime dei più vivi e svariati colori, rosso, giallo, verde, violaceo, nero e simili; e lo spettacolo è reso ancora più pittoresco dal corso del fiume che si dibatte nelle profonde forre gorgogliando cupamente. Evidentemente quegli strati, che in origine erano in posizione orizzontale, si conformarono a gradi a gradi per millenni nel fondo dei mari col deposito successivo di sostanze schistose e di fossili, e poscia emersero dalle onde e furono spinte in alto da ignote forze tettoniche. Tutti questi schisti - scrive il De Lorenzo - sono costituiti da innumerevoli scheletri silicei di radiolarie e portano spesso sulla superficie degli strati avanzi di fucoidi. Sono poi rinomate, nel gruppo del Sirino, varie morene, le quali depongono irrefragabilmente dell'esistenza d'antichi ghiacciai in queste basse latitudini dell'Appennino. Una di queste morene occupa ora la Valle del Cacciatore, compresa tra la Spalla dell'Imperatrice a oriente e le propaggini settentrionali del Sirino ad occidente, e si presenta come un lungo cordone detritico sorpassante i 1600 m di lunghezza con una larghezza media di 100, ed uno spessore di 80 m. Un altro ghiacciaio occupava la stretta valle situata a sud del monte Papa, dove ha lasciato una morena molto interessante perché può abbracciarsi con lo sguardo tutta d'un colpo e se ne può studiare l’intima costituzione; e finalmente il terzo ghiacciaio, il più importante per la sua massa e per la grandezza della morena depositata, scendeva dalle alte cime del monte Papa, si incassava nella maestosa valle del Lago Remmo, e s'estendeva per circa 4 chilometri a nord fino alla valle di Petinapiana, e la morena terminale si protende per una lunghezza di quasi 2 mila metri con una larghezza media di 400 metri. Interessante è pure geologicamente il ricordo dell'antico lago pleistocenico, che s'espandeva lungo il corso del fiume Serra tra il Timpone Rosso e il Monte Iatile attorno alla rupe dolomitica del Castello, la cui cima si specchiava nel piccolo bacino lacustre, l'emissario del quale si scaricava poco più a sud nel Noce, ed approfondendo sempre più il suo corso, produsse infine lo svuotamento completo. A testimonianza dell'antico laghetto rimangono i conglomerati, le sabbie e i fanghi su cui ora sorge la stazione ferroviaria di Lagonegro. Dopo la scomparsa del lago, il Serra continuò a scavare nelle rocce triassiche il suo corso per una profondità d'oltre 100 metri al di sotto dell'antico fondo d'esso. (Vedi la Guida Geologica dei dintorni di Lagonegro del prof. De Lorenzo. (Roma 1898) e Reliquie di grandi laghi pleistocenici nell’Italia Meridionale dello stesso illustre autore. Napoli 1908). Per quanto riguarda infine la parte mineralogica, assicura il nostro Falcone che in contrada Niella esisteva una miniera di ferro, il quale veniva di là estratto e poi lavorato nell'opificio detto appunto Ferriera lungo il corso del fiume Serra, e che in contrada Colla si trovassero pure miniere di talco e di lapillo, materia cretosa, egli dice, che serve per fare pavimenti allo scoperto, acciò possano resistere ai geli, ai quali siamo soggetti. Oggi non si trovano più tracce ne di ferro, ne di talco, ne d'altri minerali, e le materie cretose della Colla non sono che un pessimo terreno di coltivazione. IL CONGRESSO GEOLOGICO DEL 1898 Per la sua importanza geologica Lagonegro fu sede, nel Settembre 1898, del Congresso della Società Geologica Italiana. I congressisti, una trentina, venuti da tutte le parti d'Italia, furono dal Comune e dalla popolazione bene accolti ed ospitati nei locali della Scuola Normale, e compirono con vivo entusiasmo varie escursioni scientifiche sui monti Arenazzo, Foraporto, Milego, Sirino, Papa, Monticello, Roccazzo, Bitonto ed al lago Sirino (Vedi il Resoconto dell'adunanza estiva tenuta dalla società Geologica Italiana nel Settembre 1898 In Lagonegro). E qui mi sia consentito di trascrivere alcuni brani del mio discorso, pronunziato, quale Sindaco della Città, nell'adunanza inaugurale del 6 Settembre, ed inserito negli atti della Società, allora presieduta dal Prof. Bassani dell'Università di Napoli. “Per noi, profani delle scienze naturali, questi monti e queste balze, da cui siamo circondati, e che formano l'usato, quotidiano nostro spettacolo, sono muti ed incompresi; quelle pietre sono inerti ed infeconde; i macigni non hanno altro pregio che il ricordo e la testimonianza delle passate glorie e sventure cittadine; il monte Sirino, pur anco il nostro pittoresco padre Sirino, che ci sta quasi a cavaliere, non è conosciuto ed ammirato da noi che nel suo verde ammanto estivo, o nella sua nivea veste d’inverno”. “Per voi la scena della natura è ben differente; per Voi, che osate penetrar con lo sguardo nelle inesplorate viscere della terra; per Voi che osate scomporre ed analizzare quelle pietre nei loro primitivi elementi; che potete stabilire con tutta precisione la loro conformazione ed il loro succedersi; che riscontrata perfino nel seno dei macigni avanzi di piante e d'animali, ora non più esistenti; per Voi, o Signori, quelle pietre parlano un linguaggio sublime, misterioso, ed in esso troverete la migliore soddisfazione, il maggiore conforto che possiate desiderare.