gli strumenti ei modi della comunicazione interna

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gli strumenti ei modi della comunicazione interna
GLI STRUMENTI E I MODI DELLA
COMUNICAZIONE INTERNA FORMALE
Modulo 2A: Analisi dei bisogni e delle attese di
comunicazione interna
Maria Cristina Moresco
Counseling, formazione, organizzazioni
ANALISI DEI BISOGNI E DELLE ATTESE DI
COMUNICAZIONE INTERNA
La condizione base per l’avvio di un discorso sensato che riguardi la
comunicazione interna, soprattutto quella di tipo formale, è una analisi il più
puntuale possibile delle esigenze e dei bisogni di comunicazione, spesso
non espressi esplicitamente e talvolta nemmeno portati a consapevolezza.
Il focus di tale analisi sta nel cercare di fare una diagnosi su quali siano
le conoscenze e le informazioni che gli operatori debbano
necessariamente condividere allo scopo comune di realizzare
l’obiettivo dell’azienda, qualunque esso sia. Ancora, stabilite quali siano
tali informazioni cruciali, occorre definire gli interlocutori, le fonti, i tempi, le
occasioni formali, i modi e gli strumenti attraverso i quali tale passaggio di
informazioni debba avvenire per essere davvero efficace.
Spingendoci ancora oltre, possiamo citare una teoria che attribuisce al
possesso o meno di informazioni di un certo tipo la percezione del proprio
ruolo nell’organizzazione e la percezione delle proprie effettive responsabilità.
Sappiamo tutti come sia vero che, se anche il nostro ruolo formale ci
attribuisce determinati compiti e competenze, il fatto che siamo tenuti
all’oscuro di certi fatti importanti può farci sentire esautorati, tagliati fuori,
poco considerati, e generare in noi un senso di demotivazione che può
spingerci ad incarnare il ruolo datoci in maniera minimale, senza passione e
senza senso di appartenenza. Lo stipendio percepito per le mansioni che
dobbiamo svolgere non rappresenta necessariamente e sempre il solo stimolo
sufficiente a fare bene, ad impegnarsi, ad essere soddisfatti. Sapere, essere
informati, ci rassicura, ci da’ potere.
Ecco che possedere e dare informazioni, comunicare in maniera formalmente
corretta, sapere da chi e a chi e quando e come farlo, diventano fattori
centrali della nostra identità professionale e personale, di conseguenza.
Da tutto questo discende un’altra funzione fondamentale dell’informazione e
del suo passaggio, quella di dettare le regole dell’azienda; l’informazione
e il suo flusso forniscono sentieri sicuri e conosciuti sui quali mantenersi,
minimizzano errori e smarrimenti, rappresentano altresì la base sicura dalla
quale proporre cambiamenti, notare incongruenze, suggerire modifiche alle
procedure e alle regole stesse, sapendo come e a chi comunicarli perchè
diventino fonte di progresso e non fonte di scontento e malumore
serpeggiante e mai esplicitato. Avete presente le battute tipo “Così non
funziona, ma tanto a chi lo dico? E a cosa servirebbe?” oppure “A cosa serve
andare alla riunione se tanto non cambia mai niente?”, e ancora “Siamo
sempre all’oscuro di tutto”.
Diciamo ancora che l’espressione “analisi delle esigenze di comunicazione”
implica diversi tipi di indagine: potremmo rilevare “chi” necessita di
informazioni, “a cosa si riferiscano tali esigenze”, “come devono essere” tali
informazioni per servire davvero, “sotto quale forma” per essere comprensibili
e fruibili, “quando e in che contesto” debbano arrivare per centrare il
bersaglio”, “quanta” informazione e “quanto” approfondita, e così via.
Ci sono per esempio le esigenze della dirigenza di poter dare in uscita
orientamenti strategici, filosofici, obiettivi, e di poter ricevere, in ingresso,
suggerimenti, critiche, feedback sul funzionamento, sul clima.
A tutti i livelli c’è l’esigenza di sapere scientifico, di competenze, sapere
operativo, amministrativo, strategico, in maniera più o meno completa ed
approfondita a seconda del ruolo di ciascuno nell’organizzazione. Determinate
esigenze sono personalissime, altre sono collettive, condivise col proprio
gruppo di lavoro. In termini più concreti, come professionista infermiere sarà
per me indispensabile conoscere il mio ruolo, quello di ciascuno dei colleghi
con i quali mi relaziono e lavoro, il piano dei turni, delle ferie, della
formazione obbligatoria e facoltativa, la direzione nella quale sta andando
l’azienda nel suo complesso, le politiche relative alla privacy e al consenso
informato e come operativamente le dovrò applicare, avrò bisogni formativi
sulle tecniche più recenti per svolgere il mio lavoro e sul come utilizzare le
apparecchiature e così via.
Una distinzione che possiamo fare è tra bisogni e attese di comunicazione,
nel senso che la parola bisogno denota sempre mancanza, qualcosa che ci è
indispensabile per svolgere molto semplicemente il nostro lavoro e, di
conseguenza far funzionare l’organizzazione nel suo complesso, parliamo
quindi di competenze tecniche e di ruolo atteso, di mansioni assegnatemi.
L’attesa ha a che fare con un livello di soddisfazione superiore, quello di
riconoscimento e di autorealizzazione, ha a che fare col sentirsi parte di un
gruppo, con la motivazione e la soddisfazione. Posso sopravvivere e svolgere
comunque il mio lavoro se anche non sono messo al corrente dei programmi
di espansione territoriale della mia azienda, o se non conosco l’argomento
esatto della prossima formazione obbligatoria alla quale sono stato iscritto. E
tuttavia il mio senso di essere considerato più di un semplice numero, di
appartenere, sicuramente alla lunga ne saranno intaccati profondamente.
Ecco allora che bisogni e attese vanno a influenzarsi e mescolarsi
reciprocamente, dando senso l’uno all’altro, i bisogni essendo ampliati e
drammatizzati dalla mancata soddisfazione delle mie attese e viceversa.
Come dire, visto che sono solo un numero e il mio contributo non viene mai
riconosciuto, (attesa), allora mi lamenterò sistematicamente della formazione
che mi propone l’azienda, del mio stipendio, della turnazione (bisogni), e così
via. E, a ricaduta, non fornirò collaborazione ai miei colleghi.
Il bisogno.
Facciamo un po’ di discorsi sulle diverse teorie dei bisogni che interessano più
da vicino la professione infermieristica, così come tutte le professioni così
dette “di aiuto”, fondate sull’assistenza e sulla relazione.
Diversi autori hanno formulato teorie basate sulla centralità della persona
umana, intesa dal punto di vista olistico, come un insieme perfettamente
integrato di psiche e soma, inserito in un contesto sociale di appartenenza.
Ciascuno ricerca la condizione ottimale di benessere e di equilibrio e , per
poter fare questo, necessita di dare soddisfazione alle tensioni interne che
periodicamente avverte e che lo spingono a determinate azioni e
comportamenti che hanno lo scopo di soddisfare tali tensioni o bisogni.
La classificazione dei bisogni umani più conosciuta è quella di Maslow che li
colloca su una scala gerarchica alla base della quale egli pone i bisogni
primari di tipo fisico il soddisfacimento dei quali garantisce l’esistenza in vita.
Si tratta della necessità di cibo, acqua, sesso, aria, sonno, riposo, movimento.
Successivamente, e ad un livello gerarchico immediatamente superiore,
compaiono i bisogni legati alla sicurezza, alla prevedibilità delle situazioni e
alla loro stabilità, il che significa avere una abitazione, dipendere da qualcuno,
sentire di essere protetti, avere un lavoro con il quale provvedere al proprio
sostentamento. I bisogni appartenenti a tale categoria, se non sono
soddisfatti, generano ansia e paura.
Se i bisogni di tipo fisico e quelli di sicurezza sono stati ragionevolmente
soddisfatti, allora potranno fare la loro comparsa, ad un livello gerarchico
immediatamente superiore, una serie di bisogni di tipo psichico; amore e
appartenenza rappresentano il primo passo e sono legati alla necessità di
avere una famiglia, genitori partner e prole, un gruppo di amici, di colleghi, di
sentirsi legati e adeguati al proprio gruppo sociale di riferimento e alla cultura
che si condivide. Se questo bisogno non incontra soddisfazione la persona si
sente sola e abbandonata, diversa e respinta ed emarginata.
Ancora,
se
il
livello
di
sopravvivenza
è
assicurato,
ci
sentiamo
ragionevolmente sicuri, amati, inseriti nel nostro gruppo, allora potranno
comparire una serie di bisogni di livello superiore che hanno a che fare con il
concetto di stima positiva, di sé e degli altri, con la consapevolezza ed il
riconoscimento del proprio valore e del proprio status, con il prestigio ed il
rispetto. Il mancato sufficiente riconoscimento di tale categoria di bisogni è
alla base della depressione, dello sconforto, del senso di impotenza acquisita,
della mancanza di autoefficacia e autodeterminazione.
Si passa quindi ai bisogni di livello superiore definiti di tipo spirituale in
quanto attengono sia all’evoluzione personale, all’autorealizzazione, alla
visione di se stessi proiettati verso qualche obiettivo più alto e sfidante, che
comprenda maggiori conoscenze e maggiori responsabilità, sia al concetto di
trascendenza nel senso di una visione del sacro e del soprannaturale che
pervadono tutte le cose conosciute e sconosciute, di una tensione al bello e al
buono.
Tutti questi bisogni interagiscono tra loro e con la persona e sono presenti
con varia e diversa combinazione ed intensità a seconda del ciclo di vita e
dello stato fisico e psichico dell’individuo. Vero è che se sto attraversando una
situazione di incertezza per il mio lavoro, difficilmente salirà in figura il
bisogno di autorealizzazione. E’ altrettanto vero che entra in gioco il livello di
consapevolezza personale del mio bisogno autentico e dei mezzi con i quali
posso soddisfarli: ho bisogno di amore e credo di soddisfarlo facendo
shopping. Provo rabbia perché un mio merito lavorativo non è stato
riconosciuto e mi sfogo mangiando in modo compulsivo.
Da un punto di vista soggettivo le persone tendono ad attribuire maggiore
importanza ai bisogni di stima, appartenenza ed autorealizzazione rispetto a
quelli del livello di base, in quanto il grado più elevato di difficoltà nel loro
soddisfacimento ne rende più preziosa la gratificazione (F. Germini, V. Masi,
“Manuale di pianificazione infermieristica”).
A conclusione di questa breve presentazione della teoria di Maslow possiamo
dire che i bisogni di comunicazione compaiono a tutti i livelli superiori a quelli
di tipo fisico. Possedere informazioni corrette, tempestive, esaurienti, incide
sul senso di sicurezza, di appartenenza, di autostima, di realizzazione del
proprio potenziale. Non a caso una delle prime azioni devastanti legate al
fenomeno del “mobbing” in azienda è quella di privare le persone di
comunicazione e di informazioni allo scopo di incrementare il loro senso di
isolamento e di inutilità e spingerle a ritirarsi volontariamente per il senso di
disperazione che ne deriva.
La teoria dei bisogni di Virginia Henderson (1897-1996).
In aggiunta alla classica definizione di Maslow ci sembra interessante citare
qui un’altra teoria che, data la formazione infermieristica della sua autrice,
potrebbe meglio centrare il concetto di bisogno in un contesto di tipo
assistenziale sanitario.
La teoria dei bisogni del paziente sviluppata da questa autrice nasce infatti
dalla contestazione nei confronti della visione tradizionale della professione
infermieristica, per quanto qualificata, come semplice estensione per difetto
di quella del medico, alla quale doveva fornire supporto seppur priva di base
teorica o di modelli di riferimento, ma solo dotata di competenze specifiche di
tipo prettamente manuale.
Dallo studio della Henderson emerse una definizione di funzione specifica
dell’infermiere come “assistenza all’individuo ammalato o sano per aiutarlo a
compiere
quegli
atti
dell’indipendenza,
alla
necessari
guarigione
al
mantenimento
dalla
malattia
della
e/o
salute
al
e/o
recupero
dell’indipendenza, alla preparazione a una morte serena” (F. Germini, V. Masi,
“Manuale di pianificazione infermieristica”).
La persona è considerata nella sua interezza ed i bisogni che le fanno capo
sono quindi di tutti i tipi, biologici, sociologici, psicologici e spirituali. Prova
inoltre desiderio di conoscenza, forza fisica e volontà per poter essere
indipendente allo scopo di provvedere autonomamente ai propri bisogni. La
funzione precipua dell’infermiere è quella di supplire alle eventuali carenze di
forza, conoscenza e volontà e a favorire il loro recupero per garantire alla
persona il livello massimo di indipendenza e di salute che le sue mutate
condizioni le consentono. A tale scopo l’infermiere fa uso di conoscenze e
competenze che non si limitano all’ambito tecnico ma sconfinano nella
psicologia, nella relazione, nella comunicazione e nella funzione pedagogica e
di educazione del paziente. Ne consegue che un approccio al paziente di tipo
personalizzato diventa fondamentale per il corretto espletamento della
professione infermieristica, personalizzazione che può nascere solo da un
pensiero di tipo scientifico, da una corretta pianificazione del trattamento, da
una competenza relazionale e comunicativa, di tipo formale e
informale, sicura e approfondita.
In che modo la conoscenza dei diversi bisogni umani e della loro
classificazione gerarchica ci aiuta a modulare la nostra comunicazione?
Iniziando dai bisogni cosiddetti primari, di livello inferiore, quelli che
attengono al soddisfacimento dei bisogni fisici, potremmo molto banalmente
considerare che una comunicazione non urgente, contenente una richiesta
per noi molto importante, che veicola una critica o un suggerimento
posticipabili, che reca preoccupazione o dolore, non dovrebbe essere rivolta a
una persona, collega o superiore o collaboratore o cliente che sia, per
esempio
Al momento esausto, privo di forze, energia o di volontà
Affamato, con ore di sonno arretrato sulle spalle
Affetto da uno stato momentaneo di salute non buona perché ha male
alla testa, allo stomaco, alla schiena e così via.
Occorre comprendere il suo bisogno e posticipare il momento della
comunicazione, anche perché non otterrebbe l’attenzione, la comprensione e
la risposta che ci aspetteremmo. Parlavamo di contesto della comunicazione,
di spazio e di tempo. Questo ne è un esempio lampante.
Passando ora ai bisogni di secondo livello, quelli che attengono alla sicurezza,
come sarà possibile interessare il mio collega al piano ferie ingiustamente
modificato se la sua principale preoccupazione è l’eventuale trasferimento dal
suo posto di lavoro o l’arrivo di un nuovo responsabile con il quale non
vorrebbe avere mai a che fare? Cosa può importarmi della formazione
professionale se il mio padrone di casa mi ha appena comunicato la sua
intenzione di sfrattarmi dal mio appartamento? Così come sarò poco disposto
ad assumermi nuove ulteriori responsabilità nel mio reparto, anche se credo
fermamente che ce ne sarebbe bisogno, se sento che la mia posizione è
minacciata dall’ostilità e dalla gelosia della caposala nei miei confronti.
Si parla spesso di clima aziendale, di senso di appartenenza, di orgoglio
derivante dal far parte di un gruppo di lavoro considerato efficiente e
produttivo. Cosa accadrebbe se mi chiedessero di partecipare ad una riunione
nel corso della quale il primario critica aspramente l’operato del mio gruppo
definendolo “una banda di incompetenti”? O se fossi io il formatore di un
gruppo di infermieri neoassunti ai quali dovessi trasmettere orgoglio e
motivazione mentre il clima dell’azienda è di sfiducia nel vertice, di sospetto
per manovre che non ci vengono chiaramente comunicate ma delle quali
abbiamo solo sentore dalle insistenti voci di corridoio?
Per quanto concerne il senso di autostima positiva, per metterlo in relazione
alla comunicazione eficace basterà solo citare il caso di un rimprovero, per
giustificato che esso sia, dato davanti ai colleghi senza riguardo per il mio
status e per il mio orgoglio.
E ancora, una formazione negata, un compito sottodimensionato rispetto alla
mia voglia di apprendere e di fare, un senso di essere niente altro che un
numero, come potranno influenzare la mia voglia e la mia modalità di
trasmettere suggerimenti e critiche costruttive al vertice? Come parlare di
autorealizzazione in un caso del genere?
Vedremo più avanti in che modo diventa importante imparare a dare e
ricevere le cosiddette “carezze” o strokes, positive o negative che esse siano,
e vedremo sotto quale forma possano essere veicolate anche con il supporto
delle tecniche della comunicazione efficace.
Analisi delle esigenze di comunicazione
Brevemente e solo a livello teorico, esponiamo ora le fasi attraverso le quali si
snoda il processo di analisi delle esigenze di comunicazione.
La prima fase parte dalla descrizione del contesto al quale ci stiamo
riferendo. Ciascuno è inserito in un ambito lavorativo più o meno ampio,
potrebbe essere il proprio reparto, per esempio, nel quale intrattiene relazioni
di diverso tipo con colleghi, sottoposti, superiori, pazienti, famigliari dei
pazienti, altri reparti e strutture a supporto (laboratori di analisi, per esempio),
ed è inoltre in relazione più indiretta con altre divisioni tipo la gestione del
personale, la formazione, l’amministrazione, la direzione sanitaria.
L’analisi di base serve a creare una mappa del flusso di comunicazione
formale e informale che la persona intrattiene nel sistema sopra descritto,
con quale contenuto, quali tempistiche, quali modalità, quali strumenti, quale
urgenza e priorità.
La seconda fase consiste nell’attribuire a ciascuno dei flussi individuati, in
ingresso e in uscita, una logica organizzativa, ovvero definire l’obiettivo
funzionale che tale passaggio di informazione riveste e soddisfa. Per esempio,
l’ordine di servizio, da caposala a infermiere, ha l’obiettivo primario di
assegnare i compiti del turno lavorativo e comporta anche altri effetti quali la
non sovrapposizione delle mansioni tra persone diverse, la suddivisione del
carico di lavoro e altro ancora che il professionista ben conosce.
In questo modo, attraverso le prime due fasi, avremo realizzato una diagnosi
dello stato della comunicazione interna, fino a questo punto privo di giudizio
sulla sua effettiva funzionalità ed eventuali mancanze.
La terza fase si realizza attraverso l’attribuzione di punti di forza e di
debolezza alle comunicazioni della nostra mappa. Dall’esame dei punti di
forza verranno evidenziate risorse utilizzabili anche in ambiti comunicativi
diversi (la comunicazione scritta appesa in bacheca potrebbe funzionare
anche per altri tipi di comunicazione), e verranno anche enucleati anelli deboli,
mancanze che potremmo tradurre in bisogni e attese di comunicazione,
personali e collettive. Le domande sono “Cosa va bene, cosa non funziona,
cosa manca?”.
Nella quarta fase si potranno andare ad analizzare in un’ottica di
progettualità le esigenze di comunicazione emerse al punto tre. Progettualità
significa proporre passi operativi fattibili, soluzioni percorribili, con la tecnica
del brainstorming e con le tecniche della creatività. In questa importante fase
le esigenze devono essere tradotte in obiettivi specifici, misurabili,
proporzionati, raggiungibili, realistici, con una scadenza, e soprattutto
formulati tenendo conto della dimensione organizzativa e sociale nella quale
verranno calati, della dimensione “sistemica” in cui ogni piccola modifica
comporta cambiamento a tutti i livelli. La caratteristica specifica di un
obiettivo è quella di indicare quali effetti si vogliono ottenere mediante
l’azione proposta e cosa realisticamente ci si aspetta che possa accadere.
Quindi aggiungiamo un aggettivo ancora a quelli sopra elencati: un obiettivo
deve essere accettato da tutte le parti in causa. (Riferimenti bibliografici:
Di Raco, Gaetano M. Santoro, “Il manuale della comunicazione interna”, 1996,
Milano, Ed. Guerini)