3 aprile 2007

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3 aprile 2007
Anno IX n. 7
3 aprile 2007
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PHILIP K. DICK
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Stilos
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ANDREA CAMILLERI
VENTICINQUE ANNI DOPO. Il padre della
science fiction, dell’ossessione mistica e
della visionarietà che ha anticipato il
nostro tempo robotico e telematico.
pagine
LE PECORE E IL PASTORE. Un pamphlet
su un caso realmente accaduto che la
storia voleva tenere nascosto perché riporta l’Italia e la Sicilia al Medioevo.
18-19
pagina
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LEONARDO COLOMBATI
pagina
B
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L’INNOCENZA. La storia dell’Inghilterra
previttoriana del Settecento sul passo
del suo poeta che ne venne elevato a
simbolo del tempo: William Blake.
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FERMATE
DIO
VOGLIO
SCEGLIERE
1
euro
TRACY CHEVALIER
RIO. Il romanzo di formazione di un giovane che cerca la felicità e percorre il
mondo per poi tornare al punto di partenza. Una nuova prova labirintica.
3
I
pagina
8
La dirompente
requisitoria
di Odifreddi
che accusa
il cristianesimo
pagina 24
Ángela Becerra. Il penultimo sogno
pag. 11
Patrick Fogli. L’ultima estate di innocenza
pag. 4
Giosuè Calaciura. Urbi et Orbi
pag. 5
Francesco Guccini,, Loriano Macchiavelli.
Marosia Castaldi. Deentro le mie mani le tue
pag. 4
Tango e gli altri
Antonio Debenedetti. Il mio Manganelli
pag. 20
Elias Khuri. La porta del sole
pag. 10
José Rico Direitinho. L’orologio degli angeli
pag. 14
o Trevisan. Il ponte
Vitaliano
pag. 15
pagg. 12-13
2
I n t e r v i s t e
io è il nome di un club nudista della capitale inglese, teatro di dissipatezze e
crudeltà (dobbiamo tener
presente anche l’altro significato di rio?). Già dalla
copertina sei in allarme:
uno che ha esordito con Perceber, «un’operacatalogo non polifonica, come sarebbe piaciuto a Bachtin, ma più propriamente atonale, se
non addirittura dodecafonica», ti costringe a
sospettare tranelli, a cercare allegorie, sottotesti e suggestioni esoteriche. Ma questo è un romanzo programmaticamente non sperimentale che proprio in quanto tale, a giudicare dalle
prime reazioni, divide nettamente la critica: chi
aveva esaltato Perceber depreca la scelta midcult, chi non ne tollerava l’illeggibilità esulta
per la svolta. Uno scrittore che spiazza, o che
si nasconde: labirinti eruditi o disinvolti afterhour, di rado senti la voce dell’autore (risuona forse in alcuni passi di sarcasmo, di insofferenza). Gli accenti semplici sgomentano
Colombati e Rio non è meno postmoderno di
Perceber: il gioco combinatorio è solo occultato. Il suo aspirante scrittore vive in modo mediato: la gelosia assomiglia a quella del giovane Swann, un vino spiacerebbe a Bukowski e
il curatore è come quello del Mocambo di
Paolo Conte. Ma il moltiplicarsi di questi accostamenti finisce per diventare soffocante.
Notando che una donna assomiglia a una murena, precisare che è «simile a quella a cui il
triumviro Crasso aveva regalato orecchini di
diamante e una collana di perle» è così pedantesco che non si può non chiedersi: è letteratura pedagogica? O si strizza l’occhio al lettore
(sai, quel triumviro che tu sicuramente conosci)?
Si incontrano personaggi come Martin Amis,
venendo edotti sulle traversie con il padre e
con le biografie ma senza che cambi granché
nella traiettoria del protagonista. Vengono in
mente le considerazioni di Labranca su Battiato che in Prospettiva Nevskij incontra inevitabilmente Nijinskij e Stravinskij. Così nella
Versilia di Rio non può mancare il giovane
Carmelo Bene, per non parlare degli Agnelli.
Ma più che vissuti o reinterpretati sembrano ritagliati e incollati.
Il protagonista, nato ricco, vuole di più: più denaro, le varianti extra-lusso del sesso, la fama.
Non vuole un mondo diverso ma un poco più
luccicante: «Non c’era nessuna cosa giusta
da fare, perché semplicemente non c’era nulla di giusto, e niente da fare, se non andare dietro ai violini». Ma le città mostrano indifferenza per chi le abita. Il libro è zeppo di riferimenti topografici e di costume, vere e proprie sequenze in cui si ripercorrono le strade di Londra. Ciononostante non riuscirà a possederla:
ritornerà in Italia per prendere in mano l’azienda di famiglia, costretto, apparentemente, dalla mala riuscita nel Grande Gioco. Tuttavia, in
un libro che non potrebbe essere più diverso da
questo, Il padre degli animali, Andrea Di Consoli scrive che tutti tornano, perché nel mondo
non c’è niente: «solo il destino salva le creature, solo l’infanzia, che è il destino delle persone». Sembra che occorra riappropriarsi del
mondo dei padri - masseria o impresa edile che
sia - per sentirsi «pienamente incastonati nel
proprio destino». E il protagonista di Rio anche se parte per snobismo e non per fame, è in
fondo, con tutta la sua cultura e la sua consapevolezza, l’emigrante di sempre. Le lauree e
i master sembrano non contare, data che la fortuna dell’italiano presso l’Amministratore Delegato è dovuta alla competenza in «bucatini
all’amatriciana». Stilos ha interistato Colombati.
Dall’abnorme capo d’opera all’opera tradizionale. Ridimensionamento? Resa alle ri-
LEONARDO COLOMBATI
"Rio"
pp. 335, euro 17
Rizzoli, 2007
Andare a Londra
e trovare due padri
Un giovanotto romano, nauseato dal
volgarissimo padre, palazzinaro romano, va a lavorare a Londra, entrando nelle grazie del potentissimo Richard Muss e conoscendo un padre
putativo raffinato, Runeberg, scrittore
di fama che potrebbe risultare non
meno spregevole del padre vero. Dopo
un crescendo di stravizi culminante
nella zona segreta del Rio Center, dove
campeggia la Sfera (tritacarne che ripropone oniricamente i personaggi del
libro) e meno convinti tentativi di
sfondare nel mondo degli affari, il protagonista torna a Roma per prendere
il posto del padre nell’azienda.
LEONARDO COLOMBATI. Una storia di deformazione
esistenziale in un labirinto di suggestioni e spinte
interiori. La crescita di un giovane del nostro tempo che
sfiora sempre il baratro e si perde in un gioco di rovesci
Quando non si sa
di possedere le ali
ELIO PAOLONI
VIVE A BRINDISI. HA PUBBLICATO "SOSTANZE" (MANNI, 2001) E "PIRAMIDI" (SIRONI 2002)
chieste dei lettori comuni?
No. Nessun ridimensionamento, nessuna «resa». Almeno nelle mie intenzioni. Quanto agli
esiti, ovviamente non sta a me giudicare. La
storia che volevo raccontare richiedeva lo stile e la voce che ho usato. In Perceber c’era il
narratore onnisciente. Rio è un romanzo in prima persona, e la voce è quella di un ragazzo
mediamente acculturato. Certe ruote di pavone, certi fuochi d’artificio presenti nel primo libro non me li potevo più permettere. È curioso che molte persone a cui il mio primo romanzo non era piaciuto per via della sua complessità hanno criticato il mio secondo romanzo per la ragione opposta. Forse non sono lo
scrittore che fa per loro.
Dai tempi del Giovane Holden l’età della
formazione si è spostata molto in avanti,
tanto che la vera formazione del narratore
di Rio non si colloca all’età di Sapore di
mare, rievocata nei ricordi di Versilia, ma
arriva - se arriva - dopo i «secondi» amori
e il primo lavoro.
Direi che il problema del protagonista di Rio è
proprio questo: è un immaturo, la sua adolescenza si prolunga ben oltre le soglie del ridicolo, e così come i bambini è un egocentrico,
GIUSEPPE AMOROSO
A Londra, sul finire degli anni Novanta, in un esclusivo club
per nudisti, i due «eroi» di Rio s’incontrano «perfettamente
ignari uno dell’altro ma con la stessa malavoglia di condividere una trasgressione privata». Il narratore senza nome è un
giovane italiano destinato a una brillante attività di avvocato,
«bugiardo professionista» giunto in Inghilterra dopo la delusione amorosa patita per l’abbandono di Klaudia, e desideroso di «grattar via certe tracce di calce» lasciategli in eredità
dalla sua famiglia di ricchi costruttori edili. L’altro è il vecchio
Filippo Runeberg, un famosissimo scrittore dal leggendario
passato di dandy, gran dissipatore di fortune abituato a usare
le banconote «come segnalibro». Disilluso dalla cultura e convinto che di un romanzo «resistono solo la trama e i personaggi», ora sta «acciambellato attorno al nadir della sua sfolgorante carriera letteraria». A questo punto nasce fra i due
un’intesa che Colombati, esordiente con il macchinoso romanzo Perceber, distribuisce nei molteplici e tortuosi percorsi del suo nuovo, fluviale romanzo. I pericoli di una rappresentazione incontenibile fatta di particelle ed esercizi minimizzanti (fissati da una scenografia dilatata non solo dall’abbondanza di elementi ma dal tono divertito con cui viene col-
Una pubblicazione
Domenico Sanfilippo Editore
Nella foto Leonardo Colombati, autore per Rizzoli di Rio
IL LIBRO
R
S tilos
S t los
Direttore responsabile
Mario Ciancio Sanfilippo
Coordinatore
Gianni Bonina
Anno IX, n. 7
Martedì 3 aprile 2007
interpreta tutto ciò che gli capita attorno come
se fosse accessorio ai suoi bisogni, e anche la
presa di coscienza finale, il «momento rivelatore», suona falso, non si riesce a capire se l’ha
compreso davvero. A me che l’ho inventato,
questo ragazzo non suscita alcuna simpatia.
Gli sono toccate in sorte molte fortune (una famiglia coi soldi, una ragazza che lo ama,
un’occasione lavorativa più unica che rara)
che lui non riesce a sfruttare per ingratitudine
e soprattutto per mancanza di coraggio. In
questo senso mi ricorda Gregor Samsa, il commesso viaggiatore de La metamorfosi che vive in Charlottestrasse assieme alla sorella e ai
genitori. A differenza di molti - forse tutti - io
lo detesto, non ne ho alcuna compassione.
Gregor Samsa è uno dei personaggi più realistici che la letteratura ci abbia mai regalato,
sebbene una mattina, al risveglio, egli si scopra
trasformato in un gigantesco insetto. Disteso
sulla schiena «dura come una corazza», osserva «il ventre convesso, bruniccio, spartito da
solchi arcuati», ed esclama «che cosa mi è capitato?». È stato Nabokov - grande esperto di
farfalle - a notare che Kafka ha descritto un coleottero e che dunque sotto le elitre dovevano
esserci delle piccole ali. Ecco, il realismo di
Gregor Samsa sta nel fatto che non s’accorgerà
mai di avere un paio d’ali. Così come il protagonista del mio libro. Non è questo, forse, il
destino di tanti uomini?
D’altro canto, già a trentacinque anni, rendendosi conto di amare «quella coatta coi
colpi di sole che passava sotto il Ponte di
SECONDA LETTURA
Viaggio picaresco in commedia
to un universo dorato), risultano spesso superati dalla consapevolezza dell’autore di centellinare pregiate riserve di occasioni narrative, brandelli d’avventure, atomi romanzeschi
nascosti nei più limitati ambiti, in non del tutto risolti grumi
psicologici, e ancora alla caccia di sblocchi, per rendere visibile la potenzialità aggressiva, gli urti delle emozioni che affiorano nelle coscienze. L’imperativo epigrammatico e sentenzioso messo in onda non tollera alcun distacco dal telaio
severo del «piolo di dolore conficcato nel petto» di Runeberg,
e concede a determinati stati di esclusione una sorta di misura universale, l’accettazione di una vita che «presenta il conto». Spiazzata dalla visionarietà avvampante e dalla tecnica
perizia dello sguardo funambolico, la pagina ondeggia fra le
giravolte di una «comica accelerata» e la registrazione archivistica (talora sfogliata dalla fantasia); fra i «tratti della commedia» e un picaresco viaggio che raccoglie un variopinto coro con le sue mode, i vizi, la ricerca obbligata dell’edonismo,
l’ipocrisia, la convenienza politica. Si affonda il bisturi nel vi-
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Catania
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Rialto urlando Like a virgin», quella Madonna che un tempo si odiava, si avverte
«violentemente il tempo che passa».
Conosco una fetta statisticamente rilevante di
miei coetanei che hanno attraversato l’arco di
tempo che va dall’adolescenza alla maturità rifiutandosi di crescere. Poi succede qualcosa,
magari un matrimonio contratto per noia o per
debolezza, la nascita di un figlio non voluto, o
la necessità di confrontarsi finalmente col
mondo del lavoro, e zac!, tutto va in pezzi. Di
solito si dice di queste persone che «sono troppo sensibili». La verità è che sono degli idioti. Ma ciò che più importa è che la società italiana consente loro questo processo anti-formativo, dà loro degli alibi potentissimi: alibi
che sono un senso travisato del valore della famiglia, un sistema educativo assente, un mercato del lavoro che li trattiene sotto la gonna
delle madri quasi fino all’andropausa e poi li
lascia in mutande al momento del conto…
Il protagonista di Rio è in cerca di un padre alternativo. Ne trova due: lo scrittore e
il businessman. Lusingato, attratto e schiacciato dalla strabordante personalità di tutti e due, sembra privilegiare le lezioni raffinate del letterato piuttosto che quelle del
boss della sua Compagnia, un rozzo americano, ma poi si scopre che la grande lezione morale è quella di Mister Muss: «Il rispetto della parola data è più importante
della vittoria, più importante della legge
stessa». È solo un caso che in questo libro lo
scrittore - moralmente superiore per definizione - risulti alla fine un debosciato e - cosa ben più grave - arido e ipocrita?
No, non è un caso. Riflette la mia esperienza
personale. Io faccio lo scrittore ma ho anche un
lavoro «vero»: Mr. Muss esiste nella realtà, lo
conosco, mentre Runeberg è la media ponderata degli intellettuali italiani che ho conosciuto in questi ultimi anni. Al di là di non infrequenti e meravigliose eccezioni, la Cafè
Society, il mondo che gira intorno alla letteratura, è composto da persone mediocri, rancorose, gelose, invidiose, finto-moraliste, opportuniste e di un tristezza inaudita. Non è colpa loro: il loro mondo è uno stagno limaccioso ed è difficile - anche per me - tenere la testa
sopra il pelo dell’acqua.
Ci si spaventa, prima di iniziare la lettura,
nel trovare un elenco delle fonti (biografie,
saggi storici, testi tibetani) come se stessimo per affrontare un testo scientifico, e a
fine libro ancora un’altra fonte: il dialogo
tra due personaggi di una serie televisiva
israeliana (e io che mi credevo cosmopolita
per qualche puntata di Office su Sky). Si
avvisa il lettore della salda preparazione di
chi scrive o si mettono le mani avanti per
scansare eventuali accuse di plagio?
Tutti gli scrittori plagiano, se per plagiare s’intende il lavoro di documentazione che sta dietro a un libro. Ho citato le mie fonti semplicemente perché trovo giusto «ringraziare» gli autori che ho cannibalizzato.
A pag. 22 ci si imbatte in un incisione del
’29 adottata dal Rio Center come logo. Si
pensa perciò di ritrovare anche in seguito
immagini, schemi, piantine. E invece no.
Era così importante quell’immagine?
È vero, non è importante. Ma se dovessi eliminare tutto il superfluo da ciò che scrivo forse
non rimarrebbe che l’elenco delle fonti…
Il narratore vive i suoi amori a volte in maniera svenevole, altre volte con cinismo. Per
dirla alla sua maniera, tra Moccia e Tedoldi. C’è qualche affinità tra te e loro?
Mi capita di essere cinico e svenevole piuttosto spesso nella stessa giornata. A un uomo che
svenisse soltanto consiglierei una visita medica, a un cinico a tutto tondo di tentare la carriera politica. Quanto a Moccia e a Tedoldi, non
ho mai letto un rigo di nessuno dei due e il narratore mi ha appena telefonato per dirmi che
non li ha letti nemmeno lui.
vo della contemporaneità, ma si ricava un risvolto aneddotico, si setacciano biblioteche per entrare in possesso di risposte paradossali, accostamenti finalizzati allo stupore. Parti narrative si miscelano con altre saggistiche o satiriche, mentre si
dipana il filo rosso dell’io che si finge scrittore per catturare
la simpatia di Runeberg, intreccia una storia d’amore con la
nipote di lui, si affida alla memoria (risale prepotente la figura del padre in «intrepida» lotta con mostri che erano un po’
fuori tempo e pertanto un po’ ridicoli), osserva la propria vita «come dal buco nel sipario dal quale gli attori spiano - non
visti - se il teatro è pieno», cede al vizio della droga, rimane
attratto dal «peggio delle cose» e incontra una donna che, per
«misteriosa coincidenza», continua a passare nel suo «campo visivo». Ormai il romanzo è una successione frenetica di
eventi che però non possono «regalare certi tocchi dostoevskijani»: l’unico spiraglio drammatico è quello di un sadico
Runeberg «compiaciuto di se stesso come un umorista del
male». Poi tutto sfuma nel grigiore di «decine di soli, opachi
come stelle morenti». Capace elaborare le più ardue sperimentazioni espressive, Colombati tratta l’oceanica materia
con un’inquieta mano d’ironia, dandoci ritratti a tutto tondo
e stralciando da un tempestoso e aguzzo brulichio di fatti
squarci abitabili di paesaggi e diroccate dimore del desiderio.
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Catone
narrativa
italiana
pagina
ANDREA CARRARO
IL POEMA DI DI CONSOLI
Il padre degli animali di Andrea Di Consoli (Rizzoli) non è un libro per chi cerca
suspense e avventura o semplice svago.
Quella che pratica il giovane scrittore
svizzero-lucano lungi dall’essere una letteratura scacciapensieri, induce una quantità di (amarissimi e gravi) pensieri sulla
vita e sulla condizione umana. Di Consoli nasce come poeta e il suo discorso romanzesco si innerva di contenuti poetici e
continuamente trascolora nella poesia.
Improvvisamente una parola, o un giro di
frase, si ripetono, ciclicamente, con ritmo
e armonia. Insomma, Il padre degli animali è una sorta di lungo poema in prosa
che racconta il ritorno nella sua terra natia
(qualche imprecisato borgo della Lucania)
di un emigrato svizzero con il suo figliolo del quale non si dice l’età ma si evince
essere un adolescente. Nel libro i due personaggi vengono chiamati semplicemente «il padre» e «il figlio» per distanziare la
materia narrata, quasi dando al romanzo
una evidenza universale, atemporale e
astorica. Il padre - un uomo che sta invecchiando, sfiancato da una vita di operaio e
di manovale - torna nella sua collina vinto dalla nostalgia e da un oscuro e vivido
senso di appartenenza. Ma la vita nella
collina è perfino più difficile e dura di
quando era emigrato in Svizzera portandosi dietro il figlio. Nel paese infatti non
c’è lavoro e le promesse del barbiere-assessore ai lavori pubblici o del sindaco (di
trovargli un posto da bidello) non si avverano.
Il padre, giovandosi della sua esperienza
di operaio maturata in Svizzera nel corso
di un ventennio, entra a fare parte di una
ditta di muratori che stanno restaurando
un vecchio convento. Ma ormai si sente
troppo anziano e malandato per quel lavoro e allora, ottenuta una licenza di fruttivendolo, insieme al figlio gira per la valle con un furgone a vendere la frutta, mettendosi così in conflittuale concorrenza
con un vecchio amico che fa lo stesso lavoro.
Il figlio chiede continuamente al padre
questo e quello, sul perché abbia voluto
abbandonare la Svizzera, sul significato
dell’esistenza e della natura, su quel luogo del Sud che sembra abbandonato da
Dio, sugli animali che popolano quella
terra seguendo il ritmo delle stagioni senza farsi tante domande. Il padre risponde
con massime dal tono ora profetico ora
mistico e oracolare. A volte tutte le apprensioni del figlio (spaventato dalle malattie e dalle disgrazie già alla sua giovane età) lo mettono di cattivo umore e le
sue risposte diventano aspre e dolenti.
Profondo e intenso è questo rapporto padre-figlio, che attraversa tutta la narrazione descrivendo l’amara parabola del
diventare grandi e della paternità. Il libro
ha momenti toccanti: quando il figlio
sgozza un coniglio per dimostrare al padre
di essere diventato grande e di non essere
più una femminuccia, oppure quando il
padre rievoca il momento più brutto della sua vita e cioè quando un medico in
Svizzera gli aveva diagnosticato un brutto male e tre mesi di vita. Ma resta impressa anche l’avventura di don Eugenio (un
personaggio appena accennato eppure
perfetto) che in preda a furiosi sensi di colpa viene meno al dovere dell’astinenza e
passa la notte con una donna del paese oppure il suicidio del barbiere-assessore nella terza parte intitolata La fraternità dell’odore degli animali, ovvero nelle ultime,
tragiche e luttuose pagine che vedono il
padre ormai sconfitto, disilluso dagli uomini e dal suo lavoro, trascorrere tutte le
ore della giornata nella stalla a badare
agli animali e a parlare con loro: «E qualcosa dice questa capra - qualcosa dice al
genere umano affannato - mentre sta ferma e allertata davanti all’uomo che le
parla allungando la mano. (…) L’uomo
che le parla, e che vorrebbe non vederla
mai con la gola ferita, sussurra parole delicate, perché le capre sono ragazze dolcissime, ragazze intimidite che scappano col
batticuore».
L’epilogo poetico e visionario precede e
introduce la fine tragica del padre, che è a
terra e si stringe il ventre e ha gli occhi
chiusi e il figlio ha appena avuto un presentimento avvertendo una scarica nervosa sulle gambe. Il tema della morte, già
presente in altre parti, dunque ritorna ancora una volta siglando di nero il romanzo e la vita del figlio. Un finale che meno
consolatorio di così non poteva essere, a
sigillo di un’opera importante di un autore che sinora si era segnalato più come critico e poeta che come narratore.
S t los
narrativa
italiana
R e c e n s i o n i
C
GIANNI BONINA
on Le pecore e il pastore
Camilleri si riattesta sulla
soglia di attenzione per le
commessure della storia
agrigentina occupata già
con La strage dimenticata. È la stessa soglia
sulla quale, nella sfera letteraria, sono nati La
scomparsa di Patò, ma anche La stagione
della caccia, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, La mossa del cavallo: romanzi civili integrati dall’Inchiesta parlamentare del 1875 in Sicilia. Le commessure che
Camilleri ricerca sono quelle costituite da note a piè pagina e spunti incidentali e laterali
che, come avveniva per Sciascia, aprono vuoti di microstoria locale da colmare con il portato della ragione. E proprio questo Camilleri
ha fatto anche stavolta: ha escavato da un remoto e rimosso episodio del 1945 avvenuto a
Palma di Montechiaro un recesso inimmaginabile di orrore e abominio cui solo la convegnistica locale ha prestato finora orecchio: la
morte volontaria di dieci suore benedettine
che offrirono la loro vita a Dio in cambio della sopravvivenza del vescovo di Agrigento
ferito in un attentato. E su questo eccesso Camilleri si è messo a ragionare.
Senonché è stato forse proprio il tema dello
scambio ad attirare il suo interesse, perché
del cambio, della sostituzione di persona, del
baratto, della componenda, dello «scangiu» insomma, Camilleri ha fatto un suo valsente: da
La forma dell’acqua a Biografia del figlio
cambiato, per fare solo due esempi. Qui il
patto che postula una permuta, cioè un commercio, è addirittura con Dio. E Camilleri, di
fronte all’enormità del fatto, non riesce a maneggiare gli strumenti del romanzo ma sceglie
di servirsi di quelli del saggio: una incapacità
che gli viene dall’indignazione già vista in
occasione dei 114 morti de La strage dimenticata come anche di La bolla di componenda,
e che gli impedisce di assecondare l’inventio
urgendogli piuttosto soddisfare l’invenio, trovare anziché inventare.
Ma proprio qui la scelta è a metà dei due coté,
perché Camilleri, mentre è impegnato nella
sua quête storica, indulge anche all’invenzione: benché non si tratti di phanthasia letteraria
quanto di congettura - o "ipotesi", come egli
intitola il capitolo delle supposizioni. Tuttavia
per accertare le sue intenzioni occorre trovare
un preciso segnale, già colto in Biografia del
figlio cambiato: quando Camilleri si dà al ragionamento - e quanto più in esso egli si concentra - il ricorso a termini dialettali si riduce
fino a scomparire, mentre quando ricorda o
racconta fatti la vena idiolettica emerge con
trasporto.
Quindi si può parlare qui di romanzo a patto
che comprenda l’accezione di saggio girato in
pamphlet , del tipo del romanzo illuministico,
per intenderci, il genere dopotutto più confacente a un raissoneur educato alla scuola della ragione qual è Camilleri. Dove ragione significa non solo laicità, coscienza aconfessionale e credo nei realia ma anche rigore, razionalità, concretezza, prudenza e intelligenza.
Sono qualità che troviamo combinati in un atto di coraggio e di denuncia che non poteva
non destare reazioni già solo per la forza dirompente dei fatti: dieci suore che offrono la
vita in cambio di un’altra postulano un atto di
fede spinto fino alla superstizione e all’ordalia
e riconducono la Sicilia e la chiesa cattolica nel
fondo medievale più oscurantista e tabuizzato.
Delle reazioni al libro comunque non sorprendono né la presa di posizione della curia di
Agrigento che della morte delle giovani suore
dà un’interpretazione materialistica, imputandola a cause naturali, né quanto confusamente ha detto - all’uscita del libro - l’ispiratore involontario di Camilleri, quell’Enzo Di Natali,
autore di L’attentato contro il vescovo dei
contadini, che riporta il caso delle suore suicide in una breve nota a fondo pagina: mentre
ammette che le suore fecero il voto di dare la
loro vita per la guarigione del vescovo, subito
dopo però precisa che non si lasciarono mori-
Nella foto Andrea Camilleri, autore per Sellerio di Le pecore e il pastore
pagina
3
ANDREA CAMILLERI. Tra racconto e pamphlet, la vicenda terribile di un episodio
dimenticato, che è già motivo di polemiche. Una nota a piè pagina di un libro minore suscita
nell’autore de "La strage dimenticata" indignazione e interesse. E, riprendendo strumenti che
sono stati di Sciascia, indaga e ragiona per trovare conclusioni e soprattutto giustificazioni
La morte di dieci piccole suore
una nuova strage dimenticata
re ma «furono il tifo e la carestia ad ucciderle
nonostante la giovane età». Viene fatto di chiedersi che motivo avesse la badessa di mentire
al vescovo dicendogli, undici anni dopo, che
per fede dieci giovani suore avevano offerto la
loro vita a Dio mentre in realtà erano malate e
dunque destinate alla morte, attentato o meno.
Nella lettera al vescovo la badessa scrive che
le suore «lasciarono la vita»: usa perciò un eufemismo che legittima in realtà dubbi sulla volontarietà della loro morte, ma - perché messo
in relazione al ferimento - il decesso comprova che non avvenne per cause naturali. A meno di pensare che Dio, ascoltato il loro voto, lo
abbia accolto scegliendo unilateralmente dieci vite tra quelle peraltro più giovani: un Dio
biblico e particolarmente malmostoso dunque, perché in una comunità monastica colpita dalla carestia e dal tifo (calamità che non
hanno però riscontro nei fatti accertati) lascia
morire di malattia le suore fisicamente più sane e robuste mentre tiene in vita quelle anziane immunizzandole contro il tifo e la fame.
Eppure è questa la conclusione cui spingono
sia la curia che Di Natali, il quale tra il ferimento del vescovo e la morte di dieci suore
martiri è il primo caso che ritiene inopinatamente di maggiore interesse.
È Camilleri a dare ora la giusta importanza ai
fatti svolgendo anche indagini in seguito alle
quali la conferma che di morte volontaria si è
trattato viene da un padre teatino quasi centenario che solo una cosa non ricorda: se le suore suicide fossero state nove o dieci. Eppure
Camilleri è prudente nel sostenere la tesi del
suicidio collettivo, idea che le suore avrebbero senz’altro respinto perché il suicidio è visto
come peccato. La comunità monastica si vota
al dono della vita (ma non di dono occorre parlare quanto di «restituzione», osserva l’autore,
perché la vita in sé è già, secondo la dottrina
cristiana, dono di Dio, che se l’è dunque ripreso) interpretando la morte non come suicidio
ma come sacrificio, la cui causa giustificatrice
è in ciò, che lo scambio avviene tra la «sovravvivenza corporale» di un prelato devoto e gradito a Dio per la sua piissima pastorale e la perenzione di dieci «corpi viventi», cioè dieci
umili e insignificanti entità che sono fatte di
ciò che la fede cristiana giudica reificazione
miserrima: il corpo. Una prudenza quella di
Camilleri che lo induce a porre la reale sostanza dei fatti sotto una sospensione di giudizio
(così da ammettere di non essere un uomo di
fede religiosa e di non essere perciò in grado
«di capire le ragioni più intime e fideistiche di
quel gesto estremo»), per poi decidere di calibrare la congettura: «Cercherò di raccontare avverte al momento di analizzare i fatti - con
una certa verosimiglianza e con qualche ragionevole approssimazione per difetto quello che
avvenne».
Ma non si tratta di un racconto, quanto di una
ricostruzione ispirata alla logica della deduzione e dunque tenuta aderentissima al dato reale. Pur tentato di sciogliere la briglia all’immaginazione, come ha fatto altrove in presenza di
labili elementi storici, qui Camilleri procede
«un passo levi e l’altro metti», attento a non distogliersi dai documenti. E i fatti così come sono ricostruiti appaiono il prodotto circostanziato e non circostanziale dell’analisi dei dati di
fatto. Ebbene: alla notizia dell’attentato le suore si raccolgono in preghiera nella chiesa davanti alla tomba della loro consorella più ama-
IL LIBRO
ANDREA CAMILLERI
"Le pecore e il pastore"
pp. 127, euro 10
Sellerio, 2007
L’attentato al vescovo
e l’offerta della vita
Il 9 luglio 1945 il vescovo di Agrigento
Peruzzo viene ferito a colpi di fucile
mentre si trova a villeggiare in un eremo. Le suore di clausura di Palma di
Montechiaro pregano per la sua salvezza e dieci di esse offrono a Dio la loro vita. Il vescovo guarirà e loro
muoiono digiunando. I fatti sono documentati da una lettera che la badessa scrive undici anni dopo al vescovo
rivelandogli il sacrificio di fede che è
stato compiuto. Camilleri, sulla base
di un libro di storia locale che riguarda l’attentato al vescovo, ricostruisce il
caso e «ragiona» sulle molteplici implicazioni.
ta, la venerabile suor Maria Crocifissa cui sono attribuiti non pochi prodigi. È a lei che chiedono il miracolo di salvare il vescovo ferito in
un attentato. Prese in un vortice di misticismo
che diventa sempre più isteria collettiva, qualcuna - col volto ispirato e le mani giunte al cielo - offre la propria vita, seguita da tante altre
trascinate in un crescendo estatico. Suor Enrichetta, la badessa, dispone che sia esaudito
quel desiderio e che siano dunque scelte le più
giovani, ognuna delle quali verrà fatta ritirare
nella sua cella perché il digiuno la porti alla
morte.
Camilleri lascia in sospeso, per troppa prudenza, alcune incognite che si addensano a questo
punto come nebulose. Se la scelta tocca solo le
più giovani, la volontarietà dell’offerta della
vita diventa elemento che non regge più, non
potendo essere avvenuta che per chiamata, a
meno di credere che a volersi immolare siano
state unicamente dieci suore e tutte dell’età più
giovane: il che è illogico. Diversamente, se il
numero delle suore da sacrificare è stato deciso da suor Enrichetta prima della conta delle
volontarie, non può essere stato raggiunto che
per via di una costrizione - nel caso fossero
meno di dieci - o di una scelta tra due o più volontarie, nell’ipotesi contraria.
Camilleri preferisce dare risposta ai tanti interrogativi ponendo nuove domande, per cui non
arriva a una vera conclusione e lascia il «romanzo» incompiuto. Ma non è l’esatto e peritale svolgimento degli ultimi giorni di vita
delle suore a interessargli, sul destino delle
quali lo vediamo piegarsi versando la pietà di
una coscienza laica che non può accettare la
perdita della vita umana a nessun prezzo né in
nome di una scala di valori quale che sia, memore di un credo di cui anche Montalbano si è
fatto apostolo: la vita come bene non sacrale,
e quindi trascendentale e sacrificale, ma come
unica realtà esistente e materiale, non aliena-
bile né rinunciabile.
A Camilleri è piuttosto il fattore umano che interessa, con i suoi aspetti sociali, politici e
storici. Se anziché dieci suore fossero stati
dieci invasati di una setta a levarsi la vita per
un altro, il suo sguardo non avrebbe perso
acutezza né sgomento. Ed è infatti il contesto
che Camilleri interroga, riprendendo mezzi
di indagine che gli sono propri: ricostruisce gli
antefatti, presenta i personaggi, descrive i luoghi e rifà la storia, il tutto - laddove sia possibile, come in questo caso - verificato alla fonte della sua memoria personale. L’esito sortisce quasi sempre - l’abbiamo già visto negli altri suoi saggi di inchiesta, innanzitutto La strage dimenticata, a cui Le pecore e il pastore si
apparenta - una sconfessione delle acquisizioni storiche. Stavolta ad essere demistificata è la «verità» ufficiale secondo cui il vescovo di Agrigento Peruzzo viene fatto oggetto di
un tentato omicidio per mano di un frate del
convento di Quisquina che lo ha in odio per essere stato cacciato sotto l’accusa di indegnità:
una verità che riduce a un movente privato e
tutto sommato irrilevante ai fini generali un
fatto che riguardando figure pubbliche e istituzionali potrebbe invece avere conseguenze
politiche. Il birraio di Preston, La concessione del telefono e La scomparsa di Patò reiterano proprio questo principio di interscambiabilità (ancora il tema dello scambio) di verità
e versione, fatti e mistificazioni, ragioni pubbliche e private. Qui lo scambio si ha nel senso che l’apparato pubblico, compresa la stampa, si propone di nascondere i reali mandanti
dell’attentato svilendo il complotto politico
al rango di vendetta personale imputabile al
banditismo.
Camilleri porta invece argomenti a favore della tesi avanzata da Di Natali sostenendo che ad
armare i frati, esecutori materiali del tentato
omicidio, sono stati gli agrari, preoccupati
della sua ventilata nomina a cardinale di Palermo e incolleriti soprattutto per la sua inesausta
lotta contro il latifondo, condotta a capo dei
contadini e in difesa dei decreti Gullo-Segni
per la spartizione delle terre incolte e malcoltivate.
Camilleri ha conosciuto da ragazzino il vescovo Peruzzo e la considerazione nei suoi confronti (già espressa in La linea della palma,
dove raccontava che il vescovo lo chiamò per
rimproverargli di essere comunista e che poi
consentì che aprisse a Porto Empedocle una
sezione del Pci dicendogli «Meglio tu che altri»: un episodio riportato adesso anche in Le
pecore e il pastore) è rimasta immutata: ricorda la sua opera in aiuto dei poveri nonché i
«preti sociali» di cui il vescovo si circondò e
che fortificò con l’esempio personale, professando dedizione, generosità e coraggio, tali da
guadagnargli l’odio delle classi al potere e il
sacrificio delle suore benedettine di Palma, interpreti di un diffusissimo sentimento popolare di devozione e affetto.
Essendo Palma di Montechiaro il teatro dei
fatti, Camilleri non può non incontrare Tomasi di Lampedusa, la cui stirpe di santi, duchi e
venerabili rimanda continuamente al monastero del Santissimo Rosario, dove nel Seicento è
stata attiva suor Maria Crocifissa, la Isabella
secondogenita di Giulio Tomasi, in odore di
santità per la sua incessante e vittoriosa lotta
contro il diavolo e per i suoi mirabolanti atti
soprannaturali. Nel 1955, dieci anni dopo l’attentato al vescovo, il principe Tomasi di Lampedusa, discendente dei fondatori del monastero, vi compie due visite accompagnato da suor
Enrichetta, inorgoglita dalle viste di entusiasmo che il nobile dignitario le manifesta al termine. È questa doppia visita a convincere Camilleri che suor Enrichetta rivela l’anno successivo al vescovo ciò che era successo nel luglio del ’45 perché la presenza di Tomasi di
Lampedusa le ha instillato il proposito di aggiungere nuovi meriti a quelli che appena le
sono stati riconosciuti dal successore di suor
Maria Crocifissa e del duca-santo, ogni volta
contento di sentire parlare della sua Beata
Corbera, il nome che suor Crocifisa avrà nel
Gattopardo. La tesi è forse la meno salda del
mirabile mosaico costruito da Camilleri, perché la badessa, per brillare agli occhi di Lampedusa, avrebbe dovuto confidare a lui il segreto e non al vescovo. Che peraltro non farà
mai cenno della lettera nei suoi copiosi scritti,
segno che ha capito benissimo l’abnormità di
quanto è stato fatto in nome di una credenza
spacciata per credo.
Diversi e sconosciuti devono essere stati i motivi che hanno indotto suor Enrichetta a rendere noti i fatti al vescovo. Nella lettera scrive
che intende «fargli ubbidienza», benché - aggiunge - «non sarebbe il caso di dirglielo». Ritiene dunque non necessario farlo ma si decide per un obbligo di ubbidienza: una contraddizione. Che può trovare luce nel pronome implicito che la badessa usa: «Glielo diciamo».
Suor Enrichetta non parla perciò a nome personale, ma per conto di una pluralità di persone che si identifica certamente in quella «comunità» cui intesta nella lettera la decisione di
offrire dieci vite.
E allora una spiegazione può essere questa:
undici anni dopo i fatti la coscienza monastica non ha più retto al peso del rimorso e nel sacrificio collettivo di dieci sorelle è andata sempre più vedendo lo spettro della colpa e del delitto. Sicché l’ubbidienza che muove suor Enrichetta e le altre va intesa come anelito alla
sottomissione e dunque come ansia di rendere confessione: a chi se non alla più alta autorità ecclesiastica di riferimento che è il loro vescovo? Si aspettano una giusta punizione e una
espiazione liberatrice, ma dal vescovo viene
fatto silenzio. Un silenzio che la chiesa agrigentina continua oggi malestrosa a tenere,
perché forse - come osserva Camilleri - implica conclusioni che portano tanto indietro nel
tempo quanto avanti, «fino alla tragica attualità dei giorni nostri». Conclusioni che Camilleri non tira, dicendo che «non è il caso» e così ripetendo esattamente quanto suor Enrichetta scrisse al vescovo: «Non sarebbe il caso». Ma il caso può avere ragioni che la storia
non conosce.
MICHELE GIANNONE
MARCO INNOCENTI
LAURA CAMPIGLIO
IL SEGRETO DI KRUNE
DIARIO
DI UN ACCALAPPIACANI
INVECE LINDA
In un’oscura metropoli, la corsa dei cani e degli uomini
verso la libertà.
“Invece Linda è una storia d’amore e di rigurgito, è una mela
avvelenata, un flipper in tilt per i troppi scossoni".
Andrea G. Pinketts
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Dario Flaccovio Editore
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Dalla Sicilia, una nuova voce del fantasy
che trascinerà i lettori in un viaggio affascinante.
pagina
4
I n t e r v i s t e
prire un romanzo e rimanerne dentro. Vivere in un
labirinto di parole, incantati da una voce d’inchiostro
suadente e dal pensiero
tambureggiante di come
potrebbe essere il nostro
ultimo giorno di vita.
Questo può accadere al lettore di Dentro le mie
mani le tue, un mastodonte montato dalla napoletana Marosia Castaldi, in grado stavolta di
mandare in fibrillazione tutti i nostri sensi. La
Castaldi mette a punto una scrittura materica,
deflagrante, assolutamente esorbitante fino al
delirio, capace di sfondare il muro di gomma
della psiche. Una lettura dolorosa, ossessiva e
visionaria. Il ritmo delle frasi porta il lettore a
far conoscenza con la morte e alla fine ce la
rende meno insopportabile.
Il libro, ambientato nella città di Nightwater e
che chiude una tetralogia, ci fa conoscere i
pensieri di un’esistenza, quella di Maria Berganza, che in un letto d’ospedale (siamo nel
1972) ripercorre tutta se stessa prima di chiudere gli occhi per sempre.
A questa narrazione se ne aggiunge un’altra,
legata alla giovinezza di Maria e al forte sentimento provato per sua madre (Rosa), in cui
racconta i suoi ultimi giorni e l’ostilità contro
i nonni e gli altri familiari.
Lei, Maria Berganza, si sente diversa e ricerca
una condizione di felicità che risulta effimera
e irraggiungibile. Stilos ha intervistato l’autrice.
Negli ultimi anni si è «spostata» molto, divisa tra Milano e Nightwater. Dove si è trovata meglio?
Mi sono spostata, come dicevano analogamente Plotino e Pascal, stando ferma in una
stanza. In realtà - e dico la parola realtà senza
virgolette - Milano non è che una parte infinitesimale di Nightwater, un quartiere in cui
tutto è dentro tutto, tanto che perfino Dio è uno
dei suoi abitanti. A Nightwater non c’è molta
differenza tra un uccello, una pistola, un’anima, una storia, una persona. Il cielo e Dio. Lo
spazio e il tempo non corrono su rette parallele o ortogonali, ma su linee curve mescolandosi sul lontano vicinissimo orizzonte, come una
bruma serale o una rugiada mattutina, una
nebbia pomeridiana. Tanto che i suoi abitanti
ed io con loro e, tu lettore, con noi, non sappiamo mai se il punto della storia e dei fatti e delle cose e del divenire del tutto sia il primo o
l’ultimo della vita e della morte e della creazione.
L’ultimo giorno di vita, Maria Berganza lo
respira tutto. Con la sua immaginazione ci
irretisce e le 719 pagine scorrono senza fatica. Frutto della visionarietà o di un linguaggio non propriamente da scuola di
scrittura (vedi l’assenza di punteggiatura)?
È vero: tutte le pagine del libro sono un respiro e anche un battito cardiaco seguendo il ritmo di inspirazione ed espirazione, di sistole e
diastole. Per me ogni libro è un organismo vivente, né qualcosa che è a fianco della realtà,
ma dentro la realtà di cui contiene almeno
una parte. Diciamo pure che in questo libro io
ho vissuto o ho cercato di vivere tutto come
non separato e, anche dopo la separazione, co-
A
I n t e r v i s t e
narrativa
italiana
MAROSIA
CASTALDI.
Nella foto in alto Marosia Castaldi, autrice per Feltrinelli
di Dentro le mie mani le tue. In basso Patrick Fogli, che da
Piemme ha pubblicato L’ultima estate di innocenza
IL LIBRO
MAROSIA CASTALDI
"Dentro le mie mani le tue"
pp. 721, euro 20
Feltrinelli, 2007
«La morte è
idiota in quanto
per sé sola
non ha forma,
non ha storia,
non ha viso.
La morte porta
il nostro vestito.
Ci accompagna
dalla nascita,
ma quasi mai
ci accorgiamo
di essa.
Quasi mai
la vediamo»
Il flusso di coscienza
di una donna moribonda
Un romanzo come scritto in stato di
trance: ispirato, forsennato per stile e
incombenza, forse dettato da un suggeritore inconscio in condizioni di febbrile concitamento. Con una punteggiatura resa allo stadio zero e un procedimento che richiama i modelli dello
stream of consciousness, qui un flusso
di coscienza che prende il passo di un
ragionato e lucido monologo. Scritto
in un arco di tempo relativamente breve, Dentro le mie mani le tue integra
una lunga conversazione con la morte
nel progetto di esorcizzarla e richiamarla alla vita facendone la compagna
di una donna, Maria Berganza, che
muore come se dovesse rivivere.
Per immobilizzare il presente
ci occorre fare vivere la morte
GIANNI PARIS
VIVE AD AVEZZANO. "SENZA NUMERO
CIVICO" (PENDRAGON, 2004), "MARE
NERO" (EDIZIONI DELL’ARCO, 2006)
me contemporaneamente parte di una vitamorte in continua formazione. Del resto, perché nello stesso organismo una cellula nuova
viva per mandare avanti l’intero deve far morire una vecchia. Per questo non credo alle visioni: credo che chi plasma figli, carta, parole,
suoni, carne, immagini, colori, vede molto
ma non al di là del reale, ma ancora una volta
dentro il reale.
Lei ha scritto che «la morte è idiota, maledettamente idiota. Non è buona né cattiva
né santa né perversa. È solo una cosa della
vita come un sasso o una conchiglia vuota».
Il suo pensiero, al riguardo, è lo stesso di
Maria Berganza?
La morte è idiota in quanto per sé sola non ha
forma, non ha storia, non ha viso. La morte
porta il nostro vestito. Ci accompagna dalla
nascita, ma quasi mai ci accorgiamo di essa.
Quasi mai la vediamo. Se poi cominciamo a
sentire la sua presenza, dobbiamo venire a
patti con lei. Più che cercare di addomesticar-
la, forse dovremmo addirittura amarla, tanto
che a Nightwater Maria Berganza e la sua
morte fanno l’amore sul letto di una camera
d’albergo.
Si può dire che lei con questo monumentale romanzo ha voluto anestetizzare la morte, sino a renderla meno terribile?
Non cerco affatto di anestetizzare la morte, ma
di farla vivere, ed essere come di fatto non si
può negare che sia. In questo modo forse si
può non immobilizzare il presente in un’eternità dolente.
Dolore e ossessione ricorrono in tutte le pagine del suo libro. Questo Dentro le mie mani le tue è un lavoro di immedesimazione,
con se stessa, è vero?
La vita di Maria e Rosa Berganza si confondono tra loro e a loro volta si confondono con la
mia e, credo, anche con la storia di qualsiasi
donna che in fondo sa quanto sia grande e potente ma, nello stesso tempo, pericoloso e tenebroso il legame tra una madre e una figlia,
non solo per la durata di una sola vita ben inquadrata nelle sue date, come 1932 e 1972, ma
per tutta la durata del processo generativo,
nella carta, nella carne e dentro la carta e la carne tutte le pagine di un libro.
Il libro percorre quarant’anni (dal 1932 al
1972). Ovvero inizia e finisce con due mor-
ti. Quella di Rosa Berganza (prima) e di sua
figlia Maria (dopo). Dentro però c’è tutto
l’universo domestico, c’è l’humus della vita, quella che sembra non finire dopo l’ultimo respiro, giusto?
L’humus domestico quindi fa parte di un humus più grande che appartiene agli alberi, al legno, alle anime, alle cose, a tutto quello che
chiamiamo Terra, da cui non ci si stacca mai
veramente nemmeno per morire. Non credo
nella reincarnazione e nemmeno nella vita
propriamente «eterna» dopo la vita terrena.
Leopardianamente penso che la nostra parabola umana composta da cose, fatti, storie, illusioni, delusioni e tanta «materiata» e «materiante» materia si svolga in un tempo e in uno
spazio di cui ancora non conosciamo gli esatti confini. È questa dei confini della durata una
domanda che mi pongo e a cui è impossibile
almeno per me rispondere. In conclusione,
non credo nel dopo l’eterno, ma credo nell’eternità.
Ora che i suoi personaggi parlano sugli scaffali delle librerie lei sarà più sola?
Ora, dopo questo libro, come te lettore, vorrei
sentirmi meno sola ed insieme, su una strada di
luce che è una delle epifanie portanti di Dentro le mie mani le tue, ad altre mani, altre storie, altre vite, come la tua, lettore.
V
O
C
I
MASTER AD URBINO
REDATTORI CULTURALI
PER L’INFORMAZIONE NEI MEDIA
È stato istituito all’università di Urbino
«Carlo Bo» il master di primo livello «Redattori per l’informazione culturale nei media». Si tratta del primo master italiano dedicato alla formazione di professionisti nel
campo del giornalismo culturale tanto nei
quotidiani quanto nelle riviste, nella radio,
nella televisione e nella rete. Fra i docenti
sono compresi esponenti del mondo del
giornalismo culturale, dell’editoria, della
televisione, della radio ed esperti nei principali ambiti disciplinari cui il giornalismo
culturale si rivolge (arte, letteratura, teatro
cinema, musica, scienza; tra gli altri Benedetta Centovalli, Daniele Brolli, Grazia Casagrande, Vittorio Bo, Giorgio Boatti, Enzo
Golino, Giulio Mozzi e Tommaso Pincio).
Diretto da Roberto Danese, il master è di
durata annuale e richiede il titolo di laurea.
Informazioni su www.uniurb.it/redattoriculturali oppure tel 0722.305674.
NAPOLI
LABORATORIO
DI EDITING
«Lalineascritta», laboratorio di scrittura
creativa ideato e curato da Antonella Cilento, ha organizzato da aprile a giugno un laboratorio pratico per scrivere e verificare la
coerenza delle proprie storie e arrivare dal
testo provvisorio a quello definitivo. Tra
gli autori che saranno ospiti figurano Melania Mazzucco, Laura Bosio, Ena Marchi,
Lia Levi. Ci sarà anche un laboratorio di
racconto bonsai e poesia haiku con quattro
incontri tenuti da Giuliana Riccio e Rossella Milone. I laboratori si tengono presso
«Zerostress», via Arco Mirelli, 36 (Napoli).
informazioni su www.lalineascritta.it oppure [email protected] [email protected]
o
tel.
081.2462079,
349.6303260.
PREMIO CASTELPAGANO
LIRICHE INEDITE
NEL FOGGIANO
PATRICK FOGLI. Un poliziesco senza più Ricciardi
Indetta dalla Sentieri Meridiani Edizioni la
prima edizione del premio nazionale di poesia «Castelpagano» con il patrocinio del
Comune di San Marco in Lamis. Possono
partecipare raccolte di poesia inedite che
non superino gli ottocento versi. Ogni concorrente dovrà inviare a mezzo raccomandata una busta contenente due copie delle
composizioni dattiloscritte e salvate su
floppy o Cd, ciascuna delle quali riporterà in
prima facciata un motto. Tale motto sarà ripetuto in una busta chiusa contenente anche
il nome, il cognome, l’indirizzo completo, il
numero telefonico e eventuale indirizzo email con firma dell’autore. La busta va inviata entro e non oltre il 31 maggio 2007 a
Sentieri Meridiani Edizioni via della Lupa
25 71100 Foggia. Non è previsto alcun
contributo. Informazioni su www.sentierimeridiani.it.
Le mie estati sono quattro
PREMIO DIONYSIAKOS
POESIE INEDITE
SUL TEMA DEL VINO
uattro storie s’intrecciano, si fondono, entrano una nell’altra nel nuovo
romanzo del trentaseienne bolognese Patrick Fogli L’ultima estate
di innocenza. Quella che descrive Fogli è
PAOLO ROVERSI
un’estate strana, piena di sole accecante e di
temporali improvvisi. L’estate di quattro perVIVE A MILANO. I SUOI ULTIMI ROMANsone. È l’estate di una ragazzina, Lisa, che ha
ZI SONO "BLUE TANGO" (STAMPA ALsolo tredici anni e che da un giorno all’altro ha
TERNATIVA, 2006) E "LA MANO SINIsmesso di parlare. Un giorno di febbraio è riSTRA DEL DIAVOLO" (MURSIA, 2006)
tornata a casa da scuola a notte inoltrata con indosso dei vestiti non suoi. E da allora è rima- gnere elettronico), siti web e scrittura, ritorna
sta muta. Da quel giorno, sua madre Roberta con un romanzo in cui sceglie di cambiare tocerca disperatamente di ricostruire, per poter talmente. Non c’è più il commissario Ricciarfinalmente colmare il muro di silenzio che da di, eroe del precedente, come forse ci saremmo
allora le tiene distanti, cosa sia successo quel aspettati. Quella che propone al lettore è una
maledetto giorno. È l’estate di Michele Ferra- storia tutta nuova e diversa, come racconta a
ra che si sveglia dal coma dopo sei mesi sen- Stilos.
za ricordare quasi nulla della sua vita passata. Così come già nel tuo precedentemente roNon rammenta niente dell’incidente che lo ha manzo, questo è un romanzo a più voci. Qui
spedito nel buio e niente dell’uomo che era e ne troviamo quattro, quattro storie che s’inche ritrova piano piano, scoprendo un altro se trecceranno nel finale. Come mai hai la predilezione per questo tistesso che non conosce
po di narrazione?
più. E che gli fa paura
Perché trovo che sia la più
perché chi gli sta intorno
PATRICK FOGLI
funzionale per la storia
non sembra essere since"L’ultima estate
che devo raccontare. Se
ro. È l’estate di Nicola
di innocenza"
l’obiettivo, come in enZanardi, di professione
pp. 572, euro 18,90
trambi i romanzi, è tenere
fotografo, che ritorna dalPiemme, 2007
in piedi più di un filone
l’Iraq, con una donna da
narrativo, la scelta è quadimenticare, un amico
morto in un attentato e una valigia scambiata si obbligata. Serve a tenere il lettore attaccato
per sbaglio sul treno che nasconde fotografie alla storia, a non lasciare che si dimentichi dei
che nessuno dovrebbe vedere. E che invece personaggi, a fargli seguire in modo semplice
molti vorrebbero avere. Infine è anche l’esta- tutto lo svolgersi del racconto.
te di Giovanni Marra, un poliziotto con troppi Ti piace svelare la storia piano piano, tenericordi alle spalle, che si trova alla prese con re il lettore in sospeso prima di spiegargli
una scoperta che non avrebbe voluto fare: chiaramente come stanno le cose. Perché
quella del corpo di una bambina che mezza scegli questa tecnica?
Italia sta cercando, riaffiorato all’improvviso Mi diverte come lettore, quindi la uso come
scrittore. In fondo la suspense è esattamente
dalla terra di un parco.
Dopo l’esordio del 2006 con il noir Lentamen- quello che hai descritto. E ti lascia la curiosità
te prima di morire Fogli, che si divide fra la di sapere che cosa è successo e che cosa deve
realizzazione di software gestionale (è inge- ancora succedere. È abbastanza cinematogra-
Q
S t los
fica come trovata, ma funziona bene anche
sulla pagina scritta.
Quali sono i tuoi autori di riferimento? E
qual è il tuo autore preferito?
Bella domanda. E risposta complicata da dare.
Perché probabilmente qualche anno fa ti avrei
fatto dei nomi diversi e fra qualche anno te ne
farò di altri ancora. Improvvisando potrei dirti qualche nome. Jean Claude Izzo e Michael
Cunningham, per esempio. Mi piace la malinconia di quello che scrivono. L’autenticità e la
sincerità dei personaggi. Il ritmo e la musicalità delle parole. Salman Rushdie è un creatore di mondi, di personaggi, di parole, di storie
fantastiche eppure incollate al reale, anche
quando non lo sembrano. Roth, per la durezza
e la precisione con cui descrive il mondo contemporaneo. Fra gli scrittori italiani mi sono
piaciuti moltissimo gli ultimi romanzi di Simona Vinci e di Eraldo Baldini.
La più bella soddisfazione che hai avuto come scrittore?
Essendo non solo scrittore, ma anche esordiente, te ne racconto due. Aver visto il romanzo in
libreria e la reazione che ha avuto chi l’ha letto. Poi l’invito al Festivaletteratura di Mantova, la partecipazione di pubblico all’evento e
il calore della gente alla fine della chiacchierata.
Col tuo primo romanzo sei stato finalista al
premio Scerbanenco: che sensazioni hai
provato? E ancora: ci speravi nella vittoria
finale o sei stato fatalista sin dall’inizio?
Se ti dicessi che sono stato contento di perdere sarei un bugiardo, ovviamente. Così come
se ti dicessi che non ci speravo. Ma non ne ho
fatto nemmeno una malattia. Ero in cinquina
con un romanzo d’esordio che è andato molto
bene. Mi pare di non potermi lamentare.
L’ultima estate d’innocenza si apre con una
Anche quest’anno il Comune di Carosino
bandisce e promuove il Premio nazionale di
poesia «Dionysiakos-Antonio Cinque»
giunto alla quinta edizione. Tema del premio è il vino nella sua più ampia accezione
con particolare riferimento alla storia, alla
poesia, alle tradizioni popolari, al paesaggio.
Al premio possono partecipare autori italiani e stranieri residenti in Italia, con una poesia inedita, della lunghezza massima di 30
versi. Non è prevista tassa di partecipazione.
Le poesie, in quattro copie, dovranno pervenire entro il 30 giugno alla Segreteria del
Premio "Dionysiakos-A.Cinque", Comune
di Carosino, Via Roma n.73 - 74021 Carosino (Ta). Al primo premio andranno 300
euro, al secondo 200, al terzo 150. L’amministrazione comunale pubblicherà tutte le
poesie dei 15 finalisti in una plaquette che
verrà offerta loro in omaggio.
scena tragica che si svolge in Iraq. Descrivendo la guerra in quel paese hai voluto lanciare un messaggio politico con questo libro? Tra le dediche c’è n’è anche una a Marina Quattrocchi: anche questo è un riferimento alla vicenda irachena?
Se esprimere un proprio punto di vista sulla
realtà è un’opinione politica, allora sì. Ho
semplicemente cercato di spiegare quello che
penso, senza tanti giri di parole e senza ipocrisie. Per quanto riguarda Marina ho realizzato
l’omonimia con Fabrizio Quattrocchi - l’ostaggio italiano morto in Iraq - solo leggendo la tua
domanda. Non c’è nessuna relazione, invece.
La sorella di Quattrocchi si chiama Graziella,
la fidanzata Alice e la madre, credo, Agata. Si
tratta di una questione molto più privata. Marina era una persona a cui ho voluto molto bene e che purtroppo è morta mentre scrivevo il
romanzo. Tutto qui.
PREMIO DI HAIKU
CULTURA GIAPPONESE
IN VERSI ITALIANI
Con il patrocinio delle ambasciate del Giappone in Italia e presso la Santa Sede, le Edizioni Empiria bandiscono il premio di
haiku. Ogni partecipante potrà inviare un
massimo di 10 haiku inediti. Per garantire
l’anonimato i testi dovranno essere inviati in
7 copie di cui 6 anonime più una con nome,
indirizzo, telefono; la copia firmata sarà inserita in una busta chiusa da spedire insieme
alla altre 6 alla Associazione Amici del
Haiku, c/o Edizioni Empirìa, via Baccina
79, Roma 00184. Il materiale deve pervenire entro il 7 aprile 2007 (data timbro postale). Per informazioni 06 69940850.
narrativa
italiana
S t los
In alto Giosuè Calaciura, autore per Baldini Castoldi Dalai di Urbi et Orbi.
In basso Laura Campiglio, che da Flaccovio ha pubblicato Invece Linda
I n t e r v i s t e
GIOSUÈ CALACIURA
"Urbi et Orbi"
pp. 160, euro 16,50
Baldini Castoldi Dalai, 2007
I
I n t e r v i s t e
P
GIANNI PARIS
5
Finisterre
n Urbi et Orbi Giosuè Calaciura racconta la cosca
luciferina di prelati che ordisce trame ai danni di Dio,
attaccando, ostacolando, il
custode delle chiavi del
suo paradiso. Un «io narrante» che è la prima persona plurale, un Noi
che non ha né un volto né un nome, realizza un
gioco di specchi che confonde il lettore, catapultato, senza neanche rendersene conto, nel
ruolo d’attore. È così che quel Noi diventa un
luogo, il luogo di quella «prigionia preventiva
in assenza di condanna» che è il mondo, un
mondo che aspira a Dio, ma, al tempo stesso,
soffoca nelle spire del suo attorcigliamento
inautentico, senza speranza. Stilos ha intervistato l’autore.
Come nasce questo libro?
Era il 28 settembre 2003, il giorno dopo la prima «Notte Bianca» a Roma. La città era ancora senza elettricità a causa del black-out totale che il giorno prima aveva creato non pochi
disagi al milione e mezzo di persone che vi
aveva partecipato. Volendo sapere cosa accadeva fuori della mia casa, ho acceso una mia
vecchia radio e, in quel silenzio innaturale, mi
è arrivata una voce di animale vecchio. Non
l’ho capito subito, ma quello che le mie orecchie avevano percepito come un rantolo era la
voce del papa. Era l’agonia di un uomo anziano, un uomo che stava morendo, ma era chiamato a portare il dolore di tutti. Quello è stato
l’atto di nascita di un libro giocato nel mezzo,
tra la possibilità di raccontare la massima
mondanità e il massimo della santificazione in
vita.
«Ci perdemmo quando ci ordinarono sacerdoti». L’apertura del romanzo suona come l’epitaffio della fede. Non c’è più spazio
per la fede?
Certo che c’è spazio per la fede. Il problema è
che c’è troppo poco spazio per la spiritualità.
Bisogna fare una precisazione. C’è una differenza fra religione e fede, perché la religione è
ciò che ha a che fare con i valori assoluti dove
non trovano posto il dubbio, la possibilità. La
fede invece è laica, reversibile. Si può credere
nell’uomo, in un ideale o nella ragione, ma si
può sempre tornare indietro. Considero dunque la fede come lo spazio della spiritualità,
che manifesta quella necessità di trascendenza proprio dell’uomo, una necessità senza risposta, se non quella che noi stessi costruiamo
vivendo.
Quindi, senza Dio non tutto è perduto, e
proprio perché Dio tace, è l’uomo che deve
far sentire la sua voce.
Sono assolutamente pessimista. Il gruppo di
sacerdoti che immagino provenire dal Meridione italiano, dal mio Meridione, ha perso
qualsiasi tipo di spiritualità e considera Dio alla stregua delle altre merci, un elemento di
consumo, un fenomeno da baraccone. La cosa tragica è che hanno perso anche la loro
identità, vivendo una condizione di contorcimento antropologico senza speranza.
Perché la prima persona, anche se plurale?
E perché invece ne La figlia perduta sceglieva di parlare in terza persona?
La scelta e l’uso della prima persona è quasi
manieristico. È come se gli stessi protagonisti,
la stessa cosca affrontassero un altro indicibile: in Malacarne era la mafia, in Urbi et Orbi
a farsi indicibile è la santità. Per quel che riguarda La figlia perduta, avevo invece biso-
IL LIBRO
pagina
ARNALDO COLASANTI
Le gerarchie ecclesiastiche
scalate dalla gang in nero
GIOSUÈ CALACIURA. Prelati che ordiscono trame ai danni
della stessa chiesa e che si costituiscono in una diabolica
cosca. Il tema della religione e della fede in un romanzo di
idee che propone sacerdoti in contorcimento antropologico
«Mentre il vescovo celebrava il nostro
ingresso in azienda, ci venne chissà da
dove una risata spontanea e oscena di
pietà per noi stessi e per i nostri compagni». In queste poche battute è riassunto il romanzo. Un gruppo di sacerdoti scala le gerarchie ecclesiastiche fino a partecipare, da protagonisti in
mala fede, alla fase discendente della
parabola d’un papa piagato dalla vecchiaia. Questa cosca di prelati, dai
cuori aridi, truffa, inganna, contribuendo a rendere la sua santità indesiderata e clandestina. Eppure si ostinano a tenerlo in vita perché, pur non
credendo, non avrebbero saputo «affrontare il mistero del mondo senza di
lui» fino all’estrema consapevolezza,
in una notte priva della normalizzante
presenza dell’elettricità, di quanto sia
«impenetrabile il buio degli uomini
senza conforto». Ma questa loro consapevolezza è senza riscatto.
I miei preti vedono in Dio
un elemento di consumo
SILVIA SANTIROSI
VIVE E LAVORA A ROMA. HA COLLABORATO CON LA SCIMMIA EDIZIONI E
"FAHRENHEIT" DI RADIO 3
gno della favola perché prevede una parabola
aperta, una possibilità di redenzione. Aggiungiamo pure che è stato un lavoro commissionato da Amref e che mi ha visto conoscere persone per le quali provo un affetto che rendeva
urgente il racconto. Avevo bisogno di distaccarmi. Ogni racconto di viaggio è un raccontare se stessi, un mettere sulla brace la tua identità. Poiché ho trovato un filo che lega il mio
Meridione a quel Meridione. Quando sono
arrivato a Kampala non mi sono sentito un
estraneo. Lo slum è un luogo di degrado, di
sradicamento, di identità che si scontrano. È
molto più difficile raccontare ciò che si riconosce come familiare.
Quello che colpisce dei suoi romanzi sono lo
stile e una specie di etica del fare.
Se c’è una speranza, è proprio quella della
creatività della scrittura, del linguaggio. Non
può fare nulla, anche perché, purtroppo, i numeri della letteratura sono quello che sono.
L’importante, tuttavia, è il senso che lasci, è
aver detto. Vivo, come altri scrittori, una situazione di marginalità perché la mia scrittura non
può diventare una sceneggiatura cinematografica. Il mio tentativo è recuperare il valore
della pagina scritta, fatta di grammatica, di sapienza nel costruire la frase, di ritmo. Oggi si
tendono a scrivere sceneggiature. Ma le cose
che si vengono raccontate entrano in una sorta di cortocircuito: si scrive sempre la stessa
cosa.
Cosa pensa della cultura italiana di oggi?
L’Italia ha una grande colpa. Quella di avere
chiuso gli occhi sul Meridione, sulla potenzialità culturale del Meridione, quasi privandosi
di una gamba. Come ha fatto la cultura italiana a misconoscere uno scrittore come Michele Perriera, attori (e non solo) come Franco Scaldati, Aurora Quattrocchi (che ultimamente abbiamo visto nel film Nuovomondo di
Emanuele Crialese). In Italia c’è un salotto dove si consumano le stesse cose, chi le consuma vi fa parte, chi non le consuma o ha un linguaggio diverso, è insomma un elemento di
originalità, deve restarne fuori. Ma, come direbbe Zagrebelsky, è una pessima cosa per la
democrazia, mettere di lato l’originalità, i
contenuti minoritari, magari legati a situazio-
ni spiacevoli.
Ad ogni suo libro potremmo associare un
tema: a Malacarne quello della mafia, a
Sgobbo quello della prostituzione, a La figlia
perduta l’Africa, ad Urbi et Orbi il papato.
Eppure tutti sembrano attraversati da una
stessa tensione realistica.
Infatti. Tutti i miei libri parlano sempre della
stessa cosa, di un’esperienza esistenziale. Sono diverse incarnazioni della stessa emarginazione dal mondo e, dall’altra parte, della stessa cattiveria del mondo. Sembrerà blasfemo
mettere insieme una prostituta nigeriana e il
papa, ma quello che mi interessa sono gli
aspetti più profondi del nostro essere uomini.
Non c’è uomo né donna. C’è l’essere umano
che si confronta, combatte e, ahimè, perde nel
suo stare al mondo, gettato dal cielo e raccolto dalla terra. In Malacarne è un morto che
parla, perché i morti, ed i non-nati, hanno il
tocco della consapevolezza. La parabola è
quella del male e del dolore, però noi che stiamo dall’altra del foglio, proprio leggendo, siamo stimolati ad essere diversi e a dire no,
consapevoli, al tempo stesso, del nostro limite, della morte, della nostalgia, delle perdite.
Racconto storie di condannati, quindi, proprio perché penso di stimolare a scegliere.
LAURA CAMPIGLIO. Un esordio tenuto a battesimo da Pinketts
Storia involontaria d’amore
er comprendere appieno l’essenza
di questo Invece Linda è opportuno
soffermarsi a pagina 97, in cui leggiamo: «Lui sì l’amore tra Linda e Nanni?
chiamava, oh se chiamava, chiamava fino al- Ogni storia d’amore che si rispetti - e visto che
lo sfinimento, di giorno e di notte, tre quattro la realtà ne è così avara, che almeno la letteracinque volte al dì, anche solo per raccontarmi tura ne sia prodiga - è in effetti involontaria,
una filastrocca scema. E se non chiamava ineluttabile e perfetta come una reazione chimandava messaggi fino ad anchilosarsi le di- mica. Per Linda e Nanni però la perfezione è
ta, con tutta la grazia epigrammatica dei cen- una merce che scarseggia: li vedo più come
tosessanta caratteri concessi. Io rispondevo, oh due alchimisti maldestri che cercano la formuse rispondevo, sorridevo ebete al telefono a la per trasformare il piombo in oro e rischiano
ogni trillo che portava il suo nome, e mi imma- di trovare quella della polvere da sparo.
ginavo che il coro degli angeli non dovesse Ma perché anche in questa storia d’amore
avere un suono molto diverso. Poi è successo si finisce per dire bugie?
Perché nelle storie d’aquello che è successo, e
more si mente dall’inizio
lui ha smesso di chiama(«non ho mai incontrato
re. E va bene - mi sono
LAURA CAMPIGLIO
nessuno come te») alla fidetta - che sarà mai, biso"Invece Linda"
ne («no, ti giuro che non
gna soltanto imparare a
pp. 219, euro 13
c’è nessun altro»), più o
farne a meno. Difficile
Dario Flaccovio, 2007
meno consapevolmente,
forse, impossibile proprio
più o meno colpevolmenno».
te. Alle eccezioni - rarissiEcco, in queste righe trome - credo come credo
viamo il tratto caratteristico dell’intero romanzo, una storia franca, che all’esistenza del drago di Komodo: so che c’è,
non ci illude sull’amore, che ci mostra la can- ma non ne ho mai visto uno. Neanche in fotocellazione (temporanea) della razionalità, che grafia.
ci porta a rivivere momenti stupendi, e che, Cosa ha di Linda e cosa del suo uomo?
dall’altro canto, ci ricorda quello che siamo: Di Linda parecchio. Anzi, questa Linda, che
essere volubili, pronti a tradire, incapaci di es- pure mi è simpatica, mi ha copiata in tutto:
sere coerenti. Laura Campiglio, all’esordio, è parla, pensa, fa danni come me. Ma fermo reriuscita nell’intento di non essere banale, pur stando il dato autobiografico, Linda è un po’
parlando d’amore. Il libro si apre con la prefa- la proiezione del mio dover essere: è più
zione, stravagante e inusuale (come il suo per- sveglia, meno imbranata, più risoluta e, non
sonaggio), di Andrea G. Pinketts. Stilos ha in- ultimo, più magra. Di Nanni invece non ho
niente. In compenso, lui ha pregi e difetti al
tervistato l’autrice.
La biochimica dei sensi: si può definire co- grado massimo dei miei ex fidanzati. Un
cocktail micidiale.
Lei ha avuto l’idea di farsi scrivere la prefazione da Andrea G. Pinketts: com’è nata
esattamente - a Pinketts è meglio non credere fino in findo - questa intesa?
Buon Pinketts non mente: è andata proprio come il nostro racconta nella prefazione. È costume di Pinketts pubblicare nei suoi romanzi il
proprio numero di cellulare. Poiché da tempo
immemore consideravo Andrea G. Pinketts
un modello di scrittura e di molto altro, nell’estate 2001 ne approfittai, inviandogli un sms
eloquente e lapidario: «Brutto carattere ma
bella presenza, offresi per vivace scambio di
opinioni». È stato così che il mio scrittore totem è diventato uno dei miei amici più cari, e
adesso un po’il mio nume tutelare. Ne sono fe-
lice, anche perché la sua prefazione è una delle parti migliori del mio libro. Anche il resto,
però, non è da buttare…
Lei è all’esordio. Ha scritto Invece Linda
sempre tardissimo. Domanda: la creatività
si è manifestata quando le streghe montano
sulla scopa o quando gli uffici diventano
una cassa di risonanza per le suonerie dei telefonini?
Per un capriccio metabolico di eredità paterna,
mi è impossibile addormentarmi prima delle
quattro. Scrivere è stato un modo per trasformare il problema dell’insonnia in una risorsa:
le notti bianche non erano più tempo da ammazzare, ma tempo prezioso. Quindi sì, la
creatività per me è un animale notturno, come
le falene e i pipistrelli. Il giorno, e soprattutto
la vita in redazione, sono però forieri di spunti, idee, storie grottesche così vere da sembrare finte. Era naturale che finissero in un romanzo.
Il prossimo romanzo parlerà francese?
Solo un po’: per abitudine e per convinzione,
cerco di scrivere come parlo, quindi il francese fa capolino nella pagina raramente, come
raramente si intrufola nel parlato. Un discorso
a parte vale per le gros mots, le parolacce: da
più parti mi è stato fatto osservare che anche il
peggior turpiloquio, complice l’idioma d’Oltralpe, diventa irresistibilmente chic. In questi
mesi ho fatto diverse prove: «cazzo» non lo si
può dire (né scrivere) quasi mai, un «merde»
a mezzavoce con la erre arrotata viene scusato ovunque, anche a una prima alla Scala. Con
buona pace di Lina Sotis, gran donna.
LO SGUARDO DA ROMANZO
Era l’ultimo anno della vita di Enzo. Come direttore delle Scuderie del Quirinale,
mi invitava alle prime, parlava solo di
pittura - sembrava un ragazzo al suo primo amore. Un giorno, davanti a un Cézanne, mi disse che lo sguardo di quell’uomo imbustato da una giacca massiccia
e povera era uno sguardo che oltrepassava l’aneddotica, con quegli occhi pieni di
vita e di storia - uno sguardo, disse così,
«da romanzo». Io non lo capii bene. L’estate dopo (Enzo Siciliano se ne era già
andato, alla fine di un’afosa primavera) mi
ritrovai ad Aix, alla mostra di Cézanne en
Provence, e come quella prima volta fui
colpito dallo stesso quadro, L’uomo con le
braccia conserte del 1899. Vidi in chiaro
la fatica. Comprendevo come in quell’olio il pittore avesse tracciato la rivalità
che è nel mondo e che pure ci fa appartenere al mondo. Riconobbi in tutta la sua
sconsolata bellezza uno sguardo puro «da
romanzo». Sei mesi dopo, fui invitato all’Auditorium di Roma per ascoltare la
prima esecuzione assoluta di una giovane
musicista, Silvia Colasanti. Leggere il
programma di sala, scoprire che la «musica della Colasanti» era questo o altro, beh
faceva un certo effetto: era inevitabile,
anche se sciocco, sentirsi davanti ad uno
specchio. Mi colpì che Silvia, classe ’75,
aveva già cercato una «musica assoluta»,
una specie di «teatro senza scena», lavorando proprio su un testo di Enzo, Amor
non conosciuto. Era molto: aspettavo incosciamente che un concerto di Beethoven chiudesse la prima parte del programma e desse inizio all’opera per viola e orchestra, il Grido velato di Silvia Colasanti.
A volte ci sembra di capire solo ciò che ci
ossessiona. Quella pagina di Silvia era
un equilibrio perfetto di tenerezza e di rigore, di attesa come di un lento, inesorabile smarrimento dentro uno spazio musicale che restava per davvero un perfetto
spazio della vita. Anche la partitura, come
l’Uomo oggi al Guggenheim di New
York, era una scrittura di solidi sghembi,
di tracciati rastremati quanto esatti, come
se insieme la musica e la pittura, nella loro essenziale ascesa dentro il cono opaco
dell’esistenza, riuscissero a testimoniare
chiaramente quello che avevo sentito dire
da Enzo. Sì, il Grido velato (curvilineo,
carezzevole, quanto il ritratto sembrava tirato su da quadrati) era un mondo che cresceva e diventava forma, memoria, anch’esso colmo di vita e di storia - anch’esso provvisto da uno sguardo «di romanzo». Me ne tornai a casa, pensando
d’aver capito il rigore felice di una giovane musicista e l’ardore naturale di un pittore vecchio, ormai in pareggio con il mistero della realtà. Guidavo lentamente.
Provavo una violenta malinconia per un
amico scomparso: sarei voluto andare da
lui, come sempre, ma quell’epoca in comune era finita.
Mi è capitato di leggere un libro. Strano,
anche in quel caso non c’erano capitoli ma
passaggi musicali; titoli come baritono,
soprano, tenore, madrigali a tre voci. Già
conoscevo il lavoro di Maria Pia Ammirati. Il suo primo romanzo, I cani portano
via le donne sole (2001) sembrava intessuto di iuta, possedeva una tensione mentale vasta e un che di stretto, di acuto, come una scrittura-bocca che prende a morsi la vita. Anche per l’Ammirati la letteratura non descriveva il mondo, ma voleva
trasformarlo (deviarlo) e farsene oggetto
di contesa - per troppo amore, per troppo
rigore. Leggendo Un caldo pomeriggio
d’estate (Cadmo), mentre il monologo
abbassa il tono e all’improvviso lo amplifica, e conversa con se stesso, annuisce o
prende tempo, chiede tempo e rabbrividisce di un’imperdonabile tenerezza; mentre come in un paradossale giallo inglese
degli anni cinquanta (Torno presto di Barlow?) il punto di vista cambia, entra nella
dismisura, si capovolge assediato dal dolore, e poi annichilisce e resta immobile,
come se tutta la storia stesse incenerendo
nel lampo sfolgorante di un cerino; ebbene, mentre leggevo, ho cominciato a sentire la musica di quella sera e a comprendere il malessere e la gioia intrappolate in
uno «sguardo da romanzo». Ho capito.
Gli occhi della poesia sono gli occhi che
vedono l’intera esistenza come un relitto,
come una perdita, come la più importante gemma preziosa. Tutta la poesia è un
«caldo pomeriggio d’estate». E sulla bilancia della realtà pesa, si sfalda, vale solo la vita - un teatro senza scena. La morte è solo un lungo tremore.
narrativa
italiana
pagina
6
I n t e r v i s t e
D
GIOVANNI CHOUKHADARIAN
opo discutibili esordi quasi
en travesti come ennesima
«ragazza cattiva» della letteratura italiana, Rosella
Postorino fa conoscere le
sue attuali possibilità con un’opera di lungo respiro e grandi ambizioni, non per niente introdotta da copertina con fotografia di Eric Ogden. La stanza di sopra è il racconto di una vita in fuga - quella della protagonista Ester - che
la natura e i fatti della vita hanno fornito di
troppe tenerezza e sensibilità per i suoi 15 anni. Che una ragazza di 28 anni conosca tanto
bene il mondo e i sentimenti di un’età da lei
così lontana è già indicativo di notevole spirito indagativo. A questo s’affianca una padronanza del mezzo linguistico fuori del comune,
una sintassi elastica e originale, in cui le influenze durasiane (dichiarate d’altronde con
citazione in esergo) sono superate con assoluta disinvoltura.
I fatti di Ester, spesso cruenti, alla fine volti in
dramma e tragedia, sono parte di un mondo
che è esso stesso dramma e tragedia, al modo
di una delle prime sinfonie di Mahler - forse la
colonna sonora adatta a questo libro, per quanto lontana dai gusti dell’autrice. Pur non avendo nessuna intenzione di fornire prospettive
metafisiche al suo lettore, Postorino dona invece il senso profondo di una tenerezza rattenuta in sé, timida fino alla vergogna di se medesima. Insieme, e per quello spirito di contraddizione che è anima della letteratura, questo è
un libro di sensi.
L’amore carnale, qui dipinto con i colori meno prevedibili, ha il respiro della vita vera. Di
questo che è un debutto fra i più promettenti
degli ultimi anni, Rosella Postorino ha parlato con Stilos.
Molte ragazze e donne italiane d’oggi scrivono del loro confronto con la madre. Lei
qui fa riferimento a tutti e due i genitori,
che in diverso modo incombono sulla voce
narrante. Qual è la ragione?
Per me è un tema importante quello dell’eredità, intesa come bagaglio emotivo, come patrimonio in senso lato, che i genitori e in generale la famiglia lasciano a un individuo. Non si
è altro che questo: un prolungamento, una negazione, un tentativo di rivalsa, un risultato
sconnesso, un effetto della propria famiglia.
Ester, la protagonista del romanzo, lo è. Per me
era più interessante affrontare il tema del rapporto col padre, soprattutto. Quello è il vero
rapporto conflittuale del romanzo, sia per Ester
sia per la sua amica. Il conflitto di Ester con la
madre è in realtà scatenato dalla situazione di
«prigionia» nella propria casa che entrambe
vivono, ma assume in qualche modo i connotati di un tipico conflitto generazionale, non ne
è molto diverso in realtà, quantomeno nel modo in cui si manifesta. Anche se quello che c’è
dietro è innanzitutto il senso di abbandono
che la Ester bambina ha vissuto durante l’infanzia, quando la malattia del padre ha richiesto necessariamente l’impiego di ogni energia
della madre, che la figlia si è sentita sottrarre
per sé; in secondo luogo, di fronte all’accettazione da parte della madre della vita che le è
capitata in sorte, Ester non può che gridare ancora più ferocemente il proprio rifiuto, la propria incapacità di accettare a sua volta, la propria non-rassegnazione che diventa inadeguatezza, lacerante senso di colpa. Tuttavia, anche
in questo rapporto (uno dei tanti rapporti di
Ester che fanno cortocircuito) il perno è sempre il padre. Era interessante per me indagare
la relazione col padre proprio perché Ester è
una donna, una femmina. Come se il desiderio,
il rapporto col proprio corpo, la sessualità non
potessero svilupparsi se non a seguito di un
certo tipo di relazione col padre. Se il padre è
suo malgrado inesistente, se non è che una specie di cadavere immortale dentro una stanza,
accanto alla stanza della figlia, in mezzo a
quella della figlia e quella della madre, se non
è altro che la rappresentazione della debolezza, della caducità, e perde qualsiasi connotato
di forza, di protezione e anche di divieto che
una figura paterna solitamente possiede, che
succede dello sviluppo emotivo-sessuale di
una figlia? Mentre Ester sta «amoreggiando»
con uno dei ragazzi della sua comitiva sul letto, d’improvviso si trova a schernire il desiderio che lui (un uomo, un maschio) può avere di
lei: come si può desiderare un corpo su cui
nessuno ha posto un divieto, che nessuno tutela? Se nessuno pone una sanzione su un oggetto-valore, l’oggetto perde di valore. È possibile, quindi, che venga trattato come «carne a
buon mercato» e che incorra in una delle esperienze drammatiche che capitano a Ester, proprio mentre cerca disperatamente di conoscersi e di scoprire la propria sessualità. Della sessualità dell’amica di Ester, così diversa da lei,
sappiamo invece molto poco. Quello che ci è
evidente, però, è che anche lei vive la propria
prigionia nella casa del padre, sebbene suo padre sia, al contrario dell’infermo, l’emblema
della forza, della protezione e dell’autorità
che tanto affascinano/rassicurano Ester, che se
ne vorrebbe ingenuamente «appropriare». Il
tema della famiglia mi interessa molto e probabilmente continuerò a indagarlo. È un’istituzione dolorosa, la famiglia, sempre. È una
forma di amore che non ha scelte. L’amore in
genere non ha scelta, ma si può tentare, con
forza, di deviarlo, di creare cesure. Nella fami-
S t los
Nella foto Rosella Postorino, autrice per Neri Pozza di La stanza di sopra
ROSELLA
POSTORINO.
«Il perno è
sempre il padre.
Ester
è una donna
e il desiderio,
il rapporto col
proprio corpo,
la sessualità
non possono
svilupparsi
se non a seguito
di un certo tipo
di relazione
col padre»
Noi siamo il prolungamento
della famiglia, anzi un effetto
glia non si può fare. È una forma di amore totalizzante e disperata, eterna, che non lascia
scampo a nessun componente. Volevo fotografare una famiglia come tante nel corso di una
tragedia, per la quale, peraltro, non è prevista
soluzione. Volevo tentare di comprendere
quanto dolore si può provare, e che forme
può assumere, che tipo di comportamenti può
generare, un simile dolore, soprattuto nei figli,
che restano il canale più debole: sono quelli
che più di tutti, di quel sistema culturale ed
emotivo che la famiglia rappresenta, porteranno le tracce, saranno responsabili di questa irrinunciabile eredità.
Perché le è stato necessario raccontare due
esperienze di relazione personale tanto distanti (quella delle uscite di gruppo con una
compagnia di quelle non raccomandabili e
l’amicizia con una coetanea dall’apparenza
quasi perfetta)?
Perché ho conosciuto persone molto diverse
fra di loro che sono riuscite comunque a incontrarsi e a darsi delle cose. Succede a Ester e la
sua amica, anche se quello che si danno, se il
loro rapporto è qualcosa che si vive quasi di
nascosto. Del suo valore, di ciò che rappresenta non parlano mai, né fra loro due né con altri, come per pudore. È strano, perché di solito le amiche di quell’età stanno sempre a tirare le somme del loro rapporto, come innamorati insicuri, è tipico di quella forma di attaccamento che è l’amicizia tra due adolescenti
femmine. Ester e la sua amica non lo fanno,
ma si stupiscono, quantomeno Ester si stupisce, di come si cerchino, di come stiano bene
insieme: per esempio, quando è con lei, Ester
mangia con appetito e non rifiuta il cibo come
quando è da sola o a tavola con la madre. In
fondo, l’amica di Ester sembra anche lei suc-
IL LIBRO
ROSELLA POSTORINO
"La stanza di sopra"
pp. 199, euro 15
Neri Pozza, 2007
Una figlia quindicenne
e un padre immobilizzato
Un padre immobilizzato in casa e una
figlia quindicenne che ha bisogno di
un padre e che vive una adolescenza
lacerata da desideri diversi.
cube di una situazione familiare oppressiva
(sebbene non viva e non riesca nemmeno a immaginare la tragedia personale di Ester e di suo
padre infermo da anni), ma in realtà si ribella
in maniera sotterranea, più sottile: sono i disegni sul tavolo della cucina, minuziosamente ripuliti con l’alcool, o i libri che nessun altro potrebbe leggere in casa a parte lei, la sua forma
di sovversione. L’amica è più debole di Ester,
che invece il proprio dolore cerca di gridarlo,
anche se le si spezza in gola e diventa silenzio,
gesti violenti, stizziti, comportamenti contraddittori, rifiuto delle regole, apatia? Oppure è
più forte, lei che usa tutto ciò che alla famiglia
sta intorno e per certi versi persino la contraddice - la cultura, la scuola, e anche quest’amica così diversa, Ester, appassionata della musica che lei non conosce, per esempio - per im-
parare le cose del mondo, per portare avanti
una specie di nascosto apprendistato, prima di
sentirsi abbastanza forte per rifiutare quella
prigione, ma con coerenza, con cognizione di
causa? Ester sa che lei un giorno lo farà, ma
non farà in tempo a vederlo, e nemmeno noi.
Tuttavia, l’unica riconciliazione, se così si può
chiamare, cui si assiste nel romanzo è quella
fra Ester e il proprio padre. Nelle ultime scene,
è davanti a lui che Ester va a reclamare, quando lo picchia è lui che accusa, a lui chiede conto della vita che le è stata data in sorte, quell’eredità emotiva che deve imparare ad accettare.
Lì, forse, inizia per la prima volta ad accettarlo. Quando si sente irrimediablmente uguale a
lui, inerme e incapace di proteggersi, riesce finalmente a entrare dentro la stanza di sopra, a
guardare suo padre, toccarlo. Dell’amica, sappiamo soltanto che l’angoscia di non sentirsi
amata dal padre l’ha sempre tenuta per sé, o raramente, per telefono, la confessava a Ester,
ma nel romanzo non c’è mai un momento in
cui si confronta veramente col proprio padre.
La tensione che si respira per tutto il romanzo è la sua personale, quella eventualmente della sua generazione o del tempo
che tutti viviamo? Quella, per intenderci,
in cui l’ineffabile è di gran lunga superiore
a quanto si può dire.
La tensione che si respira per tutto il romanzo
è quella della storia che ho raccontato, sarebbe difficile non sentirla. Sì, forse è anche la
mia, dal momento che il romanzo l’ho scritto
io. Dire che è quella della mia generazione,
non so, sarebbe assurdo che lo dicessi io, quello è lavoro dei critici o dei lettori. Non ho scritto un romanzo col fine preciso di rappresentare una generazione, un tempo, una società, o
per illustrare un’idea. Se è accaduto, però,
SECONDA LETTURA
Ester, una ragazza in cerca dell’amore ordinato: cioè di una figura paterna
La frase più rivelatrice dell’esordio di Rosella Postorino non è contenuta nel romanzo ma nei ringraziamenti finali: «Se non riuscirò a
scrivere, sarò sempre infelice». Banalizzando per certi versi la polarizzazione, potremmo dire che esistono due tipi di scrittori: quelli per i quali la scrittura è tormento e quelli per i quali la scrittura è
consolazione. Rosella Postorino dichiara apertamente di appartenere a questa seconda categoria, e che dunque per lei la scrittura è estromissione di sentimenti a lungo interiorizzati, covati, masticati quasi e poi - immagine cruda ma che rende l’idea - sputati sulla carta.
La stanza di sopra è il lento sfogo di Ester, adolescente il cui padre
ammalato giace immobile e muto da un tempo che sembra eterno,
così che la sua presenza in casa sia quella di un morto ancora vivo.
Intorno a Ester ruotano sua madre, che non si rassegna alla propria
sconfitta, un’amica che è il suo esatto opposto e un discreto numero di ragazzi che la protagonista ha l’abitudine di provocare senza
mai appagarli del tutto. Tuttavia, la storia di Ester è interamente incentrata su Ester stessa, sui suoi sentimenti appena abbozzati, sulle
sue reazioni sconsiderate; non a caso, a ben guardare, Ester è l’unico personaggio del romanzo che abbia un nome proprio, mentre gli
altri vengono tutti definiti in relazione a lei, in quanto suoi parenti,
suoi amici, suoi amanti.
Ester è il centro di sé stessa e la sua vita, pagina dopo pagina, consiste nella ricerca di un «amore ordinato», così come la protagonista stessa lo definisce, o in altri termini di qualcuno che si prenda cura di lei, che non l’abbandoni a sé stessa. Inscindibilmente, la sua ricerca diventa quella di un’altra figura paterna, che Ester troverà nel
padre della sua amica, e soprattutto il disperato tentativo di rimuovere un senso di colpa riguardo alla malattia del padre che Ester sente connaturato a sé stessa, così come viene rivelato dai frequenti flashback sull’infanzia nel corso dei quali la protagonista narratrice parla di sé stessa come «la bambina». La giovane età fa presagire ampi margini di crescita. Lo si evince dal suo stile fatto di brevi paragrafi e di frasi spezzate, che alle volte funziona bene (soprattutto nei
flashback, quando Ester pare considerarsi dall’esterno, frapponen-
do la distanza della crescita) alle volte funziona meno (ad esempio
quando ha la visione di «papaveri come grida bocche spalancate lingue che hanno leccato il gelato alla fragola capezzoli turgidi nasi sanguinanti gole»). Altrettanto la scelta di una trama molto difficile a
svilupparsi, dato che vive della completa immobilità del padre configurando di conseguenza un tempo sospeso, in cui parole e azioni
sembrano galleggiare nel vuoto, e tanto più la lunghezza del romanzo, da un lato breve abbastanza da non consentire all’autrice cali di
tensione narrativa, dall’altro sufficientemente lungo da far correre il
rischio di qualche pleonasmo.
Trattandosi in generale di un esordio ben scritto, purtroppo risaltano maggiormente due tendenze dalle quali penso che la Postorino
non farà fatica a liberarsi presto. Innanzitutto qualche ricaduta in una
banalità cronachistica, aggiunta a bella posta per dar maggior spessore al personaggio di Ester e che invece per certi versi lo appiattisce: accade ad esempio dove indugia sui suoi disturbi alimentari e
sulle sue «ossa sporgenti», argomento che avrebbe meritato o un’attenzione maggiormente circostanziata oppure una completa ellissi
narrativa che lasciasse intuire ciò che invece viene detto esplicitamente e sinteticamente. In secondo luogo, un certo maledettismo che
qua e là traspare dal personaggio di Ester e che non sembra differenziarlo da una diffusa tendenza della narrativa giovane italiana, quasi anzi che la Postorino temesse in qualche modo di discostarsi da essa. Al contrario, calcare la mano su questa distinzione sarebbe stato un pregio ulteriore de La stanza di sopra. L’esordio è più interessante proprio dove l’autrice non si concede al dejà vu del disagio giovanile, della vacuità del sesso, delle giornate tutte uguali. Come conferma la frase contenuta nei ringraziamenti, il meglio della Postorino consiste nel consolatorio e disperato rimuginare sui sentimenti,
nella continua e tacita contemplazione del padre immobile, nella riproposizione del passato in un ardito collage narrativo. Quando non
scrive degli avvenimenti ma descrive il riflesso degli avvenimenti
stessi, le ferite che lasciano sul cuore.
Antonio Gurrado
non mi dispiace. Io ho scritto una storia che mi
è balenata in testa, ed è maturata, e ha iniziato
a starmi a cuore, mi ha occupato la mente
mentre andavo in treno al lavoro, mi seguiva
fino a che non mi addormentavo, non ho potuto fare a meno di scriverla, così, e di vederla
crescere, diventare anche altro da quello che
mi aspettavo, costruirla mentre si costruiva.
Dopo questo, il mio lavoro finisce, io non
posso dire altro. Oppure, se peccassi di presunzione, direi che questa storia non rappresenta
una generazione, collocata perciò in un tempo
e uno spazio limitati, ma in generale tutte le generazioni di ogni tempo. Questo è un libro che
parla di violenza, e di come la debolezza spesso giustifichi la violenza, la attiri, le sia complementare. La violenza non è tale a priori, ma
solo quando l’altro la percepisce così. Nel romanzo, tutti compiono e subiscono a loro volta violenza, tutti sono colpevoli senza esserlo
affatto.
Si può ascoltare la voce narrante del suo romanzo come una sintesi fra quelle di Edipo
e dell’Elettra di von Hoffmannsthal?
Non ho mai letto né visto rappresentare
l’Elettra di von Hoffmannsthal, comunque la
mia risposta è no. Dentro il romanzo non accade nessun patricidio né alcun matricidio, nemmeno metaforico, a mio avviso. Nessuno deve
vendicare nessun’altra morte. La protagonista
non sente antagonista né il padre né la madre.
Anzi. La protagonista si sente tradita. Dalle
«ossa su cui scommettere» del padre, forte e
bellissimo nella sua idealizzazione di bambina, vittima di una tragedia senza soluzione, tale da renderlo assente, per sempre, nient’altro
che un peso muto, un corpo senza vita dentro
una stanza, con cui lei è incapace di entrare in
contatto, che non potrà mai più occuparsi di
lei. E si sente tradita dalla madre, nei confronti della quale aveva una forma di ossessione
quando era bambina (era terrorizzata dal fatto
che potesse accaderle qualcosa, che potesse allontanarsi da lei) e che diventa, per forza di cose, anche lei assente, lontana appunto, stanca
della propria vita di sacrifici e assolutamente
vittima anche lei della tragedia subita dal padre. Nemmeno la madre riesce a occuparsi veramente di Ester, non ne ha più la forza.
Forse, come Elettra, anche Ester è in qualche
modo il personaggio tragico che riassume su di
sé il male che si è scatenato su una famiglia,
ma solo in questo senso mi sembra possibile la
similitudine. Questa però è davvero una bella
domanda!
Perché ha scelto di mettere in scena ragazze così giovani, presso che adolescenti? Che
cosa trova d’interessante in quell’età?
È un’età imbarazzante. Non posso ricordarmi
della mia adolescenza senza imbarazzarmi,
senza provare addirittura vergogna. Il ricordo
che ho dell’adolescenza è di un’età, come dire, «scoperta», nuda, vulnerabile perché eccessiva, troppo carica, senza alcun filtro dell’emotività. È l’età della scoperta più pericolosa
dell’altro, dove il contatto con l’altro perde
d’improvviso d’innocenza, spesso è così carico di emozioni da poter esplodere da un momento all’altro, eppure è ancora acerbo, e
aspro. Nella storia che ho raccontato è importante che la protagonista sia un’adolescente
proprio perché è quella l’età in cui la scoperta
del proprio corpo è inevitabile. Ester ha bisogno di scoprirsi e di scoprire gli altri, ma
confonde tutto, come un’adolescente spesso
può fare. La sua è semplicemente la ricerca di
un contatto, il più intimo possibile, qualcosa
che sciolga il freddo che sembra attorniarla,
che squagli la sua ansia. Tutti i suoi rapporti
sono una ricerca in questa direzione. Lo è la
sua amica, con cui sviluppa una relazione intima molto speciale, di necessità e ammirazione, di insicurezza e urgenza, una specie di
amore, è indubbio, come solo nell’adolescenza un’amicizia può essere. Anche i suoi amici
della comitiva uniscono il senso di protezione,
di appartenenza, di comunità con il gioco
«sperimentale», ecco, della seduzione, del
contatto con l’altro che è anche un contatto di
corpi, un gioco che Ester ripete di continuo,
come una sorta di fratellanza, ma, quando crede di poter ricalcare questo ingenuo meccanismo con un uomo più grande, a quel punto il
meccanismo non funziona, le si ritorce contro.
Ogni scoperta è un trauma, sempre.
La citazione in esergo di Duras ha il senso
di un omaggio o è una precisa indicazione di
lettura?
Marguerite Duras è la scrittrice, è la scrittura,
è la mia ossessione, leggevo i suoi libri e pensavo: Voglio scrivere, questo voglio fare: scrivere. La frase che ho citato mi appartiene molto, le credo, ha a che fare con l’eredità di cui
parlavo prima, ha a che fare col «ciclo dei vinti», e ha a che fare con Ester, e la sua amica, e
le loro madri, sì, è imprescindibile, racchiude
molto di questo romanzo, della mia vita e di
quella di Duras. È bellissima.
Che autori o autrici d’oggi legge?
D’oggi nel senso di vivi? José Saramago, Antonio Lobo Antunes, Agota Kristof… Per molti anni ho letto quasi solo Marguerite Duras,
l’ho scoperta a 16 anni, ho letto quasi tutto, in
italiano e in francese, ho scritto un saggio sul
tema dell’intelligenza nella sua opera, non
smetto di leggerla e rileggerla. Solo molto più
tardi ho scoperto Ingeborg Bachmann, il cui
romanzo Malina, soprattutto, mi ha sconvolta.
Amo Clarice Lispector e Sylvia Plath. Di recente, i libri più belli che ho letto sono I sillabari di Goffredo Parise e, tra gli autori vivi,
Delirio di Laura Restrepo e Troppi paradisi di
Walter Siti.
I n t e r v i s t e
M
GIANNI PARIS
etti un trasloco da farsi coi
carabinieri in mezzo ai piedi. Metti che scopri che il
tuo dirimpettaio è stato trovato morto per cause ancora da accertare. Metti anche che la tua amica
del cuore è la principale indiziata. Ecco, di sicuro saprai già che razza di giornata ti aspetta.
Vita Onorati quel mattino si trova costretta a rivelare la relazione adulterina tra Nora (la sua
amica) e la povera vittima. Vita però non è
donna di poche parole, così quella che ne viene fuori è una parabola comico-erotica, in cui
scopriamo l’infanzia vissuta tra casa e oratorio,
la giovinezza volta ad aggirare la morale sessuale, e l’età adulta che sembra farle conquistare il letto matrimoniale. Stilos ha intervistato Cinzia Zungolo.
Vita Onorati e la morale cattolica: chi vince?
Vita parte malissimo, ma presto recupera e fa
gol. Bisogna pensare alla cornice del romanzo:
è un interrogatorio. Nel giorno del trasloco,
hanno appena ucciso il suo vicino di casa, il
bel Manuel, cassiere della Fnac. Davanti al capitano dei carabinieri, oltre a tutto quello che
sa della vittima e della sua amica Nora, amante appena abbandonata dalla vittima, Vita comincia a sciorinare il suo castissimo fidanzamento e successivo matrimonio con Opusdei,
leader di parrocchia poi entrato in politica, i
puoi amanti e molto altro ancora. Un interrogatorio incontinente. È come quando, per spiegare a qualcuno il motivo delle nostre azioni,
cominciamo giustificandoci: così Vita parte in
quarta e non si ferma più. Ma ha ragione da
vendere. Perbenismo, moralismo, sessuofobia,
mito della castità e verginità, tutto quello che
compone la sua educazione di brava
bambina/ragazza/moglie. Chi vince? Lei, certamente, dato che si regala e ci regala questo
flusso liberatorio. Lei, nonostante l’educazione e ogni forma di controllo. Ma mi piacerebbe girare la domanda alle agenzie del potere.
Anche alla politica italiana che, da destra a sinistra, è la miglior portavoce della morale cattolica, l’altoparlante nazionale della Cei, costantemente in onda. C’è un paradosso: in un
Paese in cui perfino i giornalisti di "Famiglia
Cristiana" non nascondono un certo disagio,
sentendosi troppo asserviti alle direttive vaticane, la sinistra insorge sdegnata se il Papa si
astiene dal commentare qualcosa. Perché non
lo ignorano e punto? Come Vita, hanno la
morale cattolica scritta nel Dna. Siamo così
abituati che non ci badiamo neanche più. Per
esempio, Radiocapital (non Radio Maria), nelle news, dà una notizia che comincia così:
«Secondo le parole del papa...». Sono lì che mi
aspetto la prevedibile presa di posizione sul dilagante laicismo (motivetto che va avanti da
appena qualche secolo a questa parte) oppure
una presa di distanza, del tipo, la chiesa non è
un partito politico… e invece che cosa sento?
Che il santo padre invita «ad affrontare questo
cammino di quaresima con lo sguardo fisso al
costato di Cristo» (costato, piaga, dolore, sofferenza, il solito kit del perfetto cristiano).
Questa, in Italia sarebbe una notizia. Cioè: in
R e c e n s i o n i
CINZIA
ZUNGOLO.
Un romanzo
dissacrante che
si traduce in un
violento attacco
ai valori
consolidati.
Fra cui sesso
e amore.
Una denuncia
contro ipocrisie
e luoghi comuni
La morale cattolica
è impressa nel Dna
IL LIBRO
CINZIA ZUNGOLO
"Il materasso dell’acciuga"
pp. 244, euro 17,50
Rizzoli, 2007
Guardare la vita
dal lato opposto
Vita Onorati, ragazza di provincia, si
emancipa attraverso tappe di liberazione che la portano a vedere la vita
sotto un aspetto del tutto diverso da
quello suggeritole dall’educazione
avuta.
Italia una notizia è una lezione radiofonica di
catechismo. Bene, in questo libro, un interrogatorio è il contenitore di un flusso profondamente liberatorio.
Vita è una macinatrice di uomini (colpa di
Opusdei e del suo amore per Dio). Fa davvero qualcosa di male?
Piano. Definirla macinatrice sarebbe come dire che la Bindi è la nuova Cicciolina parlamentare. A confronto con le protagoniste sessuomani di certi romanzi femminili degli ultimi
anni, Vita è una principiante (con qualche talento naturale, questo va detto). È una neofita,
una che impiega un secolo per abbattere il mi-
to della verginità, una che racconta i suoi goffi tentativi per passare agli «orgasmi di seconda generazione», quelli del suo primo amante
(non a caso chiamato San Salvador). Proprio al
suo dilettantismo si devono scene divertenti,
come il primo incontro in albergo con questo
scialbo amante. Ma Vita è autentica. Più delle
macinatrici doc, può vivere il sesso come una
scoperta (spesso deludente, ma non demorde
mai). Cerchiamo di capirla: si è persa il femminismo ed è un’entusiasta. Ho voluto descrivere un personaggio così, un po’ all’arrembaggio. Sono sempre sorpresa per le quantità di
coiti e di trasgressioni elencate (dentro e fuori i libri) dalle donne. Certo le cronache, la narrativa e pure certe confidenze tra amiche elencano club esclusivi dove uomini e donne si accoppiano davanti a tutti sui divani, se non preferiscono fare gli écoutier e i voyeur. Certo, Internet ha reso accessibile il mercato pornografico anche alla mogliettina più casta e insospettabile. Eppure mi sembra che nella maggioranza dei casi le cose stiano diversamente.
Posso sbagliarmi, ma ho la sensazione che la
vita di ogni giorno non preveda per tutti e a tutte le età palinsesti di orge a pranzo e a colazione. Comunque sia, Vita di queste robe sa poco.
Con il marito che ha avuto, il suo inquadramento è stato: no rapporti sessuali prima del
matrimonio, no masturbazione. Cercavano solo di conquistarsi il paradiso, dato che il catechismo della chiesa cattolica, ancora nel 1992,
definisce la masturbazione «atto intrinsecamente grave e disordinato». Sembra un fossile ’sto marito di parrocchia ma ci andrei piano
a sbeffeggiarlo. Ho scoperto che Jocelyn Elders, l’equivalente statunitense del nostro mi-
nistro della salute, per aver detto durante una
riunione delle Nazioni Unite sul tema dell’Aids che la masturbazione avrebbe dovuto
essere trattata nell’insegnamento della scuola
pubblica, fu silurata dall’amministrazione
Clinton. Se ancora ci sono ambienti che prescrivono il Metodo Billings come unico contraccettivo, da questo punto di vista inventare
il personaggio e la parabola di Vita diventa un
dovere civico.
«Senza amore, tutto più comodo». È vero
oppure c’è una variante?
In questo libro l’amore è scomodissimo. Dobbiamo tener presente che la frase viene pronunciata a proposito di Nora, l’alter ego di Vita. Metà del libro parla della sua passione
amorosa. È una donna di cinquant’anni che si
è perdutamente (avverbio trito e quanto mai
insostituibile) innamorata di Manuel. L’amore è il suo collasso totale. Per la prima volta,
Nora «intinge il piede nell’abisso». Non è più
la letteratura dei libri che tormentano l’educazione sessuale e sentimentale di Vita: è la carnale mistica dell’amore, senza vie di fuga.
Dopo aver tradito Giovanni, il consorte imprenditore freddo e anaffettivo, Nora cercherà
invano l’amore nel nuovo materasso a due
piazze con Manuel. Da qui «il materasso dell’acciuga», luogo simbolico in cui c’è posto
solo per una persona. Dove si smette di condividere l’impossibile e ci si riappropria della vita. Lo sanno tutti quelli che hanno amato. Sì, la
variante c’è: puoi metterti in salvo quando,
montato sulla zattera a una piazza, smetterai di
lasciare nelle mani di un altro il tuo destino.
L’altro è un incontro, una porta, un ponte, un
albergo ma non è mai la destinazione del tuo
viaggio. La destinazione sei tu.
La fuga di Vita è memorabile. Perché le
donne sono frenate dal chiudere la porta alle loro spalle?
Nel libro dico che esce di casa, mentre in salotto suo marito Opusdei, con un gruppo di fidati collaboratori (il solito italico assembramento al centro), è lanciato in discussioni sul programma della coalizione. Il problema è noto:
far convivere l’anima liberale, socialista, cattolica, radicale etc etc. Un po’ come coniugare dieta a zona, mediterranea, dissociata etc.
nello stesso menu. Lei esce di casa con la sua
valigia senza che se ne accorgano. Gli uomini
hanno scelto di copulare con la politica. Vita
invece si accontenterebbe di un membro maschile (liberale, cattolico, socialista etc). Questa differenza di fondo mi interessava molto.
Era diventata quasi un’ossessione. Non passa
cena tra amici che non si parli di come sono diversi gli uomini e le donne e non si elenchi una
sequenza di luoghi comuni. Ma dove affondano queste differenze? Natura o cultura? Si
può dare una risposta senza scontentare a turno biologi o storici, uomini o donne? Nel libro,
Vita si racconta come una vittima della cultura. Dall’adolescenza in poi è segnata da Petrarca, Flaubert, da tutta la teoria dell’amore in
Occidente, da Tristano e Isotta. Ma non tiene
conto della biologia. Invece è sorprendente la
quantità di cose che può indurti a fare un ormone. Se per le donne è più difficile chiudere
la porta alle loro spalle è certo anche perché,
sul piano biologico, la donna investe molto più
di un uomo nella procreazione, e conseguentemente in tutto l’indotto.
Fare i ribelli a scoppio ritardato
idiosincrasie, odi e amori del protagonista alle prese con la corrida festaiola vengono sviscerati da Pecoraro con grande attenzione al
particolare; e c’è anche il sottile disagio che il
personaggio prova nel vivere con una donna
molto più giovane di lui, un disagio che è
compensato solo da un ritrovato appetito sessuale che la ragazza gli ha regalato col suo essere, a modo suo, al suo fianco. Negli altri, si
segnalano come particolarmente riusciti l’ultimo, di cui ho appena parlato, che ha un finale
d’una amarezza quasi sconvolgente; e in mezzo, tra il primo e l’ultimo, spiccano a mio avviso "Vivi nascosto", soprattutto per la qualità
dei dialoghi, e "Il match", nel quale è dipinta
molto bene l’ossessione a perdita di tutto
d’un’artista. In ogni caso, per tutti i racconti che compongono non una raccolta ma una
serie di episodi che possono essere legati tra
loro concettualmente, anche se i personaggi
sono totalmente estranei uno all’altro - (ma è
anche questa una cosa notevole, perché comunque il mondo di Pecoraro è uno solo, e
non ci si sfugge) mi pare di poter dire che c’è
sempre qualità, attenzione al particolare, acutezza di sguardo e di visione, sano cinismo.
Pecoraro è un architetto romano di 60 anni al
suo primo libro. In un’epoca nella quale si
esordisce da adolescenti, sapere che un uomo
non più giovane esordisce con Mondadori con
un libro di racconti di questo livello non può
che essere di conforto per chi crede ancora, nonostante tutto, nel valore della letteratura. La
letteratura ha bisogno - alla faccia del mass
market - di tempo, di sedimentazione lenta e
puntuale e paziente, di pensiero. E Pecoraro un
suo pensiero rilevante sulla vita ce l’ha; uno
scrittore vero un pensiero rilevante ce lo deve
avere per forza, e allora, dico io, che cos’è la
letteratura se non l’espressione artistica di un
pagina
Nella foto Cinzia Zungolo che da Rizzoli ha pubblicato
Il materasso dell’acciuga
FRANCESCO PECORARO. Racconti sul comportamento dei cinquantenni
andro detto Silver ha una convivente molto più giovane di lui che lo
convince a dare una festa per il suo
cinquantesimo compleanno. Una
festa mobile con una corrida umana che finirà,
FRANZ KRAUSPENHAAR
come per tutte le corride, in maniera violenta.
("Camere e stanze"). Alessandro conosce un tiVIVE A MILANO. "LE COSE COME STANzio che dice di essere suo amico da anni e che
NO" (BALDINI CASTOLDI DALAI, 2003),
si rivelerà molto diverso dall’affabile perso«CATTIVO SANGUE» (BALDINI, 2005)
naggio che si era presentato a lui all’inizio; il
tutto accade in una località balneare coperta da
pioggia e fango in mezzo a un’aria d’insieme rale alto sono dei ribelli a scoppio ritardato.
vagamente surreale. ("Happy hour"). Egidio è Gente che s’è accorta davvero troppo tardi di
«intendente al governatorato» e dopo una riu- aver macinato la vita inseguendo trappole innione drammatica con alcuni colleghi si rende granate dal sistema (quello del lavoro, della soconto di non aver mai capito nulla e di essere cietà, del consumo, dello status symbol, della
fuori dai giochi delle tangenti. ("Vivi nasco- famiglia, del tempo libero, della carriera); e
sto"). Un pittore di poco successo viene con- dopo averlo scoperto, come in un risveglio imvinto dal suo gallerista a creare un’installazio- provviso da un incubo notturno, tentano spesne e questa diventa per lui un’ossessione tota- so l’ultimo guizzo, l’ultimo colpo di reni, cerlizzante. ("Il match"). Un mite avvocato napo- cano una svolta secca e definitiva. L’uomo di
letano viene inseguito da un guappo che vuo- successo che comincia lentamente a farsi tatuare la faccia da maori
le derubarlo e ha una rea(visibile in primo piano
zione a sorpresa. ("Farsi
un Rolex") Un manager
FRANCESCO PECORARO nella bella copertina) è il
simbolo marchiato su pelalla frutta si mette a dipin"Dove credi di andare"
le di un tentativo di farsi
gere tele tutte uguali di un
pp. 197, euro 16
altro restando se stessi. Il
rosso particolare mentre
Mondadori, 2007
tentativo di questi uomini
medita il suicidio, lontano
abili e arruolati non è
da tutto e da tutti. ("Rosso
quello, in definitiva fin
Mafai"). Carlo, un manager di successo, decide di tatuarsi la faccia e troppo facile, di coloro che prendono un cargo
questo sarà inevitabilmente un atto che porterà battente bandiera panamense o che emigrano
con sé delle amare conseguenze. ("Uno bra- alle Maldive coi soldi della liquidazione giocando il triste gioco dei Robinson Crusoe all
vo").
Questa la estrema sintesi dei racconti contenu- inclusive. No, per niente: questi uomini non
ti in Dove credi di andare, di Francesco Peco- sanno dove andare (nonostante il titolo del liraro. Racconti con protagonisti assoluti uomi- bro), nel senso che possono pure restare al loni di circa 50 anni, professionisti più o meno ro posto; ma è dall’interno (dalla pelle, come
affermati. Uomini che provano la crisi, il riget- nel caso del personaggio di Uno bravo) che
to, la stanchezza, anche la ribellione tardiva. vogliono cambiare, ma purtroppo è tardi,
Ecco, quello che in primis m’è saltato agli oc- sempre troppo tardi, tragicamente tardi.
chi è che quasi tutti questi uomini non più gio- Il primo racconto, "Camere e stanze", è il più
vani e comunque benestanti e di livello cultu- lungo; quasi un romanzo breve nel quale gusti,
S
S t los
pensiero rilevante sulla vita, di una vera rilevante visione? E per arrivare a questo ci vogliono spesso anni e anni, bisogna essere andati a combattere sulla «strada», bisogna aver
vissuto sul serio. Pecoraro parla di ciò che meglio sa, è evidente. Il mondo dei professionisti
si capisce che lo conosce molto bene, che lo ha
vissuto e lo vive dall’interno, che lo fuma, lo
beve, lo mangia, lo smaltisce. I ritratti di questi signori così sperduti a galleggiare facendo
spesso il morto, in un quotidiano nel quale non
si ritrovano più al centro delle coordinate di loro stessi, gli sono veramente venuti col pennello fine, come per un pittore della Nuova Oggettività tedesca.
Sembra di vedere, leggendo, certi personaggi
dipinti da Dix e da Schad; gente della finanza,
impettita e con la grisaglia d’ordinanza, ma
nella quale il pittore ha lasciato intravedere, da
un barlume inquietante e inquieto fissato negli
occhi, una profonda fragilità. Ecco, Dove credi di andare (titolo quanto mai azzeccato) è anche la storia di diverse fragilità, di professionisti allo sbaraglio (molto più interessanti dei dilettanti), di uomini nudi di fronte al loro passato. Un certo numero di lettori potrà rispecchiarsi in questi uomini voraginosamente soli, qualcuno potrà riconoscere un conoscente,
un capo, un vicino di casa; ma non c’è comunque - e qui ritorno alla pittura tedesca degli anni 20 - il realismo o il neorealismo di cui è stata rilevata da molti una certa piattezza; quella
di Pecoraro è una ricerca letteraria solida che
si fa solida pratica e che va oltre tutte le apparenze, perché la sua penna sfreccia, con una
prosa spesso cruda e inelegante come la vita con tutta la sua durezza ma sempre con la
massima proprietà e raffinatezza di sguardo oltre le apparenze, spesso entrando direttamente nei pensieri.
7
Eccebombo
narrativa
italiana
AURELIO GRIMALDI
Il PAPÀ DI BALZAC
Cari fedeli e a volte stanchi lettori, qui urge un riassunto delle puntate precedenti.
Il vostro redattore, colui che tenta di non
trascorrere alcune giornate della sua vita
senza un po’ di grande letteratura, considera sommi e prediletti compagni di viaggio, e ragion sufficiente di esistenza, Tacito, Balzac, Verga, Faulkner, I promessi
sposi, La Divina Commedia. Fino all’età
di 42 anni ahimè ignoravo Balzac, del
quale avevo solo letto, vent’anni prima,
Eugénie Grandet, archiviato come notevole romanzo ma non tale da spingermi,
misteriosamente, a leggere altre opere di
quell’autore. Poi, alla non verde età di 42
anni, la rilettura un po’ casuale della stessa Eugénie, e lo scoppiare di un amore sistematico e continuativo.
Eppure il secondo romanzo di Balzac da
me letto fu un passo falso. Era il famoso
Papà Goriot, che per l’appunto con Eugénie Grandet è tradizionalmente considerato il maggiore dei suoi romanzi. Letto
nell’anno 2000, non mi piacque affatto.
Ma non fu capace di interrompere il flusso d’amore per il laido Honoré. A distanza di sette anni l’ho ripreso in mano ed ho
in parte modificato il mio primo giudizio:
di questo vorrei dare conto ai lettori.
In Papà Goriot, come spessissimo in Balzac, si intrecciano vicende corali. Papà
Goriot ne è «solo» il co-protagonista. Ha
brillantemente maritato le due figlie femmine svenandosi per la dote; ma le ingrate, pressate dai cinici coniugi, lo hanno
messo da parte. Sopravvive modestamente nella pensione di madame Vauqueur,
ennesimo stupefacente ritratto di popolana avida e arguta. Co-protagonista è Eugéne Rastignac, altro pensionante dalla Vauqueur, giovane ambiziosissimo che per
ascendere nella bella società diventa addirittura amante di una delle figlie di Goriot.
Il romanzo mi dispiacque astiosamente.
Lo trovai orribilmente feuilletonesco. In
effetti lo è, come spesso lo sono, almeno
in parte, i romanzi del grande tozzo francese. Ed ecco una folla di avvelenamenti,
duelli prezzolati per una sanguinosa eredità, un’improvvisa vincita clamorosa al
gioco, la scoperta della vera identità di un
assassino (e altri non è che Vautrin, che
sarà l’anima nera di Illusioni perdute e
Splendori e miserie delle cortigiane!),
senza dimenticare un altro atout dei romanzi balzachiani: il vorticoso valzer di
amanti delle assatanate dame parigine.
Ma il romanzo, tra i suoi difetti, vanta indubbi meriti. Intanto questo insolito, inaudito, personaggio di Padre. Balzac, come
alcuni ricorderanno, non conobbe famiglia. Nonostante la sua bruttezza si dava
assai da fare con altolocate amanti e qualche figlio gli fu attribuito; ma nessuno ufficiale né accertato. E il povero Honoré
mai conobbe la gioia del desco familiare.
Quando l’amata nobildonna Eva Hanska
rimase incinta, il figlio nacque morto. Eppure papa Goriot è un ritratto stupefacente di padre. La letteratura, come segnalai
su queste colonne ragionando del libro
Con occhi di padre di Igor Salamone, è
piena zeppa di immense madri. Di papà,
quasi zero. Balzac ce ne offre un ritratto
poderoso, immenso, struggente. Vedovo,
totalmente innamorato di queste belle figlie, trascura tutto se stesso per assicurare loro ricchezza ed onori. Calcoli tutti
sbagliati, giacché le due figlie (come la
ancora più struggente Isabella Trao, figlia
dell’ancora più immenso don Gesualdo
Motta verghiano) finiranno malissimo
maritate, tiranneggiate dai mariti, con due
contrastati amanti ufficiali, secondo le
norme della società parigina.
Per queste figlie infine morirà. E il monologo finale del poveretto, solo e disperato,
è un momento molto alto di letteratura.
Ma come dimenticare, accanto a questo
monumento drammatico, il grande ritratto «da commedia» della pensionante Vauqueur?, che fa gruppo nel grandioso drappello di popolani balzachiani: la portiera
Cibot del Cugino Pons, l’avarissimo
Grandet padre di Eugénie, l’altro avidissimo padre di David nelle Illusioni. Con
personaggi come questi Balzac raggiunge
le vette più grandiose della letteratura. La
più felice di quelle anime desolate era la
signora Vauquer, che troneggiava in quell’ospizio a porte aperte. Solo per lei quel
giardinetto, che il silenzio e il freddo, la
siccità e l’umidità rendevano vasto come
una steppa, era un ridente boschetto. Solo
per lei quella casa gialla e tetra, che sapeva di verderame come un bancone, offriva qualche delizia. Grande!
Honoré de Balzac, Papà Goriot (1834)
narrativa
straniera
pagina
8
S t los
Nella foto Tracy Chevalier, autrice per Neri Pozza di L’innocenza
c’erano comunque moltissimi dettagli da definire, la zona in
cui viveva Blake, le strade, la case… E questo è venuto dopo.
Posso fare un esempio di come nasce questo processo di
arrivo della famiglia Kellaway nella Loncombinazione ne L’innocenza. Quando ho cominciato a scridra di fine 1700 è piuttosto traumatico, alvere avevo una certa idea generale del romanzo, poi, solo sucmeno quanto può esserlo il distacco dalla
cessivamente, ho scoperto che in quello stesso periodo era
verde campagna del Dorsetshire, o la fuga
morta la madre di Blake. Così ho voluto inserire questo partidal fantasma di un figlio scomparso da
colare nella trama ed ho pensato di far seguire ai ragazzi il corpoco. Anne Kellaway, la moglie dell’abile
teo funebre che accompagnava il feretro, dalla casa del poeta
costruttore di sedie proveniente dalla Piddal cimitero. Questo dettaglio è diventato una sorta di espediente narrativo per far ampliare gli orizzonti dei giovani personagle Valley in cerca di una nuova vita nella capitale, comincia a
gi, per farli uscire dal loro quartiere e far loro conoscere una
pentirsi della decisione di partire nel momento stesso in cui il
Londra diversa, più grande. Inizia così il loro viaggio che dalcarro si è messo in movimento, e il suo rammarico non fa che
la luce - da un luogo dove le persone sono ricche e vestite in
crescere durante la settimana che impiegano a raggiungere
modo elegante -, li porterà nella parte più vecchia della città,
Londra, lungo le strade rese viscide dal fango di inizio primaattraverso un percorso sempre più buio e spaventoso. Duranvera. Seduta davanti all’anfiteatro dove si esibisce il circo di
te questo viaggio attraversano anche un macello, pervaso
Philip Astley, la stessa persona che ha promesso al marito una
dall’odore fetido del sangue che scorre nella strada, raggiunsistemazione in città, capisce che Londra non sarebbe mai riugono il cimitero, comincia a piovere e si perdono nelle scure
scita a farle dimenticare il figlio morto. Anzi, ne rende ancoe strette strade di Londra. Questo diventa una sorta di discesa
ra più presente il ricordo, perché ogni volta che guarda quelagli inferi, per i protagonisti, un passaggio dall’innocenza alle strade sconosciute le torna in mente ciò da cui sta fuggenl’esperienza. All’inizio del romanzo non avevo pensato di indo. Una città, con le sue miserie e il suo splendore, che prenserire questo particolare e mi sono ritrovata a dover effettuade vita, pagina dopo pagina, in un grande affresco ricco di rire molte ricerche per poter descrivere il tragitto seguito dai raferimenti storici e sociali, proprio come doveva apparire pogazzi, aggiungendo via via vari dettagli che, in questo conteco più di due secoli fa, grazie alla straordinaria capacità descritsto, hanno assunto un significato molto più ampio.
tiva dell’autrice - il Vicolo dei Tagliagola che conserva il seLa maggior parte dei suoi romanzi è ambientata nel pasgreto di Maggie; il circo, dove nasce l’amore pericoloso di
sato: non ha mai pensato di scrivere del presente o di se
Maisie per John Astley; le taverne dove Dick Butterfield archistessa?
tetta i suoi intrighi; e poi le case, i ponti, il fiume…
No, innanzitutto perché considero il raccontare fatti contemSe per alcuni dei precedenti romanzi Tracy Chevalier è stata
poranei una trappola: il mondo sta cambiando troppo in fretispirata dall’arte figurativa, per questo ultimo dal titolo L’inta e credo sia più sicuro e più concreto scrivere
nocenza, la scrittrice si rivolge al mondo della
del passato. Inoltre non voglio parlare di me nei
letteratura, in particolare alla vita ed alle opere
miei romanzi, perché non mi ritengo una persodel famoso poeta e pittore William Blake. Seb- TRACY CHEVALIER . Un romanzo cesellato nella
na interessante e non posso immaginare che
bene l’artista non sia il personaggio principale, la
qualcun altro mi ritenga tale. Preferisco quindi
sua figura domina l’intero romanzo e condizio- storia e stavolta ispirato non a un pittore come fu il
ampliare la mia visione fino a comprendere e inna fortemente le azioni dei veri protagonisti, i fiprecedente
ma
a
un
poeta,
il
cantore
che
l’Inghilterra
cludere il mondo facendo un salto all’indietro nel
gli dei Kallaway, Jem e Maisie, e la curiosa e inpassato.
traprendente Maggie Butterfield, figlia di una fa- elevò a rappresentante ufficiale della sua cultura
Sembra che lei ritenga necessaria una certa
miglia che, come i Kallaway, occupa una della
distanza da ciò che sta scrivendo: non crede
case di Lambeth, il quartiere dove sorge l’anfisia anche più difficile colmare questa distanteatro degli Astley, unito dal ponte di Westminza, entrare in sintonia con personaggi così lonster al centro di Londra. Insieme, e accompagnatani da lei?
ti dalla presenza rassicurante dei Blake, i tre raNo, perché io sviluppo una sorta di coinvolgigazzi compiranno un viaggio, reale, nella Londra
mento con i miei personaggi, che diventano via loro ancora sconosciuta, e simbolico insieme,
vi, così come è successo con Griet, la protagonidal paradiso all’inferno, e ritorno. Un viaggio
sta de La ragazza con l’orecchino di perla. Li
che, come suggerito dal titolo e dalle numerose
sento con me, vicino a me, anche se all’inizio ho
citazioni dei canti di Blake, li porterà dall’innobisogno di questa distanza per poterli vedere, nel
cenza all’esperienza. Stilos ha intervistato l’aumomento in cui inizio a scrivere, la scrittura fa sì
trice.
che si avvicinino sempre più. Personalmente
I protagonisti dei suoi romanzi sono spesso
LIDIA GUALDONI
IL LIBRO
questa distanza non è un problema e l’importanadolescenti: c’è una motivazione di base?
te è che nemmeno i lettori percepiscano i persoNon scrivo deliberatamente scegliendo adoleVIVE E LAVORA A MILANO. DIRIGE
TRACY CHEVALIER
naggi come lontani.
scenti come protagonisti dei miei romanzi, però
LA SEZIONE "LIBRI E AUTORI" DI
"L’innocenza"
Ci può dire qualcosa circa le sue abitudini di
mi sento decisamente attratta da questi personagUN IMPORTANTE PORTALE ITALIANO
Trad. Massimo Ortelio
scrittrice?
gi. È un tema comune, forse perché secondo me
pp. 360, euro 17
Non ascolto mai musica, perché trovo mi diun romanzo deve essere incentrato sul cambiaNeri Pozza, 2007
stragga. Alcuni scrittori dicono di non leggere almento e l’adolescenza è un periodo ricco di cambiamenti. Inol- feriori erano già apprendisti
tre fiction, per timore di imitare altri autori, ma
tre, trovo che in passato i giovani incontrassero più difficoltà e portavano a casa la loro
siccome io sono una pessima imitatrice, leggo di
a passare dal mondo dell’adolescenza a quello degli adulti e paga per contribuire al sotutto, sia romanzi storici, sia fiction contemporaquindi dovevano cercare di affrontare questo passaggio nel stentamento della famiglia
nee. Quando creo, ho un’intera parete dello stumodo meno traumatico possibile. In effetti questo romanzo - dei protagonisti del mio
dio ricoperta di immagini; in questo caso avevo
tratta più apertamente del tema dell’adolescenza rispetto agli romanzo, Jem lavora con il Trasferimento nella city
la cartina della Londra di quel periodo, illustraaltri, perché è incentrato sul passaggio dall’innocenza all’espe- padre e Maggie lavora in di un carpentiere
zioni di Blake, un disegno della sua casa, vari aprienza. Io concepisco il libro come un passaggio, un viaggio, fabbrica. Il passaggio era
punti, ritagli, citazioni, immagini del circo.
e il lettore mi accompagna, insieme ai personaggi che cambia- dunque più brutale. Oggi, i Thomas Kellaway, un carpentiere delQuando rimango bloccata e non riesco a scriveno. Inoltre, scegliere di parlare di adolescenti rende i miei ro- genitori tendono a proteg- la provincia inglese, decide nel 1792 di
re, esco e vado a fare una passeggiata nel parco
manzi più universali, visto che tutti i lettori adulti sono passa- gere i loro figli, che posso- trasferirsi con la famiglia a Londra
vicino a casa mia, visito diverse mostr: sento il
ti attraverso questo periodo, e ciò permette loro di identificar- no continuare ad essere dove un amico gli ha procurato un labisogno di allontanarmi dalla parola scritta e di
si e di relazionarsi meglio con i protagonisti. Mi ha favorevol- «bambini» più a lungo. Per voro in un circo e trovato casa nel
vedere le cose, di avere esperienze visive.
mente sorpreso anche il fatto che moltissimi adolescenti leg- quanto riguarda invece il quartiere popolare di Hercules BuilCi può invece anticipare qualche cosa sul nuogano i miei libri, soprattutto La ragazza con l’orecchino di per- passaggio delle ragazze, dings, brulicante di rumori, di vita
vo libro che sta scrivendo?
la, che viene proposto nelle scuole ed è diventato materiale di- dall’adolescenza all’età febbrile, di gente miserrima in un quaAnche il nuovo libro avrà una protagonista femdattico negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed anche in Italia. adulta, c’era una combina- dro dickensiano. La moglie del carminile, ma questa volta ho deciso di allontanarProprio per questo ricevo moltissime e-mail da studenti che mi zione tra l’inizio dell’età la- pentiere non è però contenta del trami dal mondo dell’arte e della letteratura, per avchiedono, ad esempio, qual è il tema principale del romanzo vorativa e il momento in sferimento e ripensa al figlio che ha
vicinarmi alla scienza. È un argomento che mi
o il simbolismo legato ai vari personaggi. Allora devo rispon- cui diventavano sessual- perduto e alla sua campagna. Il roaffascina perché è un territorio per me compledere che, mi spiace, ma non posso fare io compiti a casa al lo- mente attive. Il periodo in manzo comincia con il figlio di Thotamente inesplorato. La protagonista è una donro posto! Credo che questo varrà anche per questo libro, pro- cui è ambientato il mio ro- mas che trasporta sedie di produzione
na che va a caccia di fossili, in un paesino a sud
prio per la presenza di William Blake che in Inghilterra è og- manzo è quello georgiano, del padre al numero 12 della strada in
dell’Inghilterra: per mantenere la sua famiglia,
getto di studio.
previttoriano, caratterizzato un trambusto di carrozze e tramestii
scava tutto il giorno per poi rivendere i fossili che
Che cosa l’ha affascinata di Blake e quale aspetto della da una sessualità più viva, finché improvvisamente sente calare
ha trovato. Il ritrovamento di questi reperti arsua personalità ha voluto mettere in rilievo, anche rispet- rispetto ad altre epoche. un inaspettato silenzio e sulla via apcheologici di dinosauro sono stati allora una sfito ad altre biografie o romanzi dedicati a questo artista?
Spesso all’estero si associa pare la figura massiccia del bardo inda alla teoria della creazione, alla convinzione
William Blake è il poeta e il pittore più conosciuto in assolu- l’immagine dell’Inghilterra glese per eccellenza, il poeta e pittore
che Dio avesse creato l’universo, in quanto queto in Gran Bretagna, paragonabile al vostro Dante, anche se al al periodo vittoriano, a William Blake che vive negli Hercules
sti fossili risalivano ad un’epoca precedente a
di fuori dell’Inghilterra non è così famoso. Fa parte della no- quelle donne per bene, ve- Buildings e che con i suoi libretti sta
quella in cui si pensava fosse stato creato l’unistra vita quotidiana: ci sono sue poesie scritte nella metropo- stite di tutto punto e abbot- infiammando gli animi degli inglesi e
verso. Una scoperta che ha preparato la via alla
litana, Jerusalem, tratto da un suo poema, viene cantato duran- tonate fino al collo, che non che incute timore e rispetto.
teoria dell’evoluzione di Darwin. Ho scelto quete le messe, ai matrimoni, o prima delle partite di cricket… pensavano assolutamente
sta donna come protagonista del prossimo roQuando l’ho conosciuto, non sapevo che fosse così prolifico al sesso. Questo fenomeo perché fosse così amato, ed ho cominciato a raccogliere ma- no, però, ha caratterizzato in modo particolare il XIX secolo, manzo per caso, in occasione di una visita ad un museo di diteriale perché volevo scrivere anche di lui. Era mia intenzio- mentre prima la società era molto più improntata al sesso e le nosauri con mio figlio, due anni fa. In questo museo c’è una
ne capire perché fosse stato frainteso dai suoi contemporanei ragazzine cominciavano presto ad avere una vita sessuale at- piccola sezione dedicata, a Mary Anning e c’è un’immagine
di questa donna con un lungo abito vittoriano di lana e un pe- non dimentichiamo che è sempre vissuto sull’orlo della po- tiva.
vertà e che prima di morire viveva in un appartamento di due Nei suoi romanzi sembrano prevalere personaggi femmi- sante cappello per proteggersi di massi che potevano caderle
in testa, tiene in mano il martello con il quale continuava a cerstanze. Riusciva a vendere pochissimo di ciò che produceva. nili…
Nonostante questo, ha sempre continuato a perseguire la sua Sì, nei miei romanzi ambientati nel passato, i personaggi care nel fango e sotto la pioggia: un’immagine piuttosto insovisione personale. Probabilmente sarebbe incompreso anche principali sono prevalentemente femminili. In quest’ultimo li- lita. La Anning non era una donna colta, ma le sue idee erano
ai nostri tempi. Eppure è stato, per così dire, abbracciato dagli bro volevo ci fosse più equilibrio, grazie ad un personaggio veramente rivoluzionarie. Idee che le sono state rubate dai
inglesi come rappresentante ufficiale della loro cultura. Ovvia- maschile ed uno femminile. Così ho cominciato con Jem geologi con cui lei si era confidata e che le hanno sottratto il
mente, quando ho cominciato ad interessarmi a lui, sapevo che Kellaway che credevo potesse essere il protagonista maschi- merito e la gloria per queste scoperte. Come mi è successo con
esistevano molte biografie che lo riguardavano, ma non vole- le. Però, nella trama del romanzo, si è inserita Maggie e la sua Blake, l’idea del romanzo mi ha colpito sebbene non fossi envo scrivere un romanzo biografico. Non ho scelto perciò presenza è diventata dominante, impedendomi di raggiunge- trata in quel museo a caccia di ispirazione. Proprio in quel peBlake come personaggio principale, ma ho voluto che rappre- re l’equilibrio che volevo mantenere all’inizio. Quello però che riodo stavo avendo delle difficoltà con la stesura de L’innocensentasse la forza sottesa al romanzo, la spinta che lo fa anda- sto cercando di fare ultimamente, è allargare la tela, per così di- za ed avrei voluto subito iniziare a scrivere di questa donna, poi
re avanti. Non volevo fosse il protagonista principale perché re, del mio impianto narrativo, inserendo personaggi maschi- però mi sono imposta di aspettare e di finire prima l’altro romanzo. Ora sto facendo delle ricerche e un altro particolare
è un personaggio troppo difficile da comprendere. Io stessa, li, come avevo fatto con La dama e l’unicorno.
dopo tre anni di studio, devo ancora carpirne l’essenza. Vole- Dei suoi libri si apprezza sempre l’ambientazione storica della vita di questa donna che mi ha incuriosito è il fatto che
vo invece esplorare il mondo attraverso i suoi occhi, così co- perfettamente dettagliata: mentre scrive pensa prima al- da piccola è stata colpita da un fulmine ed è sopravvissuta,
mentre la donna che la teneva in braccio è morta. Vorrei agme lui lo aveva visto. Mi sono ispirata ai suoi Canti dell’inno- la trama o ai luoghi dove si svolgerà l’azione?
cenza e ai Canti dell’esperienza proprio perché volevo descri- È difficile stabilirlo, sarebbe come chiedersi se è nato prima giungere che il tema trattato è particolarmente attuale, visto
vere le sue teorie, così come erano percepite allora.
l’uovo o la gallina: c’è un po’ dell’uno e dell’altro. L’ambien- che negli Stati Uniti stanno riprendendo piede le teorie che soHa detto che il passaggio dall’adolescenza all’età adulta tazione deriva dalla mia fonte di ispirazione - nel caso del di- stengono che Dio abbia creato il mondo 6000 anni fa. Una corera, all’epoca in cui è ambientato il suo romanzo, più dif- pinto di Vermeer era l’Olanda del XVII secolo, nel caso di que- rente di pensiero che sta diventando politicamente sempre più
ficile. Non crede fosse però più naturale rispetto a quello st’ultimo libro, la Londra del XVIII secolo. Si può dire sia una significativa e sta mettendo in discussione le teorie sull’evodei giovani moderni, con quell’apparato di attenzioni che conseguenza del tema principale del romanzo. Prima di inizia- luzione, tanto che in alcune scuole è addirittura vietato insene prolunga la permanenza in famiglia?
re a scrivere, però, faccio un grande lavoro di ricerca e di pre- gnare le teorie di Darwin. Questo fenomeno mi spaventa
Forse non era più difficile, ma certo era più rapido e più pre- parazione: nel caso di Blake, ho studiato un anno, perché si enormemente e mi sembra perciò particolarmente importancoce. Al giorno d’oggi, l’adolescenza viene prolungata fino ai tratta di un personaggio molto versatile e complesso, su cui ho te ritornare alle origini del dibattito fra i fautori della teoria delvent’anni, mentre all’epoca, a dodici anni o tredici anni, ma an- dovuto leggere moltissimo. Per quanto riguarda la trama, do- la creazione e quelli che sostengono l’evoluzionismo per cache prima a volte, i giovani che appartenevano alle classi in- po una prima idea, sapevo dove si sarebbe svolta l’azione, ma pire i riflessi che possono avere sulla società.
L’
La Londra del ’700
nel segno di Blake
Capoverso
I n t e r v i s t e
IDOLINA LANDOLFI
QUARTINE DALLA PERSIA
Davvero i grandi poeti si somigliano tutti, e solo i mediocri perseguono la cosiddetta originalità: perché gli argomenti sono sempre gli stessi, pochi e fondanti.
Così Omar Khayyâm e le sue robâyyât ci
giungono dalla Persia del XII secolo, e attualissima la sua voce forte, suadente,
saggia, sorella di quella dell’Ecclesiaste,
del Cantico dei Cantici, o del millenario
racconto di Gilgamesh: «Quanto a te,
riempi il tuo ventre di cose buone; giorno
e notte, notte e giorno, danza e sii lieto,
banchetta e rallegrati. […] Fin dai tempi
antichi nulla permane».
Le lodi del vino, delle serate passate in lietezza, perché «siamo fatti di polvere»,
«siamo fatti di vento», «siamo poveri che
abbracciano il nulla», ci vengono ora presentate nella traduzione di Hafez Haidar:
Quartine, Rizzoli, Bur (Collana "Pillole"), pp. 132, euro 5.
Della vita di Khayyâm, uno degli eruditi
del suo tempo (matematico, filosofo,
astronomo, - e poeta per diletto), ci informa esaurientemente nell’introduzione
Mohammad Alî Forughî: della sua sconfinata dottrina (ma «Il mio pensiero ha
svelato ogni segreto dell’universo, / Ha
compreso la terra e più elevate comete, /
Ha schiarito ogni trucco e ogni mistero /
tranne quello del Destino» è il testo di una
quartina), della leggenda che abbia vissuto centoventi anni e della sua opera maggiore, un fondamentale trattato di algebra;
e persino di certi lati del carattere, irascibile e schivo di onori.
La quartina, poi, vi è definita la più evocativa e la più immediata delle varie forme
poetiche persiane, dove le immagini sono
forzate in uno stretto giro di versi, di cui
l’ultimo rappresenta l’assunto.
Attribuzioni a parte (ad un certo punto,
data la grande popolarità di questi testi, si
raggiunse il numero di alcune migliaia),
sue dovrebbero essere quasi sicuramente
circa duecento quartine; e 101 quelle tradotte da Fitzgerald nella sua celebre edizione del 1859, che fu poi il libro che diffuse in Occidente la conoscenza di
Khayyâm.
Vi è in esse il sobrio lamento di chi si trova smarrito in una vita e in un luogo di cui
non riconosce le coordinate, nel quale
non ha chiesto di essere gettato, capriccio
di un dio forse ebbro. Mille volte meglio
non esser mai nati, che patire lunga agonia e infine morte: «Non fossi venuto, né
andato, né stato giammai» recita la prima
quartina; «E beato chi al mondo non venne» la 139.
Immagini di morte e di trasformazione (i
corpi di uomini e di donne mutati in argilla per vasi, in polvere che altri esseri calpestano: «muovi gentile il tuo passo sulla polvere / Perché è stata pupilla di una
bella fanciulla») ossessionano il sapiente,
rincorrendosi di quartina in quartina, dove troviamo tutto ciò che ispirerà i poeti a
venire: il livellamento operato dalla morte («Il sultano e il mendico…»); la vita
considerata come un breve sogno, dal
quale ci desta un’alba esiziale, o come un
qualcosa di incomprensibile sospeso tra
due nulla, o ancora l’ombra di una nuvola in corsa («I giorni sono come candide
nuvole passeggere / La nostra vita è come
l’ombra»); la nascita dolorosa: «Nacque
in affanni, fu impastato di polvere e di dolore / Vagò poco tempo nel mondo, e poi
levò il passo»; la percezione profonda
della caducità e soprattutto dell’insensatezza dell’esistenza («Partimmo restii e
senza sapere qual era / Lo scopo di questo
venire, essere e andare»), umana ma non
solo: egli sa cogliere il cuore segreto delle cose, che raccomanda di trattare con riguardo, delle piante e degli animali.
Sulla terra tutto è sottoposto ad un’eterna
vicenda («Andarono, e vanno e altri verranno e andranno»); e l’acqua, il vento sono le figurazioni privilegiate per descrivere la condizione di continuo fluire, il vento che strappa ai corpi la veste della vita,
come i petali ad un fiore; e che simboleggia l’effimera essenza di quanto resta.
L’invettiva colpisce a tratti un’ipotetica
divinità, chiamata Dio, o Ruota Crudele
del Cielo («un cielo siffatto merita solo disprezzo!»), Giardiniere del Cielo, Pittore
Eterno; o la stessa ragione, inutile fonte di
sofferenza, quando assai più giovevole sarebbe l’immemore abbandono al proprio
destino.
Da qui l’esortazione a pensare al presente, a godere dell’attimo, con fanciulle e
con vino: «Da questo soffio di vita seppe
trarre lieto profitto / Chi in libertà, amore
lieto e vino puro, visse».
S t los
narrativa
straniera
I n t e r v i s t e
C
MADDALENA BONACCORSO
àpita ogni tanto che libri di
giovani autori quasi sconosciuti, pubblicati da piccole case editrici in una tiratura iniziale di 3000 copie, esplodano letteralmente fra le mani di autori, editori, librai e lettori. È quello che è successo al thriller di Franck Thilliez "La chambre des morts", pubblicato da Le Passage, in
Francia, nel 2005. Un paio di recensioni positive all’uscita, i consigli dei librai appassionati, e soprattutto il motore silenzioso del passaparola dei lettori. Risultato, 40000 copie vendute in quattro mesi, librerie a richiedere in
continuazione ordini, editore - e possiamo
comprenderlo - in preda a felicità e panico, autore incredulo. Arriva adesso anche in Italia,
con il titolo La stanza dei morti, quello che è
stato definito come «la riposta europea al Silenzio degli innocenti».
E in effetti, qualche somiglianza con il best seller di Thomas Harris c’è veramente: soprattutto nella cupa ambientazione. Ma anche nell’analisi della mente criminale e malata dei vari
personaggi - e non sono pochi. Figure che
sconvolgono e rendono la lettura più che spaventosa, quasi adrenalinica. Ma il punto di
forza di questa penna nera come il carbone è
forse nella geniale invenzione e creazione di
Vigo e Sylvain. Due personaggi per caso, disegnati per raccontare e dimostrare cosa succede quando all’interno di un quadro criminale
già delineato e di una vita normale sopravviene una variabile impazzita. Cosa succede a una
persona qualunque quando un evento improvviso arriva a sconvolgerla?
Lo scrittore, nato ad Annecy nel 1973, è ingegnere elettronico; dotato di scrittura moderna
e grande attenzione ai temi sociali, promette di
diventare, ma forse lo è già, un nome su cui
contare. Stilos lo ha intervistato.
Qual era la sua intenzione, quando ha deciso di scrivere questo romanzo? Proiettare i
lettori nel male assoluto e mostrare loro
quanto è banale il crimine?
Beh, sì, possiamo vedere la cosa anche da
questo punto di vista. Volevo proprio far vedere cosa succede a delle persone normali, quasi banali, quando interviene un incidente di
percorso; e questo incidente di percorso fa sì
che queste persone si trovino davanti un sacco
di soldi. Mi sono proprio legato nel profondo
alla storia dei due informatici, che sprofondano in una sorta di follia, anzi in una vera e propria follia omicida, senza che in precedenza
avessero mai avuto a che fare con la violenza.
Volevo far vedere che peso ha il caso sulle loro vite. Ma volevo anche creare un romanzo
pieno di suspense, che la gente avesse voglia
di continuare a leggere, pagina dopo pagina,
sempre in preda alla paura. E allora ho creato
anche una seconda storia, con un killer più
classico, che è tipico di questo genere di letteratura.
Soprattutto nel finale del libro, e soprattutto intorno alla figura di Lucie, lei lascia un
certo numero di enigmi irrisolti. Questo è
anomalo nella letteratura di genere.
È vero, ho lasciato un discreto numero di enigmi irrisolti intorno a Lucie. Ho creato dubbi.
L’ho fatto volontariamente; perché lei non era
al centro dell’intero romanzo. Ma adesso sto
portando a termine un romanzo che si focalizza proprio sul personaggio di Lucie.
Riguardo alla figura di Lucie, come mai la
scelta di un detective donna? Anche questa
è una scelta un po’ controcorrente, per un
uomo. Ha avuto difficoltà a pensare con la
sua testa?
Ho scelto una donna perché mi interessava insistere sull’aspetto umano dei miei personaggi. Volevo fortemente mostrare come anche in
un thriller la vita familiare avesse un forte peso, e volevo anche far vedere tutte le difficoltà
che ha una donna a conciliare i figli con un lavoro come quello del detective. La difficoltà di
essere una donna in un ambiente maschile. Mi
sembrava interessante mostrare anche i lati
oscuri delle donne. Il loro avere segreti, il lo-
FRANCK THILLIEZ. Un romanzo d’esordio che il
passaparola ha portato in Francia alle stelle. La vita
quotidiana di due persone comuni sconvolta da un banale
incidente di percorso, che diventa fomite di un incubo
Come scoprire
la violenza
per un caso
IL LIBRO
FRANCK THILLIEZ
"La stanza dei morti"
pp. 350, euro 18,60
Nord, 2007
Investire un passante
in auto e trovare
due milioni di euro
Vigo e Sylvain, due giovani informatici disoccupati, in una notte cupa, investono a
Dunkerque uno sconosciuto. L’uomo muore nell’incidente e ha in mano una valigetta con all’interno due milioni di euro. La strada è isolata e deserta. Cosa ci faceva lì? Bisogna denunciare o scappare con i soldi? Il destino piomba all’improvviso
su due vite banali e le trascina verso l’inferno. Nel frattempo la città vive nel terrore per la morte di una ragazzina rapita, e il sequestro di un’altra. Lucie Hennebelle, giovane poliziotta, appassionata di criminal profiling, inizia le indagini.
ro non dire tutto. Mi affascina molto questo
aspetto della femminilità. E no, anche se può
sembrare strano, difficoltà non ne ho mai avute.
Voleva mostrare quanto è difficile essere
donna nel mondo del lavoro; e con la figura dei due informatici disoccupati lancia
anche un messaggio riguardante la precarietà del lavoro, le vittime della cosiddetta
new economy. Diventa quasi un romanzo
sociale, più che un thriller.
Beh, sì, e sono contento che ciò avvenga.
Quelli di cui parlo sono i miei problemi, i
problemi della mia generazione. In Francia,
informaticamente parlando, c’è stato un momento molto difficile, che corrisponde al periodo della «bolla Internet». Un periodo in
cui chi usciva dalle facoltà informatiche ave-
va grosse difficoltà a trovare lavoro. Per i miei
due informatici ho scelto questo tipo di realtà
per ragioni anche autobiografiche; per esempio, il colloquio di lavoro è davvero una cosa
vissuta quasi in prima persona. Le cose funzionavano così. In più, ho creato questi due personaggi disoccupati perché mi servivano due
persone fragili e vulnerabili, e quindi più facilmente prede della corruzione nel momento in
cui si trovano davanti. Ragioni di utilità, quindi; ma anche più profonde.
Prima di cimentarsi con la scrittura di questo romanzo era già appassionato di letteratura thrilling?
Sì, certamente. Fin da adolescente ho sempre
letto tantissimi thriller, soprattutto amavo molto Stephen King. E poi ho sempre adorato il cinema; credo di aver visto tutti i thriller e gli
pagina
Nella foto il francese Franck Thilliez, autore per Nord di
La stanza dei morti
horror possibili immaginabili. Finché ad un
certo punto hanno cominciato a crearmisi in
testa delle storie mie, con personaggi miei e
ambientazioni personali. Hanno fatto scaturire la necessità di «buttare fuori» tutta questa
roba. E questo si è tradotto nello scrivere storie, racconti, tutto.
Riguardo all’ambientazione; le regioni di
cui parla, che poi sono le sue, sono un po’ in tutti i sensi - lontane dalle classiche zone
di ambientazione del giallo francese; di solito si parla di Parigi e soprattutto delle regioni del Sud, pensiamo alla Marsiglia di
Izzo, per esempio. Perché questa scelta?
Pensa sia un punto di forza o di debolezza?
Ho deciso di parlare della regione di Dunkerque, e delle zone limitrofe, proprio per questo
motivo: volevo dimostrare che è possibile
scrivere un thriller senza andare lontano. Mi
premeva stare nelle mie zone; e anche stare vicino alla quotidianità della gente comune, che
conosco fin da bambino. Volevo che i lettori
del Nord della Francia si riconoscessero in
questo libro, e che quelli che invece non ci sono mai stati si incuriosissero. Volevo anche dimostrare che queste regioni, a volte così tremendamente cupe, sono adattissime all’ambientazione di libri gialli. E in effetti il fatto di
ambientare il libro in queste zone, cosa che all’inizio poteva sembrare un punto di debolezza, si è poi rivelato un punto di forza, se non altro per la curiosità.
Il suo successo è arrivato - incredibilmente
inaspettato - dai librai, e dal passaparola
dei lettori. Ha anche vinto un premio molto prestigioso conferito proprio dai lettori.
Come ha vissuto quel periodo?
Ah, è stato un periodo entusiasmante. È successo tutto in maniera velocissima. Il tutto è
dovuto all’iniziativa dei librai, che hanno parlato in giro del mio romanzo e l’hanno consigliato. Poi c’è stato questo incredibile passaparola. Dopodiché la stampa ha cominciato a interessarsi al libro e i giornalisti hanno cominciato a chiedersi di chi fosse questo romanzo di
cui tutti stavano parlando. Quindi le cose hanno cominciato a muoversi, all’improvviso, in
modo incredibilmente rapido. Si sono moltiplicati i contatti, è arrivato l’interessamento del
cinema, poi c’è stata l’edizione tascabile; infine sono arrivati i contatti con l’estero per le traduzioni.
Questo successo inaspettato le ha causato
timore? Sente il peso della responsabilità di
non deludere i lettori con il prossimo libro?
No, vero e proprio timore, no. Certo so di non
poter sbagliare, da qui in poi. Il mio modo di
scrivere non è stato modificato, ma ho preso
coscienza di avere dei lettori - piuttosto tanti e adesso so che devo assolutamente realizzare ogni volta, ogni singola volta, un buon libro.
Devo trovare ottime storie.
Lei porta avanti le storie dei protagonisti
positivi e negativi in modo parallelo, con
grande abilità…
In verità, sì, era proprio un mio obiettivo.
Creare tre punti di vista diversi: quello del Mostro, quello dei due informatici e quello di
Lucie. Quello che mi interessava era veramente trattare queste tre storie in maniera contemporanea e parallela senza che una fosse in
sopravvento sull’altra. In modo che il lettore
saltasse ogni volta da una storia all’altra e
avesse voglia ogni volta di continuare a leggere per sapere come procedevano queste storie.
Direi che ho costruito il libro proprio con questa finalità.
Alla fine del libro si resta con l’amaro in
bocca. Poi arriva l’epilogo, magistrale e sorprendente.
Grazie, sì, l’epilogo è stato scritto per mostrare come non sia possibile fuggire dal destino.
La storia inizia con il destino, con un incidente. E finisce con il destino. Volevo anche far
vedere che facendo del male, in qualche modo
sei costretto a pagare per il male fatto.
So che l’italiano è la prima lingua nel quale è stato tradotto il libro. Cosa si aspetta?
Le confesso che sono un po’ preoccupato. Gli
italiani sono molto esigenti e so che in Italia
l’interesse per il giallo, per il thriller, è altissimo. Mi piacerebbe molto conoscere l’italiano
per poter vedere con in miei occhi e sentire con
le mie orecchie l’effetto che fa il mio libro.
V
9
O
C
I
CAIRO LIBRI
BENEDETTA CENTOVALLI
NUOVO DIRETTORE EDITORIALE
Benedetta Centovalli, una delle più conosciute editor di narrativa italiana, con una
lunga carriera in Rizzoli, ha lasciato la direzione della padovana Alet, dove ha messo a
segno alcuni significativi successi, ed è approdata alla direzione editoriale di Cairo
Libri, succedendo a Marcella Meciani andata a dirigere Mondolibri.
PREMIO ANFORA
"CENTROEUROPEA"
SECONDA EDIZIONE
È stato bandito il Premio letterario «Anfora Centroeuropea» 2007. Partecipano pubblicazioni di narrativa (romanzo o raccolta
di racconti tradotte in lingua italiana di autori viventi o deceduti editi in Italia esclusivamente delle seguenti Nazionalità: Germania, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Polonia, Slovenia, Ungheria, Romania,
Croazia, Serbia, Ucraina, Svizzera, Bosnia
Erzegovina) e/o pubblicazioni di saggistica
(saggi in volume su tematiche culturali solo se correlati ai menzionati Paesi) anche di
autore di nazionalità Italiana. Le opere partecipanti dovranno essere state pubblicate
tra l’1 gennaio 2006 e l’1 gennaio 2007 e
devono essere in prima edizione e pubblicate non in proprio. Il riconoscimento al vincitore è costituito da un’anfora appositamente realizzata da artista contemporaneo.
Segreteria Edizioni Anfora, Viale Vittorio
Veneto, 14 - 20124 Milano. Tel.
0229400655); e-mail: [email protected].
METAMORFOSI IN CORTO
UN CORTOMETRAGGIO
ISPIRATO A UN LIBRO
Ad un anno dal suo romanzo d’esordio Metamorfosi, la giovanissima e promettente
Claudia Catalli vuole festeggiare la ricorrenza con la proiezione di una serie di cortometraggi, ispirati al libro. L’autrice, con il prezioso contributo di critici cinematografici,
giornalisti e cinefili esperti, selezionerà
quelle opere che esprimono al meglio l’atmosfera e le peculiarità del romanzo. L’obiettivo di questo particolare incontro tra cinema e narrativa è duplice: da un lato si vuole dare maggior visibilità ad una realtà di
nicchia qual è il cortometraggio, dall’altro si
vuole offrire l’onirica suggestione di un
possibile dialogo tra arti e tendenze stilistiche contemporanee. Per partecipare basta
inviare un’email con la propria candidatura
completa di dati personali e recapiti entro e
non oltre le 24 del 5 maggio 2007 a: [email protected]. Il cortometraggio, invece, andrà inviato a: Concorso Metamorfosi in corto. Alla c.a. Erika Eramo via G.A.
Badoero 52 - 00154 Roma. Il cortometraggio, di qualsiasi genere e tipologia, purché
ispirato al libro, dev’essere realizzato su
supporto digitale (cd/dvd), con durata dai 2
(minimo) ai 10 (massimo) minuti.
PREMIO DE RISIO
PRIMA EDIZIONE
CONCORSO NAZIONALE
Indetto dal Comitato della istituenda Fondazione Sergio De Risio il premio letterario
«Sergio De Risio» che si articola nelle sezioni di poesia, opere di riflessione teorica e
critica e poesia inedita. Nove copie delle
opere saranno inviate alla segreteria presso:
Apa, Via Pescara 8 Cap 66013 Chieti Scalo
(Ch) entro il 31 maggio 2007. La cerimonia
di premiazione si svolgerà in pubblico il 28
agosto 2007 a Scerni.
10
S t los
ELIAS KHURI. «Nel 1975, quando cominciai a scrivere,
IL LIBRO
rimasi sconcertato del fatto che non esistesse una
letteratura che raccontasse il Libano distrutto. Un’amnesia
nazionale di fronte alla vergogna della guerra civile»
Il mio tragico
bisogno
di raccontare
Q
I n t e r v i s t e
uando l’editore israeliano
al-Andalus pubblicò qualche anno fa La porta del
sole, il suo autore, Elias
Khuri, divenne il bersaglio
delle più diverse critiche. Il
critico egiziano di "Akhbar al-adab", Mahmoud Amin El-Alim, in
particolare, lo accusò di contribuire alla normalizzazione della cultura - dopo quella economica e politica - ultima roccaforte della resistenza palestinese.
A mobilitarsi in difesa dello scrittore furono in
molti: dal marocchino Mohammed Berrada a
Edward W. Said, se è vero che il libanese
Khuri, romanziere, critico letterario e giornalista, da sempre supporta i diritti e gli interessi dei palestinesi, la cui storia - attraverso la vicenda dei protagonisti - ci viene splendidamente restituita nel libro in questione. Autore
di numerosi romanzi, saggi critici e piece teatrali, insegna all’American University di Beirut ed è visiting professor alla New York University.
Stilos ha incontrato Khuri a Venezia in occasione del convegno intitolato «Libano oggi»,
organizzato dall’associazione Merifor, e dall’università Ca’ Foscari.
Lei è direttore del supplemento culturale di
uno dei maggiori quotidiani libanesi, "alNahar". Sin dalla fine del XIX secolo le riviste letterarie hanno svolto un ruolo preminente nella vita culturale dei Paesi arabi.
Il giornalismo arabo è nato con i giornali letterari, che sono stati sin dal principio il luogo in
cui tutte le innovazioni letterarie hanno preso
forma. Tutte le maggiori novità, a partire da
quelle linguistiche, sono state il risultato del lavoro di questi giornali. Pensiamo a riviste come "ar-Risala" del grande intellettuale egiziano Taha Hussein negli anni Trenta, alla libanese "al-Adab" negli anni Cinquanta. Da allora
però tutto è cambiato, innanzitutto perché i
quotidiani si sono legati sempre di più alla politica e alle notizie, sicché la sezione culturale
ha finito per separarsi. Fu negli anni Sessanta
che "an-Nahar" inserì la pagina culturale all’interno del quotidiano, dopodiché tutti gli altri si uniformarono. Il ruolo dei supplementi
letterari oggi è quello di proporre nuovi nomi:
è ciò che fa il "Mulhaq", del quale sono direttore, e "Akhbar al-adab", supplemento del
quotidiano egiziano "Akhbar al-yawm" diretto dal romanziere egiziano Gamal al-Ghitani.
Possiamo dire che la maggior parte degli autori nuovi sulla scena letteraria araba hanno fatto i loro primi passi in queste riviste. Ciò che
inoltre abbiamo tentato, e ancora tentiamo di
I n t e r v i s t e
B
LIDIA GUALDONI
SILVIA LUTZONI
VIVE IN PROVINCIA DI SASSARI. DOTTORANDA A LINGUE. COLLABORA A "DIARIO", "L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE" E
"LA NUOVA SARDEGNA"
promuovere sui nostri giornali, è il reportage
sociale, un genere del tutto nuovo che ha fatto entrare la letteratura nella vita quotidiana. È
stato il modo attraverso cui abbiamo spezzato
dei tabù sociali, cosa che normalmente i quotidiani non fanno. Ma non possiamo paragonare queste riviste a quelle fondate alla fine del
XIX o all’inizio del XX secolo, o negli anni
Trenta.
La storia moderna del Libano è una storia
di guerre civili. Lei ha dichiarato che quella del 1975 differisce dalle altre perché è entrata di prepotenza nella letteratura libanese.
Nel 1975, quando cominciai a scrivere, rimasi sconcertato del fatto che non esistesse una
letteratura che raccontasse le diverse guerre
che nel corso di un secolo avevano distrutto il
Libano. Ciò di cui sono convinto è che gli intellettuali siano andati incontro a una sorta di
amnesia nazionale, provocata dalla vergogna
davanti alla guerra civile. Nel 1958 fu diverso:
fu la riconciliazione - producendo una specie
di regime semimilitare, il cui presidente era il
capo dell’esercito - che costrinse tutti a dimenticare. Dopo il 1958 cominciò l’elaborazione
di quel mito del Libano che è poi passato attraverso il filtro della musica e il teatro dei fratelli Rahbani e di Fayrouz. La generazione a cui
appartengo era consapevole di dover descrivere il presente, di rompere i tabù che allo Stato
libanese erano legati. Se non si scrive di qualcosa di doloroso è impossibile liberarsene, è
difficile fare la differenza tra passato e presente. Questo ha reso possibile l’emergere del
romanzo libanese, il tragico bisogno di raccontare.
La teoria occidentale del romanzo dunque,
davanti alla storia del romanzo libanese,
che è un genere giovane, rischia di restare
inutile?
Se, per esempio, la teoria elaborata da Gyorgy
Lukàcs fosse universale, allora il romanzo
arabo e quello del Terzo mondo sarebbero
un’imitazione del romanzo europeo. Certo,
quella teoria è importante perché ci dice come
il romanzo si è sviluppato, ma non può valere
per quello libanese, né per quello arabo in generale, perché erano diverse le condizioni entro cui è nata. Il romanzo libanese non è stato
creato con la costruzione dello Stato, né con il
trionfo della rivoluzione borghese, ma con la
sua distruzione, con la sua decomposizione.
Questo significa che l’Occidente non ha gli
ELIAS KHURI
"La porta del sole"
Trad. Elisabetta Bartuli
pp. 495, euro 19,50
Einaudi, 2004
GIULIO MOZZI
Due storie d’amore
nella Palestina dell’odio
Nahila, palestinese, rimasta in Galilea,
è diventata cittadina israeliana. Suo
marito, Yùnis, militante della resistenza palestinese, vive in Libano nel campo di Shatila e va a trovarla negli anni
procreando sette figli. Il loro amore diventa leggendario e Khalil, che racconta la loro storia, parla anche di sé e
del suo amore per la fedayn Shams.
Sul fondo di queste vicende intrecciate
si dipana la storia dei palestinesi dal
1948 in poi: cinquant’anni di vita sul
filo del tormento.
strumenti per analizzare e comprendere la
letteratura araba?
Non credo che non abbiate gli strumenti per
comprenderla: chiunque, se si pone nella posizione di chi vuol capire, può avere gli strumenti. Ricordo che quando John Updike recensì
anni fa sul "New Yorker" parte del celebre romanzo in cinque volumi di "Abdelrahman
Munif", tradotto in inglese col titolo "Cities of
salt", disse che l’autore era insufficientemente occidentalizzato per produrre una narrazione che somigliasse a ciò che gli occidentali
chiamiamo romanzo. Ma chi ci dice che Munif avesse voluto scrivere un romanzo secondo i criteri europei? Lo scrisse nel modo in cui
gli arabi o gli africani lo avrebbero scritto, dal
punto di vista tecnico e stilistico. Questo genere di pregiudizio fa parte di quel sistema enorme di fraintendimenti che Edward W. Said ha
definito «orientalismo». Pensiamo alle Mille e
una notte: esse sono alla base della narrativa
araba, ma le ritroviamo anche nella letteratura sudamericana, in Joyce e Proust. Ciò che
voglio dire è che l’approccio all’opera deve
cambiare, si deve accettare il fatto che si sta
leggendo qualcosa di diverso.
Qual è il peso della teoria letteraria occidentale nella cultura araba?
La teoria letteraria occidentale, e in particolare modo quella francese - da Sartre a Bordieu
a Barthes - ha avuto un’enorme influenza sulla teoria e la critica letteraria araba. Basti pensare all’idea sartriana di éngagément che negli
anni Cinquanta è entrata, come del resto è avvenuto nel resto del mondo, nella letteratura
araba. Ecco perché mi piace parlare in generale di teoria e non di teoria francese.
La letteratura può fare a meno della teoria?
La critica non è sempre utile, ma senza di essa la letteratura perderebbe molto. Dubito infatti che oggi si possa leggere Dostoevskij
senza la mediazione di Bakhtin. Ciò che accade oggi è che sempre più spesso molti scrittori formulano una teoria di ciò che scrivono:
pensiamo solo al lavoro di T. S. Eliot, che è talmente grande che io non so decidere se sia migliore come critico o come poeta. Già avveniva nella letteratura araba classica: prendiamo
per esempio il "Diwan al-Hamasa" di Abu
Tammam, o quello di Buhturi, che erano delle selezioni della poesia coeva. La teoria deve
partire dal testo, ma a volte purtroppo accade
che essa è così prevaricante che soffoca la
letteratura.
«Rifiuto questa orribile correttezza politica.
L’idea fascista secondo la quale si dovrebbe leggere la letteratura sulla base dell’origine etnica, dell’orientamento sessuale o politico, o sul colore della pelle dello scrittore». È una dichiarazione di Harold Bloom.
Sono assolutamente d’accordo con Bloom: la
BRUNA SURFISTINHA. Una prostituta redenta
Vita di «mestiere»
runa Surfistinha è lo pseudonimo
di Raquel Pacheco, una ragazza
brasiliana che, a causa del carattere piuttosto giunta della travagliata storia personale e famiribelle e di una serie di incomprensioni con la liare, diventa così un libro - Il dolce veleno delfamiglia che l’ha adottata, decide, a diciasset- lo scorpione - dove non viene taciuto proprio
te anni, di scappare di casa e di guadagnarsi da nulla. Così alimentando una certo curiosità
vivere facendo la squillo d’alto bordo.
morbosa che ne ha segnato il successo.
A partire dal dicembre del 2003 pubblica su Un libro che in Brasile ha provocato un «terreInternet un blog dove racconta la sua quotidia- moto mediatico», tra polemiche e pruderie, un
nità e registra tutto ciò che, fino ad allora ave- libro che è stato o verrà tradotto in molti paeva annotato sulla sua
si stranieri e che divenagenda, soprattutto i detterà un film. Stilos ha intagli a proposito di ogni
tervistato l’autrice.
BRUNA SURFISTINHA
cliente. Bruna si ritrova
"Il dolce veleno dello Lei ha scritto più per se
così, da un giorno all’alstessa oppure intendeva
scorpione"
tro, ad avere un così alto
rivolgersi a qualcuno Trad. Orietta Mori
numero di visitatori da riuomini, donne, ragazpp. 210, euro 15
manere spiazzata. E se,
ze?
Sonzogno, 2007
all’inizio, pensare che
All’inizio ho cominciato
una marea di gente possa
a scrivere più per me stesconoscere tutto della sua esistenza pubblica e sa. Scrivere mi serviva, mi faceva bene. Era
privata la spaventa un po’, alla fine scopre che una vera e propria terapia psicologica, perché
era proprio quello che voleva: che le persone nel blog raccontavo tutte le esperienze che
seguissero il corso della sua vita, tra perdizio- avrei voluto confessare al mio terapeuta. Crene prima e redenzione dopo. Il blog, con l’ag- do però che possa essere utile soprattutto alle
Nella foto Elias Khuri, autore per Einaudi di La porta del sole
Trovarobe
narrativa
straniera
pagina
coppie, perché, per la mia esperienza, so che
oggi esiste poco dialogo all’interno della coppia, per quanto riguarda il sesso, ciò che piace
ai due partner e le rispettive fantasie…
Sebbene lei sia riuscita a lasciare la professione dopo soli tre anni, non crede che questo libro sia un modello negativo per ragazze che, magari in un momento di difficoltà,
possono essere portate a scegliere la prostituzione come facile soluzione?
No, non lo credo assolutamente. Questo libro
non è un’apologia della prostituzione, prova ne
sia il fatto che, appena ho potuto, ho lasciato
questa attività. Come ho detto, il mio libro si rivolge alle coppie, ma mentre scrivevo pensavo anche alle ragazze più giovani che avrebbero potuto leggerlo: con la mia storia vorrei imparassero a non fare i miei stessi errori.
Nell’epilogo si legge che ha trovato l’uomo
dei suoi sogni, che vorrebbe sposarsi ed avere dei figli: quale madre pensa di poter essere? E se per assurdo sua figlia volesse ripetere la sua stessa scelta, che cosa farebbe?
letteratura dev’essere letta per ciò che è. Quando in Europa si cominciarono a tradurre autori arabi o africani, le loro opere furono accolte come la testimonianza di un’etnia, perché rivelavano dettagli di un contesto sociale, etnico o di genere. È chiaro che un’indagine sociologica o antropologica può essere molto più
esaustiva di un romanzo. Quella di cercare la
specificità etnica o antropologica nella letteratura è un’idea perniciosa. Quando mi fu proposta la traduzione in inglese del mio romanzo
"al-Jabal as-saghìr" (La piccola montagna), mi
dissero che il libro era troppo moderno per essere arabo. Bene, dissi loro, se cercate cammelli, harem ed esotismi, allora io non sono interessato. Nella letteratura europea, e soprattutto in quella francese, esiste un corpus enorme
di scritti etnici sul mondo arabo, anche scritti
da arabi, intendiamoci, che riproducono l’idea
di Oriente prodotta dagli orientalisti. Pensiamo
all’incontro di Flaubert con la sensuale danzatrice Kuchuk Hanem, narrato nelle sue lettere:
è stato questo personaggio, che non è mai esistito, a creare il fascino dell’harem.
Per quale motivo, secondo lei, anche certi
autori arabi continuano ad assecondare
questa idea di Oriente?
È il mercato editoriale europeo e americano
che richiedono questo genere di libri, dunque
è un problema vostro. Avete delle aspettative
alle quali questi autori soltanto rispondono.
Nelle mie lezioni mi piace parlare di quel filone letterario che ha come protagonisti arabi
che emigrano in Europa o negli Stati Uniti così come Flaubert aveva compiuto il suo
viaggio in oriente - per studiare. Potrei citare
almeno dodici romanzi con queste caratteristiche, alcuni dei quali sono dei veri e propri capolavori: da "Tayyeb Saleh" a "Tawfiq alHakìm", da "Yahyà Haqqi" a "Suhayl Idrìs".
Sono convinto che in questi libri possiamo individuare una rappresentazione al contrario del
concetto di orientalismo formulato da Said.
Questo genere di romanzo ha ormai fatto il suo
corso, il mercato editoriale è saturo.
Vincenzo Consolo, nella prefazione a Uomini sotto il sole del palestinese Ghassan Kanafani chiedeva: «Ma che cos’è la letteratura, se non politica?»
I problemi umani sono legati alla politica: la
letteratura si occupa dell’uomo, ecco in che
senso possiamo dire che sia politica. Ma non
può essere al servizio del Potere, altrimenti diverrebbe propaganda. È il valore umano che
dobbiamo cercare in un’opera. Nel mio La
porta del sole c’è la storia della Palestina, è vero, ma è l’individuo non la collettività che
emerge. Se leggi questo libro e non riesci a
identificarti nei suoi personaggi allora è un fallimento. C’è una sofferenza che deve parlare
all’uomo, nella quale l’uomo può riconoscersi.
Vorrei essere una madre meno rigida dei miei
genitori. Cercherei di educare i miei figli per il
mondo, non per me. Vorrei crescerli, in accordo con il padre, liberi di cercare la loro felicità
e di fare le loro scelte. Eviterei le dure prese di
posizione e i silenzi che hanno caratterizzato la
mia giovinezza. Certo, per quanto riguarda la
seconda parte della domanda, se mia figlia dovesse un giorno dirmi che intende fare la prostituta, sarei assolutamente contraria. Non perché abbia dei pregiudizi, ci mancherebbe, ma
perché non vorrei vederla ripetere i miei errori e dover sopportare la solitudine e le stesse
sofferenze che io ho patito, e non solo nel
corpo.
Ha parlato di solitudine: la riconciliazione
con la sua famiglia, che lei sembra tanto desiderare, non c’è ancora stata?
No, non mi sono ancora riavvicina alla mia famiglia. Ero convinta che vedendomi, nelle interviste e sui giornali, i miei genitori avrebbero capito che, pur facendo sesso per denaro,
stavo bene. Che non ero finita sola, sieropositiva, all’ospedale, come aveva previsto mio
padre. Ma sono ormai cinque anni che non ci
vediamo, e da tre non abbiamo contatti neppure per telefono. Le uniche notizie che ho vengono da un cugino paterno: so che mia madre
ha letto il libro e che mi ha già perdonata. Mio
padre, invece, non ancora.
MEDICINA PASTORALE?
Non c’è dubbio: ci sono tante cose in cielo e in terra, e tante altre nell’animo umano; ma ancora di più ce ne sono nelle librerie dell’usato. Qualche giorno fa, a
Roma, nella libreria dell’usato di via Conca d’Oro (non un gran che, come libreria,
a dire il vero), ho acquistato il Compendio
di medicina pastorale di Albert Niedermeyer, Marietti 1955 (ed. or. 1953), pubblicato con nulla osta e imprimatur dell’autorità ecclesiastica.
Ora, io neanche sapevo (colpa mia) che
esistesse una disciplina nominata «medicina pastorale». E, lì per lì, confesso, nel
vedere il libro, ho pensato: sarà la medicina delle pecore, o dei pastori (che avranno, immagino, le loro malattie professionali). Tutt’altro.
«La medicina pastorale - si spiega subito
all’inizio - intesa nel senso più ampio, costituisce l’intera zona di confine tra teologia e medicina; anzitutto della teologia
pastorale ma non meno della teologia
morale, inoltre del diritto della Chiesa
come delle altre discipline teologiche.
[…] Lo scopo della medicina pastorale è
determinato in primo luogo dalle esigenze che la pratica impone al curatore d’anime.
«Ma la medicina pastorale non è meno
importante anche per il medico, il quale
ha bisogno di un filo conduttore che lo
guidi nell’esercizio pratico della sua professione. Il retto modo di agire nella pratica si fonda sui principi di una teoria
scientifica: senza giusta teoria non vi è
giusta pratica. La conoscenza della teoria
scientifica è quindi indispensabile. Anche
la medicina pastorale è una parte importante della scienza medica e non soltanto
un ramo - per quanto notevole - della teologia pastorale» (pp. 3 e 5).
È vero. Non mi sarei incuriosito di questo
libro se avesse avuto un titolo per me più
prevedibile (tipo: "Etica medica cristiana", o qualcosa del genere). Fattostà che
me lo sono portato a casa; dove, complice un’influenza, ho passato due giorni a
letto senz’altro da fare che leggermelo
da cima a fondo.
E proprio nelle ultime pagine, sotto il titolo "Questioni dell’avvenire" (paragrafo
del capitolo dedicato al «medico di missione»), ho trovato qualcosa che mi ha
davvero sorpreso: «In tutte le parti della
terra gli Stati si sforzarono di avere esclusivamente nelle loro mani tutta quanta
l’assistenza sanitaria e tutto ciò che si riferisce alla salute. Dovunque vi sono ancora delle colonie, le forze coloniali hanno applicato questo principio in modo
particolarmente irriguardoso nei territori
coloniali. […]
«Ciò purtroppo è vero non soltanto per
quelli che sono i campi pacifici della missione, ma si può dire in generale per la
pretesa che lo stato moderno ha di assumere la direzione in tutti i campi sanitari
e assistenziali, della beneficenza, dell’educazione, del matrimonio, per tutti quanti i rapporti dello stato "onnipotente" verso la Chiesa» (pp. 652-653).
In queste settimane di discute molto, qui
in Italia, delle ingerenze della Chiesa cattolica negli affari dello Stato italiano. Cinquant’anni fa Niedermeyer poteva avere
un punto di vista diametralmente opposto:
si trattava di difendere il campo di quella
che oggi chiameremmo «biopolitica» dalle rapaci mani dello Stato.
Per carità: Niedermeyer pubblicò il suo
compendio nel 1953, già nel 1936 aveva
pubblicato una Pastoralmedizinische
Propaedeutik, e quindi gran parte del suo
lavoro si svolse, in Germania, negli anni
del regime nazista, che in fatto di biopolitica non scherzava: e doveva essere un
uomo di fegato, perché io, se ci fossi stato all’epoca e se fossi stato nazista, non
avrei esitato a farlo fuori - se non altro per
la sua netta condanna di ogni «politica
delle nascite» e di ogni «igiene razziale».
Ed è per questo coraggio che il Dott. Prof.
Niedermeyer, benché il suo Compendio
contenga non poche pagine che mi paiono deliranti (vedi, in materia di teoria dell’evoluzione, la sua posizione assai più favorevole a Lysenko - l’uomo più ridicolo
di tutta la scienza sovietica - che a Darwin
& co.: pp. 53 sgg.), fondamentalmente mi
è risultato simpatico. E la qualità del suo
argomentare mi ha intrigato parecchio.
Ci fa bene, quando certi pensieri ci sembrano ormai ovvii, che qualcuno si metta
con impegno competenza e passione a
contraddirli. O quanto meno a offrirci un
punto di vista per noi inusuale. La sicurezza - come la fretta - è pericolosa.
narrativa
straniera
S t los
Nella foto Ángela Becerra, autrice per Corbaccio di Il penultimo sogno
pagina
11
Vivo in Spagna da vent’anni e sono venuta per amore, perI n t e r v i s t e
ché avevo conosciuto mio marito in Colombia. Ero felice
in Colombia, ero direttore creativo in un’agenzia di pubblicità ma ho imparato ad essere felice dove vivo. In Spagna
MARILIA PICCONE
godo di tutto quello di buono che la Spagna mi offre e concomincia con il suicidio di due persosì pure in Colombia. E poi per un anno e mezzo vivo rinne il romanzo Il penultimo sogno della
chiusa in una stanza guardando il muro e scrivendo romancolombiana Ángela Becerra e potrebbe
zi e il viaggio interno in un romanzo mi porta a vivere quelessere l’inizio di una storia di indagine
lo che voglio. Quando ho creato il personaggio di Clemenpoliziesca. E sì, ci sarà un’indagine giucia credevo che fosse una comparsa nel romanzo. Mi piadiziaria e ci saranno addirittura sia un poliziotto sia un dece ascoltare il romanzo, il romanzo è vivo, ci sono persotective privato che svolgeranno le ricerche. Ma il libro ponaggi che a volte crescono autonomamente e ci chiedono
trebbe anche incominciare con il «C’era una volta» delle
di rientrare nella scena. Sono stata sedotta dalla deliziosa
fiabe perché ha il tono narrativo e l’andamento di una fiavecchietta che riusciva a ricordare quando le si offrivano
ba che scivola, a tratti, in quel realismo magico che è la cidei manicaretti. Si è creato un gioco personale tra me e lei
fra della letteratura sudamericana. Non per niente Garcìa
per assaporare quei piatti che spesso mi devo negare. ScoMarquez appare di sfuggita, come personaggio senza noprivo delle altre ricette e, scrivendo, mangiavo quello che
me in un incontro fortuito del protagonista. È nelle fiabe
Clemencia mangiava. E intanto lei mi dava informazioni.
che il principe incontra la bella principessa e si innamora
Quando si scrive si crea un vincolo di amicizia con il libro
di lei al primo sguardo, riconoscendola senza conoscerla.
e bisogna lasciargli credere che è lui, il libro, che comanÈ nelle fiabe che il bel giovane che non è principe viene sotda, anche se non è così. Proprio come in un rapporto a due.
toposto ad ardue prove prima che il severo re gli conceda
Leggendo il suo romanzo è impossibile non pensare alla mano della pupilla dei suoi occhi, dichiarando che ne è
lo stile che ha reso unica la letteratura latino-americadegno e concedendogli un titolo all’istante. E vissero felina, c’è pure un omaggio a Garcìa Marquez anche se il
ci e contenti…
suo nome non viene fatto: il realismo magico è un tratE morirono felici e contenti, Joan Dolgut e Soledad Urdato che si addice alla natura più intima dei sudamericaneta, 82 anni lui e 80 lei, vedovi entrambi, lui con un figlio
ni, proprio come il grigiore e la tristezza si addicono ai
e un nipote, lei con una figlia e una nipote. Si erano conopopoli nordici?
sciuti a Cannes 66 anni prima, nel 1939, quando lui, che il
Il miglior scrittore colombiano è Garcìa Marquez e io lo
padre repubblicano aveva mandato via dalla Spagna in
ammiro e lo rispetto. Quando vivi in un paese che è pieno
guerra, era cameriere nel lussuoso albergo in cui lei era scedi storie magiche, questo aspetto diventa parte di te. La Colombia ha ancora molti paesini abitati da indisa con i genitori, in viaggio dalla Colombia. Su
geni che mantengono un modo di vivere che a
due piani narrativi temporali procedono di pamolti europei può sembrare magico. C’è una
ri passo le due storie: quella del presente - in ÁNGELA BECERRA. «Adoro frugare nelle radici dove nessuno osa entrare per far prendere
tribù in Colombia che seppellisce i morti porcui Andreu, figlio di Joan, e Aurora, figlia di
tandoli in un luogo che chiamano «il capo
Soledad, cercano di sapere di più del passato coscienza ai personaggi che l’essere umano ha diritto di sbagliare e di cambiare. In questo
della candela». Quando per la prima volta il
dei genitori e finiscono per innamorarsi - e
libro
c’è
il
personaggio
di
Andreu
che
mostra
questo
cambiamento
ed
è
lui
il
personaggio
morto appare in sogno ad uno della famiglia,
quella del passato, con la passione travolgentutta la famiglia va in pellegrinaggio in questo
te di Joan per la musica, la tristezza dell’esilio, più importante. La gente cerca il successo professionale e si trova poi con lacune affettive»
luogo, il morto viene disseppellito e ripulito.
l’incontro che gli illumina la vita, l’umiliazioPoi la donna più anziana si bagna nel rum, bane dell’essere allontanato dal ricco Urdaneta e
gna anche le ossa del morto ad una ad una, si
il viaggio come clandestino in Colombia.
fa una festa e queste ossa vengono messe in un
Non possiamo dubitare che ci sarà un lieto fisacchetto bianco e riportate nella città dove
ne, ci resta da scoprire come e quando Joan e
vengono seppellite definitivamente. Quando
Soledad si sono incontrati nuovamente, perché
cade la prima pioggia si dice che è il morto che
abbiano deciso di morire vestiti di bianco, lei
è tornato sotto forma di pioggia. Questo è socon il velo lunghissimo che aveva ricamato per
lo un esempio, ma quando si vive circondati da
anni (e ci viene in mente la coperta che Tita, la
queste storie, esse diventano parte della realtà.
protagonista di Come acqua per il cioccolato
Il passato di Joan Dolgut, con il padre getdella messicana Laura Esquivel, aveva sfertato nelle fosse comuni, è un passato tutto
ruzzato per anni attendendo di coronare il sospagnolo e quindi preso a prestito, per così dire. C’è
gno d’amore di una vita). E come, infine, non sia termina- re romantico di Joan e Soledad e di quello puramente
IL LIBRO
qualcuno che conosce che ha avuto in famiglia un’efisico tra la moglie di Andreu e il bell’istruttore di ginto il loro amore perché prosegue nei figli e nei nipoti.
ÁNGELA BECERRA
sperienza del genere?
Il romanzo di Ángela Becerra si inserisce nel filone della nastica?
"Il penultimo sogno"
No, il tema delle fosse comuni è stato rispolverato da poletteratura femminile che punta sul sentimento, sul sogno Ci sono due storie parallele in contrasto che hanno a che faTrad. Claudia Marseguerra
co perché c’è stato a lungo un silenzio totale su questo artutto femminile della ricerca dell’altra metà di noi che com- re con l’educazione e l’epoca storica in cui sono vissute.
pp. 462, euro 18,60
gomento che riapriva vecchie ferite. Si creò poi un’Assobacia perfettamente con la nostra, dell’amore romantico Soledad e Joan vivono in un momento storico difficile - la
Corbaccio, 2007
ciazione della Memoria Storica e vennero ritrovate le fosche supera le avversità e dura per sempre, anche al di là dei guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, l’inise. Nel periodo in cui io stavo scrivendo il libro, fu ritrovalimiti di tempo che ci sono concessi su questa terra. E la zio della violenza in Colombia - e la distanza che li sepata la prima fossa e questo ha influito sulla mia immaginapoesia, l’atmosfera e la musica hanno grande importanza ra è dovuta al fatto che non hanno autonomia perché sono
zione.
in un romanzo del genere. Poesia che abbia una facile pre- troppo giovani. Dall’altra parte c’è una coppia già adulta
Il brano "Tristesse" di Chopin serve da leit motiv nel
sa, con la ripetizione di parole - Soledad è «la bimba del- che vive oggi e per loro l’educazione non è un onere come
romanzo, ci sono due pianoforti, quello di Joan perso e
l’aria» anche quando ha 80 anni, Joan è «il pianista dell’o- per Soledad e Joan. Mentre la storia di Soledad è di negaMorire in due abbracciati
ritrovato e quello di Aurora che arriva addirittura dalceano» -, un’atmosfera in cui l’aleggiante profumo di ro- zione, l’altra cerca di farsi una strada, se vogliono trovano
la Colombia, che sono personaggi importanti quanto
sa segnala una presenza-assenza, la musica di Chopin che modo di concretizzare il loro amore. La terza storia, infine,
in abiti di colore bianco
le persone: ha un valore metaforico la musica nel roecheggia in tutto il romanzo e che si serve della nota cen- non è di amore ma di sesso. La donna deve vedersi bella e
manzo?
Due persone anziane vengono trovate morte in
trale fa come simbolo dell’amore senza il quale si perde il suo rapporto con il gigolo le serve a questo.
Nei miei romanzi è importante il potenziamento dei sensi.
un appartamento di Barcellona. Sono abbraccial’armonia della vita. Se a volte lo stile di Ángela Becerra Una parte del romanzo si svolge in Colombia e si avverSiamo esseri umani con una capacità di emozionarci che
te, vestite di bianco come per delle nozze. Aurora
può sembrare irritante in un accenno di leziosità, il suo gar- te la nostalgia per un paese descritto come verdissimo,
abbiamo a lungo lasciato dormiente. Quando si legge un
(figlia di lei), insegnante di piano, e Andreu, il fibo, la sua lievità, il suo invincibile ottimismo e la sua for- una nostalgia che passa anche attraverso la cucina mio romanzo, mi piace che sembri di sentire l’odore delle
glio di lui, diventato un ricco imprenditore, iniza vitale ci contagiano regalandoci un sogno. Ed è interes- Aurora prepara dei piatti colombiani per far tornare la
parole che ho scritto, sentire il vento o, in questo caso, la
ziano le indagini. Mentre scoprono che i loro gesante notare che in spagnolo la parola «sueño» è la stessa memoria all’anziana Clemencia. È sua quella nostalmusica: fa sì che il lettore diventi consapevole di tutti i suoi
nitori si conobbero nel 1939, i due s’innamorano.
per dire «sonno» e «sogno», e allora quel penultimo son- gia? Da quanti anni vive in Spagna e come è arrivata in
sensi, che si renda conto di quello che può trarre dalla sua
no insieme, a cui Soledad preferisce pensare perché meno Europa?
sensualità.
triste dell’ultimo, è anche il penultimo sogno di felicità. InLe figure del poliziotto e dell’investigatore sono alquansieme. Stilos ha intervistato Ángela Becera.
to patetiche e non sembra che siano lì casualmente.
Si dice che non c’è più l’amore, sostituito dal sesso, epSembrano delle immagini distorte in uno specchio, a
pure il suo è un romanzo di amore: un romanzo «fuo- JEAN CLAUDE DEREY. Hondo, bambino tra la guerra
rappresentare l’innamoramento e il desiderio di fare
ri moda»?
carriera. Qual è il ruolo del poliziotto Ullada, innamoCredo che l’amore non passi mai di moda, altrimenti finirato senza speranza, e dell’investigatore ambizioso inrebbe il mondo. Credo che un essere umano sia fatto di sengaggiato da Andreu?
timenti, altrimenti saremmo degli automi. Per un lungo peUllada è come un bambino cresciuto, non è innamorato di
riodo si ha avuto il timore di parlare d’amore perché c’è stastudio di come certi stereotipi influenzino il nostro modo Aurora ma ama l’amore. Per lui la risorsa per evadere dalto un tempo in cui i romanzi d’amore erano troppo sdolciR e c e n s i o n i
di vivere. Non manca l’attenzione dell’autore sul rappor- la sordida vita quotidiana è l’amore che si vede al cinema.
nati e gli scrittori sono fuggiti da quel genere per non esseto, molto complesso, con le autorità, in quanto Hondo, vit- All’improvviso gli appare Aurora, come fosse Audrey
re etichettati come autori romantici. Più che scrivere una
tima della violenza gratuita di alcuni poliziotti, è attratto Hepburn, ma poteva essere chiunque altro. L’altro investistoria d’amore mi piace scrivere storie di sentimento e sul
FEDERICO BIANCA
dalla gentilezza del commissario Zèphyrin, ma questi pre- gatore è in effetti una caricatura di Andreu: vuole raggiunsentimento. In alcuni casi questo sentimento è l’amore, ma
erey (1940) ha scritto un romanzo sul problema tende che egli denunci i furti e le rapine di cui vivono i suoi gere i soldi ma è un personaggio primitivo.
ci sono altri sentimenti, l’odio, la paura, l’ansia, l’egoismo:
dell’infanzia violata in Africa, scegliendo un amici.
Oltre ad essere un romanzo sull’amore, il libro è anche
tutto fa parte del sentimento e tutto concorre a fare l’essere umano. Adoro scrivere dei sentimenti, frugare nelle ra- punto di vista tanto originale quanto efficace. Il protagoni- Il ragazzino però non tradisce nessuno, neanche Bombo e sulla ricerca della propria identità e delle proprie radidici dove nessuno osa entrare per far prendere coscienza ai sta e voce narrante è un ragazzino di dodici anni della Mau- Dumbia, criminali legati al traffico di organi umani. La ca- ci: è per comprendere se stesso che Andreu fa fare ricerratteristica del protagonista è l’affetto che naturalmente che anche sulla fine del nonno? Ed è un riconoscimenpersonaggi che l’essere umano ha diritto di sbagliare e di ritania, Hondo.
cambiare. In questo libro c’è il personaggio di Andreu che Hondo è orfano ed è affidato al crudele cammelliere Hous- prova verso tutti. Infatti, pur di non tradire Boubarak, ac- to delle proprie origini il fatto che il figlio di Andreu
mostra questo cambiamento ed è lui il personaggio più im- seini che lo fa lavorare come guardiano dei suoi greggi. Il cetta di assumersi la responsabilità di un crimine non cambi nome, prendendo quello del nonno Joan?
Andreu è il personaggio più emblematico del romanzo,
portante. La gente cerca il successo professionale e si tro- padrone ha una figlia, Yasmine, della quale il protagonista commesso e viene imprigionato.
Il romanzo si chiude con il protagonista che, pur abbruti- quello che subisce una trasformazione radicale, deve ritrova poi con lacune affettive, e a volte si ha bisogno di un col- è innamorato e che vorrebbe sposare.
to dalle malattie e dalla violenza che lo vare se stesso e ricominciare a vivere. Mi piace che un mio
po forte nella vita per rendersi conto che dentro di noi ci so- Però, quando dieci cammelli a lui afcirconda in carcere, disegna arcobale- romanzo lasci dietro di sé qualche elemento che fa rifletteno cose più importanti di quelle che si ottengono ponendo- fidati fuggono, Hondo è terrorizzato e,
ni, in ricordo della fotografia che gli re, che il lettore faccia delle ricerche dentro se stesso sul
temendo una feroce punizione, comsi solo un obiettivo materiale.
JEAN CLAUDE DEREY
perché ci si possa identificare con un personaggio e però se
aveva donato Yasmine.
Crede possibile amare a prima vista, incondizionata- pie una perlustrazione molto lunga
"Toubab or not toubab"
Il romanzo affronta la violenza di una ne rifiuti un altro. Con Andreu volevo dimostrare che ci si
mente e senza conoscersi? Continuare ad amare per che lo porta in Costa d’Avorio, nella
pp. 172, euro 10
terra devastata dalla guerra, dalla cor- può sbagliare e ci si può correggere. Suo figlio, invece, ritutta la vita, come fanno Joan e Soledad, senza sapere città di Abidjan.
Einaudi, 2006
ruzione, dalla povertà, attraverso gli vendica il suo passato prendendo il nome del nonno, il pasDa questo momento comincia il proin realtà chi sia e come sia diventato l’altro?
occhi di un ragazzino che, pur consa- sato che la madre gli aveva proibito. Vuole dimostrare che
Magari avessi una risposta! Credo che ci sia un primo tipo cesso di maturazione del protagonista,
pevole del suo tragico destino, non si è orgoglioso di quello di cui lei si è fatta beffe. È un figlio
di amore che è l’amore adolescenziale dove i fuochi d’ar- a contatto con un mondo sconosciuto,
arrende mai, con la speranza di poter che insegna alla madre che ci sono cose che hanno più vatificio possono confonderci. In fondo in fondo tutti gli es- ricco di insidie e pericoli. Non mancaseri umani hanno una parte che continua ad essere infanti- no figure che si affezionano e vogliono aiutare Hondo, ma tornare da Yasmine, insieme ai cammelli da restituire a lore del suo cognome e del suo denaro. A volte un bambino può essere più umano e più consapevole di un adulto,
le e cerca il colpo di fulmine che lo fa sentire il più felice sono personaggi emarginati, travolti dalla tragedia della Housseini.
della terra. L’amore ha molto a che fare con l’amicizia, con guerra civile, che vivono in povertà e ai margini della leg- L’opera è un moderno bildungsroman, nel senso che Hon- può dimostrare che una madre non detiene la verità solo per
do matura attraverso il contatto col mondo degli adulti, ma il fatto di essere madre.
l’essere compagni di vita, con la compassione- questa è una ge.
parola fuori moda, eppure vuol dire soffrire per i patimen- È il caso di Boubarak, Tutsi e Zanzara, ragazzi le cui fami- ciò non porta certamente ad un miglioramento sociale. Co- Il libro si svolge su due piani narrativi: c’è stata una
ti dell’altro e gioire delle sue gioie. In realtà tutti vogliamo glie sono state sterminate dai conflitti etnici. Inoltre, gli eu- me forse suggerisce Derey, Hondo è un nuovo Pinocchio, delle due parti che le è stato più difficile scrivere? Una
vivere con i fuochi artificiali che sono come l’ouverture di ropei sono visti come estranei, sono «toubab», ovvero personaggio più volte citato nel libro, in quanto tutte le delle due che le è piaciuto di più narrare?
un’opera musicale, ma l’ouverture è il riassunto di tutto stranieri, non riescono ad integrarsi, vittime dei loro stereo- esperienze negative sono vissute da un’anima innocente, No, mi è piaciuto scrivere entrambe. La lotta è stata per fare sì che non ci fosse una parte che divorava l’altra. È un liche non si abbandona mai all’odio o all’accidia.
quello che c’è nel componimento musicale: a noi piacereb- tipi.
be vivere solo al momento più alto, mentre ci sono anche Interessanti, al riguardo, le figure del fotografo Felix e del- Lo stile rispecchia fedelmente i pensieri semplici ma bro che ha richiesto un’architettura complessa, come per
i momenti lenti in tono basso. L’amore di Joan e Soledad la signora canadese che adesca Hondo per un suo capric- profondi di Hondo, attraverso frasi lineari, ricche di espres- l’arte della tessitura di un tappeto, con delle tracce da lascianon si concretizza e allora si è idealizzato. Poiché la vita che cio erotico. Interessante, a tal proposito, è il ruolo del cine- sioni colorite, talvolta volgari, legate alla cultura africana. re in sospeso per poi riprenderle. Il difficile era fare in mohanno avuto non li ha soddisfatti, questo ideale che è rima- ma, più volte nominato come l’unico strumento del prota- L’opera è affascinante perché questo novello Pinocchio di- do che entrambe le parti trascinassero il lettore, che questo
venta anche il simbolo di una denuncia civile ed intellettua- non fosse tentato di saltare le pagine con una storia per progonista per conoscere il mondo occidentale.
sto nascosto è la loro salvezza.
Il romanzo è la storia di tre coppie: la storia di Andreu Da questo punto di vista, dunque, il libro può essere utile le nei confronti dell’indifferenza occidentale verso la situa- seguire con l’altra. È stato difficile mantenersi equi tra le
due storie.
e Aurora serve per riequilibrare i due estremi dell’amo- a discipline come gli studi interculturali, interessate allo zione africana.
I
Una storia sui sentimenti
e non una storia d’amore
Pinocchio va in Africa
D
Q
uando Francesco Guccini e
Loriano
Macchiavelli
escono con un nuovo titolo
della serie del maresciallo
Santovito, il successo è garantito. Dal 1997, anno nel
quale inizia la loro cooperazione, non hanno mai sbagliato in dieci anni esatti un solo colpo.
Da Macaronì a Un disco dei Platters, da Questo sangue che impasta la terra fino a quest’ultimo Tango e gli altri, i loro libri sono bene accolti nel mercato del romanzo d’indagine. La
loro concretezza, il loro essere persone semplici, distanti da ogni forma di autocompiacimento e di narcisimo, rende la loro scrittura pulita,
acuta, efficace. A volte dolorosa, perché gli argomenti lo sono; sempre profonda. Stilos li ha
intervistati.
Tango e gli altri è un romanzo molto ambizioso. Sia per numero di personaggi che per
piani temporali e ampiezza della narrazione. È un progetto studiato? E avete trovato
difficoltà nella scrittura, nel tenere testa a
tutti questi elementi?
MACCHIAVELLI: Sì, è ampiamente studiato. Questo romanzo segue un progetto che
avevamo fin dall’inizio. Perché la saga di Santovito è iniziata con Macaronì, che ha lo stesso inpianto letterario: due piani temporali e
due azioni che poi convergono nel finale. Abbiamo voluto concludere questa storia di Santovito proprio come l’avevamo iniziata. Quindi la struttura narrativa era stata studiata fin
dall’inizio; e soprattutto abbiamo fatto - prima
di cominciare il romanzo - un’ampia ricerca su
tutto quello che ci poteva servire, esattamente
come avevamo fatto per Macaronì. Quel libro
aveva richiesto un’importante ricerca sull’immigrazione italiana della fine dell’Ottocento,
qui c’è stata una importante ricerca sia sulla
Resistenza che sulla ritirata di Russia. Insomma, volevamo scrivere un romanzo che fosse
«importante». Almeno per noi. E credo che, almeno per noi, ci siamo riusciti. Poi certo, il risultato lo decreteranno i lettori, e lo decreterà
la critica.
GUCCINI: Non abbiamo avuto particolari
difficoltà. Scriverlo non è stato più difficile che
scrivere gli altri, perché vede ci capita questo:
quando cominciamo a lavorare le cose vengono naturalmente. Non ci sono stati grossi problemi nel fare la trama e nemmeno nel creare
i personaggi. Abbiamo sempre lavorato col sistema di cui parlava Loriano, con le ricerche e
via dicendo. E tutto è proseguito liscio.
Come vi è venuta l’idea di questo libro?
Avete preso spunto da un documento, o da
una storia che vi hanno raccontato? O era
una vostra esigenza parlare proprio di questo periodo storico?
GUCCINI:
Quando ho
proposto l’idea di ambientare un romanzo in quel
periodo, ci
siamo trovati
subito più che
d’accordo.
D’altronde
Loriano e io la
pensiamo allo
stesso modo,
su quei tempi.
MACCHIAVELLI: Sentivamo di voler
parlare proprio di Resistenza, proprio di quel preciso periodo storico,
e volevamo farlo ora. Per due motivi importanti: il primo è che si sta tentando di massacrare, di far dimenticare quel periodo. Io sono
stato in diverse scuole: i ragazzi non sanno assolutamente niente. E poi perché ci siamo resi conto che viviamo in un momento storico
nel quale da più parti si sta cercando di stendere un velo su un periodo importantisismo della storia italiana. Ebbene, noi volevamo dare
una testimonianza, che in parte è davvero vissuta. Sebbene io avessi 10 anni nel ’44, e
Francesco solo 4, quindi parliamo di ricordi
vissuti e mediati dagli occhi dei bambini che
eravamo, tuttavia sono ricordi vivi e freschi.
Soprattutto del periodo dell’immediato Dopoguerra. Io ho ben chiaro in mente la fotografia
di quei giorni, di quegli avvenimenti, perché
ho vissuto sull’Appennino tosco-emiliano fino al luglio del ’44, cioè fino a immediatamente prima dell’arrivo degli alleati. Ho ben presente quello che accadeva. Attorno a me si
muovevano partigiani, si muovevano le Ss, si
muovevano i nazisti. Mi ricordo cosa si diceva in famiglia, e mi ricordo cosa si diceva fuori, nelle strade. La zona nella quale ho vissuto,
poi, è la zona immediatamente precedente a
Marzabotto, parola che evoca qualcosa di
drammatico. Anche nel mio paese, nell’ottobre
del ’44 ci fu un massacro. Consideri che noi in
luglio eravamo scappati a Bologna, perché il
mio paese era praticamente la linea del fronte.
E forse per questo ci siamo salvati. Quindi la
scelta è stata ben ponderata, volevamo proprio
affrontare questa storia.
C’è ancora astio nelle persone?
MACCHIAVELLI: Non è propriamente astio.
Guardi, io ho incontrato di recente alcuni dei
sopravvissuti. C’è più che altro rassegnazione;
I n t e r v i s t e
12
pagina
l’astio c’era, e poi si è perduto nel tempo. Cosa potevano fare, queste vittime - perché quando si parla di guerra ci sono solo vittime, a prescindere da chi vince e chi perde - se non rimpiangere i loro morti?
GUCCINI: Sono riusciti ad accettare che non
potevano fare altro, hanno preso consapevolezza, e forse questo li ha salvati dall’odio, che
li avrebbe consumati.
Macchiavelli, cosa successe nel suo paese?
MACCHIAVELLI: Prima che noi scappassimo, nel mio paese ci fu una strage terribile.
Circa 40 persone uccise dentro una fabbrica.
Mia mamma e mia sorella lavoravano lì, per
fortuna si salvarono. Ma i 40 sfortunati furono
uccisi a colpi di mitraglia e buttati nel canale
che alimentava con l’energia elettrica la fabbrica. I cadaveri sono stati dispersi nel fiume
Reno. Alcuni sono stati trovati a valle, dopo
mesi. Immagini cosa era
quel luogo; noi
abbiamo vissuto in luoghi
allucinanti. Da
una parte i tedeschi
che
bombardavano con i cannoni, dall’altra
gli alleati che
usavano gli aerei. E non c’è
niente di nuovo, in questo
mondo, solo
che adesso tutto avviene lontano da noi.
Pensi all’Iraq o all’Afghanistan. È una tragedia che, chi non l’ha vissuta, non può nemmeno immaginare. Con questo libro volevamo ricreare questa atmosfera, cercare di far capire
cosa è successo.
Questo libro è un giallo classico, dall’andamento perfetto che tiene col fiato sospeso fino all’ultima riga. Ma è anche un romanzo
storico, è scrittura civile.
MACCHIAVELLI: Sì, e sono molto contento
che lei mi dica questa cosa, perché troppe volte ci si concentra troppo sull’aspetto storico. Il
nostro è innanzitutto un romanzo d’indagine,
sì, un giallo classico. Tendente al noir, se vogliamo utilizzare una sorta di etichetta che è in
voga al giorno d’oggi. Perché c’è molta crudeltà, da tutte le parti. Quindi non è un romanzo storico, è un poliziesco che ha radici in un
determinato periodo storico della nostra vita. E
tutti i nostri libri, scritti da Francesco e me, sono così. Macaronì, ambientato nel Quaranta,
nel Sessanta Un disco dei Platters, Questo
sangue che impasta la terra nel Settanta. Sono fotografie. Sono romanzi gialli - e badi bene, io non voglio togliermi dal genere, come
fanno purtroppo molti miei colleghi. È un
giallo, e ci tengo a dirlo. Con una certa ambientazione, una certa storia, che forse ricorda
qualcosa a qualcuno.
GUCCINI: Io sono un grande lettore di gialli,
e posso dire che il fatto che mi dica che fino all’ultima riga è rimasta col fiato sospeso mi fa
molto piacere. Il rischio che ogni giallista corre è quello di far trapelare troppo presto il
colpevole. Purtroppo a me spesso capita, già a
metà romanzo, se non prima, di ripetermi
«l’assassino non può che essere quello lì». E
non perché io abbia particolari doti di investigatore, ma perché il giallo, grossomodo, ha
CON SITI WEB LETTERARI
VA DI NARRATIVA NOIR E COLLABORA
VIVE E LAVORA A MILANO. SI OCCUPA-
MADDALENA BONACCORSO
sempre una sua logica narrativa. È difficile andare avanti senza rischiare di far capire troppo.
A noi capita che l’assassino magari non lo scegliamo nemmeno all’inizio. Vediamo come va
la storia, studiamo un po’l’andamento e i personaggi vengono alla ribalta. Questo è il nostro
metodo, non so come facciano gli altri, se
partono già con uno schema assolutamente
preciso in mente.
In più c’è molta ricerca storica. Come l’avete svolta?
MACCHIAVELLI: Intanto c’è stata una signora, Patrizia Pastori, una bibliotecaria, che
rigraziamo nele gratulatorie finali del libro,
che ci ha portato tantissimo materiale. C’era
materiale per venti romanzi, è stata straordinaria. Quindi grazie a lei abbiamo potuto attingere alle fonti scritte. E poi abbiamo incontrato
altre persone, che avevano fatto la guerra partigiana. Sono ormai gli ultimi testimoni di
un’epoca. E ovviamente la loro testimonianza
è stata preziosissima, loro ci hanno dato il
materiale autentico - cioè, in fotocopia, ma degli originali - che è nato durante la guerra partigiana. Per esempio, verbali di processi piccoli o grandi, punizioni, un regolamento che vigeva in una certa zona della collina bolognese,
e che era stato fatto dal comando partigiano
che operava in quella zona.
GUCCINI: Era una sorta di decalogo al quale
il partigiano si doveva attenere, chi andava al
di fuori veniva severamente giudicato e punito. Abbiamo avuto tantissimo materiale, che a
volerlo e poterlo riordinare, potrebbe essere
per gli storici veramente interessante. Noi però
non siamo storici, questo materiale l’abbiamo
utilizzato soltanto per gli scopi che ci eravamo
prefissi, raccontare una storia vincente, dal
nostro punto di vista, quindi appassionante.
Del resto molti storici in questi ultimi periodi
hanno cominciato a indagare il periodo, cosa
che prima succedeva meno. Certo, molti lo
fanno non dal punto di vista giusto. Per esempio, Pansa sta facendo in questo campo un
gran lavoro, anche se io personalmente non sono d’accordo con lui.
Si parla di un periodo storico molto difficile. Ed è stato difficile mantenere un atteggiamento obiettivo ed equilibrato, per voi?
Ritenete di esserci riusciti?
GUCCINI: Abbiamo cercato di mantenere
una certa obiettività, non so se ci siamo riusciti. Ma forse, ogni tanto, sarebbe preferibile essere un tantino faziosi. Non del tutto faziosi,
ma un pochino, sì.
MACCHIAVELLI: Sì, è stato difficile, e no,
non credo che ci siamo riusciti. Per chi è protagonista, seppure infantile, è difficile mantenere totale obiettività. Però penso che sia passato, attraverso il libro, il fatto che la Resistenza non è un mito. Io ho incontrato queste persone da bambino e li ho re-incontrati da grande. Non sono eroi, sono persone comuni, persone qualunque. È gente come noi, che aveva
la consapevolezza di quello che faceva. Uno
dei personaggi che abbiamo incontrato, Francesco Berti Arnoaldi Veli, ci ha detto :«Io sono nato a 18 anni». Lui era figlio di una ricca
famiglia bolognese e dichiara di essere nato
nel momento in cui è entrato nella Brigata. E
allora, quando senti dire queste cose, ti rendi
conto della grande importanza che ha avuto la
Resistenza. E ti rendi conto però, nello stesso
momento, che questa è gente comune. Ricordo che qualche tempo fa, quando facevo teatro, decidemmo di portare nelle scuole la Resistenza. Quindi andammo a incontrare le persone che la Resistenza l’avevano fatta. Parlo di
una trentina d’anni fa, attenzione; i protagonisti erano ancora relativamente giovani. Ebbene, quando si sono presentati, ho provato una
delusione, chissà cosa mi aspettavo… mi è venuto da dire «Sono questi gli eroi della Resistenza?». Erano persone normalissime, quasi
banali, con abiti da lavoro, alcuni calvi, altri
Indagine
su una strage
al tempo
dei partigiani
di oltranza
primo
piano
GIANNI BONINA
come erano veramente.
È sempre meglio non indagare, non ricercare la verità quindi?
MACCHIAVELLI: E in effetti è sempre così,
è sempre stato così. Alla fine di determinati periodi storici si è sempre preferito, in un certo
senso, rimuovere. Pensiamo a cosa ci tramanda la storia ufficiale, riguardo a eventi come la
Rivoluzione francese, la Rivoluzione d’Ottobre. I periodi sono brutti e lasciano brutti strascichi, ma questo non vuol dire che non se ne
debba scrivere, soprattutto in un romanzo.
Anche all’interno di un romanzo giallo.
GUCCINI: Guardi, io della Resistenza ho pochissimi ricordi, quasi niente. Anche perché
dalle mie parti non era successo niente di eclatante. Nel Dopoguerra invece, abitando a Modena, ricordo che si parlava del triangolo della morte e delle vendette compiute dai partigiani dopo la guerra. Cose che erano successe più
a nord rispetto a dove abitavo io. Certo, a prescindere dai miei ricordi personali, è fuor di
dubbio che sono avvenuti molti episodi strani,
che sarebbero da esaminare a fondo. Io ho
sempre letto molto, sulla Resistenza, e non solo in occasione delle ricerche compiute per
questo libro. Certo, ho letto quasi tutto ciò che
n un vortice di mutazioni e rivolgimenti, di persone che cambiano
ruolo e altre che cambiano opinione, di luoghi stravolti dal tempo, di vicende che - dissepolte - si rivelano di ben altro significato e
conto, di verità insomma che scaturiscono da
vecchie mistificazioni e pervicaci menzogne,
il punto fermo, inamovibile, è segnato dalla
figura di Gialdiffa Cortesi, la madre del partigiano Bob ucciso dai suoi compagni al termine di un processo sommario. Per sedici
anni, dal ’44 al ’60, non solo piange il figlio
perso ma lo crede caparbiamente innocente
dell’accusa di aver commesso una strage di
civili. Eppure non ha prove, ma
per averlo conosciuto sa che era
incapace di crudeltà. I suoi compagni della Brigata Garibaldi invece non hanno avuto dubbi di
fronte agli indizi contrari e lo hanno fucilato: perché non lo hanno
conosciuto. È in questo iato - tra
un rapporto cameratesco che si
tinge di solidarietà e intesa ma
che non regge alla prova di fiducia e un rapporto parentale vissuto non in continua compresenza ma fondato sull’amore quale fonte
di credito - che Guccini e Macchiavelli scavano per revolvere il crudo di una vicenda
che intreccia sentimenti forti e pugnaci odi,
ragioni vive e ideali scaduti, fede e ipocrisia.
In un gioco di opposti e di disagnizioni, lo
scontro tra i vecchi partigiani (decisi a non
I
R e c e n s i o n i
è stato scritto da Bocca, o da Fenoglio, o da
Calvino sulla Resistenza. Ma ho letto anche
buona parte della pubblicistica di destra, per
rendermi conto dei diversi punti di vista. Ciò
non toglie, che pur avendo letto di qua e di là,
la mia idea è sempre rimasta quella, non credo
di aver mai peccato di revisionismo. La verità
va sempre ricercata.
È reale la storia dei lanci col paracadute,
che per la Garibaldi non arrivavano mai?
MACCHIAVELLI: Sì, questa è verità storica.
Si è rischiato più volte lo scontro tra bande opposte di partigiani, perché ovviamente gli alleati non volevano che certe tendenze politiche
avessero il sopravvento su altre.
GUCCINI: Abbiamo trovato moltissimi documenti, su questo argomento. Gli angloamericani preferivano, ovviamente i gruppi non-garibaldini, i non comunisti. Che quindi venivano approvigionati con maggiore regolarità. E
quelli della Garibaldi, ogni tanto, arrivavano
con le armi spianate e si prendevano quello che
gli serviva.
In questo libro si svolge un’indagine d’altri
tempi. Non ci sono telefonini, la scientifica
è all’inizio. Tutto o quasi è affidato al fiuto,
e alla perseveranza degli uomini, del mare-
riaprire il caso e rimasti legati a una stagione
di verità calcinate dallo spirito del tempo) e
un ex partigiano che da quella logica si è
chiamato fuori e persegue un ideale legalitario (pronto per questo a disconoscere non solo il partigiano che è stato ma a sconfessare
gli ex compagni) si traduce in un regolamento di conti che sembra avere, nelle probabili
intenzioni dei due autori, il senso di un processo da intentare a un apparato vittima della
storia. Un apparato contro il quale si erge
una madre inascoltata e che rimane sordo e
arroccato nelle sue pretese legittimiste. Ed è
un maresciallo dei carabinieri, che pure non
ha trovato la verità all’epoca dei fatti, a riportare indietro le pagine della storia e riscriverle affrontando due nemici invisibili: il
tempo, che ha modificato anche la memoria
oltre che i luoghi, e la coscienza partigiana
che gli anni hanno minato ma non
fino a convertirla al credo della verità: la ragione politica continua a
prevalere sull’istanza di giustizia. E
FRANCESCO GUCCINI
LORIANO MACCHIAVELLI allora il maresciallo Santovito si
trova non solo a essere giudice del"Tango e gli altri"
la storia ma anche suo demiurgo:
pp. 338, euro 17,50
non si tratta tanto di fare luce su un
Mondadori, 2007
episodio, la strage delle Piane, che
la guerra partigiana ha ricoperto di
una guazza di imposture, ma di fare ripartire
la storia da una colpa, da un delitto consumato in nome collettivo. E tra la sua fede di partigiano e il sentimento del dovere di uomo
dello Stato Santovito non si fa scrupolo di
votarsi al bene della giustizia. Romanzo che
sembra un giallo storico diacronico, agito sul
combinato disposto di passato e presente,
Tango e gli altri è soprattutto un romanzo di
idee e ideologie consumate e frante.
La giustizia sfida la storia
In un gioco di opposti, un romanzo di idee e ideologie
sciallo e dei collaboratori. Ed è un bel leggere. Non pensate che l’eccessvia tecnologia
stia uccidendo il classico romanzo d’indagine?
MACCHIAVELLI: Sì, la scientifica sta nascendo in quegli anni, e se ne ritrova una traccia nel rilevamento delle impronte sulla tanica
usata per dare fuoco alla baracca. Erano le prime prove. Ed è semplicemente un accenno,
per dire che le cose stavano cambiando. E
certo, l’eccessiva tecnologia rovina tutto.
Quando non c’è troppa tecnologia vuol dire
che c’è l’uomo, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, in queste indagini. Oggi vediamo - non
solo leggiamo nei libri, ma vediamo nella
realtà, in televisione - queste indagini così
tecnologiche. Cercano le cose solo nel computer, e lì trovano tutto. Ma quando mai, sono bugie. Nel computer non trovi niente, se non sai
cosa cercare. La tecnologia risolve tutto, dall’impronta si risale a tutto e si risolve tutto.
Non è vero, non ci credo. La voglia di tecnicizzare tutto, sia nei telefilm americani, sia in
quelli italiani, che come sempre imitano in maniera pedissequa e ridicola senza averne le
capacità, rovina tutto. E fa passare l’idea che la
tecnologia oggi scopre ogni cosa. Attenzione,
quindi, qualunque cosa facciate, noi vi scopriamo con le armi scientifiche. È quasi un’imposizione. Non è vero niente, perché se non c’è
l’uomo dietro, con la sua intelligenza, con la
sua astuzia, non si risolve proprio niente.
Quando tutto viene, per così dire, «risolto», in
un libro, grazie a un conto bancario, o grazie a
un frammento di dna, ecco che la storia non
esiste più, non la seguiamo più. Come si arriva a certe scoperte, non è dato saperlo; il merito è sempre del computer. Così si uccide il
giallo.
GUCCINI: Io allargherei addirittura il discorso. A parte il fatto che la tecnologia toglie il gusto della lettura dei polizieschi, direi che la tecnologia ci sta letteralmente uccidendo. In generale. I computer diventano vecchi un un
mese dopo, nel mondo dei dischi - mondo nel
quale vivo - , ecco che i dischi da un momento all’altro non esistono più, sostituiti da mille diavolerie.
D’altra parte, ognuno è figlio della propria
epoca, quindi non è nemmeno giusto rimanere legati a un mondo nel quale si viveva in un
certo modo. Io tecnicamente sono rimasto indietro di un bel pezzo!
C’è nostalgia, in voi, per i tempi andati?
MACCHIAVELLI: No, i tempi passati erano
duri, molto duri. Non voglio mettere nostalgia
nei miei scritti, non voglio farlo nemmeno
qundo parlo di Bologna, della Bologna degli
anni passati. Non rimpiango il passato perché
non ha niente che si possa rimpiangere. Però è
come una fotografia per chi non ha vissuto
quei momenti. Faccio un paragone molto presuntuoso. Se leggiamo I promessi sposi, vediamo un ambiente e un tempo che non è più. Ma
ciò non significa che noi quel momento vorremmo riviverlo. C’è un’immagine che usiamo, perché in parte l’abbiamo vissuta, e ve la
raccontiamo così com’era. Se c’è nostalgia, se
c’è rimpianto, se il lettore lo coglie, ebbene
questo è sfuggito di mano agli autori.
GUCCINI: Vale lo stesso per me. Nostalgia,
no, perché si stava male. Certo, si può avere
nostalgia per una gioventù che è finita, e guardando indietro magari certe cose si addolciscono. Ma la vita era dura.
GUCCINI & MACCHIAVELLI
con la pancetta. Niente di mitologico. Il mito,
nella Resistenza, non c’è. C’è il sacrificio di
uomini come noi, e forse questa è la bellezza
che avremmo voluto raccontare. E credo che
in parte ci siamo riusciti.
Tra i personaggi ex partigiani è diffuso questo atteggiamento di voler dimenticare. Lepre parla solo di dimenticare. Il partigiano
Remo arriva a dire che «Remo non esiste
più. Ora esiste Osvaldo, che non vuole ricordare». È successo così anche con i veri
partigiani che avete incontrato?
MACCHIAVELLI: In parte sì. A queste persone le cose devi cavarle di bocca, loro non parlano facilmente. Ma io li capisco, capisco perché. Ho anche io dei bruttissimi ricordi della
mia infanzia, e di quella guerra. Se ci penso
sento ancora oggi una stretta al cuore. Se io
sento una sirena, mi viene in mente la sirena
dell’attacco aereo, ancora oggi, a quasi settant’anni di distanza, mi si ghiaccia il sangue.
E allora, come si fa a parlarne con animo tranquillo? Meno se ne parla meglio è. Passando
però dalla realtà al romanzo, ecco che queste
cose si possono raccontare snza suscitare questa atmosfera di terrore che esisteva allora. È
questo il motivo per cui scrivere un romanzo è
diverso dal raccontare, o scrivere, una testimonianza. Io non racconterò probabilmente mai
in un romanzo cose di cui sono stato involontario testimone, perché sono ancora cose molto cattive, rodono dentro. La morte di un compagno di giochi falciato da una raffica di mitra
durante un rastrellamento… come si fa a raccontare queste cose? E anche se lo facessi, alla gente non importerebbe niente, se le raccontassi così. Ma se le mettiamo in un romanzo,
forse qualcosa resta.
GUCCINI: Questo del non voler parlare però
era più vero nel Sessanta, quando si svolge l’azione del romanzo. Erano tempi strani, non dimentichiamo che c’era il governo Tambroni.
Noi abbiam trovato due persone che hanno fatto la Resistenza; uno era partigiano di Giustizia e Libertà, su in montagna. L’altro era un
presidente di tribunale partigiano, in pianura.
Loro hanno parlato, spinti certo anche dall’ondata di revisionismo che c’è stata recentemente.
Siete stati tacciati di revisionismo. Voi, da
anni impegnati storicamente a sinistra.
MACCHIAVELLI: Sì, è una cosa abbastanza
triste. Ho sotto mano un giornale di Bologna,
che mi porto in giro… un titolo terribile. «Il romanzo Tango e gli altri; Macchiavelli e Guccini descrivono i partigiani come assassini».
«Revisionismo in Guccini e Macchiavelli».
Ma allora non ci siamo capiti. Ma allora abbiamo sbagliato tutto. È una cosa drammatica. Io
non ci sto, ci deve essere qualcosa di sbagliato.
GUCCINI: Confermo del tutto. Non hanno capito niente. Non mi sembra che ci sia revisionismo, ma solo ferma volontà di fare chiarezza su un fenomeno molto complesso, all’interno del quale c’era veramente di tutto. Ma dobbiamo tenere sempre presente che i partigiani
combattevano contro il fascismo, e hanno portato l’Italia alla democrazia, alla Costituzione.
C’era una bella differenza con quelli di Salò.
Non dimentichiamolo. Certo poi, per il resto,
ognuno il libro lo legge come vuole. Ma la storia di Guccini e Macchiavelli revisionisti mi
sembra francamente tirata per i capelli. Noi abbiamo cercato di dire le cose come stavano,
S t los
Come riuscite a scrivere a quattro mani
mantenendo una scrittura così omogenea?
MACCHIAVELLI: Ah, questo è un grosso lavoro. All’inizio ci dividiamo i compiti. Ognuno di noi scrive le sue parti, e poi quando ci vediamo le smontiamo. Ci vediamo una volta alla settimana e ci mettiamo a discutere. Il montaggio, perché è un vero e proprio montaggio,
come nei film, lo facciamo sempre insieme.
GUCCINI: Poi facciamo insieme anche il lavoro di uniformità stilistica e di amalgama.
Quando leggiamo il romanzo completo. Ce lo
leggiamo a vicenda a voce alta, per la verità
son quasi sempre io che leggo perché riesco a
stare più attento. A Loriano va bene così. Leggendo a voce alta si sentono le discrepanze, le
distonie; quindi intervieniamo e uniformiamo il linguaggio.
Avete detto che questo è l’ultimo romanzo
con protagonista il maresciallo Santovito.
Per quale motivo?
MACCHIAVELLI: Perché Santovito ha una
sua vita temporale uguale a quella delle persone reali. È nato come personaggio negli anni
Quaranta, e come tutti i personaggi, pensi a
Maigret, o a James Bond, ha una sua vita cronologica che a un certo punto si interrompe.
Quindi, quale altra scusa potremmo avere per
riprendere un’indagine con Santovito, che ormai è in pensione, o forse è già morto?
GUCCINI: Aveva 28 anni del ’39, lo abbiamo
dichiarato apertamente, ora ha quasi cento anni. Non si può andare avanti, d’altra parte è
bello che un protagonista abbia un suo sviluppo temporale come quello di un uomo normale.
Macaronì è considerato il vostro libro più
riuscito. Ma questo rasenta la perfezione,
come intreccio e come ambientazione, come storia.
MACCHIAVELLI: Ah, grazie. Sì, se non è
Macaronì ma questo il più riuscito. Hanno,
forse, entrambi lo stesso ritmo e la stessa intensità. In Tango abbiamo messo tutto, tutto quello che potevamo mettere. Sia sui personaggi
sia sull’ambiente. Se dovessi scegliere tra i due
libri sceglierei forse Tango, per l’argomento
che tratta.
GUCCINI: Ma certo anche in Macaronì c’è
un bellissimo argomento, che è quello dell’immigrazione, che è lo stesso interessante, molto. Sono due argomenti molto belli e molto
coinvolgenti, e anche attuali, nonostante tutto.
Già, sono molto attuali. Non si impara mai
niente…
GUCCINI: No, in certi campi non si impara
mai. Noi cerchiamo sempre di sfruttare il romanzo d’indagine per dare uno sfondo sociale alle nostre storie. Non a caso sono ambientati uno nel Quaranta, uno nel Sessanta, un altro nel Settanta. Per vedere i cambiamenti che
l’Italia ha fatto da un periodo all’altro. Certo il
risultato è quello che è.
Nel vostro modo di scrivere è cambiato
qualcosa da Macaronì, anno 1997, prima
storia del maresciallo Santovito?
MACCHIAVELLI: No, credo di no. Funzioniamo come abbiamo cominciato. Ci vediamo
e studiamo un progetto, l’idea di Tango per
esempio è venuta a Francesco. Cercavamo
un’ultima storia da raccontare. Tecnicamente
lavoriamo sempre allo stesso modo. Non sapremmo, né io né Francesco, scrivere assieme
come facevano per esempio Fruttero e Lucentini. Loro si trovavano assieme, uno dettava e
l’altro scriveva, e viceversa, poi si passavano
la palla durante la storia e andavano avanti. Per
noi sarebbe impossibile. Però è un lavoro comune, perché nasce in maniera comune e continua. Tecnicamente, sì, siamo fermi a dieci anni fa!
GUCCINI: Sì, ha ragione, non è cambiato
molto. Magari ecco, ci siamo perfezionati un
po’dal punto di vista tecnico. Tanto per tornare a parlare di tecnologia! Abbiamo due computer, diciamo di razze diverse, e all’inizio era
difficile passare da un computer all’altro, adesso invece siamo riusciti a comunicare. E ci vediamo in maniera più tranquilla. All’inizio
forse abbiamo avuto qualche difficoltà a partire, ad affrontare l’avventura dello scrivere assieme. Poi io fin quando ho vissuto a Bologna
facevo molto tardi la sera, e per me era normale iniziare a lavorare nel tardo pomeriggio o
addirittura nelle prime ore serali. Invece Loriano va a dormire prestissimo e si alza all’alba,
e quindi avevamo difficoltà orarie. Adesso vivo in montagna e anche per me le cose sono
cambiate, non sono più notturno come una
volta.
In Tango e gli altri descrivete il quartiere
della Cirenaica…
MACCHIAVELLI: Sì, la Cirenaica di cui parliamo nel libro è un quartiere di Pistoia. La
staffetta viene da lì, da Pistoia già liberata dagli alleati. Attraversa le linee del fronte per arrivare su in montagna dove ci sono i partigiani, ancora nella zona occupata dai tedeschi.
Ma una Cirenaica c’è anche a Bologna.
GUCCINI: E io a Bologna abitavo proprio alla Cirenaica. Si chiama così perché il quartiere venne fondato intorno al 1910/1911, quindi nel periodo della guerra di Libia. È un quartiere strano, affascinante.
Mi ha molto impressionata la storia dei tribunali partigiani. Io non so molto di Resistenza, ma non pensavo che ci fosse addirittura una struttura processuale che non
disdegnava di ricorrere alla giustizia sommaria. Pensavo che la Resistenza fosse un
qualcosa di più corretto.
MACCHIAVELLI: Questo è il dramma della
guerra. Pensi a cosa succede adesso in Afghanistan, o in Iraq. Quando si fa un attacco, da
qualunque parte venga, intanto si agisce, poi si
pensa. Chi muore? Muoiono civili, muoiono
bambini, donne, si massacra in nome di che
cosa? Non stanno lì a disquisire, quando sparano. C’è da colpire il nemico e si spara nel
mucchio. Purtroppo, no, non c’era giustizia,
nemmeno nella Resistenza, non poteva esserci. Non c’è purezza, non c’è correttezza, e
purtroppo questo è. In guerra ci sono delle necessità impellenti, dalle quali dipendono la
vita o la morte di gruppi di persone, e allora si
prendono le decisioni. Bisogna prenderle al
momento, e in fretta. Si discuterà dopo se
queste decisioni erano giuste o sbagliate. Ma
dopo non servirà poi a tanto.
GUCCINI: Guardi, proprio in questi giorni ho
letto un libro che non avevo ancora letto. E mi
è dispiaciuto averlo trovato solo adesso, ma
d’altronde è di recentissima pubblicazione.
Sono appunti postumi di Fenoglio, scritti a mano. Si parla di due partigiani che vengono
giustiziati per avere rubato in una casa cose di
pochissimo valore. Qualche bottiglia di vino,
non di più, per
intenderci. Loro fino all’ultimo non credono che verranno giustiziati.
Non possono
crederci. Ripetono ai compagni «abbiamo
capito, volete
solo farci paura, non ci ammazzerete certo per qualche
bottiglia». E
invece vengono giustiziati.
Un
nostro
informatore,
alla nostra domanda se fosse davvero così, ci
rispose che certamente era così, lui stesso ne
aveva fatti mettere a muro due, perché avevano rubato in una casa dei fiaschi d’olio. Ha ragione Loriano, la giustizia a quei tempi era terribile. Forse dovremmo riuscire a discostarci
da quella che è la nostra vita adesso, la nostra
giustizia adesso, da quelli che sono i nostri apparati mentali. Noi viviamo in tempi e ambienti assolutamente diversi. Allora bisognava tenere la disciplina, bisognava mantere il rigore
morale di chi combatteva per un’ideale.
C’era veramente di tutto e di più, nelle brigate partigiane. C’era magari anche chi voleva fare lotta di classe.
GUCCINI: Certamente. Molti di coloro che
militavano nella brigata Garibaldi pensavano
che dopo la guerra la lotta sarebbe continuata.
Fu Togliatti a fermarli. E se non fosse stato così, penso che sarebbe successo come quanto
poi successe in Grecia. Dove scoppiò una
guerra civile, con il comandante Markos, praticamente ancora durante la guerra. Intervennero gli inglesi e i partigiani furono massacrati, ci furono migliaia di morti. Togliatti aveva
capito tutto, lui voleva tornare nella legalità. A
prescindere dalla lotta di classe, c’era veramente di tutto, tra i partigiani. Come raccontiamo nel libro, c’era la brigata Matteotti di montagna, c’era «Giustizia e Libertà», poi arrivarono quelli della Garibaldi che erano stati cacciati da Montefiorino, e poi c’erano delle bande indipendenti. E magari molto spesso proprio i componenti di queste bande indipendenti erano quelli che non si comportavano benissimo.
Come è nato questo titolo, Tango e gli altri?
MACCHIAVELLI: Il titolo ha sempre una
storia complicata. Noi diamo un titolo provvi-
Anche per loro l’accusa
di revisionismo avendo
restituito un’epoca
secondo punti di vista non
ortodossi. Il maresciallo
Santovito si trova
impegnato a riabilitare
la figura di un partigiano
fucilato dai suoi stessi
compagni in merito a una
strage di civili per la quale
nel ’43 egli stesso, come
partigiano, era stato
incaricato di svolgere
indagini per conto di
«Giustizia e Libertà».
Ne emerge un quadro
rivisitato degli
avvenimenti
Nelle foto Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, autori
di Tango e gli altri, uscito da Mondadori
sorio, per intenderci tra noi e con l’editore.
Questo si intitolava "La lettera mai spedita".
Poi quando è finito il romanzo, ci si trova da
Francesco, a Pàvana, con Antonio Franchini,
con la Renata Colorni, che è molto appassionata del nostro lavoro, e lì si comincia. Ognuno di noi porta un elenco di titoli… i miei non
sono mai stati accettati, tutti li trovano brutti e
alla fine vengono modificati. Però a volte, come è successo in questo caso, da un titolo mio
più un titolo di Francesco è nato quello definitivo; da una commistione è nato un titolo efficace e stuzzicante come in questo caso. Quando siamo arrivati al titolo si va a cena, e si brinda.
Voi vi lamentate sempre del fatto che nonostante la rilettura e il lavoro degli editor, nei
libri ci siano sempre errori. Vi danno molto fastidio..
MACCHIAVELLI: Tantissimo fastidio. Perché chi ci rilegge ci dà il tormento, per esempio, se una volta scriviamo «la strage alla Piane» e un’altra «la strage delle Piane», come se
questo fosse importante. E si occupano di questo e ci dicono «uniformiamo». Io non capisco
perché. Quando parli, parli così, non uniformi.
E poi gli sfuggono frasi come «quel pomeriggio dalle 9 alle 11». E resta quel pomeriggio.
A noi che scriviamo è un errore che può sfuggire, perché noi siamo concentrati sulla trama,
e quando rileggiamo abbiamo la storia talmente in testa che non troviamo l’errore; ma a
chi lo fa per lavoro non dovrebbe sfuggire. Mi
fa rabbia questo.
GUCCINI: Gli errori sono terribili. Io veramente non capisco. Io rileggo, tutto, Loriano
rilegge tutto, poi rileggiamo tutto assieme. I
correttori di bozze di professione rileggono ancora, ma gli errori restano lì. A volte sono errori di cui si accorge solo chi ha scritto il libro;
per esempio si parla di un attrezzo agricolo
chiamato «manfanile» e che diventa nel libro
«manfonile». Questo può sfuggire, e magari il
lettore non se ne accorge. Che però un ragazzino abbia 14 anni in una pagina e 16 anni cinque pagine dopo, questo è veramente paradossale. O come successe nel primo romanzo
quando l’Alcazar, la famosa fortezza spagnola, diventò Alcatraz. Sempre ci sono errori. Bisognerebbe, forse, non leggere di fila, ma partire per esempio dall’ultima pagina analizzando parola per parola, sillaba per sillaba, senza
avere quindi il senso della narrazione. D’altronde anche quando io scrivo per i fatti miei,
cose qualunque, faccio errori, correggo, stampo… e poi ne trovo ancora, e così via all’infinito. Forse a questo punto ci vorrebbe un intervento dall’alto.
C’è anche molta natura, in Tango, e in generale in tutti i vostri libri. Chi è tra voi due
l’esperto di montagne, di piante?
MACCHIAVELLI: Ah, su questo l’esperto è
Francesco, è lui l’esperto di fauna, di piante e
devo dire anche di dialetto. Io quando devo
parlare di una
pianta gli telefono e lui mi
dice tutto. Perché spesso cito piante che
da noi nemmeno esistono, sulle nostre montagne. E allora
lui mi corregge. Perché io
pur essendo
nato e vissuto
lì fino a 10 anni, e pur tornandoci spesso, non sono
un esperto né
di piante né di animali. Mettevo animali a
razzolare nel bosco e poi Francesco mi telefonava per dirmi «guarda che questi cinghiali sono arrivati dopo, non c’erano allora». Quindi
adesso preferisco sempre chiedere a lui.
GUCCINI: Sì, questo è verissimo. E dimentichi i giochi di carte! Lui non ne sa niente di
carte, e quindi ogni volta che nei libri c’è
qualcuno che gioca sono sempre io l’esperto.
E anche per il dialetto, devo dire.
So che Lei, Guccini ha scritto addirittura
un "Dizionario Pavanese".
GUCCINI: Sì, nel 1998, per i mille anni del
mio paese, Pàvana. In quell’occasione sono
state organizzare delle manifestazioni, delle
iniziative. E io ho curato questo vocabolario.
Mi piace il dialetto, e proprio qualche giorno fa
ho finito di tradurre la terza commedia di
Plauto in dialetto pavanese. E anche questa,
come le prime due, verrà portata in scena da un
gruppo di sciagurati - se lo dicono loro, eh, non
lo dico io - così, per divertimento. È buffo questo passaggio dal latino al dialetto pavanese;
dialetto che finora non era mai stato scritto. È
un’affermazione del dialetto. Siccome non
viene quasi più parlato, ecco, ci tengo che
qualcosa rimanga.
Voi date l’impressione di essere simili. Persone semplici e senza orpelli.
GUCCINI: Vede, siamo tutti e due di origine
montanara. In montagna tutti e due siamo tornati a vivere, io addirittura più di Loriano.
Aver vissuto in certe situazioni e certi ambienti comuni ci ha anche aiutati. Sì, siamo persone semplici e senza orpelli. E devo dire che all’inizio lui diffidava un po’ di me, diceva «ma
chissà questo Guccini, quello delle canzoni,
sarà una specie di divetto». Lo dice sempre.
Poi si è accorto che non è vero.
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I n t e r v i s t e
osé Rico Direitinho (Lisbona, 1965) è una celebrità in Portogallo, vincitore di decine di premi e apprezzato persino da José
Saramago. Direitinho appartiene alla «nuova ondata» di autori portoghesi che cercano di emanciparsi da Pessoa e dallo stesso Saramago:
grazie alla sua voce inconfondibile di narratore ha varcato i ristretti confini portoghesi e si è
imposto in Europa e nel mondo. Il suo ultimo
romanzo, L’orologio degli angeli, si svolge in
un Portogallo antico, e in particolare in una
piccolissima regione al confine con la Galizia,
dove realtà e invenzione, ragione e superstizione si mescolano in un viluppo inestricabile. Il
suo è uno stile particolarissimo, cadenzato e
vibrante, immaginifico e tuttavia ancorato alla sostanza delle cose. A interessargli è il lato
oscuro dell’animo umano, il sapore denso del
sangue: allo stesso tempo, linfa vitale ed estrema traccia di esistenze tragiche. Stilos l’ha intervistato:
Cosa pensi della traduzione italiana del titolo del tuo libro (in originale "O relogio do
càrcere") in L’orologio degli angeli?
All’epoca il titolo doveva essere "L’orologio
del carcere degli angeli" oppure "Il carcere degli angeli", me per una decisione dell’editore
alla fine fu "L’orologio del carcere". Se potessi cambiarlo oggi sceglierei senz’altro il titolo
che io stesso ho suggerito all’editore italiano,
"L’orologio degli angeli": è un bel titolo.
Il tuo romanzo, al di là dell’ambientazione
storica ottocentesca, sembra evocare un clima, fa respirare una certa aria al lettore.
Esiste la «portoghesità» in narrativa (e, specificamente, nella tua narrativa)? O il paesaggio che si ritrova ne L’orologio degli angeli è interamente scaturito dalla tua mente, e lo avremmo ritrovato anche in un romanzo ambientato, magari, in Groenlandia, purché scritto da te?
Non credo che esista una portoghesità in generale nella narrativa portoghese. In alcuni dei
miei libri esiste in realtà una certa aria, un clima caratteristico, ma sarebbe riduttivo chiamarlo «portoghesità». L’aria particolare che si
respira in questo libro risulta dal fatto che la
storia appartiene a un ambiente rurale specifico, ad un immaginario popolare più o meno
definito, a un ambiente sociale dove si svolgono certi tipi di rapporti. Sarebbe lo stesso se
l’azione si svolgesse per esempio in Galizia o
in altre regione del nord di Spagna. Però se il
romanzo si svolgesse in Groenlandia l’aria
sarebbe sicuramente diversa. Appunto come è
diversa l’aria che il lettore respira in un altro
mio libro di racconti che si svolgono in diverse città dell’Europa del nord.
I paesaggi portoghesi e spagnoli del romanzo suscitano un’idea di desolazione barocca. Alcuni esempi: la locanda «con fama di
bordello», l’evocazione di odori che di rado
uno scrittore infligge alla pagina (lo sterco,
la carne andata a male), l’inchiostro che cade in «gocce di sangue», l’acqua verdeggiante «di limo e di rospi». C’è sempre uno
scarto, un arabesco, che però non abbellisce
la frase, semmai impedisce al lettore di evocare immagini rassicuranti. Questa sembra
una scelta consapevole. Come nasce? E perché l’hai fatta?
Si, è una scelta cosciente che nasce nello stesso modo in cui nasce la storia che narro, ma
non so da dove mi arriva. È una questione di
stile, di estetica della narrativa, spesso per
correggere il ritmo di una frase, per imporre
un’altra cadenza, a volte funziona da nota dissonante, disarmonica, in una partitura musicale troppo sicura, così, per svegliare un po’il lettore. Lo faccio per trasmettere degli stati d’animo al lettore, che in questo modo legge il libro in modo più compiuto, e lo può ricreare,
visto che la lettura la considero come una riscrittura.
Perché la scelta di raccontare un Portogallo rurale - contraddistinto da credenze misteriche e superstizioni, violenze e miseria e quindi una realtà lontana dalla tua esperienza e da quella dei tuoi lettori? Cosa ti attrae di questi luoghi e di questo stile di vita,
tanto da farli oggetto di una rivisitazione
mitopoeitica?
Non so perché scrivo… generalmente dico
che lo faccio per piacere agli altri, ma magari
non è nemmeno per questo. È ancora più difficile giustificare l’ambiente rurale dei miei libri, forse è un’ossessione, e le ossessioni non
hanno giustificazioni. Se devo dire la verità
non sono nemmeno particolarmente affascinato dalla vita rurale. Non sono vegetariano,
non sono un militante ecologista, sono allergico ai fiori, detesto quando il gallo canta e non
riesco a dormire col cinguittio degli uccelli. In
certi momenti riesco addirittura a preferire
Berlino a Lisbona (nessuno riesce a convincermi che questa città non sia in fondo altro che
un grande paesetto popolato da rustici che
hanno studiato e che nei giorni di festa scappano in gruppo verso la provincia).
Ne L’orologio degli angeli colpisce il ricorrere di un altro tema, oltre a quello dell’autopunizione annunciato in risvolto di copertina: l’assoluta malinconia di certe riflessioni, l’inevitabilità del farsi tristi quando «il
seme muore», anche nella consapevolezza
che una pianta da quella morte nascerà. C’è
un significato in questo? Una siffatta ma-
J
S t los
narrativa
straniera
JOSÉRICO DIREITINHO. «La malinconia mi è necessaria
e utile come ad altri sono necessari le orge dionisiache
e il fuoco pirotecnico. L’unico significato in tutte queste
cose è il sollievo che ci arrecano»
Vita degli uomini
spettacolo tragico
SEIA MONTANELLI
VIVE A CISTERNA (LATINA). E EDITOR,
REDATTRICE DELLA RIVISTA "ORIGINE",
GESTISCE IL BLOG "PAESE D’OTTOBRE"
linconia è utile, o persino necessaria?
Penso che cerchiamo sempre di aiutarci, in un
modo o in un altro, per delle vie più o meno sinuose, che ci portano alla scoperta di noi stessi e, di conseguenza alla elaborazione di una
idea di felicità. La malinconia mi è necessaria
e utile come ad altri sono necessari le orge dionisiache e il fuoco pirotecnico. L’unico significato in tutte queste cose è il sollievo che ci arrecano.
Nel capitolo finale, che hai intitolato "Un
allegro e stanchissimo gesto", sembri voler
tirare le somme per quanto riguarda i personaggi di Afonso Aires de Navarra e Antònio de Soutelinho. Il lettore può aver la sensazione che questo «tirare le somme» sia un
sovrappiù, una sorta di coda alla storia narrata nel romanzo, che trova già una sua
completezza drammaturgica nel capitolo
precedente. È necessario che il lettore beva
il bicchiere fino alla feccia, assistendo a una
tragedia il cui compimento egli ha, comunque, intuito?
È il Consummatum est della storia, affinché
l’autore e il lettore possano rinascere dal libro.
Così come il seme deve morire affinché la
pianta nasca. Non esiste un vero lutto se non si
trova il corpo morto. Solo dopo si può rinasce-
L’ A U T O R E
La vocazione
alla visionarietà
Portoghese, José Rico Direitinho si è
fatto conoscere in Italia per Breviario degli istinti malvagi, un romanzo
sospeso tra sortilegio e visionarietà
in un Portogallo ancestrale e dominato dalla cappa della dittatura salazariana. La vicenda a volte surreale di un bambino nato sotto il segno
della tragedia.
LA RECENSIONE
Il senso di incombenza di una grande tragedia
Mentre eventi sanguinosi e omicidi efferati segnano l’avvicendarsi del regime liberale alla monarchia costituzionale in un Portogallo ferito da una terribile guerra civile, si consuma il dramma di Afonso Aires de Navarra. Questa, a grandi linee, la storia narrata da
José Rico Direitinho in L’orologio degli angeli, (secondo libro dello scrittore portoghese a sbarcare in Italia dopo il bellissimo Breviario degli istinti malvagi, pubblicato da Einaudi nel 2005), scritto nel 1997 e uscito solo ora per i tipi di Cavallo di Ferro con l’ottima traduzione di Vincenzo Barca. Vero fenomeno letterario degli ultimi anni, José Rico
Direitinho racconta un Portogallo rurale fortemente legato alle tradizioni, per cogliere le
antinomie del presente e rielaborare la storia recente (e dolorosa) del suo paese.
L’orologio degli angeli è ambientato tra il 1832 e il 1834 durante la faida che infuria - dopo la cacciata di Napoleone dal Paese - tra Don Pedro e Don Miguel, due fratelli e avversari, portatori l’uno dei valori della monarchia costituzionale e l’altro delle istanze conservatrici di una monarchia assolutista. Se l’ambientazione è storica e assolutamente realista, lo sfondo geografico è fittizio: il villaggio di Vilarinho dos Loivos - in una piccola
regione al confine con la Galizia, terra d’elezione dello scrittore portoghese - è una invenzione di Direitinho, che già vi ha ambientato altre sue narrazioni. A Vilarinho sorge la tenuta del Sexio di proprietà di Afonso Aires de Navarra: una vecchia tenuta che nasconde segreti inconfessabili. Afonso è sposato con Dona Benigna, una figura misteriosa che
nel romanzo appare solo attraverso le lettere
che invia ad Afonso dal suo esilio in Francia,
dov’è scappata. Il loro figlioletto Afonsinho è
morto in modo tragico, così - mentre assiste alJOSÉ RICO DIREITINHO
"L’orologio degli angeli" lo sgretolarsi dei privilegi della nobiltà cui appartiene e alla lotta fratricida tra le contrade del
Trad. Vincenzo Barca
suo dominio - Afonso vive impotente il dissolpp. 158, euro 14
versi della sua stessa famiglia, delle sue speranCavallo di Ferro, 2007
ze. All’esistenza di Afonso s’intreccia inestricabilmente quella di Antònio do Soutelinho, fattore del Sexio che da tempo ha abbracciato la via della rivoluzione.
La narrazione procede lenta ma densa di avvenimenti che si svolgono tra continui rimandi tra analessi e prolessi, la voce narrante è solenne e ricorre spesso a motivi biblici e citazioni mutuati dall’immaginario cristiano ed ebraico. La vicenda stessa si esaurisce nei
periodi delle Quaresime tra il ’32 e il ’34. Tutto suggerisce l’imminenza di una tragedia
ancora più grande; l’ambientazione rurale contribuisce a sfumare la realtà nella superstizione delle tradizioni contadine e a colorare la vicenda, già fitta di cupi presagi, di ineluttabilità e fatalismo: un calderone anabasico di casualità tragiche, con personaggi che s’ingannano a vicenda senza mancar d’ingannare se stessi, fino alla resa dei conti finale.
Le loro azioni, che il lettore percepisce spesso in una dimensione di smarrimento - facilmente si rischia di perdersi tra i mille snodi della trama - riescono ad essere al contempo
piene di significato eppure pervase di un senso di vuoto, fatali e inconcludenti, ad apparire crudamente vive e ad avere qualcosa che le accomuna agli squarci improvvisi che, di
un sogno, si ricordano al risveglio.
Questo dualismo così intenso, quasi lacerante, è dovuto alla efficacia della prosa di Direitinho, che si serve di una scrittura sorprendente, curata, vibrante, potente, a sostenere
uno stile molto personale che vira da sfumature di verismo a tratti visionari di realismo
magico. Bravissimo Vincenzo Barca a rendere fluida in italiano una lingua complessa e
densa e a restituire una musicalità costantemente ricercata dall’autore, come tratto distintivo della sua opera.
Ogni pagina del romanzo si snoda così su un ritmo ipnotico, sia nell’azione convulsa che
nell’attesa. E proprio il concetto di attesa, qui, si rivela una preziosa chiave di lettura: ne
L’orologio degli angeli tutto sembra svolgersi, a ogni momento, in prossimità della fine
di qualcosa: lo stesso protagonista all’inizio della storia non ha ancora compiuto trent’anni, eppure viene già chiamato «Il vecchio». La vita è dipinta come una farsa tragica dai
toni crepuscolari, al punto che il suicidio appare come la sola opportunità di autoaffermazione. L’orologio degli angeli riesce, nello spazio di centocinquanta pagine e poco più, ad
essere molte cose insieme: un intenso romanzo storico, sullo sfondo di un Portogallo martoriato da una sanguinosa lotta interna; il racconto di una feroce autopunizione; l’elegia
del sacrificio estremo inteso come liberazione da un dolore così intollerabile da non lasciare scampo se non nel pensiero della fine, che è quindi auspicata, cercata, auto-inflitta nel modo più crudele e suggestivo.
S. M.
Nella foto José Rico Direitinho, autore per Cavallo di Ferro
di L’orologio degli angeli
re e continuare. Per questo il libro rimarrebbe
incompleto senza quest’ultimo capitolo. Si
deve sempre seppellire i personaggi affinché
non si trasformino in «anime in pena».
Afonso comincia a mettere in atto il suo piano di autopunizione di ritorno dal viaggio a
Santiago di Compostela e sono molti in tutto il romanzo i rimandi al simbolismo cristiano. Quanto, della visione cattolica del
peccato e della penitenza, è confluita nella
rappresentazione del dolore di Afonso e nel
modo che usa per esorcizzarlo programmando la propria fine? O si tratta di un fattore squisitamente personale, una volontà
di annullarsi che non deriva da influenza
esterne?
Credo che la morte di Afonso Aires de Navarra sia soprattutto un numero da circo, uno
spettacolo creato tenendo conto di tutti i dettagli, una messa in scena in cui tutto deve funzionare, è un salto senza rete in cui il trapezio
dall’altra parte è stato tolto di proposito… finisce per essere l’unica azione programmata di
tutta la sua vita, un modo di chiudere in bellezza, che finisce per essere quasi ironico. Afonso non è tanto cattolico come può apparire a
prima vista, del resto il cattolicesimo proibisce
il suicidio, dunque, cattolicamente, Afonso
avrebbe dovuto bere il calice della sua vita fino all’ultima goccia. La sua morte non è il
compimento di una penitenza, è un sollievo,
un’affermazione personale.
Lascia un po’ perplessi la figura di Dona
Benigna de Aragòn y Chanterenne: la sua
figura aleggia su tutto il romanzo ma non
compare mai nella scena se non attraverso
le lettere frammentarie e incomplete che
scrive al marito. Perché la scelta di non approfondire il personaggio? di non dire di
più? Nella sua ultima lettera, quando Dona
Benigna esorta Afonso a «cercare l’ultimo
suono offerto dall’orologio del carcere» perché «solo la fine ci mostra il vero sollievo»,
sembra lei l’istigatrice del suicidio del marito, quindi il suo ruolo è più che fondamentale nella storia. Perché agisce in assenza?
Il fatto di non avere approfondito di più il
personaggio non è stata una scelta consapevole. Nel romanzo è nata così, con la funzione di
depistare, in un certo senso con lo scopo di
confondere la sua propria vita e quella di Afonso. In alcune lettere racconta fatti che si contraddicono, che non fanno che negarsi a vicenda. Lei è anche la ragione dei titoli dei capitoli che le sono dedicati, sempre con quel riferimento all’idea di «storia vera», ma che finisce
per non esserlo affatto. Questa donna, in fondo, rappresenta il lato oscuro, o meno chiaro,
delle nostre storie private… e anche della Storia.
I tuoi personaggi non solo subiscono la tragedia, ma sembra che vogliano imporla a
se stessi. Autoinfliggersi un destino integralmente tragico, sembra dirci Afonso col suo
gesto, può rappresentare una forma di liberazione. Da dove hai mutuato una visione così pessimistica? Ti accompagna da
sempre, nel tuo narrare, o l’hai sviluppata
a un certo punto? E se sì, quando?
Non credo che sia una visione pessimistica.
Quello che non ho invece è una visione ingenua della vita, che mi è sempre sembrata uno
spettacolo tragico - nel senso teatrale del termine - anche perché quando cala il sipario nessuno esce vivo dal palcoscenico. È una visione
che mi ha sempre accompagnato, non lo so per
quale motivo. E l’ho sempre vissuta bene, per
questo è normale che questa visione di vita si
trasmetta nei miei libri. Io sono una persona allegra, direi addirittura un ottimista.
Cosa rende originale la tua narrativa? Il
tuo è uno stile molto personale, un curioso
mix di realismo magico e romanticismo.
Una scrittura feconda ma assolutamente affilata in cui ogni parola evoca un’immagine,
un suono, una sensazione precisa, mai nulla di superfluo. Chi ritieni siano stati i tuoi
maestri?
Lavoro molto nella scrittura, più o meno come
uno scultore intorno a una statua piena di dettagli. E poi c’è il ritmo, che è quello che dà il
sale allo stile. Nella mia scrittura il ritmo è essenziale, diciamo che vorrei fare dei miei libri
degli spartiti musicali. I miei maestri sono gli
autori che ho letto, che ho amato e che la mia
testa ha assimilato al punto da mescolarli e poi
trasformarli in qualcos’altro. Ricordo di aver
letto con gran piacere Miguel Torga, Camino
Castelo Branco, qualche latino-americano (soprattutto Borges) e molti altri che non so più fino a che punto mi hanno influenzato.
Il panorama letterario portoghese non è
molto conosciuto in Italia. Ci sono autori
che ti sembrano interessanti, e che leggi con
passione, o quantomeno con interesse?
Dei viventi pochissimi. Mi piace qualche libro
di João Aguiar, anche Francisco José Viegas
mi piace, Pedro Rosa Mendes e Agustina Bessa Luís. I grandi scrittori sono un problema
matematico: il Portogallo è un paese piccolo,
con una popolazione proporzionale al territorio, per questo la probabilità di avere scrittori
eccezionali è la stessa di quella di avere politici onesti: ne compare uno ogni tanto; quello
che rimane sono delle bolle di sapone che servono per animare la festa. Attenzione che mi
sto riferendo al Portogallo, non alla lingua
portoghese... a tal proposito sarebbe tutto un
altro discorso.
E ci sono autori italiani che conosci e segui?
Italo Calvino, Dino Buzzati, Sebastiano Vassalli, Luigi Pirandello, Cesare Pavese… sono
i primi che mi vengono in mente.
S C A F F A L E
CARRIE BEBRIS, Orgoglio e preveggenza, trad. Alessandro Zabini, pp. 291, euro 10, Tea 2007
I personaggi, gli ambienti, lo stile, l’atmosfera dei romanzi di Jane Austen ritornano
in questo mystery che inizia da una storia romantica e si trasforma in un giallo. Mentre
Mr. Frederick Parrish, affascinante gentiluomo americano, sta per sposare la sua amata
Caroline Bingley, la festa di matrimonio
viene turbata da una serie di strani episodi:
fenomeni di sonnambulismo, cavalli imbizzarriti, misteriosi incendi e altri incidenti. Qualcuno sta perseguitando i Parrish e
nessuno si rende conto della situazione,
tranne Elizabeth e Darcy, amici di Caroline
e anch’essi sposi novelli.
ANNE FINE, Un amore in cenere, trad.
Olivia Crosio, pp. 232, euro 16,50, Sonsogno 2007
L’indipendente e tenace Tilly è prossima al
divorzio. Conosce Goffrey con una difficile famiglia a carico e ciò la spaventa. Moglie
insopportabile e figli piagnucoloni, Tilly è la
matrigna cattiva che con la sua forte tenacia
s’inpone in quella famiglia ma, iniziando i
primi litigi con Goffrey, pensa seriamente di
uscirne. L’autrice si è affermata come scrittrice per l’infanzia ed ha ottenuto molti riconoscimenti. È brillante anche nella narrativa per gli adulti.
ASA LARSSON, Il sangue versato, trad.
Katia De Marco, pp. 339, euro 17,50,
Marsilio 2007
In una terra lontana del circolo polare artico
viene ucciso il pastore Mildred Nilsson;
una strana persona che con le sue teorie
aveva diviso la gente del paese provocando
odio profondo e venerazione. Un’ispettrice
di polizia e l’avvocato Rebecka Martinsson
iniziano le indagini. Le due donne devono
valutare quell’odio e quell’amore che ha
separatro la gente del luogo. L’autrice, nell’evidenziare la tortuosità delle persone nel
relazionarsi ci mostra le meraviglie di quella terra incontaminata.
RICHARD NORTH PATTERSON, I
cinquantanove giorni, trad. Anna Maria
Biavasco e Valentina Guani, pp. 557, euro 18,60, Longanesi 2007
L’avvocatessa Terri Paget vuole salvare un
giovane negro, da quindici anni nel braccio
della morte, che non si rende conto di nulla.
La sua vita nel degrado si è conclusa con lo
stupro. Anche Terri Paget ha dovuto rimettere in sesto la sua vita. Reputa quel negro
innocente, figlio del disagio e della droga e
perciò mette in gioco se stessa ed il delicato rapporto con la figlia. Una requisitoria
contro la pena di morte.
ANTONIUS MOONEN, Manuale dello
snob, trad. Katia De Marco, pp. 339, euro 17,50, Marsilio 2007
Moonen è un vero snob e fa dello snobismo
una vera e propria vocazione solo per pochi
eletti. Lo snob crea se stesso curando l’abito, il linguaggio e la gestualità. Mostrano la
loro intelligenza, l’ostinazione, il senso dell’umorismo disprezzando l’opinione altrui.
Conosce le buone maniere e le giudica noiose. È un libro necessario, sarcastico, accattivante. Tradotto anche in olandese tedesco
e portoghese, il Manuale dello snob è un
racconto testimoniale che si costituisce come prontuario per una vita sulle righe ma à
la page.
ALAN ISLER, Per sesso o per amore,
trad. Cristina Carminati, pp. 228, euro
9,90, Newton-Compton 2007
Cyril Enwistle ha tutti i difetti del mondo e
paga un noto biografo, Stan Kops, perché
scriva la sua biografia. Il narratore è Robin
Sinclair, figlio dell’amante e modella di Cyril. Il narratore ed il biografo si conoscono
da quarant’anni ed entrambi subiscono il fascino della sensuale Saskia Tarnopol. Sinclair narra le vicende intersecando queste vite. L’autore, unendo commedia e tragedia,
scruta e indaga sull’affidabilità dei personaggi e dei fatti per scoprire la verità in più
punti deformata dalla memoria, la storia e la
bibliografia
JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ, L’impero dei lupi, trad. Alessandro Perissinotto, pp. 495, euro 8,50, Garzanti 2007
La moglie di un importante funzionario parigino soffre di amnesia ed allucinazioni
dopo un intervento di chirurgia estetica e
nel tentativo di trovare la sua identità ed il
suo vero volto, incontra il giovane commissaio Paul che, aiutato da un ex poliziotto, cerca l’assassino di tre ragazze turche.
Inizia così la sua difficile operazione ripercorrendo il passato dei protagonisti popolato da assassini, guerriglieri no-global e Lupi grigi turchi. È una narrazione avventurosa che partendo da una Parigi sconosciuta
passa dalla Turchia per giungere nell’Anatolia. Da questo romanzo è tratto il film
con Jean Reno e Laura Morante.
saggistica
italiana
O
«
PATRIZIA DANZÈ
ttanta anni di solitudine»
titola "Domingo", l’inserto
domenicale di "El Pais"
che dedica al Premio Nobel Gabriel García Márquez un lungo articolo firmato da Juan Luis
Cebrián, giornalista e scrittore, fondatore dello stesso quotidiano spagnolo. E della soledad,
la solitudine dell’autore di Cent’anni di solitudine, che ha da poco compiuto ottanta anni, del
suo sguardo di scrittore che ha trasformato il
mondo, Stilos ha parlato con Angela Bianchini, scrittrice, saggista, autrice di programmi radiofonici e sceneggiati televisivi per la Rai, ma
soprattutto esperta ispanista, nota in America
a tanti intellettuali spagnoli della Spagna peregrina, la Spagna esule, quando lei stessa, di famiglia ebrea, era esule dall’Italia. Angela
Bianchini collabora da molti anni a "La Stampa" e "Tuttolibri"; è stata allieva di Leo Spitzer,
ha conosciuto Salinas e Jiménez, ma mai Gabriel García Márquez.
Come mai non conosce Márquez?
E lo scrittore più ritroso a farsi vedere e conoscere. Addirittura non è mai venuto all’Istituto Latino-americano di Roma fondato nel
1965, un istituto che allora era all’Eur e oggi in
un palazzo prestigioso del centro. Per tanti
anni abbiamo avuto anche un premio importante, conferito a Vargas Llosa, a Casares, a
Puig (e non a Borges perché aveva stretto la
mano a Pinochet); insomma c’era veramente il
Gotha della cultura e nella giuria figuravano
intellettuali come Sciascia e Ripellino. La sua
fama è notevole. Fino ai giorni scorsi abbiamo
avuto, in occasione della Giornata della donna,
il nuovo presidente del Cile, Michelle Bachelet. Ma di Márquez nemmeno l’ombra.
Soffre di soledad?
Sì, credo che dipenda dal suo carattere, benché
sia in realtà una delle persone più capaci di
scrivere e di esprimersi. Credo che la solitudine di Márquez sia il suo grande marchio, la
grandezza della sua scrittura, dei suoi personaggi, che l’hanno reso unico. Ciò che mi ha
straordinariamente colpito quando insegnavo
Scrittura creativa alla Casa della Cultura di
Roma è che quando chiedevo cosa avessero
letto in generale non c’era un solo allievo che
non avesse letto Cent’anni di solitudine.
Cent’anni di solitudine è stato definito dal
"Pais" un libro implacabile, un’epopea
soffocante impregnata di un nichilismo
atroce. Lei cosa ne pensa?
Si può vedere così e si può vedere in un altro
modo. Dopo aver letto Vivere per raccontarla,
il libro di memorie di Márquez, credo che il
suo grande merito sia stato questo: in un’epoca in cui c’era stato il realismo e l’école du regard, lui di queste cose non se ne è occupato.
Lui la realtà l’ha guardata in un altro modo,
con un altro sguardo, l’ha come rinnovata,
come se nascesse per la prima volta. Ricordo
che Natalia Ginzburg, allora digiuna di letteratura iberoamericana, scrisse su "La Stampa"
un articolo pieno di stupore e di entusiasmo at-
I n t e r v i s t e
«
G
LINNIO ACCORRONI
pagina
Nelle foto sopra Angela Bianchini e Gabriel
García Márquez. In basso Vitaliano Trevisan che
da Einaudi ha pubblicato Il ponte
15
ANGELA BIANCHINI. La nota ispanista, che non ha mai conosciuto di persona il Nobel
colombiano, parla dell’autore di "Cent’anni di solitudine" e del dirompente fatto nuovo
che il suo realismo magico ha portato nella letteratura del nostro tempo: «Ha uno
sguardo rinnovato sulla vita che è come se ci si trovasse all’aurora del mondo»
Márquez, vedere la realtà
nascere per la prima volta
traverso il quale faceva sentire come Márquez facesse vedere le cose più povere e misere e tragiche del mondo come se fossero all’origine del mondo. Non dico che sia come
Proust - sono due persone e due culture completamente diverse - ma Márquez ha fatto la
stessa operazione proustiana. La madeleine di
Marcel Proust restituiva odori e sapori nuovi a
quel che già sembrava si sapesse. Márquez ha
preso delle cose usurate dallo sguardo usurato e le ha guardate in maniera nuova. È questa
la sua grandezza.
Questo modo nuovo era il «realismo magico». È appropriata questa etichetta per lo
scrittore colombiano?
Ma sì, anche se poi l’espressione si ripete come un’etichetta. Realismo sì, perché prendeva
le mosse dalla realtà, ma non una realtà bruta,
proprio perché trasfigurata dalla magia dello
sguardo rinnovato come se ci si trovasse all’aurora del mondo.
Márquez e il potere. Aznar, dichiara lo scrittore, non gli interessa, ma l’amicizia con Fidel, con il «camino latino-americano» di Fidel, è nota. Come se lo spiega?
Probabilmente si tratta di solidarietà populista,
di un modo di essere vicino all’America Latina. Quelli che contestano a Márquez la sua relazione con il comandante cubano disconoscono il significato della parola amicizia nelle
tierras calientes e dimenticano la passione rivoluzionaria che arricchì la letteratura latinoamericana negli anni Sessanta. Per i giovani di allora la Rivoluzione cubana era una delle poche cose in cui si poteva credere.
Si è detto che Márquez ha superato due sue
difficili prove: una malattia insidiosa, ricorrente, dello stomaco, che lo ha privato del
gusto del comer, del mangiare, e il Nobel ad
un’età relativamente giovane. Secondo lei
cosa ha fatto per difendersi dal Nobel e dalle sue conseguenze?
Credo che le conseguenze del Nobel siano
state questo suo diventare abbastanza ispido.
Non si è mai concesso molto, ma ora non si
concede mai. Ma credo anche che proprio per
questo la sua forza d’animo debba essersi veramente rafforzata.
Non ricorda qualche aneddoto che lo riguarda?
Ripeto, non l’ho conosciuto, ma le posso dire
che ad un certo punto l’amicizia tra lui e Var-
gas Llosa si ruppe. Ci fu un pugno clamoroso
che stabilì la fine di quel rapporto. Si disse che
il motivo era politico, la differenza delle idee
politiche tra i due. Poi si venne a sapere che fu
per una questione molto più banale, di donne,
credo a causa della moglie di uno o dell’altro.
Comunque stessero la cose, pace poi fu fatta.
Ma a parte questo aneddoto, che sa di pettegolezzo, le posso dire che era un grandissimo
giornalista. Quando si trovava a Roma al Centro Cinematografico (dove ha anche diretto la
scuola di Cinematografia), scriveva dei reportage bellissimi, in cui raccontava l’Italia dipingendola alla perfezione. Aveva capito benissimo il nostro paese. Poi passò alla scrittura. Il suo primo libro fu Nessuno scrive al colonnello, un libro in parte autobiografico perché suo nonno era stato veramente un colonnello. Ma il boom fu quando un editore venezuelano pubblicò Cent’anni di solitudine. In
pochissimo tempo le vendite si moltiplicarono.
C’era qualcuno che aveva, scrivendo, la capacità di trasformare la realtà.
Quale lezione hanno appreso, secondo lei,
gli scrittori spagnoli oppressi dal franchismo dagli scrittori dell’altra sponda, dai latinoamericani?
Gli scrittori spagnoli sono stati molto generosi con gli scrittori latino-americani. Quando
nel 1965 andai al Premio Formentor istituito
nel 1962 sotto il franchismo, partecipavano
tanti scrittori latinoamericani che erano esuli o
non potevano pubblicare sotto i loro regimi.
C’erano grandi personaggi, ricordo che lì incontrai un giovanissimo Vargas Llosa che aveva pubblicato il suo primo libro, I cuccioli. Era
una formidabile occasione: per gli scrittori
spagnoli per uscire dalle loro ristrettezze e
per i latinoamericani per potere pubblicare e
farsi conoscere.
Ma come era possibile dal momento che in
Spagna c’era il franchismo?
Era ormai un franchismo più morbido. Da allora gli scambi tra scrittori spagnoli e scrittori
latinoamericani sono continuati sempre assai
stretti, nonostante le loro tradizioni e le loro
storie diverse. Molti latinoamericani sono stati subito accolti in Francia, in Spagna, nella
stessa Italia (e penso a Neruda). Si può dire
quel che si vuole degli anni Sessanta ma l’Italia ha accolto tutti ed era anche per noi un modo di uscire dalle strettoie, per allargare il nostro sguardo. Tutti insieme, mondo latino e
mondo latinoamericano a dare e ricevere, senza gelosie.
VITALIANO TREVISAN. Un non-romanzo sul lutto e l’assenza
Monologo ossessivo su un crollo
eworfenheit» è lemma che ricorre
in Essere e tempo di Heidegger:
esso risulta dall’unione del termine «gewor- definitorie davanti ad un libro come questo,
fen» (deiezione) ed «heit» che indica uno sta- perché la sua tragicità irredimibile, il clima di
to fisico, dinamico e statico, al contempo. Il fi- violenza immanente, ma mai esibita, che lo
losofo tedesco Heidegger usa questo termine connota non consente alcuna compensazione
per indicare la condizione esistenziale del- consolatoria, nemmeno quella che passa attral’uomo contemporaneo. La condizione cioè di verso la prassi dell’incasellamento critico, che
uno che è stato gettato, abbandonato, espulso è poi, a ben vedere, un modo di «neutralizzain un qualche luogo senza volerlo, istituendo re» e «reificare», di addomesticare. Risulta
così una sostanziale equiparazione fra l’esse- quasi futile, se non sciocco, tentarne una «letre umano e quello che è il destino, ontologica- tura critica», una interpretazione, più o meno
mente immanente ad ogni momento della sua convincente o suggestiva, o riassumerne la
esistenza, dello scarto, del rifiuto: «Mio padre trama perché ciò che turba non sono tanto le
e mia madre si sono sposati perché nelle loro sue peculiarità letterarie, quanto il passaggio,
teste ottuse il matrimonio, e i figli, erano l’uni- sgradevole, ma necessario, dalle pagine di
co modo per dare un senso alla loro esistenza, questo non-romanzo alla vita di tutti i giorni, la
perché così era stato loro
cui insensatezza pare aminsegnato, e, com’era staplificata (e non giustificato loro insegnato, quando
ta) dalle riflessioni di
VITALIANO TREVISAN
è stato il momento, sono
Thomas, da quel sound
"Il ponte"
caduti, come si dice, una
ossessivo del suo monolopp. 153, euro 13
nelle braccia dell’altro,
go che risuona, a libro
Einaudi, 2007
senza sapere niente l’una
chiuso, a lungo, come un
dell’altro, e per questo gli
monito fastidioso e strastessi motivi hanno fatto
niante.
dei figli, prima le mie due
Ovvio che in un’opera sifsorelle, e poi, dopo averci pensato e aver deci- fatta il plot, d’icastica linearità, la storia di «un
so che un maschio era necessario, hanno get- crollo», di un disadattamento passi in secondo
tato nel mondo anche me, sempre per le stes- piano rispetto allo stile, al ductus percussivo e
se ragioni che non mi riguardano. […] Abban- ritmico che è poi matrice consustanziale alla
donato prima di nascere, è così che mi sono scrittura di Trevisan. Un monologo che non
sempre sentito».
inizia né termina, da cui comunque desumiaCosì pensa, in un pagina dell’assillante, osses- mo che Thomas è un professore emigrato in
sivo monologo che costituisce per intero Il Germania dalla natìa, odiatissima Italia. È abponte, Thomas, l’io narrante del non-noman- bonato al "Giornale di Vicenza" solo per legzo di Vitaliano Trevisan. E così si sente Tho- gere i necrologi e, da uno di essi, anni prima,
mas, il protagonista, «gettato nel mondo… aveva appreso la morte del suo alter ego, il
per le stesse ragioni che non mi riguardano», compagno di avventure e spericolatezze, suo
alle prese con un percorso privato segnato da cugino Roberto, alias Pinocchio. Non è l’uniuna ricerca di autenticità estrema e di radicalità co lutto: anche suo figlio Filippo, l’unico con
senza compromessi che lo porta in flagrante il quale Thomas era riuscito a stabilire rapporcollisione con un sistema degradato, collassa- ti quasi «umani», è morto in circostanze tragito, sull’orlo dell’apocalisse estrema. Il critico che e misteriose. Per qualcuno (per esempio,
annaspa alla ricerca di formule o categorie per la moglie di Roberto e non solo…) è Tho-
mas l’artefice di quella morte assurda, strana,
in bicicletta. Questo e molto altro ancora in un
libro non facilmente dimenticabile di cui Stilos ha parlato con l’autore.
Ogni volta che si parla di lei e della sua opera, per una specie di effetto di trascinamento viene evocata la sacra triade Beckett,
Bernhard, Cèline. Tutto ciò la preoccupa,
la lusinga, la indispettisce, o magari la
conforta?
Mi dà molte indicazioni su chi scrive. C’è poi
da dire che Bernhard e Beckett (e altri) sono
evocati (utilizzati) da me in modo diretto ed
esplicito. Diciamo che è una trappola in cui i
critici, ma soprattutto i recensori, continuano a
cadere. Mi sorprende Cèline, che non ho mai
nominato, né direttamente né indirettamente;
né ho mai usato (nel senso che non l’ho letto).
Il tutto, comunque sia, mi diverte.
Teatro, cinema, letteratura: lei intrattiene
rapporti consolidati e diversificati con
ognuna delle tre arti. Da quale delle tre
trae maggiore soddisfazione espressiva?
Con quale di esse trattiene rapporti più
proficui e positivi?
Il teatro, essendo letteratura, è nella sfera di
quelle che considero «le mie competenze» (e
di nuovo mi richiamo alle due B di cui sopra).
Il cinema è un lavoro (peraltro assai bello) occasionale.
Le sembra adatta per Thomas, io narrante
del libro, la definizione di «diabolus loci»
(lei usa il formidabile lemma tedesco «Nestbeschmutzer», ovverossia «insozzatore
del proprio nido») ad indicare l’odio nichilista e profondamente eversivo che il protagonista dimostra contro i luoghi della sua
vita ?
Non è odio. È disperazione.
Ma tutto, davvero tutto, va «gettato via»?
C’è invece qualcosa che si salva, in questo Il
ponte?
Il problema, caro signore, è che in Italia niente, ma soprattutto nessuno, viene gettato via.
Dunque, estremizzando, tutto andrebbe gettato via (almeno politicamente, e amministrativamente, parlando). Insomma: non sempre è
possibile salvare il paziente. Detto questo:
speriamo che si salvi.
Lei è essenzialmente uno scrittore di ossessioni che si riannodano e si raggrumano,
senza soluzioni di continuità; l’attenzione
del lettore è risucchiata da questa scrittura
ipnotica che avviluppa e cattura, che seduce per la sua cadenza ritmica. Per questa
scrittura «medusea» verrebbe di dire ciò
che, nel libro, si dice a proposito degli occhi
di Thomas che sgomentano e paiono terribili, perché non recedono mai, non s’abbassano mai ?
Al contrario: lo sguardo di Thomas non oppone alcuna barriera: lascia passare quello degli
altri. È questa assenza che mette a disagio lo
sguardo (invasivo) degli altri (ma in particolare lo sguardo dell’autorità): non trovando opposizione, esso cade in avanti e si ritorce su se
stesso. Nel frattempo Thomas vede tutto.
Altro
I n t e r v i s t e
S t los
WALTER PEDULLÀ
NON RETROCEDETE MORAVIA
Nell’anno moraviano, fatto l’esame di coscienza, consultate le ingiallite carte, tirato il pari e il dispari con cui gioca il gusto,
concludo: non mi pento di avere scritto e
sottoscritto omaggi, ancorché cauti, all’opera di Moravia negli anni che vanno
dal 1960 alla sua morte. Il meglio è precedente: Gli indifferenti dimostra gli anni
che ma è un bel vecchio romanzo, Agostino, i racconti dell’Imbroglio (ossequi alla
“Cortigiana stanca” e a “Inverno di malato”) e alcuni dei Racconti romani bastano
a confermarlo tra i maggiori narratori del
Novecento. Ma anche dopo tradusse in
buona narrativa (L’attenzione, 1934, La
vita interiore) i problemi che assillavano
le nostre turbate meningi.
Il miglior Moravia è l’autore dei racconti:
da farci una grossa antologia. Apparirebbe chiara la verità e cioè che è anzitutto un
grande novelliere questo narratore che
non è un minore nelle raccolte di racconti fenomenologici (Una cosa è una cosa)
e «femministi» (Il paradiso, Boh). Perciò
tirati i conti, non lo si retroceda, come fanno giovani critici che non lo leggono nemmeno. Era più generoso lui coi giovani
scrittori in recensioni che erano un viatico.
Fu miglior narratore di Pasolini, del quale un giorno durante una conversazione in
treno, gli sentii dire che aveva avuto un
merito: aveva raccontato prima e bene la
vita delle borgate romane. E non disse altro. Moravia o del realismo, polo vincente nella narrativa dei giovani d’oggi, questi parricidi. Usino il tagliacarte per sfogliare i suoi romanzi e racconti. Eppoi
che letteratura di viaggio è la sua Africa!
Non mi scandalizza l’oscillazione del gusto che ha trascinato Moravia in zona
d’ombra. Avendo illustrato idee, è appassito insieme ad esse. Dall’oscuro al chiaro, come un freudiano certo della guarigione. Fu il diagnostico e il terapeuta delle patologie borghesi: senza chirurgia,
avendo paura del sangue delle rivoluzioni questo illuminista.
Moravia gestì le malattie con rischio calcolato quando invece le odiate avanguardie sprofondavano nell’informe o nel materico o in quel deforme di cui era specialista il suo maggiore antagonista, il Gran
Lombardo. I plaudenti necrologi alzarono
il braccio di Moravia ma gli misero una
pietra sopra.
Non mi piace meno Moravia perché mi
piace di più Gadda. A ognuno il suo: mi
coinvolgono gli stili di entrambi, e di ciò si
sorprese in giorno in cui presentò una mia
raccolta di saggi. (Di passaggio mi piace ricordare i cordiali dialoghi col sordo che
chiedeva replica di battute. E tra parentesi,
a smentita di altre storie, posso dire anche
come egli cominciò a scrivere favole. Fu
quando gliene chiesi una per la mia antologia intitolata Favole su favole: testi dialettali di ogni regione da tradurre liberamente.
Moravia rispose di non avere mai scritto favole, ma cordialmente ci si provò e ci riuscì
felicemente). Dunque quella sera lo scrittore dichiarò stupore per la mia disponibilità
a dire sì a opere che usavano linguaggi
molto diversi, anzi opposti. Ero bipartizan
e non mi pento. Moravia faceva parte per se
stesso.
È vero, tollerante, postmoderno ante litteram, potevo sostenere nello stesso tempo
poeti come Caproni e Amelia Rosselli, come
Zanzotto e Pagliarani o saggisti come Debenedetti e Contini o narratori come Fenoglio
e Pizzuto, Calvino e Malerba, Landolfi e
Manganelli. Oppure Moravia e D’Arrigo. E
su questo non fummo d’accordo.
Contro Horcynus Orca egli si accanì più
che direttamente, si disse, per interposta
persona. Moravia aveva troppa fretta nello scrivere per tollerare uno che impiegava più di un giorno per correggere una pagina. Un altro Gadda era troppo. Bisognava impedire che il contagio si diffondesse.
Convennero i fedeli Paolo Milano ed Enzo Siciliano. E l’Orca, arpionata, si arenò.
Si intitolava “Questa Orca la faccio in
fritto misto” la violenta stroncatura di Siciliano. Che poi ritrattò, ammise, promosse ma la frittata era fatta. Non si ripeta il
brutto spettacolo di mandare al macero libri non letti. E si impedisca il contrappasso. Semmai andiamo controcorrente: giudichiamo Moravia a ragion veduta.
C’è ancora da imparare da questo grande
scrittore, dalla sua prosa scabra, pietrosa,
metallica, e affilata come un coltello. Lo
usò per tagliare il superfluo e per ammazzare la retorica. Il suo stile asciutto, scarno e concettoso servirà ogni volta che ci
sentiremo minacciati dalla demagogia. È
grigio? È ferro.
pagina
16
R e c e n s i o n i
saggistica
italiana
ULDERICO MUNZI. «Diego Manzocchi come il mio Jimmy
Angel di "Cielo verde" e come Saint-Exupery»: piloti di
aereo morti nell’indifferenza di tutti in aria e diventati
personaggi anche grazie alla letteratura e a chi ne scrive
ome appassionato d’aviazione, una sino ad oggi
sconosciuta vicenda d’un
pilota italiano non poteva
non affascinarmi. E così,
quando ho avuto tra le mani il dattiloscritto de Gli
aquiloni non volano più con il provocante sottotitolo "Storia di un pilota che rubò un aereo
al Duce", ho subito accettato di presentare
quelle pagine, ovvero il nuovo libro di Ulderico Munzi. Ho preso la rincorsa da molto lontano, a quando avevo otto o nove anni: un giorno del ’38 o del ’39, all’indirizzo della casa dove allora abitavo, a Ferrara, giunse una copia
di un libro già famoso in Francia, "Vol de
nuit".
Mio padre, studioso di storia e direttore del
"Corriere Padano", ma anche appassionato
scrittore di personaggi e di eventi del mondo
dei piloti e del volo - clamorosi alcuni, sconosciuti altri - immagino lo avesse ordinato, appena saputo quanto fosse interessante e straordinariamente ben scritto. Quei giorni lontani
mi tornano a mente mentre leggo - e mi appassiono - le pagine scritte da Ulderico Munzi per
narrarci la vita di un pilota, eroe sconosciuto:
Diego Manzocchi, personaggio da romanzo di
FOLCO QUILICI
fantasia e invece vero, reale, nel suo essere non
solo un eroe, appunto, ma uomo in carne ed
VIVE A ROMA. "SÌ, VIAGGIARE", (MONossa con le sue passioni, i suoi difetti, i suoi erDADORI, 2006) "LA FENICE DEL
rori. E se nel venire a conoscenza delle vicenBAJKAL" (MONDADORI, 2005)
de di quella vita sconosciuta, mi tornano alla
mente i giorni lontani in cui giunse, a casa Quilici, la copia di "Vol de nuit" scritto da un cer- vrebbe portato ad appassionarmi d’un personaggio egualmente eroico e umile, contradditto Antoine Saint-Exupery, c’è un motivo.
Io, allora, non lessi quel libro «da grandi» e per torio, sconosciuto ai più: il pilota della giungla
di più in lingua straniera, ma ne fui incuriosi- amazzonica Jimmy Angel, di cui rimbalzavato sentendo mio padre e mia madre parlarne. no di tanto in tanto, tra gli appassionati di viTanto che sia l’uno sia l’altro, alle mie doman- cende aeronautiche, notizie confuse tra il legde insistenti, me ne raccontarono, o forse me gendario e il banale. Tanto stimolanti da spinne lessero alcune pagine. Ascoltai affascinato germi a tre lunghi viaggi nel mondo dove lui
aveva vissuto l’esistenza
la vicenda non d’un grandi corriere postale sulla
de, famoso personaggio,
selva più vasta del monma di un modesto, semULDERICO MUNZI
plice pilota-postino; e ca"Gli aquiloni non volano do. Quando i mezzi aerei
degli anni Venti riuscivapii l’importanza di chi
più"
no a muoversi in cielo per
riusciva a portare a termipp. XXIV-175, euro 17
ne imprese straordinarie
Sperling & Kupfer, 2007 la bravura dei loro piloti
piuttosto che per loro inpur essendo un pilota
trinseche doti tecniche.
qualunque. Certamente
In quella selva vasta coquel racconto mai dimenticato nella forma quasi di favola, quell’avven- me un oceano disteso tra Venezuela, Guayana
tura allo stesso tempo straordinaria e quotidia- e Brasile, lui aveva «lavorato» senza mai rina, mi ha lasciato un’impronta profonda. E in- sparmiare fatica, evitare rischi. Anche a giofatti, tanti anni dopo, quel primo contagio ha carsi la vita se il suo dovere nel portar aiuto,
riacceso una febbre sempre latente che m’a- soccorso, o per favorire ricerche lo richiedeva-
C
R e c e n s i o n i
S t los
Eroi del volo
rimasti
sconosciuti
no. Affascinato dal suo semplice coraggio, ne
ho narrato la vita in un libro, Cielo verde con
un’improba fatica di ricerca e di ricostruzione.
Anche per questo ho subito sentito vicina e ap-
passionante quest’opera di Munzi. E capisco
entusiasmo e impegno di chi ha cercato e narrato le vicissitudini di un pilota dalla vicenda
non solo poco nota, ma per di più contraddittoria. Con un protagonista, allo stesso tempo
un eroe e un traditore.
Destinato a restar sconosciuto, il pilota postale creato da Saint-Exupery viene inghiottito
dall’Atlantico, così come il pilota della giungla, Jimmy Angel, precipita nella foresta. E il
giovane sottotenente Diego Manzocchi scompare nelle nevi d’una gelida terra lontana. Tutti e tre (ma anche altri come loro), parte di
quella categoria di personaggi destinati a restar
sconosciuti sin quando uno scrittore, oltre alla fatica letteraria e con la tenacia del ricercatore, si mette al lavoro salvando una vicenda
altrimenti destinata all’oblio. E compie questa
fatica perché sente quanto importante sia far
emergere dal silenzio la vicenda straordinaria
d’un uomo semplice; coraggioso ma destinato a non esser mai celebrato perché fuor da
ogni regola. Affrontare il racconto di una vita
come questa è una sfida, perché il personaggio
Manzocchi è così fuor dalle regole da essere
stato escluso dagli elenchi «ufficiali» dei piloti italiani. Un oblio burocratico, odioso, di cui
ha offerto misura vergognosa, l’episodio di un
nostro presidente della Repubblica; il quale si
rifiuta di rendere omaggio alla tomba del pilota considerato in terra straniera un eroe; giustificandosi perché a casa nostra, fu burocraticamente declassato.
Ho molto amato le pagine di questo libro, il
suo riuscir ad essere allo stesso tempo fedele
biografia e romanzo di passione. Episodi e personaggi sono descritti con precisione storica,
mai condizionata dal gelido conformismo di
chi vuol narrare i fatti separandoli dai sentimenti. Riuscendo a rendere più vera la verità
descrivendola anche in dettagli apparentemente secondari (ad esempio le note sull’orgoglio del protagonista per la sua «bella divisa»).
E nei ritratti accurati, perfetti dei personaggi di
contorno, anche quelli più lontani dal centro
dell’azione. Indimenticabili i due bambini che
assistono uno in Francia, in un campo di grano, e l’altro in Finlandia, ai bordi di un luogo
gelato, a due drammatici atterraggi d’emergenza di Manzocchi.
Scrivo queste righe ben sapendo di non aver
alcuna qualifica che possa autorizzarmi a introdurre l’opera di un collega scrittore. Accetto di farlo perché mi sento vicino a lui nella comune passione, il desiderio testardo, ostinato,
di strappar dal silenzio o dai luoghi comuni, o
dalle interpretazioni distorte, le verità su personaggi straordinari vissuti negli anni ruggenti della conquista del cielo. Grandi alla pari dei
più celebrati; anzi, a volte di più.
ELISABETTA MONDELLO. Uno studio sull’artefice della nuova scena
Tondelli, il punto di ripartenza
er molti l’ipercontemporaneità è
qualcosa di volatile e incerto. Impossibile allora, per quanto riguarda la narrativa degli ultimi quindici, vent’anni, definire un canone delle opere,
ANTONELLA LATTANZI
impossibile un approccio critico globale ai testi, azzardata qualsiasi ipotesi tesa verso una
VIVE A ROMA. "COL CULO SCOMODO"
certa previsione del futuro. Pur non pretenden(CONIGLIO EDITORE, 2004), "LEGGENdo di possedere la chiave di questa scottante
DE E RACCONTI POPOLARI DELLA PUquestione, Elisabetta Mondello nel suo ultimo
GLIA" (NEWTON & COMPTON, 2006)
libro raccoglie invece la sfida e non si limita a
rimanere inerte a guardare, rifiutando qualsi- stituendo, non soltanto, un vero e proprio punvoglia immersione metodologica e umana nel- to di riferimento per la letteratura italiana da alla nostra realtà, ma decide di provare a cerca- lora in poi ma, soprattutto, promuovendo, con
re nell’ipercontemporaneo, a trovare al suo in- le tre antologie "Under 25" (pubblicate tra
terno i nuovi classici, i nuovi scrittori-maestri l’86 e il ’90), con il suo attivissimo, appassiodi vita e letteratura, il nuovo pubblico, il nuo- nato lavoro sulle pagine di "Linus", con la sua
vo contesto, il nuovo codice linguistico con cui stessa rivista "Panta", con la nuova collana
la nuova letteratura parla. Per questo leggere In Mondadori da lui curata, la scrittura dei giovaprincipio fu Tondelli è così affascinante: ci si ni che, sino a quel momento, erano stati accuratamente evitati dal merritrova a guardare nel detcato editoriale. Tondelli,
taglio, con una lente d’ingrandimento delle miglioELISABETTA MONDELLO spiega Elisabetta Monri, la letteratura degli anni
"In principio fu Tondelli" dello, vive questa sua intensa attività editoriale
Novanta e poi, allo stesso
pp. 159, euro 15
come dovere dello scrittotempo, si riesce a vedere,
Il Saggiatore, 2007
re affermato, che ha per
a esaminare il tutto con
lui il preciso compito di
uno sguardo lievemente
aiutare i giovani e di tra- croce (caso del tutto particolare), Culicchia ecpiù grande. Un respiro più
sformare gli esordienti in cetera.
ampio. Come se gli anni
Mediante lo studio di questi autori e del loro
Novanta non fossero appena ieri, con punte e scrittori veri e propri.
ripercussioni che arrivano sino all’oggi più im- È così, allora, grazie all’intensa attività di Pier mondo, Elisabetta Mondello conduce nella
Vittorio Tondelli - che tra l’80 e il ’90 ci ha da- seconda parte del suo libro:"Letteratura, mermediato.
In principio fu Tondelli "e letteratura, merci, te- to tutto di sé e poi ci ha lasciato, commenta con ci, televisione nella narrativa degli anni Nolevisione nella narrativa degli anni Novanta" attenzione Elisabetta Mondello - che la lettera- vanta". Qui, l’autrice e ricercatrice ci racconnon sono soltanto un titolo e un sottotitolo, ma tura giovanile si sdogana e prorompe nel mer- ta, con continui rimandi ai testi citati e ai critidue sezioni ben distinte di un’opera comples- cato editoriale alto, con scrittori come Balle- ci del tempo e di oggi, come sia impossibile
sa costituita da cinque capitoli - suddivisi in ul- stra (esordiente proprio su una delle antologie analizzare la narrativa degli anni Novanta senteriori paragrafi che solitamente citano gli di Tondelli), Brizzi, Ammaniti, Scarpa, Santa- za indagare anche un fenomeno del tutto eviscrittori sui cui ci si interroga -, ognuno su un
aspetto peculiare dell’ipercontemporaneità letteraria e sociologica.
LUIGI FILIPPO D’AMICO
La prima parte indaga, in particolare, la conti"L’uomo delle contraddizioni"
guità esistente tra l’esperienza di Tondelli - lo
pp. 175, euro 10
scrittore di Altri libertini, colui che sembra
Sellerio, 2007
aver inventato una nuova letteratura, un nuoC
vo modo di essere scrittori, un nuovo linguaggio letterario -, e i giovani autori anni NovanA
ta, tutti under trentacinque all’epoca in cui
T La biografia di Pirandello vista dal marito della nipote e dunque da un testi(tra il ’92 e il ’95) si presentarono sulla scenao
mone a ridosso dei fatti e della figura. Ma il racconto della vita è esemplato
che, per la maggior parte, li lanciò nella sfera
A
sulle biografie più accreditate, da quella di Giudice a quella di Nardelli per fidelle grandi case editrici italiane.
L nire anche al saggio romanzato di Camilleri e ai vari epistolari. Essendo regi«In principio fu Tondelli» perché Tondelli, in
e cineasta, l’attenzione di d’Amico si è puntata soprattutto sull’opera di
un’epoca, gli anni Ottanta e Novanta, in cui
O sta
Pirandello, anche quella teatrale, così involgendo un interesse più accentuato
ogni scrittore sembrava pensare per sé, si autopropose come «nuovo classico», come «moG per il commento e la recensione. Un saggio dunque che spiega Pirandello prima di raccontarlo e che riesce ad offriire ancora elementi di novità.
dello democratico di scrittura», come organizO
zatore culturale appassionato e coraggioso co-
P
Nella foto sopra Ulderico Munzi, autore di Gli aquiloni non volano più
(Sperling & Kupfer) e in basso Pier Vittorio Tondelli, sul quale dal Saggiatore è uscito In principio fu Tondelli di Elisabetta Mondello
Pirandello
la vita
in un saggio
dente: per la prima volta, la televisione e gli altri media (cinema, videocassette…) entrano a
far parte in maniera massiccia dell’universo
letterario, determinando la nascita di un nuovo codice linguistico, in totale rotta di collisione con il precedente creato sui testi dei magici pilastri della letteratura italiana che avevano
operato sino agli Cinquanta, Sessanta, Settanta (Vittorini, Calvino, Moravia, Gadda,
Gruppo ’63…). Il secolo delle riviste si schianta contro l’invasione mediatica tipica della
globalizzazione e scoppia in un pulviscolo di
penne sbigottite: ma dove stiamo andando?
È proprio questa la domanda cui Elisabetta
Mondello cerca di rispondere, analizzando
come la presenza del sistema delle merci e del
sistema di comunicazione televisivo, entrando
a spintoni nella nuova letteratura, crei fra tutti un fenomeno particolarissimo: la connotazione generazionale dei libri, nei quali si fa un
uso così smodato delle firme (in una sorta di sineddoche per cui si cita sempre la marca e mai
la merce) da rendere i romanzi stessi perlopiù
inintelligibili a un pubblico a loro contemporaneo che non rientrasse nella fascia giovanile dei lettori, come a un pubblico di oggi, troppo vecchio o ancora troppo giovane.
Non è solo la televisione, però, a farsi protagonista attiva per la prima volta della letteratura
e a diventare una sorta di punto di riferimento
per i giovani protagonisti dei romanzi dei giovani scrittori degli anni Novanta (e quindi con
forti cenni autobiografici, ricorda Mondello,
con un rischio sempre presente di autoreferenzialità).
Nei romanzi della nuova narrativa c’è infatti
anche la musica, enumerata e raccontata in un
serie infinita di gruppi e di cantanti, colonna
sonora attiva di molti di questi romanzi; ci sono le «librerie stratificate» dei protagonisti, a
denotare i loro gusti e le loro passioni; ci sono,
in misura minore, i videogiochi e le videocassette; e, in misura schiacciante, c’è una fittissima presenza dei cosiddetti nonluoghi (qui
Elisabetta Mondello fa riferimento alla teoria
di Marc Augé), e cioè tutti quei posti tipici della nostra era - aeroporti, supermercati, raccordi autostradali, autogrill - in cui è impossibile
costruirsi un’identità salda e sentirsi a casa (come invece ci si sente davanti alla tv, che per
Silverstone sortisce un effetto simile alla «coperta di Linus», comunicando allo spettatore
una sensazione di protezione quasi da utero
materno).
S C A F F A L E
GRAZIANO LINGUA, L’icona, l’idolo
e la guerra delle immagini, pp. 244, euro
25, Medusa 2006
L’iconografia e il pensiero iconico che vi sta
dietro sono al centro di questo testo di Lingua, docente presso le Accademie di Belle
arti di Torino e Cuneo e con un dottorato in
Ermeneutica. Certo, l’interesse occidentale
verso l’icona ortodossa è sempre più crescente, ma la teoria dell’icona interessa lo
studioso non per il suo aspetto storico-filologico, bensì come caso di studio per un’indagine squisitamente filosofica sulle categorie messe in campo dal cristianesimo orientale per giustificare l’immagine cristiana.
PIERO CARBONE, Il giardino della discordia, pp. 174, euro 18, Coppola 2006
Piero Carbone non è uno storico, è un docente e un narratore e si interessa di arte, ma
da buon racalmutese ha voluto soffermarsi
sulla microstoria del piccolo centro rurale
della Sicilia ottocentesca che si intreccia
con la storia più grande. E precisamente
con la storia dell’inglese Benjamin Ingham,
quando ai primi dell’800 giunse nell’isola
per vendere i panni di lana ai negozianti locali. Trovò una piazza disponibilissima tanto che rimase a Palermo sino alla morte, nel
1861. Da quel momento la sua storia diventa quella dei nipoti Whitaker e quel pezzo di
Sicilia diventa la Sicilia dei Whitaker.
LUIGI GIACOBBE-GIULIO CONTI,
Ex Camera, euro 38, Magika edizioni
2007
Uno storico dell’arte e un fotografo d’arte
hanno unito insieme i propri campi di studio
e i propri interessi per fotolibro, un libro/catalogo di grande suggestività introdotto da
Teresa Pugliatti. E così tra la pittura, arte
maggiore, assieme alla scultura e all’architettura, e la fotografia, tradizionalmente collocata tra le arti minori, la contaminazione,
o meglio il connubio riuscitissimo è provato dalle immagini di questo catalogo che
della immagine fotografica fa un’esperienza d’arte.
ATTILIO BERTOLUCCI, Cartoline illustrate, pp. 92, euro 15, Università degli
Studi di Parma 2006
A cura di Gabriella Palli Baroni, studiosa
delle carte di Bertolucci e con tavole di
William Xerra, questo volume è un singolare baedeker, una via di mezzo tra un regesto
geografico e un documento poetico ricco di
impressioni e di sentimenti. Attilio Bertolucci, poeta della visione, artista della teatralità
visionaria, racconti i dolci luoghi italiani alla maniera di un Virgilio padano che le tavole di Xerra illustrano con la cifra frammentistica di un artista che dall’informale si è
avvicinato alla poesia visiva. I testi sono stati riveduti da Patrizia Bernardi.
FRANCO CONTORBIA (a cura di), Lucia Rodocanachi, pp. 215, euro 14, Società
editrice fiorentina, 2006
C’è stata una giovane donna di origine triestina, Lucia Morpurgo (1901-1978), compagna del pittore Paolo S. Rodocanachi, che
ha tenuto una stretta trama di rapporti epistolari con tanti personaggi della letteratura,
da Montale a Sbarbaro, da Gadda a Vittorini e a Bo. Di questa donna, di questa intellettuale, le lettere conservate nella Biblioteca universitaria di Genova vengono rilette
nei saggi che compongono questo volume.
I contributi sono di Federica Merlanti, Franco Contorbia, Carla Peragallo, Andrea Aveto, Benedetta Vassallo, insieme ad una testimonianza della stessa Rodocanachi.
AA.VV., Tabula rasa, pp. 213, euro 12, Besa 2006
Una rivista di «letteratura invisibile» con testi di narrativa, di dialoghi, di critica, di
poesia e con interviste della casa editrice
leccese che intende aprirsi a tutte le possibilità di scrittura. In questo numero interventi di Euro Carello, Lino Giuliani, Stefano
Antonelli, Mauro Daltin, Giorgio D’Amato,
Francesco Dezio, Massimiliano Zampetta,
Flavia Piccinni, Manila Benedetto, Ettore
Catalano, Luciano Pagano, Francesco Sasso, Elisabetta Liguori, Stefano Donno, Enzo Mansueto, Davide D’Elia, Gioia Perone,
Irene Leo.
CARLO VALERIO BELLIENI-MARCO MALTONI (a cura di), La morte dell’eutanasia, pp. 133, Società editrice fiorentina 2006
Con una prefazione di Felice Achilli e Clementina Isimbaldi e una postfazione di Antonio G. Spagnolo, questo volume raccoglie
i contributi di alcuni medici che, sulla base
della loro esperienza scientifica e umana,
parlano del tema eutanasia. Viviamo in
un’epoca in cui la qualità della vita è spesso intesa come assenza di dolore. Per cui
spesso l’unica via di uscita sembra essere
l’eutanasia. Ma qui, in queste pagine, il giudizio è chiaro: compito del medico è difendere la vita.
I n t e r v i s t e
G
VALENTINA ACAVA MMAKA
ià vincitrice del Pringle
Award per l’eccellenza nel
giornalismo, la sudafricana
Antjie Krog è una delle voci più autorevoli della letteratura sudafricana in lingua afrikaans. In Italia
è da poco uscito Terra del mio sangue, reportage sui lavori della Trc, la Commissione per
la Verità e la Riconciliazione istituita (tra il
1995 e il 1998) in Sudafrica a cinque anni dalla fine dell’apartheid. La Trc, fortemente voluta da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu, nasce con l’obiettivo di mettere a
confronto carnefici e vittime chiedendo ai primi la verità sui crimini commessi e ai secondi
l’autorizzazione al perdono.
Antije Krog, chiamata a guidare un team di
giornalisti e tecnici radiofonici ai quali spetta
il compito di raccogliere i racconti delle vittime e dei carnefici, riesce a dare voce al dolore conservando quel linguaggio poetico che
supera la realtà svelando le verità sommerse a
lungo taciute e inascoltate. Un testo ricco e appassionato che tocca le esili corde della responsabilità umana di fronte alle ingiustizie
perpetrate per decenni ai danni del popolo sudafricano durante il regime di segregazione
razziale che nel 1948 legittimò le barriere razziali. Stilos l’ha intervistata.
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sangue •• ••• • ••••••• • • ••• • ••• • •••• •••••••
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A dire il vero la prima stesura del libro è stata
scritta in afrikaans. Non posso scrivere in inglese. Mio figlio mi ha aiutato a tradurlo e io
l’ho revisionato. Il libro doveva nascere in inglese, l’editore di Random House in Sudafrica, Stephen Johnson, mi aveva chiesto di scrivere un libro sulla Trc purché fosse in inglese.
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Essere un giornalista non ti permette di commentare ciò che osservi e neppure di porti
delle domande sulle tue responsabilità e su
quella di altri afrikaaner. Solo dopo aver svolto il mio compito di coordinatrice dei media
sui rapporti della Trc, il libro mi ha consentito
di pormi delle domande e descrivere le mie
reazioni personali su quanto avevo ascoltato e
visto.
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I n t e r v i s t e
«
L
FILIPPO MARIA BATTAGLIA
S t los
IL LIBRO
ANTJIE KROG
"Terra del mio sangue"
Trad. Marina Rullo
pp. 528, euro 18
Nutrimenti, 2006
Verità e riconciliazione
per una commissione
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ANTJIE KROG . La fine dell’apartheid conseguita dopo
un redde rationem che impegnò l’intero paese messo di
fronte allo specchio delle sue colpe e dei suoi rancori.
Una giornalista dà conto di una palingenesi collettiva
Il Sudafrica
di vittime
e carnefici
È spesso molto difficile stabilire quanto il rimorso fosse reale o solo un’apparenza. Ciò
però mi porta anche a dire che la memoria è influenzata da una serie di fattori. Se ci si addentra nella letteratura sull’Olocausto ad esempio,
è facile rendersi conto di come il trauma influenzi la memoria in modi molto diversi. Da
afrikaaner ho potuto capire l’azione degli
afrkiaaner che, durante l’apartheid, hanno agito in un certo modo convinti di difendere i valori occidentali del proprio popolo. Ho anche
scoperto quanto sia stato difficile per loro confessare pubblicamente le azioni che avevano
commesso. Per me la richiesta dell’amnistia è
stato un gesto importante che io rispetto totalmente. Chiedere perdono esprimendo rimorso,
anche se non realmente sentito, è molto meglio
per me di coloro che hanno completamente
ignorato la Commissione, deridendola e rifiutandosi di chiedere l’amnistia.
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L’ingiustizia dell’apartheid, così come si è rivelata durante la Trc lo ha reso non solo possibile ma un imperativo.
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Credo che ciascuno sia innanzitutto un essere
umano. È da questa vita che l’essere scrittore
trae nutrimento.
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Non credo che la Trc abbia evitato una guerra
civile - un simile problema può sempre nascere. Quando i sudafricani decisero di negoziare una costituzione, noi abbiamo scelto la via
della negoziazione. Penso abbia creato un canale privilegiato per reprimere una certa propaganda negative dandoci l’opportunità di
cambiare in ciò che siamo ora.
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Questa è una domanda che ha una forte implicazione politica. Tutto quello che posso dire è
che l’elevato tasso di violenza del paese non
mi sorprende più di tanto, proprio per via del
nostro passato. Quella sudafricana è una società mutilata che sta combattendo con se stessa. Ma se riusciremo a forgiare una moralità
unitaria in questo tempo di transizione, e se saremo in grado di cambiare la vita dei poveri,
il futuro del Sudafrica sarà grande.
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In un certo senso è così. Anche se il valore catartico di un racconto d’altri ha un effetto limitato per se stessi. Tuttavia quando il libro suscita in chi lo legge emozioni e favorisce dei
cambiamenti, penso a quanto sia valso il mio
lavoro.
PAUL BERMAN. L’islamismo e la crisi della sinistra occidentale
I liberal figli del Sessantotto
a sinistra dei giorni nostri può restare fedele allo splendore della sua chiarimenti, sia in Europa che negli Stati Unianima ottocentesca, ai suoi antichi voti di so- ti. Ma la mia preoccupazione risiede nel fatto
lidarietà sociale e alla venerazione della clas- che molte persone che militano a sinistra si apse operaia, e allo stesso tempo fare qualche al- procciano al terrorismo islamico come ad un
tro passo deciso verso l’adeguamento alla vi- fenomeno in qualche modo razionale o ragiota moderna?».
nevole. Per fortuna ci sono anche molti altri
La domanda è di Paul Berman, uno dei più sti- che non la pensano così. E questo confronto,
mati intellettuali liberal newyorkesi, firma che che nasce dalla diversità di opinioni, è presenil lettore italiano conosce per alcuni suoi inter- te in tutti i paesi occidentali. Mi verrebbe da diventi pubblicati sul "Corriere della Sera".
re che non c’è una sola sinistra, ma forse due
Ma la citazione è anche
o tre che coesistono insiel’incipit del suo nuovo lime.
bro intitolato Idealisti e
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PAUL BERMAN
potere, che porta un sotto• ••• ••• ••••• •• • ••••• ••••
"Idealisti e potere"
titolo significativo: "La si• ••• •gauche •• •• • •• ••• •
Trad. Lorenzo Lilli
nistra europea e l’eredità
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pp. 329, euro 18,50
del Sessantotto".
Baldini Castoldi D., 2007 • ••••••• •• • •• •• • • ••• •• ••
Non è la prima volta che
• ••••• • •• • • peace-keaBerman affronta simili arping •• peace-enforcegomenti. Già in Terrrore e
ment•
liberalismo (2004) e in Sessantotto (2006), A differenza della sinistra inglese e francese,
aveva puntato l’indice sui cambiamenti della quella italiana ha certamente un handicap stogauche europea e sul suo rapporto con il nuo- rico. Negli anni passati, in Italia, il comunismo
vo ordine mondiale dopo gli attentati dell’11 era infatti molto più forte che in quei paesi e la
settembre. La posizione dell’intellettuale ame- sinistra anti-totalitaria era numericamente più
ricano è netta: gli ideali della rivoluzione studentesca di quarant’anni fa hanno incoraggiato un nuovo pensiero liberale ed antitotaliRICHARD B. ONIANS
tario, scevro di estremismi ideologici e rivolu"Le origini del pensiero europeo"
zionari, che ha portato alcuni esponenti di siTrad. Paolo Zaninoni
nistra a sostenere l’intervento della Nato nei
pp. 648, euro 18
Balcani, polemizzando poi sulle ragioni ed i
C
Adelphi, 2006
torti della guerra in Iraq. Stilos ha intervistato
l’autore.
A
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T •••• • • • ••• •• •••• •• •• ••• • •• • •••• • • • •• • • • •••• •• ••••• •••• •••• ••• • •• •••• • •• •••••• •• •
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A
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Credo che all’interno di quei partiti non ci sia
L • •••• •••• • • •••• ••• ••• •• • ••• ••••••• •• •• ••••••• • ••••• •••• •• • •••• ••• ••• •• •••••• • •
nessun chiarimento sul terrorismo islamico.
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Noti che io uso la definizione di «islamico» e
O •••••••
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non quella di «fondamentalismo islamico»
perché credo che questo movimento sia innanG • • ••• ••• ••• •••••• •• •• •• ••• • • ••• • ••••• •• ••• •••• ••••••••• • ••••• •••• •••• ••• ••••• •• • ••
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zitutto politico. Da qualche tempo a questa
O
parte, comunque, si stanno portando avanti dei
Alle radici
del nostro
essere
pagina
Nella foto sopra Antjie Krog, autrice per Nutrimenti di
Terra del mio sangue. In basso Paul Berman che da Baldini
ha pubblicato Idealisti e potere
modesta. Anche se non va dimenticato che
quest’ultima aveva una tradizione antica ed illustre che prendeva le mosse, prima ancora
che dal socialismo liberale di Carlo Rosselli,
dalla figura e dall’opera di Enrico Malatesta.
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In Italia la crisi del governo e della maggioranza riflette la confusione su questi temi a sinistra. Ma ciò non è certamente un problema
esclusivo del vostro Paese o della sola sinistra.
Mi pare che anche a destra esistano difficoltà
di questo tipo.
• •• ••• •Terrore e liberalismo ••••••••• •• • ••• •
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L’islamismo integrale ed il baathismo hanno
senza dubbio una relazione col fascismo europeo del passato. L’interrogativo principale che
ci dobbiamo porre quindi è: questo fatto aiuta
la lotta al terrorismo? Io credo di sì. Se l’integralismo islamico ed il baathismo infatti devono qualche cosa alle tradizioni fasciste dell’Europa, noi occidentali non dobbiamo guardare a quei movimenti come se fossero totalmente estranei ed incomprensibili o come se
venissero da un altro pianeta. Al contrario,
vanno valutati come conseguenza di fattori
reali ed in qualche modo vicini a noi. La conseguenza è che possiamo lottare contro di loro. In altre parole: abbiamo bisogno di utilizzare argomenti e ragionamenti forti e decisi,
dimostrando la falsità e la scelleratezza delle
idee fasciste, anche se queste si presentano sotto vestiti musulmani.
17
Morgue
saggistica
straniera
SERGIO PENT
I GIALLISTI CHE SI VOLTANO
Non è facile ma risulta sempre più lecito e
doveroso affrontare il tema dell’impegno
sociale del noir. Il noir non gioca a far letteratura: racconta, spiega, rivela, in una
parola riassume tutte le possibili tematiche
dell’umana quotidianità. Il noir si esprime
quasi sempre - almeno in anni recenti - attraverso una simbolica raffigurazione del
reale, calandosi in contesti di attualità - anche solo spicciola - dove comunque non
mancano i riferimenti alla cronaca, al contesto sociale, alla politica. Se sia compito di
questo ormai nutrito esercito di narratori
esplicare o meno le problematiche della
contemporaneità, è il dubbio amletico che
ci assale quando scorriamo certe pagine
«impegnate» a concretizzare le geografie
della trama in maniera credibile e talora
critica. Il noir gioca largo sulle partiture
della cronaca, la strumentalizza spesso a fini logistici e narrativi, ma se ne allontana
quando gli eventi della trama incalzano e
prendono il sopravvento e la spinta all’effetto speciale surrealizza o isterizza anche
le buone intenzioni.
Nella sua essenziale Storia sociale del giallo (Todaro), Carlo Oliva delinea un percorso ideale attraverso il genere, dimostrando
come molti scrittori siano riusciti ad assumersi la responsabilità di raccontare il proprio tempo pur non accantonando il plot e
la tensione, anche perché leggere un noir
noioso può rivelarsi un’esperienza inutile
quanto letale. I giallisti di casa nostra si sono premurati - in poco più di un decennio
- soprattutto di acquartierarsi ciascuno in
un suo territorio privato da cui lanciare
segnali di fumo riconoscibili, memori delle fortune di una certa Vigata, oasi felice di
sempiterni successi. Il raffronto tra noir e
cronaca, noir e contesto sociale o noir e politica è quindi spesso limitato a un contorno scenico di circostanza, e qui bisognerebbe distinguere tra mestieranti aggrappati alla speranza di una tele-trasposizione e
narratori maiuscoli che sanno mettersi in
gioco anche all’interno del genere, anche
rischiando un travaso letterario, in funzione di una più elevata scelta di natura socioantropologica. Chi ama il noir ama anche
gli scrittori puri e sinceri, non omologabili, che sanno adattarsi al ruolo di osservatori privilegiati e scommettere sul presente, ricreando in ogni romanzo il proprio
ruolo di testimoni. Il Romanzo criminale di
De Cataldo assume, in questo, una funzione di utile spartiacque nel delineare le ambizioni cui può spingersi il genere, quasi
una simbolica missione di storicizzazione
della cronaca in funzione meta-letteraria,
con qualche sana velleità cinematografica
o televisiva, ma ad alto livello.
Gaetano Savatteri è uno dei tanti autori
d’ambito siciliano penalizzati dal trionfo
di Camilleri. Il suo terzo romanzo, Gli
uomini che non si voltano, edito come i
precedenti da Sellerio, ha incontrato fortune circostanziate, pur presentandosi nella
veste di un libro nero sulla politica di casa
nostra. Non c’è azione incalzante, nei testi
di Savatteri, ma solo una serpeggiante inquietudine che semina indizi e lascia i lettori stupefatti a raccogliere le briciole dei
fallimenti. La nostra realtà è opaca, sporca, inutile nasconderlo, e raccontarla è
quasi un dovere. Savatteri ci prova con un
romanzo davvero bello e intelligente, in
cui, attraverso le vicende incrociate di tre
vecchi compagni di scuola, sono prese in
esame molte variabili della nostra società,
quasi tutte negative. Il poliziotto Placido
Polizzi, inquisito e sospettato di collusioni con la mafia a causa di un’ambigua intercettazione telefonica; il giornalista rampante Silvestre Majorca, opportunista di
primo piano; l’onorevole Aurelio Tripodo,
imbelle e smarrito erede del potere politico paterno, rappresentano lo snodo di vicende attuali e mai troppo verificate, quali gli agganci tra politica e malaffare, sempre al centro nella cronaca delle ipotesi. La
vicenda contorta e complessa, che dal presunto suicidio di Aurelio conduce a un finale scopertamente critico e dolente, quasi in odore di Sciascia, è di quelle che giustificano l’appartenenza del romanzo al
genere noir, ma sanno elevarlo a rango di
stimolo sociale, di analisi epocale, proprio come fu di Sciascia con le sue incursioni nelle ferite aperte del suo tempo.
Che è poi ancora - forse più che mai - il nostro tempo. E questi scossoni di natura
analitica possono offrirli i bravi giallisti, o
i romanzieri senza etichette come Savatteri, che nei delitti senza rimorso di certa
classe politica ha trovato la strada per scrivere un romanzo meritevole di attenzioni
condivise e più nobili fortune.
S t los
figure
di ieri
pagina
18
Nella foto Philip K. Dick, del quale Fanucci ha pubblicato Trilogia di Valis
Occidente
VENTICINQUE ANNI DOPO DICK
Segni di squilibrio mentale diventati germi di un delirio
filosofico e letterario che produsse almeno altri cinque
romanzi. E una Trilogia che è un diapason
Le ultime
lucide
insensatezze
N
R e c e n s i o n i
on mancano occasioni per
parlare ancora di Philip
Dick. La ristampa della famosa biografia romanzesca di Emmanuel Carrère
(Io sono vivo e voi siete
morti, Hobby&Work) e la
proposta di Fanucci, nel venticinquennale della morte, di un romanzo giovanile inedito - Il
paradiso maoista - assieme a una colossale ristampa celebrativa di 24 volumi dickiani hanno forse occultato l’ingresso nel catalogo Fanucci della Trilogia di Valis, culmine estremo
della narrativa dello scrittore, trittico di romanzi oggi tanto rivalutato da essere messo alla pari con i vertici di visione e profezia degli anni
Sessanta - quei romanzi che gli hanno dato un
enorme prestigio, che deborda oltre ogni steccato fra generi.
A partire dal febbraio 1974 accaddero diversi
strani eventi a Philip K. Dick. Lo scrittore
americano, noto per le sue storie in bilico tra
realtà e allucinazione, piene di umor nero e di
caustiche anticipazioni di un inferno futuribile, si era appena fatto togliere un dente del giudizio ed era ancora sotto anestesia.
Stordito dal Pentothal, sentiva ugualmente dolori lancinanti, così telefonò alla farmacia più
vicina a casa per farsi portare qualcosa da
mandare giù nella speranza di star meglio.
Quando andò ad aprire la porta alla commessa della farmacia (una splendida ragazza dai
capelli neri lisci, proprio come molte delle
sue eroine) notò che portava al collo un ciondolo a forma di pesce stilizzato: «È quello
che i primi cristiani usavano come simbolo per
significare il nome stesso di Gesù Cristo» rispose la ragazza a una domanda di Dick, e se
ne andò.
Quello era soltanto l’inizio di un cammino che
avrebbe coinvolto lo scrittore per tutti gli otto
anni che gli restavano da vivere. Certo, Dick
era un animale strano e la lucidità non era il
suo forte. Nel corso di una vita breve e sconclusionata e non troppo felice, aveva quasi
eletto la paranoia a strumento di conoscenza.
Negli anni immediatamente precedenti a quell’incontro aveva ingurgitato quintali di psicofarmaci per tener dietro ai ritmi della sua scrittura, si era sposato due o tre volte, era diventato un guru psichedelico della Bay Area (pur intrattenendo con l’lsd un’intimità molto più erratica di quanto amava far credere), aveva subito un attentato incendiario per cui nella lista
dei sospetti aveva inserito anche il proprio
stesso nome; ma inoltre era riuscito a scrivere
i suoi romanzi più visionari: Le tre stimmate di
Palmer Eldritch, Un oscuro scrutare, la fantastoria parallela de L’uomo nell’alto castello e
quello che per molti rimane il suo capolavoro,
Ubik.
A partire da quel febbraio del 1974 nella mente obliqua di Dick molte cose che si erano più
o meno sorrette l’una con l’altra si confusero,
e molte fra quelle cose confuse si incastrarono
fra loro in un puzzle metafisico. L’incontro con
la ragazza fece saltare il tappo che copriva le
sue reminiscenze. Dick ci vide una perfetta
anamnesi platonica. Ebbe allucinazioni visive
e acustiche di devastante intensità, sogni ricor-
Parabola
C nera sulla
A famiglia
T
A
L
O
G
O
FABIO PEDONE
VIVE TRA ROMA E LATINA DOVE LAVORA IN UN QUOTIDIANO LOCALE. SI OCCUPA DI LETTERATURA DEL NOVECENTO
renti, straordinarie precognizioni.
Cominciò a pensare in greco antico, lingua che
non conosceva, e si ricordò di una frase più
volte udita in sogno («L’Impero non ha mai
avuto fine»); poi iniziò a sentire dentro di sé la
presenza di un ospite soprannaturale, che
chiamò Thomas e che secondo lui era un cristiano dell’età delle persecuzioni; ogni tanto,
guidando per le strade assolate della California, aveva dei lampi in cui vedeva attorno a sé
la Roma imperiale del primo secolo dopo Cristo.
Non che questi fossero segni di equilibrio
mentale, Dick lo sapeva: e non potendo venirne a capo con la ragione (a meno di non autodecretarsi privo di ragione), li fece diventare i
germi di un delirio filosofico e letterario che
produsse almeno altri cinque romanzi - senza
contare un interminabile diario manoscritto in
cui cercava di spiegare a se stesso le ragioni di
questa sua esperienza, denominato appunto
Un’Esegesi.
Il tutto somigliava terribilmente ad una mania
mistica ai limiti della schizofrenia e può darsi
che lo fosse. Comunque Dick affinò sempre di
più il suo interesse per le origini del cristianesimo antico e per i sistemi di pensiero gnostici. In scritti e trattati distrutti come eretici dalla Chiesa dopo la svolta costantiniana, i maestri gnostici insegnavano che a salvare non sono la grazia o le opere, ma una conoscenza segreta («gnosis» appunto), comunicata da Gesù in persona ai suoi apostoli. In storie mitologiche dalle immagini fortemente liriche predicavano la falsità delle parvenze illusorie che
un dio degradato ha tessuto per creare questo
mondo; proclamavano l’uomo un dormiente
in preda a falsi sogni, uno straniero in questo
mondo e un perpetuo viandante in cerca della
conoscenza.
Dick, nelle ottomila pagine della sua Esegesi,
attribuiva le sue visioni alla propria follia, o alla sorella gemella morta in fasce, o perché no
alla Cia, ai Russi e agli alieni. Ma cominciò anche a chiedersi se tutto ciò che gli accadeva
non fosse un tentativo divino di mettersi in
contatto con lui. Pur se con notevole scetticismo riguardo alla serietà delle proprie teorizzazioni, si spinse a ipotizzare quella che tecnicamente si definirebbe una «teofania»: l’irruzione di Dio nella realtà. Arrivò a sospettare
che la divinità fosse un sistema ultraterreno di
controllo, una formula o un programma a cui
diede il nome di Valis (acronimo di «Vast Active Living Intelligence System»). Poi trasfuse le sue meditazioni nelle pagine di questa trilogia di romanzi pubblicati all’inizio degli anni Ottanta: Valis, Divina Invasione e La trasmigrazione di Timothy Archer. Sono le ultime
opere edite vivente l’autore (che sarebbe morto il 2 marzo dell’82, a 53 anni).
Il primo libro è il più autobiografico dei tre: in
una reduplicazione schizoide di se stesso, lo
scrittore affastella le sue teorie trascrivendo interi passi dall’Esegesi. Il commento è una forma di esilio, getta una distanza tra sé e il suo
JULIE PARSONS
"Oltre la soglia"
Trad. Sara Caraffini
pp. 334, euro 16,60
Longanesi, 2007
Dall’autrice de L’ultima vendetta e Un piano perfetto, un thriller psicologico ambientato in una dimora irlandese, una parabola nera sugli affetti familiari. La Parsons, che è sociologa e produttrice televisiva, costruisce il suo thriller attorno a Lydia Beauchamp, un’anziana fragile e solitaria che vive a Trawban House, un’antica casa un tempo piena di gente. Dopo la morte misteriosa di Alexander, il marito
di Lydia, Grace, la figlia, da più di vent’anni ha perso ogni contatto con la madre.
Ma tutto cambia quando arriva il giovane Adam che conquista la fiducia di Lydia
e riporta a casa Grace.
VANNI RONSISVALLE
IL QUINTO CAVALIERE
IL LIBRO
PHILIP K. DICK
"Trilogia di Valis"
Trad. Delio Zinoni,
Vittorio Curtoni
pp. 845, euro 45
Fanucci, 2006
Tra speculazione
e ragioni mistiche
Trilogia di Valis riunisce gli ultimi tre
romanzi di Dick: Valis (dell’81), Divina invasione (’81) e La trasmigrazione
di Timothy Archer, uscito postumo
nell’82. Sono i romanzi meno legati al
suo gusto per la science fiction e risentono del suo aggravato stato psichico,
allucinato dalle sostanze stupefacenti e
pesantemente influenzato dalle acquisizioni maturate in tema religioso perlopiù spinte a tradursi in ossessive crisi mistiche. La Trilogia è votata a uno
stadio di riflessione di speculazioni
gravido di riferimenti gnostici e rivolto a interpretare il pensiero cristiano
ed ebraico.
oggetto, un’esperienza del tutto personale e
ineffabile. Questi diretti prelievi testuali fanno
di Valis un curioso e sbilenco romanzo saggistico, i cui deliri cosmogonici sono bilanciati
dalla modalità ironica in cui il Dick autore e
protagonista si sdoppia nel proprio alter ego
Horselover Fat, smontandone i vaneggiamenti. In essi le ossessioni tipiche dello scrittore,
quella del controllo e dell’identità, si combinano con quella del tempo, che lo domina sempre di più, e questo cocktail micidiale esplode
e si personalizza nei termini di una teoparanoia: ciò che riduttivamente chiamiamo realtà
è una finzione orchestrata da un demiurgo
malvagio, una Prigione di Ferro Nera in cui la
mente inconscia dei prigionieri, irretita da false apparenze, è scossa da messaggi provenienti dall’altrove.
Nel terzo libro, dietro lo sguardo scettico di
una protagonista femminile, Dick elabora dubbi e incertezze intorno alla figura del vescovo
James Pike, della chiesa presbiteriana, che
negli anni Sessanta gli aveva fatto conoscere i
vangeli gnostici. Nel personaggio del vescovo
Archer, capriccioso e opportunista, sempre
pronto a riempirsi la bocca di trascendenza per
dribblare le piccole sfide della realtà quotidiana, Dick riflette e critica se stesso, e le proprie
tentazioni ricorrenti.
Ma Divina invasione, il secondo romanzo, è il
più sconvolgente almeno nelle intenzioni: il
protagonista è addirittura Dio stesso, incarnatosi di nuovo in un bambino (guarda caso
chiamato Emmanuel) per salvare l’universo
dalla minaccia demoniaca di Belial. In un’affascinante allegoria gnostica i cui termini precisi, radicati nella storia personale dello scrittore, a volte sfuggono, Dick tematizza l’unione di Emmanuel con un misterioso principio
femminile, Zina (che potrebbe essere qualco-
Ibrido
tra noir
e pulp
sa come la Sophia degli gnostici). Follie di uno
scrittorucolo di fantascienza, paranoie di un
cervello in panne, oppure oscuri messaggi da
decifrare? Forse tutto questo insieme, sorretto
da una parola greca carica di storia: «mania».
Il Tao, Zoroastro, il Libro egiziano dei morti,
Empedocle, l’ermetismo, i maggiori sistemi di
pensiero della storia entrano da interlocutori di
primo piano in questa ricerca, in cui patenti assurdità si intrecciano a intuizioni folgoranti.
«Non stava solo fabbricando teorie per il gusto
di fabbricarle; stava cercando di capire cosa
cazzo gli fosse successo».
La tentazione di leggere tutta la vicenda come
un prendere corpo di ossessioni da Dick ampiamente previste nei suoi precedenti romanzi è forte: l’Altissimo in versione Valis è un po’
come Ubik, lo spray che ferma la decadenza,
e la realtà è una forma di esilio in cui i messaggi divini vengono fuori da scritte nel bagni
pubblici e bigliettini nei biscotti della fortuna.
Quanto a noi, più passano gli anni e più, da
metafora oscura e privata, il delirio di Valis sta
diventando esperienza condivisa: basti pensare al contagio inarrestabile dell’apparenza e
del simulacro nel nostro presente. Il Dio nascosto si è forse servito di un oscuro e disordinato scrittore di science fiction.
Sarà vero che Philip Dick, come ha scritto
Lawrence Sutin, «non solo è stato un visionario creatore di speculative fiction, bensì anche
un illuminante e originale pensatore» che si è
cimentato con le questioni scientifiche e filosofiche più disparate? Lui era il primo ad essere consapevole che le sue esperienze parlavano la lingua della mistica ma anche della psicopatologia. È vero che un grano d’insania
non può che far bene alla letteratura, soprattutto se commercia con il numinoso, ma di fronte alla Trilogia considerata nel suo insieme il
problema non è più capire se Dick fosse pazzo, e quanto, oppure no. Allora Divina invasione può essere letto come un estremo invito a
coltivare le nostre ossessioni, nella convinzione che la realtà non è quella che si vede. E il Timothy Archer rappresenta un sussulto di scetticismo, nell’ipotesi che tutte le voci ultraterrene ascoltate da Dick avessero un’unica origine: se stesso.
Di questa edizione italiana bisogna però notare un particolare per nulla mistico, anzi decisamente materialistico: i 45 euro del cofanetto
Fanucci sono più del doppio dei 20 che fino a
pochissimo tempo fa si potevano spendere
per le stesse traduzioni pubblicate nella piccola biblioteca Oscar Mondadori.
Classificati come fantascienza in mancanza di
una miglior definizione di genere, i romanzi
della Trilogia rendono chiaro che Dick è uno
dei profeti del nostro tempo non solo perché ha
saputo come nessuno mettere a nudo la verità
del presente trattandolo con i colori allucinati
del futuro, ma perché ha avuto il coraggio di
approfondire i misteri dell’«altra parte» ad
ogni costo, confrontandosi con l’ipotesi che
tanto la realtà quanto il divino possano essere
proiezioni mentali; i confini tra psiche e cosmo, tra diversi livelli temporali, tra vita e
scrittura, si sciolgono: è una delle possibilità
della mente umana, che contempla, tra angoscia e ironico distacco, l’eventualità della follia. Profetizzando la sparizione del mondo
reale.
EDWARD BUNKER
"Stark"
Trad. Cristiana Mennella
pp. 176, euro 13
Einaudi, 2007
Romanzo breve di Bunker, scrittore americano scomparso due anni fa, considerato autore dalla vita «maledetta» perché vissuta sempre sul fronte della violazione,
tra riformatorio e carcere, droga e avventura. Il titolo risale ai primi anni Settanta
ed è stato scoperto dalla moglie dopo la sua morte, nel 2005. È ambientato in una
località balneare della California del Sud, ed è un ibrido tra noir e pulp. Il personaggio che dà il titolo al libro è un tossico e un truffatore che pensa solo all’eroina
per riempirsi le vene e ai quattrini per riempirsi le tasche. E semina cadaveri nella
giungla di criminali in cui si trova a vivere.
«Che musica metterebbe sotto tutto questo?» mi chiese Edmundo Barthelemy venendo via dai funerali di un amico che si era
suicidato. «Musica di oggi» precisò il misconosciuto scrittore anglobrasiliano. «Nessuna». Dicendo di oggi sapevo che intendeva tutto quanto era stato composto dopo gli
anni Dieci: Schomberg, Poulenc, Satie,
Britten… C’era qualcuno che si era ispirato alla morte di un suicida, uno scrittore suicida? Per un poeta si suona Mozart che va
bene sempre; oppure si ripiega sul Mahler
ma dove il soggetto del compianto è un
bambino. Ciò che va bene per i bambini va
bene per i poeti. I preti «moderni» fanno
suonare le chitarre in chiesa; ma sono disturbanti come le croste «figurative» con
cui si decorano le nuove parrocchie; eppure non vi è nulla di più spirituale al giorno
d’oggi di Klee. L’informale di De Kooning
non va bene per rappresentare Dio? Edmundo B. assunse un’aria pensosa.
«Tra dieci giorni sono venti anni che Primo
Levi si è tolto la vita… Ho in progetto una
esaustiva enciclopedia del suicidio. Noi viviamo in un tempo spaventosamente felice.
Poche stagioni dell’uomo lo sono state altrettanto; andando à rebour da Un giorno
ideale per i pesci banana di Salinger al
bizzarro edonismo di Egesia Persuasore di
morte. Un piacere off life. Lo sa che nel
1965 lo stato di New York si costituì in giudizio contro un certo John Brown suicida,
imputato di felonia da se?» «Questa fissazione del proibire alla gente di smetterla con
la vita è attualissima.» «Gli altri sono arruolati tra i morti; il suicida è un volontario, suscita ammirazione. Se è un artista, un poeta muore giovane è un eroe. La mia enciclopedia vorrebbe assortire soltanto scrittori. A
come Autodistruzione: da Fitzgerald a Malcom Lowry. Vedere il mondo infondo ad
una bottiglia non ne migliora l’aspetto ma
aiuta ad allontanarsene in punta di piedi.
Demoni ed arcangeli. Otto Weininger, sesso e carattere, le buone ragioni di un uomo
per scegliere la morte a ventitré anni. Intorno alle cose supreme.»
Ora traversavamo una Roma becera, di paparazzi ricattatori e di anoressiche idiote.
«Alcuni» insinuai un concetto riflessivo
«sono determinati, pianificano la loro scomparsa. Il "gesto inconsulto" è del banchiere
colto con le mani nel sacco; l’altro è invece
frutto di organizzazione, come sporgere il
capo dal ciglio di una trincea chiamando a
gran voce la dolce pallottola che ti trapasserà il cervello: Renato Serra ed il suicidio
ragionevole. Invece Pasolini, lo so perché lo
disse, sapeva che prima o poi sarebbe stato
ucciso in un incontro prezzolato. Come lui
lo pensano alcuni quale rischio attraente. Lo
stesso che per Lowry: vedere il mondo nel
fondo della bottiglia aiuta ad allontanarsene. «Cesare Pavese?» «L’impossibilità di
apprendere il mestiere di vivere». Edmundo B., che ha per se stesso nel vestire uno
sviluppato senso estetico, trascinava i piedi
nudi dentro sformate scarpe da tennis in
contrasto con uno scialletto arancione sulle
magre spalle che ci faceva notare dai passanti. «Impossibilità appartiene alla voce I
come Inibizione: per esempio. il Jack London di Vagabondo delle stelle che ha appena sciupato la valvola dell’avventura "come
fine". Eppure da uno spiraglio intravedo
grandi spazi felici, vasti come praterie, verdi praterie dove verranno a pascersi i cuccioli degli anni Venti che hanno appena cominciato a ruggire. Da est ad ovest, tanti:
Esenin, Majakowski, Hart Crane. Hemingway e il toro che piega le ginocchia col
midollo reciso. Sa, lo spacciava come immagine di vita che trionfa, come il pescespada che trionfa del vecchio pescatore. In
Campo indiano trapela l’intolleranza al dolore umano, un’avvisaglia lucida come la
canna del fucile da caccia con cui si spara
nella neve fuori dal suo cottage di montagna».
«A proposito di Primo Levi» riprese. «Ho
individuato un ponte incongruente tra lui e
Walter Benjamin che si uccide in fuga dai
tedeschi nel ’41, presago dei campi di sterminio di cui ancora nessuno parlava. Levi,
ebreo anche lui e che in quei campi vi era finito ma ne era uscito vivo, si uccide tanti anni dopo. Inesplicabile». «Non inesplicabile.
Il figlio di un grande borghese di Lubecca,
Klaus figlio di Thomas Mann ebreo a metà,
memore delle colpe che il padre aveva evocato nei Buddenbrock ne fa la spaventosa
ragione delle atrocità commesse dal suo
popolo. Scrive La Svolta come un esercizio
mentale liberatorio. Non funziona e Klaus si
uccide». «Il rovescio della medaglia di Se
questo è un uomo?» «Se vuole. Quelli dell’Apocalisse erano più di quattro».
figure
di ieri
S t los
pagina
19
VENTICINQUE ANNI DOPO DICK
Non si colloca deliberatamente nella sf. Anzi, vuole scrivere
romanzi mainstream, ma scopre che fuori dagli steccati
fantascientifici si trovano restrizioni alla libertà di un autore
Il mondo
come
un enigma
B i o g r a f i e
n visionario fra i ciarlatani.
Così Philip K. Dick era definito oltre venti anni fa da
un altro grande fuoriclasse
della fantascienza, Stanislaw Lem. La valutazione
appariva sulle pagine di
"Microworlds", un libro di saggi dove il polacco si scagliava a più riprese contro la fantascienza americana, praticata, a suo dire, da
ciarlatani, appunto. Cioè scrittori incapaci di
costruire ipotesi ancorate alle fondamenta dello scibile e animati da un infantilismo pernicioso e sterile. A inventivarli, editori privi di
scrupoli che non esitano ad apporre sulle copertine multicolori dei tascabili richiami ormai
triti, del tipo: «Il più grande romanzo di fantascienza mai pubblicato». Ciarlatani, insomma.
Laddove Dick si distingue dall’inizio per un
approccio del tutto personale al genere narrativo futuribile e tecnologico. La sua foga di
esplorare l’ignoto che attende appena fuori
dalle fragili certezze della normalità è tale da
sospingerlo verso la prosa senza alcuna opera
di elisione ed elusione. Se per molti la scrittura viene dopo un accanimento autocensorio
che lascia fuori dal testo ogni superfluo, fino
alla liofilizzazione della trama e dello stile, per
Dick esiste l’urgenza opposta, di riversare tutto e subito nei racconti e nei romanzi.
Così, all’inizio, lui non si colloca deliberatamente nell’ambito fantascientifico. Anzi, vuole scrivere romanzi mainstream, termine che
fra gli appassionati designa la narrativa non di
genere. Salvo scoprire che proprio fuori dagli
steccati fantascientifici si trovano restrizioni
alla libertà di un autore. Lo dimostra Confessioni di uno scrittore di merda, il cui protagonista, un mentecatto, raccoglie materiali sugli
Ufo, Atlantide e simili. Peraltro, si chiama J. F.
Sebastian, e tornerà, probabilmente solo di
nome, in un ruolo secondario di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, il romanzo da
cui deriva Blade Runner. Dick non scrive con
intenti terapeutici, bensì per dare fondo alla
propria visionarietà. Il mondo costituisce per
lui l’enigma dell’inconoscibile. La nostra percezione, o meglio, l’«appercezione», la coscienza dell’io, esiste davvero o risulta da manipolazioni della psiche decise dai poteri occulti. L’America nella quale matura come uomo e come scrittore è percorsa dagli spettri
della Guerra Fredda. L’Fbi spia gli artisti considerati vicini alla sinistra, dunque potenziali
membri di una quinta colonna nel caso della
temuta invasione rossa. Oppure il pericolo incombe dallo spazio profondo. Gli alieni giungeranno a bordo di dischi volanti o razzi interplanetari per prendere possesso delle menti e
dei corpi di inconsapevoli americani medi.
È esemplare Cronache del dopobomba. «Be’,
ho sbagliato la profezia» afferma Dick nella
postfazione. Ma non ha certo mancato di catturare ed esprimere i suoni, i colori e le dissociazioni di una società allo sbando di per sé, in
cui l’apocalisse è permanente. Per rappresentarla, con una tecnica che gli è peculiare, Dick
insegue di continuo il punto di vista di tutti i
suoi personaggi. Così il dottor Bluthgeld, che
oscuramente è responsabile delle ricerche nu-
U
Sulle
C tracce dei
A Romanov
T
A
L
O
G
O
L’ A U T O R E
Pessimismo e visionarietà
con molta allucinazione
Passato attraverso vicende personali
tumultuose, fra cui un matrimonio
dietro l’altro in una serie ininterrotta
di divorzi e nuove donne, Dick nasce
nel ’28 a Chicago e muore nel 1982 al
culmine di una vita sregolata e segnata dalla droga. Partito con una vocazione per la narrativa tradizionale, ha
successo solo con i racconti di science
fiction e poi con i romanzi, il genere in
cui si impegna esclusivamente abbandonando la forma del racconto breve:
fino all’ultima grande prova, la Trilogia di Valis con cui immagina di dare
la sua concezione mistica dell’uomo
dopo la crisi religiosa cho lo ha colto a
metà degli anni Settanta. Di animo
pessimista e di spirito visionario, Dick
- pur dedicandosi alla fantascienza ha sempre cercato nei suoi romanzi di
trovare la natura dell’uomo nella domanda sulla sua sostanza, su ciò di cui
è fatto. Di qui i robot e il suo atteggiamento di paura nei confronti del futuro.
cleari culminate nella guerra tra cinesi e americani, osserva le rovine di una civiltà di cui si
sente il distruttore proprio nel giorno in cui
aveva deciso di andare in terapia dallo psichiatra Stockstill. A suggerirglielo era stata Bonny
Keller, collega scienziata e, per contro, ninfomane, capace di restare incinta proprio in quelle stesse fatidiche ore in cui cadono le bombe.
Partorirà la mutante Edie, che nel grembo reca a sua volta un fratellino, Bill, mai nato e nel
contempo vivo come puro spirito.
Sembra improbabile che questa umanità dai
tratti di un’incarnazione collettiva della teoria
del caos possa essere osservata all’inizio del
romanzo dal povero Stuart McConchie, commesso negro di un negozio di vendita e riparazioni di apparecchi televisivi. Il quale non ha
imparato nulla dalla discriminazione di cui è
oggetto, perché guarda con scoperto razzismo
un focomelico, Hoppy Harrington, che compensa l’handicap con una mente geniale da inventore. Su tutti troneggia dallo spazio Walter
Dangerfield, che doveva essere il primo uomo
a raggiungere Marte, invece rimane bloccato
per sempre in orbita attorno alla Terra e, dopo
la catastrofe, trasmette nastri musicali e informazioni utili, con un piglio che ricorda Lone
Wolf, il disk-jockey di American Graffiti.
Sparsi in campo questi concentrati di angoscia
che sono sempre i protagonisti di Dick, a lui
non rimane che seguirli passo passo in un minimalismo dell’incubo postnucleare che anticipa - il romanzo è del ’64 - quella di The Day
After. In altre parole, qui non c’è il percorso
quasi obbligatorio di ogni tipica storia del dopobomba: lo sforzo per la ricostruzione. Impossibile in un mondo già di per sé frammentato, dissociato. Le nevrosi di questi americani della zona di San Francisco prima dell’Emergenza non fanno che trapassare nel dopo.
STEVE BERRY
"La profezia dei Romanov"
Trad. Beatrice Verri
pp. 391, euro 18,60
Nord, 2007
Avvocato con la passione della storia e della scrittura, Berry propone stavolta un
giallo che dalla fine dei Romanov a Ekaterinburg nel 1917 arriva fino a i nostri
giorni. Nei tempi attuali, dopo la caduta del comunismo, il popolo russo decide di
ripristinare la monarchia scegliendo tra i lontani discendenti di Nicola II. E Miles
Lord, un avvocato di Atlanta, conoscitore della cultura russa, viene mandato a
Mosca proprio per sostenere uno di questi pretendenti, tale Stefan Bakhanov. Tuttavia non immagina che la vicenda potrebbe cambiare il destino della Russia. Sul
fondo di eventi storici si innesta un romanzo di fantasia costruito con la ragione.
ENZO VERRENGIA
VIVE A PESCARA. INSEGNA SCRITTURA
CREATIVA ED È TRADUTTORE. "IL COMPLOTTARIO" (AVAGLIANO, 2006)
L’inquietudine e i complessi di colpa di Bluthgeld l’avevano già messo alla mercé della psicanalisi senza il bisogno di dover poi sfuggire
all’ira dei superstiti che lo ritengono colpevole degli orrori presenti. Cronache del dopobomba è la testimonianza di una resa alla ragione del modello di sviluppo occidentale.
Che produce un mutante non da radiazioni
bensì da deviazioni, quello che i King Crimson
avevano ben definito nel mitico brano
"Twenty First Century Schizoid Man", uomo
schizoide del XXI secolo.
In I simulacri confluiscono alcuni temi ricorrenti nella narrativa di Dick: il rapporto spesso indecifrabile tra realtà e finzione, la vita artificiale, un mondo nuovo dalle infinite incognite sociali e antropologiche. Nel futuro de I
simulacri, ambientato nella prima metà del
XXI secolo, gli Stati Uniti si sono fusi con la
Germania Occidentale in un’unica federazione. Predomina la tecnologia e il denaro tedesco, che insieme consentono la realizzazione
degli automi che dànno il titolo al romanzo. I
simulacri riproducono la vita umana in maniera tanto perfetta da non lasciar trapelare agli
occhi della gente che uno di essi è diventato
presidente, Rudolf Kalbfleisch. Ma artificiale,
seppure in modo diverso, è anche la first lady,
Nicole Thibodeaux. Si tratta di un’attrice, Kate Rupert, assoldata per interpretare quel ruolo. Dietro questa pantomima c’è un governo
occulto, che controlla tutto, compreso il tempo, grazie alla macchina di von Lessinger. Solo una fascia di funzionari ad alto livello sono
al corrente di tutto ciò, il resto dell’umanità è
fatta di meri esecutori di ordini. Un’altra versione del Mondo nuovo di Huxley, con la suddivisione in Alfa e Beta.
Inutile però cercare una trama dal cumularsi di
questi dati. Dick si limita e scorrere capitolo
dopo capitolo attraverso la vita privata di vari
personaggi, coinvolti senza saperlo nelle macchinazioni che fanno capo ai simulacri. Non
gli interessa snocciolare un meccanismo narrativo ad orologeria, quanto proporre a raffica
ipotesi su un futuro angosciante, che ha il sapore di una parabola. Più che un domani coerente in ogni sua parte, lo scrittore vuole offrire la sua visione del presente, deformato dalle
sue idee e dalle sue ossessioni. Lo precisa Vittorio Curtoni, a sua volta grande nome della
fantascienza italiana, che dell’autore americano è anche traduttore: «Avere scelto di scrivere di fantascienza significava per Dick la possibilità di creare metafore saldamente ancorate nella realtà, non la fuga dalla palpabile quotidianità della vita».
Lungo questo asse speculativo e filosofico,
prima ancora che letterario, si incontra il racconto più emblematico del corpus dickiano.
Prevenire è meglio che punire? Certo. A patto
di cogliere nel giusto. Ma anche così, vanno
perdute le dinamiche non sempre riducibili a
monte del delitto, in poche parole il movente.
Non che questo importi, se la società ne beneficia in sicurezza diffusa.
Ritratto
di Maria
Antonietta
Ecco il meccanismo elementare di regolamentazione nello scorcio futuro descritto da
Philip K. Dick in Rapporto di minoranza. All’indomani dell’11 Settembre, sembrerebbe
quasi auspicabile l’ipotesi della novella, che, al
contrario, nell’immaginario non ancora turbato dalla distruzione delle Twin Towers, appariva claustrofobica, oppressiva, paranoide. Invece queste erano le intenzioni di Dick, nel denunciare i rischi di una democrazia iperprotettiva di se stessa, che adotta procedure di controllo così estreme da invadere perfino lo spazio dell’interiorità, materializzando gli incubi
di Orwell in 1984.
John Allison Anderton è un commissario di
polizia, ideatore del sistema Precrimine. Questo si basa sulle visioni di tre sensitivi, capaci
di intuire anzitempo i propositi omicidi dei cittadini. A quel punto scatta l’arresto preventivo,
cui segue la reclusione in un apposito campo
di concentramento. Sennonché, un giorno,
sulle schede emesse al quartier generale del
corpo Precrimine, Anderton legge il suo stesso nome. Gli si imputa di voler uccidere Leopold Kaplan. Da segugio in preda, la metamorfosi è più rapida di quanto non possa credere l’attonito protagonista.
A Dick interessa poco lo svolgimento della
caccia. Gli preme piuttosto sciorinare le implicazioni morali di un sistema che vorrebbe garantirsi da ogni rischio distruggendo il libero
arbitrio. La vicenda di Anderton, infatti, si dipana alla superficie di un complotto militare
non dissimile da quello che in Sette giorni a
maggio vorrebbe instaurare una tirannia marziale negli Stati Uniti.
È dunque inutile pretendere che tutto torni
come nel più classico degli schemi da suspense. Non che vi siano smagliature in Rapporto
di minoranza, tuttavia Dick calca la mano sulla frantumazione degli schemi sui quali Anderton fondava la sua esistenza di ligio funzionario dell’ordine pubblico. La moglie Lisa potrebbe avere intenzione di lasciarlo per il più
giovane ed aitante Witver; emissario del Senato, che punta ad assumere la dirigenza della
Precrimine. Lo stesso Kaplan, che guida una
congrega di ex militari dal piglio e dai metodi
di agenti della Cia. L’unica speranza sarebbe
l’emigrazione su un altro pianeta. Rapporto di
minoranza riesce addirittura a dimostrare che
la matematica può essere un opinione, se non
nei risultati, nelle implicazioni. A partire dalle
previsioni dei tre sensitivi, la polizia ha infatti la possibilità del confronto. Si possono creare delle discrepanze nell’anticipazione di un
crimine. Proprio ciò che si nasconde dietro la
vicenda personale di Anderton. Uno dei tre
sensitivi lo decreta innocente. Ed ecco lo scioglimento logico della trama: la previsione del
delitto, scoperta dal candidato colpevole, può
avviare una catena di eventi che vanificano l’azione progettata. Perché il tempo non scorre
univoco quale ci appare, ma scorre su infiniti
possibili sentieri. Lo si scoprirà nel libro più
noto di Dick, La svastica sul sole. Qui la Germania e il Giappone hanno vinto la Seconda
guerra mondiale, creando un presente alternativo. Solo che uno dei protagonisti, lo scrittore Hawthorne Abendsen, firma un romanzo
nel quale si sostiene sia accaduto il contrario.
Due o infiniti piani di realtà s’incrociano nella vicenda, e nell’intera narrativa di Dick.
CAROLLY ERICKSON
"Il diario segreto di Maria Antonietta"
Trad. Joan Peregalli e Claudia Pierrottet
pp. 338, euro 18,50
Mondadori, 2006
Attraverso la forma diretta e coinvolgente del diario, Carolly Erickson, docente di
Storia medioevale alla Columbia University e storiografa, ricostruisce l’avventura
umana e sentimentale di Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI e regina di Francia, giustiziata nella prigione della Concergierie a Parigi. Prima di essere condotta
al patibolo la regina austriaca lasciò nella sua cella il diario in cui raccolse gli innumerevoli eventi della sua vita. Che la Erickson ha liberamente rivisitato tenendo
pure conto della biografia che ha già dedicato alla sfortunata regina, cosicché la vita di Maria Antonietta ci appare questa volta sotto le forme del romanzo.
S C A F F A L E
JOHANNES HÖSLE, E adesso?, trad.
Antonello Bronda e Carla Gronda, pp.
190, euro 13, Meridiano Zero 2006
Il ragazzino di Prima di tutti i secoli è cresciuto e ora in questo romanzo è diventato
un giovane che vuole credere nel futuro.
Joannes ha dieci anni quando scoppia la
Seconda guerra mondiale e vive ad
Erolzheim, in Alta Svevia, una enclave cattolica e antihitleriana. Quando Joannes approda all’università, riceve a Tubinga, nonostante le ristrettezze economiche dei tempi,
forti stimoli. Conosce e cresce grazie a
Schopenhauer e si innamora delle lingue romanze dopo un memorabile viaggio in bicicletta in Francia.
KIDS & REVOLUTION, Louis Bode,
pp. 191, euro 14, Hacca 2007
Due servitori appartengono ad un mercante
sassone. Ciascuno di loro possiede una forte capacità. Louis crede negli astri mentre
Bode è fiducioso nella potenza degli uomini. Si liberano del loro crudele padrone e dopo averlo derubato distribuiscono le ricchezze ai poveri. Insieme sono una forza ma
da soli non valgono a nulla. Sposano due sorelle e chiameranno tutti i loro figli Louis e
Bode creando una stirpe ampia e gloriosa.
Ogni alba sarà luminosa e piena di speranza.
ZELDA ZETA, Voice center, pp. 219, euro 14, Cairo 2007
La Voice Center è un enorme palazzo che
con le sue migliaia di finestrelle fumé ricorda stipate cellette di api. Racchiude tutte le
voci delle moderne tecnologie, grovigli di
microfoni, cuffie e monitor. Il tutto è controllato da un cerbero bellissimo. Proprio in
tutto questo vociferare si intrecciano i curricula di undici persone col proprio fardello:
una sfilata di vite che hanno in comune lo
smarrimento e l’incertezza. Zeta Zelda ha
una personalità poliedrica: scrittrice e giornalista, nel tempo libero ama scomparire
con il primo aereo.
AYN RAND, La rivolta di Atlante, trad.
Laura Grimaldi, pp. 378, euro 18,60,
Corbaccio, 2007.
È l’America nel periodo in cui vengono
scoraggiate le singole imprese. Tre uomini
mettono in atto lo sciopero dei cervelli le cui
avventure s’intrecciano con quelle di Dagny
Taggart, il quale riesce a trovare l’isola dove si nascondono i produttori delle ricchezze delle quali non vogliono essere derubati
negando la colpa del disastro. I personaggi
si dividono in due schiere: da una parte coloro che vogliono migliorare le loro condizioni e dall’altra coloro che seguono le proprie emozioni. Ma si affaccia la razionalità
che valuta i valori degli uomini. L’autrice
scrive questo libro proprio sulla libertà, la
capacità e la creatività dell’uomo che crede
in se stesso.
ADRIAN NICOLE LE BLANC, Una famiglia a caso, trad. Cristiana Mennella,
pp. 485, euro 16, Alet 2007
Un romanzo che ci informa della vita pericolosa di un gruppo di giovani del Bronx.
L’autrice, osservandoli per lunghi anni, sta
al fianco di giudici, assistenti sociali e secondini per seguire il caso del famoso cantante, spacciarore, Boy George e la sua fidanzata. Vuole capire il punto di vista dell’altro che si presenta ad un processo con
una camicia stampata con grossi dollari;
sembra una sfida per il giudice... mentre invece il ragazzo crede di portare il suo capo
migliore. Questo libro propone i tanti volti
della droga e più che un reportage testimonia la convivenza quotidiana con quella tentazione che sorregge anche dalla fatica.
SASHA SOKOLOV, La scuola degli
sciocchi, trad. Margherita Crepax, pp.
219, euro 14, Salani 2007
Un ragazzo dialoga con se stesso parlando
di tutto. Non è normale e frequenta una
scuola differenziale: «la scuola degli sciocchi». Il suo racconto è il dialogo con l’altro
se stesso che riesce a controllare le emozioni. Per lui la normalità è sopprimere la natura, impoverire e sfiorire. Nella anormalità si
libera dalle convenzioni costrittive, mischia
passato e futuro, reale ed immaginario annullando anche la morte. L’autore è un cittadino del mondo, usa una ligua fresca ed è
appassionato della natura.
J. M. G. LE CLEZIO, L’Africano, pp. 99,
euro 10, Instar 2007
Il piccolo protagonista ha otto anni. Lascia
Nizza assieme alla madre ed al fratello e va
in Nigeria per conoscere il padre medico
mai visto. Scrutando quel paesaggio affascinante e sconosciuto, con i suoi meravigliosi fenomeni, favorisce la sua passione per la
scrittura. Descrive minuziosamente il padre
che vuole recuperare il tempo perduto lontano dalla famiglia e Clezio ripercorre tutta
la sua vita per amare quell’uomo misterioso e lontano. Lo aiutano delle foto mostrate dallo stesso padre.
20
C o n v e r s a z i o n i
ammifero italiano, pubblicato da Adelphi a cura di
Marco Belpoliti, raccoglie
una serie di corsivi giornalistici firmati da Giorgio
Manganelli tra il 1972 e il
1989. Il «mammifero italiano» è accerchiato dalla incandescente intelligenza di Manganelli. E viene da chiedersi se
non sia proprio tutta e solo purissima intelligenza, la materia di questi scritti. I temi - da
«aborto» a «domenica», da «famiglia» a «tasse», da «Tortora» a «vacanze» - definiscono
un curioso (e divertente, perfino quando è
tragico) abbecedario dell’italianità. Imprevedibile è il procedimento con cui Manganelli si
trasforma - come scrive Belpoliti - «in un sociologo della vita quotidiana, moralista e fustigatore dei costumi italiani secondo la più cinica e pungente vena alla Swift». Perché poi c’è da chiedersi - funziona fino in fondo la categoria del cinismo? Da questo paesaggio italianissimo popolato di mamme e zii, animato
da "Carosello", profumato di torrone, bagnato di acquasanta, lo scrittore milanese prende
davvero e fino in fondo le distanze?
Un esempio. «Non ho alcun motivo per amare, venerare, rispettare la famiglia italiana»,
scrive nel 1980. L’anno dopo: «Non dispongo
di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non
ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere a sangue per motivi di minestra, e
bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici». Gioca, certo, e si diverte a maneggiare sarcasmo. Ma sottilmente, quasi impercettibilmente si avverte in queste pagine la tortuosa, omeopatica malinconia di chi aggredisce le cose anche per proteggerle. O, almeno,
per provare a capirle sul serio. Non butta all’aria niente, Manganelli. Sta lì a scrutare, a
cambiare continuamente prospettiva, a girare
intorno al suo oggetto. Non c’è mai l’alzata di
spalle, il me-ne-frego. Sembra che tutto debba, per necessità, stargli a cuore (è come una
permeabilità estrema, del corpo, a quel «tutto»). Perfino ciò che non gli piace e non può
piacergli.
Che italiano è Manganelli? Un anti-italiano? No. Mi pare un’etichetta troppo facile,
quando non patetica. Da quale territorio
dello spirito viene fuori, allora, uno come
Manganelli?
Manganelli aveva un cuore conservatore, segretamente sentimentale, e una mente rivoluzionaria impaziente del vecchio e pronta alle
scommesse col nuovo. Nella vita di ogni giorno era - almeno a mio avviso - un laico, liberale nel miglior senso della parola, e un letterato, grazie al proficuo contrasto dovuto alla
sua natura così ricca e composita. Un animale - come ebbe a dire lui stesso di Dickens «dall’ambiguo pelame, tra giaguaro e gatto
domestico». Assestava unghiate micidiali facendo le fusa. I suoi corsivi sono un capolavoro di dolce crudeltà. Sono - torno ancora a citare le sue parole su Dickens - deliziosi e irritanti. Dirò allora di lui servendomi di lui:
«Quanto è difficile maneggiare questo cordiale, unghiuto, un po’ pingue, o forse pletorico
animale letterario». Già, perché c’è anche
questo: Manganelli è riuscito a specchiarsi nel
suo lessico, nelle sue frasi facendo della sua
inimitabile scrittura una sorta di autoritratto.
Chi lo ha conosciuto lo rivede nelle sue frasi,
lo sente parlare, riconosce il suono di quella
sua gola dove si fondevano «rugghi, rantoli,
stronfi e anche delicatissime fusa».
E politicamente Manganelli, secondo lei,
come si colloca?
Non sa darsi pace nelle idee di sinistra, destra
o centro. Sfugge anche alle precettistiche dei
teorici dell’avanguardia. È un anarchico. Meglio: un uomo libero, un uomo rispettoso delle leggi e insieme anarchicamente libero perché armato di parole. E le sue parole possono
essere dinamite. Fortunatamente non l’hanno
capito, o non del tutto, i suoi censori, a qualunque schieramento essi appartengano. Manganelli avrebbe fatto la delizia d’un inquisitore, ma è sfuggito alle inquisizioni e adesso
parla ancora un linguaggio straordinario, lontanissimo dai pregiudizi del suo tempo. Il meglio di sé lo dà quando, abbandonando i grandi spaccati sociali, parla direttamente degli uomini, siano essi grandi personaggi o semplici
vicini di casa.
E di questo «vicino di casa» che idea ha, in
sostanza?
Un’idea risalente alla borghesia lombarda, a
quel mondo schiumato con la Scapigliatura,
che tanta parte aveva nel Dna del Manga. In
M
La nascita
dei nuovi
C fascisti
A
T
A
L
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G
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S t los
recensioni
orali
pagina
Nella foto sopra Giorgio Manganelli.
Sotto Antonio Debenedetti
L’ I N T E R V I S T A
IL LIBRO
Viaggio letterario
nel nostro tempo
GIORGIO MANGANELLI
"Mammifero italiano"
a cura di Marco Belpoliti
pp. 130, euro 10
Adelphi, 2007
Queste conversazioni con Antonio Debenedetti sono l’ideale prosecuzione
di un volume firmato a quattro mani
con Paolo Di Paolo, due anni fa: Un
piccolo grande Novecento (Manni). Si
parlava degli incontri di una vita: lo
scrittore Debenedetti, figlio d’arte, nel
mondo della letteratura, tra Caproni
e Ungaretti, Montale e Saba. Riprende il discorso su libri freschi di stampa
firmati da autori di un passato prossimo che aiutano a vedere e capire l’oggi. Da Manganelli a Capote, da Soldati a Cassola.
Il libro dell’indice
dei costumi italiani
Caustico e a volte impietoso, il Manganelli che si pronuncia sulla stampa degli anni Settanta e Ottanta tradisce la
spinta a volerla dire tutta: sulla famiglia, sull’Italia, persino sul più amato
degli italiani del tempo: Pertini. I suoi
corsivi hanno il tono disincantato, sornione e implacabile di chi castigat ridendo mores. I costumi italiani, nei
suoi valori più espressi, vengono passati al vaglio di uno sguardo acuto e
profondo, che può posarsi con uguale
gravame lisergico su temi quali la patria, le tasse, l’aborto, su istituzioni come Carosello e su scandali qual è il caso Tortora. Uno dei più letterati e
quindi escapisti critici italiani lo ritroviamo qui nel laticlavio di un censore
amabile e divertente, ironico e distaccato, un impolitico smaliziato che della
politica sa cogliere il retro prima del
verso.
Antonio Debenedetti è nato a Torino
nel 1937. Ha esordito nel 1972 con i
tre racconti di Monsieur Kitsch. Con
la prefazione di Alberto Moravia, nel
1976 è uscito In assenza del signor
Plot. I successivi romanzi, La fine di
un addio (1985) e Se la vita non è vita
(1991) precedono le raccolte di racconti, da Spavaldi e strambi ad Amarsi
male (1998) a E fu settembre (2005).
Del 1994 è Giacomino (1994), il libro
di ricordi sul padre Giacomo. Un giovedì, dopo le cinque è del 2000 (finalista Premio Strega, vincitore Premio
Pavese) ed è di imminente uscita nella
Bur Rizzoli.
I LIBRI DI ANTONIO DEBENEDETTI
«Il “mammifero italiano” è forse divenuto pura archeologia ma Manga arriva a dire cose che
riguardano strettamente anche l’uomo di oggi. Il suo malessere è estremamente attuale. Credo
che il tempo accresca la statura di questo esemplare abbastanza irripetibile delle nostre lettere»
MANGANELLI
Saggezza e iracondia
quel senso il «mammifero italiano» è forse divenuto pura archeologia, però Manganelli per quelle vie misteriose che solo un artista vero sa percorrere - arriva a dire cose che riguardano strettamente l’uomo di oggi. Il suo malessere è estremamente attuale. Tutto sommato, Manganelli è una delle voci più nitide che
ci giungono dall’ultimo Novecento italiano.
Credo che il tempo aumenti la statura di questo esemplare abbastanza irripetibile delle nostre lettere. Il suo parente più stretto (sono
però accostamenti ingiudiziosi) è in qualche
modo Alberto Savinio. Anche Manganelli,
dietro le pirotecnie del suo linguaggio propone fermissime analisi, scelte precise, visioni
del mondo severe e induttili. In lui c’è la spa-
PAOLO DI PAOLO
VIVE A ROMA. HA PUBBLICATO: "NUOVI CIELI, NUOVE CARTE", "UN PICCOLO
GRANDE NOVECENTO", "HO SOGNATO
UNA STAZIONE", "COME UN’ISOLA"
valda iracondia dell’adolescente e la saggezza desolata dell’anziano. Manca fortunatamente l’ingenerosa astuzia dell’uomo di mezza età, preoccupato di vincere l’oggi a qualunque costo. È insomma uno dei maestri della
generazione venuta dopo quella dei grandi
maestri. Dopo, cioè, i Gadda, i Moravia, i
Montale.
Quando uscirono, nell’89, gli Improvvisi per
macchina da scrivere, altra raccolta di corsivi, lei andò a intervistare Manganelli. Che
cosa le è rimasto nella memoria, di quella
conversazione?
Ricordo che mi accolse parlando di vini. Poi,
venendo al suo libro, mi spiegò che «i corsivi
non si possono scrivere a tappe, non si possono correggere, vengono bene in mezz’ora o
vanno rifatti». E ho stampata nella mente questa sua espressione: «Il mondo è ridicolmente terribile». Non so dirle se siano tutti attuali
o meno, presi singolarmente, questi corsivi
manganelliani. So però che quella ridicola
terribilità - così come lui è venuto descrivendola - è ancora attualissima. La vera letteratura, la buona letteratura resiste al tempo, anche
SECONDA LETTURA
L’arte di canzonare: pure se stesso. Ovvero mentire con la letteratura
SIMONE GAMBACORTA
Chi è abituato a pensare Manganelli soprattutto come uno scrittore angosciato ed evanescente dovrà ricredersi almeno un po’ leggendo
Mammifero italiano, una bella raccolta di corsivi pubblicati sulla
stampa tra gli anni Settanta ed Ottanta. I temi, gli spunti di Manganelli sono i più vari e vanno dall’aborto (con qualche stoccata a Pasolini) ai concorsi pubblici, passando per sequestri, tasse e vilipendio.
Un’ovvia, doverosa precisazione: come tutte le pagine di Manganelli, anche queste sono delle inarrivabili lezioni di scrittura e di uso della lingua, senza tracce di narcisismi calligrafici. Sgombrato il campo
dall’inciso, va messo in luce un punto: nella maggior parte di questi
corsivi Manganelli si rivela un artista della presa in giro (a cominciare da se stesso), cosa che, tutto sommato, potrebbe essere considerata un’ulteriore filiazione della «letteratura come menzogna».
Il Manga spruzza le parole con la cipria dell’ironia, l’argomento serio non si risolve nella seriosità e il discorso è irrorato dalle turbolenze anarchiche di una voce più larga e suadente, che può permettersi
tutto, per esempio quei mille rivoli di acume tanto perfetti ed esemplari da mischiare lo zucchero e il sale senza che ne nasca una smorfia di troppo.
GIUSEPPE PARLATO
"Fascisti senza Mussolini"
pp. 438, euro 25
Il Mulino, 2006
Il titolo richiama quello di Mario Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini.
Anche qui Parlato, docente di Storia contemporanea alla «San Pio
V» di Roma, analizza le origini del neofascismo in Italia, dal 1943 al
1948; ma, a differenza di Tedeschi, si propone di ricostruire le vicende del neofascismo a partire dal fascismo clandestino al Sud, quando
Mussolini era ancora capo della Repubblica sociale italiana. Quando
il 26 dicembre 1946 nasce a Roma, il Movimento sociale italiano è il
risultato di contatti e relazioni da prima della fine della guerra che
avevano coinvolto anche ambienti legati ai servizi segreti americani.
Lettere
tra poeta
e editore
La voluttà del non servire a nulla, il gusto inesauribile del canzonare il «ruolo» dello scrittore, sembrano spingere Manganelli ad ostentare un tipo d’intervento che devia verso una tangente sorniona e urticante, dove il riso s’insinua e serpeggia come un solletico invisibile.
Nulla è ridanciano o smaccato, benché il virtuosismo della presa in
giro sia poi destinato a soccombere sotto la più veritiera matrice manganelliana, che è l’infero travaglio del vivente. Quando si ride, si ride per non piangere: troppo difficile affrancarsi dalla «natura discenditiva» dell’uomo (Hilarotragoedia) e dalle conseguenze che comporta.
Sì, a conti fatti, grattata la prima vernice del libro, si torna a sentire
un rumore: non tanto (e non solo) quello «sottile della prosa», quanto quello silenziato e lacero dell’umanità implosa di Centuria. Manganelli resta sempre Manganelli, è incapace di rinunciare ai propri imbrogli e alle proprie ossessioni, e conficca il chiodo della presenzaassenza anche nelle planate ironiche, che ci sono e non ci sono, vanno e tornano, in una sorta di corrente alternata; se ne trova un indizio
già nell’incipit di "Dall’inferno", dove una contraddizione di principio che è il principio di tutto il resto: «Secondo ragione, dovrei ritenere d’esser morto», e ri resta con una domanda.
EUGENIO LURAGHI - RAFAEL ALBERTI
"Corrispondenza inedita. 1947-1983"
a cura di Gabriele Morelli
pp. 294, euro 25
Viennepierre, 2006
Il libro riunisce la corrispondenza tra Eugenio Luraghi, presidente
dall’Alfa Romeo negli anni Sessanta e quindi della casa editrice
Mondadori con amici quali Sinisgalli, Sereni, Gatto, Carrieri, Solmi
ed altri, e Rafael Alberti, l’intellettuale spagnolo, uno dei maggiori
rappresentanti della Generazione del ’27. Si tratta di 277 lettere inedite che vanno dal 1947 al 1983 e accompagnano il poeta dall’ultimo
periodo dell’esilio argentino fin dopo il ritorno in Spagna. Poiché Luraghi, primo traduttore di Alberti, aveva favorito il soggiorno del
poeta in Italia, figurano molti dei protagonisti del tempo.
Difficile
creare
una ditta
quando nasce da occasioni apparentemente
minori. D’altronde, la più bella delle interviste da me fatte a Manganelli riguarda i vespasiani della città di Roma. L’assenza di luoghi
dove soddisfare le impellenze della vescica,
gli stimoli dell’intestino, gli suggerì un pirotecnico carosello di invenzioni atrabiliari e deliziosamente provocatorie. In fondo, era la
gestione politica della città a venire scorticata parlando semplicemente, ma con dovizia di
informazioni, dei cessi pubblici.
Ricorda qualcosa della prima occasione in
cui incontrò Manganelli?
Conobbi Manganelli in una trattoria non molto lontana dai luoghi dove don Ciccio Ingravallo, ubiquo ai casi, entra nella letteratura italiana nel memorabile primo capitolo del Pasticciaccio gaddiano. E questo mi fa pensare
che il Manga avesse affinità più con i personaggi gaddiani che con Gadda. Durante quel
nostro primo incontro, mi stupì con la sua
competenza sugli amari. A fine pasto, il cameriere gli portò un carrello carico di nere bottiglie e lui si dilettò a decantare le virtù di ciascuno di quei distillati. Nei momenti di maggiore ispirazione, i baffi gli tremavano leggermente sopra le labbra e la sua voce tendeva a
confondersi con un indistinto suono gutturale.
Animalesco e ghiotto.
Manganelli sembra in perenne lotta con sé
stesso e con la realtà intorno. Nel momento in cui si rifiuta o rifiuta qualcosa fuori un’idea, un oggetto, un’atmosfera -, però,
si ha l’impressione come di un confuso, innocente pentimento.
È così. Manganelli non accetta la propria immagine vista nello specchio, non si piace. Litiga con sé stesso e con i propri amori. Questo
fa di lui un artista e un ipocondriaco. Un artista che produce lave verbali incandescenti e
un uomo che si nasconde nella propria ombra.
Tutto questo porta Manganelli a tenere sepolta quella che era una sua vocazione, continuamente latente in questi affascinanti e dispettosi corsivi: la vocazione alla didattica. Qualcuno potrebbe incautamente considerare moralistici taluni a fondo di queste pagine. Macché.
Sono sempre e solo le tirate d’un autentico docente. Insomma, Manganelli è un piccoloborghese in fuga, per ragioni culturali prima
che di gusto, dalla piccola borghesia. Ecco
perché litiga, non senza suscitarsi atroci sensi di colpa, con i propri immaginari vicini di
casa. Li crocifigge, ma dentro di lui qualcosa
piange. Come nel bambino che trafigge la libellula con uno spillo.
LUIGI FURINI
"Volevo solo vendere la pizza"
Pref. Marco Travaglio
pp. 193, euro 14
Garzanti, 2007
Un giornalista decide di diventare imprenditore e a tale scopo segue
tutte le regole che le procedure legali richiedono. Parla con commercialisti ed avvocati. Si documenta sulle prevenzioni e i soccorsi per gli
incendi e segue le prescrizioni dell’Asl in tutti i suoi regolamenti igienici. Tra carte da bollo e pagamenti, finalmente apre la sua pizzeria
d’asporto. Ma s’imbatte nei cosiddetti «lavoratori» e sindacati mentre è in discussione la riforma della legge Biagi. È un libro su economia e lavoro che coglie una piccola impresa sfortunata che vuole solo
vendere la pizza.
S t los
schede
libri
SAMI MICHAEL, Victoria, trad.
Antonio Di Gesù, pp. 362, euro 17,
Giuntina 2007
È una donna, Victoria, il personaggio
principale del romanzo, saga di una
famiglia ebraica che copre quasi un
secolo. E tuttavia nella prima parte il
vero protagonista è un luogo, un cortile in una casa di Baghdad in cui abitano le famiglie di tre fratelli. Quasi un
romanzo corale, ricco di figure, di colori, di odori, di voci che bisogna imparare a distinguere, cercando di capire e di ricordare chi è figlio di chi. Victoria e Myriam, cugine quasi gemelle
perché si bisbiglia che abbiano lo stesso padre, saranno legate tutta la vita da
un forte affetto, condividendo pure
l’amore per l’affascinante Rafael, il
migliore dei cugini, un seduttore nato
che seminerà in giro figli e figlie tutti
somiglianti a lui. Forse persino la
Morte è innamorata di Rafael, perché lo lascia tornare a casa dal Libano
dove è stato ricoverato per tubercolosi in un sanatorio, dalla moglie Victoria. Victoria, che alla fine chiude gli
occhi al marito ultranovantenne ed è
gelosa delle infermiere che maneggiano il suo corpo, diventa la figura dominante perché è lei che ricorda, che
si guarda indietro nei momenti di disperazione in cui, incinta di un terzo
figlio e con il marito svanito nel nulla
in Libano, è tentata di suicidarsi nel
Tigri. Victoria dal nome trionfante
che, in un’epoca in cui non tocca alle
donne lavorare per mantenere la famiglia, si piega ad arrotolare cartine di
sigarette per nutrire i figli. Victoria che
riesce a mandare altro denaro al marito perché possa continuare la cura,
che- anni dopo- tollererà che Rafael
abbia un’amante, per non perderlo.
Victoria che si adatterà meglio alla
vita in Israele, testimone dello scoloramento di Rafael. (Marilia Piccone)
FABIO OMAR EL ARINY
Un kamikaze involontario e mancato tra amore e terrore negli Usa dell’11 Settembre
E’
un legame d’amore, un patto,
un’alleanza, da stringere con
i legacci della complicità del
sentire, quel che unisce le due identità
di Fabio Omar El Ariny, scrittore italo-egiziano che esordisce con Il legame, un thriller, per così dire, fantapolitico. È Fabio, ed è nato a Milano, ma
è anche Omar ed è cresciuto in Egitto:
la sua appartenenza all’una e all’altra
cultura è solida e inestricabile. «Legame» perfettamente in sintonia col titolo del suo romanzo che, tuttavia, rimanda ad una complicità ben più sinistra di quella che congiunge persone e
culture. Per il suo primo libro, Fabio
Omar ha dispiegato, pur rimanendo
nel campo della contingenza e delle
probabilità, l’altra faccia delle cose,
quella mostruosa e innominabile del
potere, un potere immenso e tutelare,
sino ad esigere, come le antiche divinità, anche sacrifici umani.
L’idea di collegare l’11 Settembre,
una delle date più tragiche della storia
moderna, al disastro aereo avvenuto
all’aeroporto di Milano Linate poche
settimane dopo quel terribile evento,
impone all’autore di ipotizzare, narrativamente parlando, una serie di complotti manovrati dalla Cia e dallo Stato più potente del mondo per affermare o riconfermare il suo protagonismo
sulla scena globale. Dietro la guerra
dei mondi, simboleggiata nell’America crocifissa l’11 Settembre di sei anni fa, ci sarebbe, nell’invenzione di El
Ariny, l’America stessa, decisa a rifarsi una verginità come res publica eroica e giusta (il Bene contro l’Asse del
Male), anche al duro costo di compiere un immane attentato contro se stessa e sacrificare un «certo» numero di
vite umane per il «bene della nazione», prioritario rispetto a qualsiasi altro interesse concepito a esso inferiore.
Una materia difficile e terribile quella
scelta da El Ariny per il suo thriller,
intessuto di colpi di scena, segnato da
una cupa antropologia e da una desolata riflessione sui moventi umani.
L’ipotesi che lo Stato della democrazia, della libertà, del melting pot, la sola ipotesi (formulata realmente nella
ridda di voci dopo l’11 Settembre)
Italo Calvino
tra balena bianca
e ars combinatoria
Q
De Gasperi, un modello di statista
GIULIO ANDREOTTI
"De Gasperi"
pp. 165, euro 10
Sellerio, 2006
ANTONELLO DE SANCTIS
Celentano testimone di una vita privata
Si potrebbe anche definirlo un libro
banale, questo di Antonello De Sanctis, più noto come autore di testi per
canzoni, perché in fondo racconta la
sua storia di uomo normalissimo che a
un certo punto scopre una vocazione e
la persegue con successo: tra sbornie
amori incontri amicizie cantanti musicisti spettacoli festival e frequentazioni ininterrotte di case discografiche
dagli anni sessanta ad oggi, con lo
scopo dichiarato di fare in modo che i
suoi figli ne sappiano un po’di più sul
loro padre. E invece banale non è, e
per una serie di motivi.
Il primo è nel titolo: Non ho mai scritto per Celentano. Che vuol dire? E
che vuol dire che ad ogni scadere di
decennio raccontato l’autore metta assieme gli eventi più grandi della storia
come a incorniciare la sua storia più
piccola - il terrorismo, la morte di
Moro, le guerre che scoppiano qua e là
per il mondo, l’Unione Sovietica che
comincia a collassare e via dicendo mettendoci dopo i titoli delle canzoni
create da Celentano in quel periodo,
con la triste notazione che lui, ahimè,
non ha mai scritto il testo di nessuna di
esse. Vuol dire che dietro e al di là della sua vita c’era un’altra vita, che forse la sua vita fatta di parole era soltanto quelle parole che si avvitavano su
se stesse e non realizzavano il sogno
ultimo, quello che soddisfa e dà senso
a tutto: e dunque non aver mai composto un testo per Celentano può essere
anche metafora di una insoddisfazione di fondo, di un senso di triste inadeguatezza ad onta dei successi e dei riconoscimenti. Che è anche testimoniato dall’altalenante vicenda complessiva della sua vita, incluso in essa
il privato: solo negli anni Novanta (lui
è nato nel ’43) De Sanctis approda alla logica della «famiglia» e dei figli e
per quasi un decennio abbandona il
suo mestiere di paroliere-poeta imbarcandosi in un’improbabile attività
di educatore carcerario e poi di impiegato al Comune di Roma con mansioni che, pur legate al sociale, come si
dice, non lo soddisfano del tutto.
21
ALMANACCO
GIULIO ANDREOTTI
De Gasperi nelle parole di chi lo ha
conosciuto da vicino. Andreotti ricostruisce gli anni della ricostruzione
sul fondo di uno statista che resta un
esempio per la sua coerenza personale. Andreotti ne parla come se in
Italia vi sia stata una spaccatura tra
un prima e un dopo De Gasperi.
pagina
ANTONELLO
DE SANCTIS
"Non ho mai scritto
per Celentano"
pp. 272, euro 14
No Reply, 2007
Il secondo è che ci sono quelle parole
che si avvitano su se stesse. I testi delle canzoni che hanno accompagnato la
vita di generazioni, dagli anni sessanta alla Laura non c’è di tempi più recenti. Che nascono da musiche pensate da altri e spesso con contenuti non
pensati da chi aveva pensato la musica. E spesso anche mediati con altri
ancora nel tritacarne dell’etichetta, la
casa discografica, quel mondo fatto di
ricerca del successo misurato sulle
vendite e striato di figure umane complicate, spesso sofferenti, a volte tragicamente sofferenti: Luigi Tenco, Mia
Martini, anche altri, come Davide,
«l’amico che non c’è più», schiantatosi con la moto per aver perduto suo figlio. E non sono parole banali. Non lo
sono perché il più delle volte nascono
dalla percezione forte di un fatto - una
figura, uno scorcio, un lampo di dolore o di gioia - proveniente dalla vita
reale. Più spesso di un disagio sociale.
Ma non lo sono anche perché le canzoni, tutte ma più quelle che hanno
colpito l’immaginario o lo hanno comunque popolato, si portano appresso
un privilegio di sincerità, che va oltre
il valore intrinseco di ciascuna di esse
(e qui il valore intrinseco c’è ed è
grande: fatto di inventiva, di aderenza
alle pieghe della vita, di empatia con
le cose dei giovani filtrata dal loro
linguaggio innocente e irriverente,
forse innocente proprio perché irriverente). Ecco perché questo libro che
racconta in levità di stile una storia come tante non è un libro banale. E diventa, nella vicenda di quei testi che
fioriscono dalla storia di un uomo che
vuole rivelarsi meglio ai suoi figli (solo a loro?), una specie di storia esemplare del nostro tempo.
Alfio Siracusano
FABIO OMAR EL ARINY
"Il legame"
pp. 247, euro 15
Besa, 2006
che l’America di George Washington
e di Tocqueville, l’America del presidente Wilson, di Roosevelt, abbia nefastamente assunto la facies della vittima, invasata com’è dall’imperialismo, ebbra di polemos, per provocare
la guerra dei mondi, è inammissibile
persino nelle fantasie più inquietanti.
Esce malconcia l’America, da questo
romanzo che ha come protagonista
«involontario» Adel Kadry, giovane
manager egiziano con un giro di affari negli Stati Uniti e a Milano, al qua-
FRANCESCA SERRA
"Calvino"
pp. 385, euro 20
Salerno, 2006
uesta nuova monografia sul più fortunato tra gli scrittori italiani del secondo Novecento è stata impostata dall’autrice in una maniera apparentemente comoda, ma appunto per questo assai rischiosa: Francesca Serra ha scelto infatti non solo di tacere sulla sterminata bibliografia critica che riguarda Calvino, ma anche di evitare ogni confronto coi suoi contemporanei. Diciamo subito che, nonostante la grossa rimozione (che in una nota la Serra associa, non senza malizia, ad altre rimozioni tipicamente calviniane), l’analisi critica è penetrante, gustosa, utilissima sia come introduzione alla lettura che come approfondimento per gli addetti ai lavori. L’idea centrale, del resto, riguarda proprio un’ansia di semplificazione, d’ordine e quasi d’igiene, che secondo
la convincente tesi dell’autrice accompagnerebbe Calvino lungo tutta la sua parabola: di cui quindi si mette in luce la continuità, anziché le interne cesure - attenuando in particolar modo quella canonica tra la «balena bianca» del realismo,
inseguita appena oltre la fine degli anni Cinquanta, e l’ars combinatoria degli
ultimi due decenni.
Quest’ansia si incarna in molti modi: è nevrosi dello spreco, di quello che la Serra insiste a chiamare il versante «logoro-frusto» delle cose; è anche atavica diffidenza per gli aspetti meno coreografici e più «viscerali» del corpo, della materia. E da qui a individuare questa sirena in un «ventre molle» femminile, opposto alla scabra ragionevolezza del maschio preadolescente, eroico e naturaliter misogino, in Calvino il passo è davvero breve. Acutamente, la Serra lascia
intendere che proprio il sogno costante di mantenere al centro delle trame un
eroe puro, un Pin ancora asessuato e picaresco,
impedisce a Calvino di far lievitare le prove di
romanzo realistico fallite negli anni Cinquanta.
A cavallo tra la militanza comunista e l’isolamento del boom, tra il salvagente collettivo che
giustificò gli esordi di fronte al Super-Io protestante e il successo da battitore libero, il lettore
di Kim, di Stevenson e Zavattini ha avuto davanti a sé la scelta delle scelte: o abbandonare una
minorità prospettica che non consente di raccontare tutte le sfaccettature di quella foglia di carciofo che è la vita, immergendosi così nelle sue
odiate, vischiose interiora; o mollare la presa sul
romanzo realistico, spostando drasticamente il
punto d’osservazione. Dopo una sofferenza decennale, mentre la «bonaccia» tra sinistre e neocapitalismo comincia a prefigurare uno stallo
senza alternative a breve termine, Calvino opta
per questa seconda strada. E qui, dove la Serra
vede una vittoria, noi vediamo invece una rimozione così riuscita da apparir subito sospetta. Di rado, infatti, uno scrittore incapace di raggiungere lo stato di
ricettività attiva, indulgente e severa a un tempo, che è propria del «classico»
- uno scrittore, cioè, incapace di ospitare la materia più appiccicosa senza affogarvi ma anche senza sterilizzarla - può cavarsela evitando di percorrere la mulattiera di un disarmonico manierismo: se non al prezzo di un assordante silenzio, di una visibile amputazione. Calvino infatti, già con Marcovaldo, col primo e col terzo capitolo degli Antenati (Il barone rampante resta insieme al Sentiero l’unico suo vero romanzo, riuscito come quello a metà), grazie a una tale rimozione scrive a suo modo libri perfetti, ma piccoli, davvero dimezzati.
E nella sua fase matura, se si eccettua la grande riuscita delle Città invisibili,
questa rimozione significherà quasi sempre riduzione, per quanto brillante e
stratificata, a quel che Morselli definiva la malattia «culturalista» della letteratura italiana. Ma se il giudizio sull’evoluzione del Calvino maturo ci divide dalla Serra, dobbiamo però riconoscere la sua notevole abilità nell’analizzare le
opere del periodo compreso tra Le cosmicomiche e Palomar. Molti dei suoi
spunti restano validi anche per chi intenda leggerli in tutt’altra direzione: e non
è poco. Semmai, il capitolo in cui la critica si fa troppo reticente è quello su "I
libri e le idee": davanti a Una pietra sopra, l’attenzione minuziosa dedicata altrove a materiali assai meno interessanti quasi scompare. Ma almeno in parte
il fatto è fisiologico, dipende cioè dai paletti assegnati inizialmente al lavoro:
perché una vera analisi di quei saggi avrebbe richiesto un’ampia apertura sul dibattito culturale dei periodi in cui furono scritti. E allora, nel caso, sarebbe venuto utile un altro confronto, quello con il viscerale Pasolini: magari condotto
a partire da un esame del loro comportamento nel decisivo periodo di trapasso tra anni Cinquanta e Sessanta. Comportamento per certi aspetti simile, in due
figure così distanti o perfino speculari: e quindi sintomatico. Non è infatti un caso che entrambi, sebbene per motivi e in modi assai diversi, siano passati
dall’éngagément alla linguistica, saltando a piè pari il dibattito sui francofortesi e sul marxismo critico che nello stesso periodo occupò le energie di Fortini,
loro implacabile censore: forse proprio in questo nodo epocale i tagli netti e le
fissazioni nevrotiche, lo sperimentalismo inesausto e le precoci cristallizzazioni identitarie che segnarono sia il poeta delle Ceneri che il prosatore della Giornata affondano le radici più solide e complesse.
Matteo Marchesini
le viene fatta indossare, a sua insaputa, la veste di terrorista kamikaze.
Adel, negli States per controllare alcune sue società, rinuncia al volo delle
United Airlines che poi si schianterà
contro le Twin Towers, per raggiungere a Milano Sonia, il suo amore italiano. Ma Adel è vivo e non è un terrorista e questo vuol dire essere un uomo
spacciato, una preda braccata da un
particolare dipartimento della Cia,
un’entità formata da «cellule» clandestine e segrete legate da un patto di
sangue e finanziate dalle principali
lobby del Paese. Un modus operandi
deciso subito dopo l’attacco americano alla Libia nel 1986, quando l’ossessione del «sovranismo», l’esigenza di
conservare lo status di superpotenza,
appannatosi per l’antiamericanismo
crescente, si è adoperata per rafforzare il concetto di «terrorismo internazionale» e amplificarne la portata, per
elevarlo al rango di minaccia globale
al pari dell’ex Urss, al tempo della
guerra fredda. La vera protagonista è
dunque la nazione più potente del pianeta, malata di un potere implacabile
e spesso invisibile, talmente investita
dalla hýbris, incontenibile a tal punto
nel non darsi limiti, da rappresentare
lei stessa, nel thriller di El Ariny,
l’«Impero del Male».
Patrizia Danzè
ALBERTO CAPITTA, Il cielo nevica, pp.210, euro 14, Il Maestrale
2007
L’aria e l’area mediterranea della scrittura contemporanea trovano negli
scrittori isolani un nido particolarmente denso e ricco di autori e di opere significative. Un luogo fisico e immaginario dove delineare paesaggi
che narrano la realtà su più livelli, carichi di quello slancio lirico che riesce
a emozionare anche con tocchi magici.Ne è un esempio Il cielo nevica,
opera prima di Alberto Capitta da poco riedita da Il Maestrale di Nuoro.
Capitta - presente nella bellissima antologia Silenzi curata per Rubbettino
da Ugo Roello - è diventato un caso
con il suo Creaturine finalista allo
Strega 2005. Centro del racconto è
La Maddalena, arcipelago che vive
nelle parole levigate e plasmate come
onde di mare, di quel mare che è sempre presente, «calvo» e antico, dilatato e invadente, mobile e insieme statico nella sua storicità affascinante. Uno
spazio di passaggio di popoli e voci,
sede di sirene e Lestrigoni, base per le
navi di Nelson in lotta contro i francesi, e confine acquatico anche per i
Mille del Generale partiti da Quarto.
Garibaldi è una presenza costante,
fantasma che dialoga con poetica fantasia con Domenico, e sente tutta la
morbosa presenza della madre Norma, donna enigmatica, quasi una jana,
creatura metà strega e metà fata degli
anfratti sardi. In «giornate metafisiche
di mare ribollente e zenitale», tra foglie di mirto e more, scorre un tempo
sospeso, suggestivo e a volte incomprensibile, dove l’amore riesce a illuminare memorie e corpi: amore di
«ombrelli incrociati nel vento, di sabbia nei vestiti», di occhi d’acqua nell’acqua, di piogge vertiginose. (Sergio
Di Giacomo)
FRANCO MANNI
Prontuario di etica per la vita quotidiana
Guida personale di etica filosofica
sulle tracce di Aristotele, Freud e
Croce, passando per J.R.R. Tolkien.
Il discorso di etica che Manni svolge
illustra le teorie delle Virtù, dei Vizi,
e della Felicità, dal passato ai giorni
attuali. La Terra di Mezzo è il cuore
della vita quotidiana di ogni persona,
FRANCO MANNI
"Lettera ad un amico
della Terra di Mezzo"
pp. 350, euro 15
Simonelli, 2006
MASSIMO SANNELLI
Pasolini e il suo esercizio di morte
La morte di Pasolini è un lascito fragoroso, ancora a distanza di decenni,
un’eredità pesante e gravida, un avvenimento che tuttora scuote intellettuali, storici, giornalisti, e divide quell’informe invenzione mediatica che
s’usa definire opinione pubblica. Un
Pasticciaccio brutto, un crimine maturato nei bassi fondi di borgata e nella
depravazione - secondo la versione
ufficiale tramandataci dai Tg in bianco e nero e dalle colonne ormai ingiallite dei giornali dell’epoca. Oppure
un nefasto complotto politico, una
spietata congiura messa in atto per
eliminare un testimone scomodo dei
tempi, un poeta che non si accontenta
di scrivere versi ma che, come il San
Tommaso nell’olio del Caravaggio,
insinua l’indice scrutatore nelle piaghe
di un Paese di cui intravede già il declino, di cui subodora il «falso benessere», le secolari tare, le moderne vergogne. Ma i morti, a volte, parlano,
soprattutto se non hanno taciuto in vita. E a volte parlano attraverso la loro
stessa morte.
Pasolini parla ancora, e a voce se possibile più alta, nella negazione del suo
essere, nel mistero - e nel mito - di un
assassinio feroce mai del tutto spiegato. Un enigma che l’approssimazione
colpevole di indagini mal condotte,
mal pensate, probabilmente mal dirette fin nell’intenzione, non ha aiutato a
risolvere. Oppure che Pasolini la sua
morte se la sia scelta, voluta, in qualche modo preparata. Un’esistenza eccessiva e straordinaria, una vita vissuta, forse, come un «esercizio di morte».
La fine terrena di Pasolini come un’ultima, estrema, predica agli uccelli - uccellacci e uccellini - il tentativo finale di chiamarli a raccolta, sopra il cofano di una vecchia Alfa Romeo arenata sul lido sudicio di Ostia.
Un poeta è un profeta. Se non nel senso etimologico (colui che annuncia
avvenimenti futuri - e Pasolini fu anche quello, benché sia forse più giusto
dire, con Mario Luzi, che più spesso
seppe unire i pezzi del presente in una
MASSIMO SANNELLI
"Philologia Pauli.
Il corpo e le ceneri
di Pasolini"
pp. 196, euro 12
Fara, 2006
visione futura, come in Petrolio) - lo è
sempre nel senso letterale (colui che
dice, proferisce - e chi più del Pasolini corsaro o regista).
La poesia, allora, come necessità, urgenza, bisogno impellente e fatale. E
la morte, quindi, come estremo canto,
racconto finale. La morte di Pasolini,
infine, come ultimo capitolo, epilogo
di una vicenda poetica, ancor prima
che umana.
Abbracciando la tesi di Sannelli - la
morte di Pasolini come estremo testo,
e gesto, poetico - si legittima anche l’ipotesi di una possibile esegesi della
sua fine come filologia di un ultimo
documento letterario. Un testo poetico
da leggere come atto performativo,
come «la consegna di sé ad un progetto stilistico e rituale», come una drammatica postilla scritta a lettere di fuoco in calce a un’opera aperta lasciata
volutamente tale.
Non si tratta qui solo della «confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza», bensì della morte come sigillo a un’esperienza biografica che nella poesia dei versi e delle immagini cinematografiche, così come nei romanzi e sui giornali, ha iscritto il lacerante testamento di un uomo, di un letterato, di un artista, di un intellettuale
engagé. Di una «bestia da stile».
La Philologia Pauli di Massimo Sannelli è poesia essa stessa; è uno struggente, nobilissimo tentativo di restituire senso e dignità al massacro di un
poeta, ma è anche un tributo eminente alla sua opera e alla sua eredità, a
un’esistenza che si fa monumento di
se stessa proprio nell’istante in cui
tragicamente si spegne. Qualcosa in
meno del suicidio, qualcosa in più
dell’assassinio.
Cristina Babino
pagina
22
Meditazione
sulla vecchiaia
e la morte
MARK STRAND
"Uomo e cammello"
Trad. Damiano Abeni
pp. 92, euro 10
Mondadori, 2006
C
he l’americano Mark Strand fosse uno dei maggiori poeti di linqua inglese si era già reso evidente, al pubblico italiano, all’apparizione del volume antologico L’inizio di una sedia (Donzelli), quasi una decina di anni
fa. Sempre per le cure dell’infaticabile Damiano Abeni, principale responsabile della conoscenza di questo autore in Italia, e a un anno dall’apparizione di una
seconda antologia, Il futuro non è più quello di una volta per Minimum fax, appare nella storica collana mondadoriana dello Specchio la traduzione di un volume organico, che rappresenta al meglio la produzione più recente di Strand.
Nel tracciato di un poeta sono visibili mutazioni come, al tempo stesso, il permanere di alcune ossessioni, veri e propri rovelli contro i quali l’energia di ogni
singolo verso va a misurarsi. Nel caso di Strand uno dei grandi temi di fondo resta la meditazione sul tempo, inteso in modo non novecentesco, come istante o
durata, ma come flusso e dismissione di quelle che restano, in ciascuna vita, conquiste e certezze. Con un processo di splendida anamorfosi, Strand sposta di continuo, agli occhi del suo lettore, quel nucleo fondativo di ogni identità dove la
storia personale e quella collettiva si mescolano; come un sorta di attore borgesiano si muove in una realtà moltiplicata da una visuale fenomenologica, mettendo sempre in discussione ogni elemento dato, sia che appartenga all’esperienza più privata, sia che provenga dal retaggio della tradizione letteraria o ancora
dal più vasto modello culturale del tardo Occidente.
Ne viene, a partire dal titolo, Uomo e cammello, un libro fortemente emblematico. E notturno. «E d’improvviso è buio», scrive Strand in un breve, ma densissimo verso, pur nella sua apparente ovvietà. Ma la poesia, ci insegnano i grandi poeti, poggia spesso sulla rete dell’ovvio, fondandone, per noi, l’evidenza,
traendone nuova potenza di significato. Se ovvia, per l’appunto, ci sembra la collocazione notturna o crepuscolare di ciò che questi versi narrano, tutt’altro appare la percezione dell’oscurità, da parte del soggetto, sempre problematica e
moltiplicata in una rifrazione di pensieri di preoccupante attualità. Nel suo complesso Uomo e cammello viene infatti configurandosi come un’ampia meditazione sulla vecchiaia e la morte, che non sono mai un accidente individuale, ma
un vero e proprio implodere della storia, il lento e irredimibile disfarsi della coscienza di un intero mondo. Così la ricerca poetica si sposta tutta sul versante dell’allegoria, intesa - questa volta novecentescamente - come riaprirsi di quella coscienza, come visione critica e consapevole fino alla spietatezza. Nell’oscurità
degli uomini Strand sa ad esempio cogliere con brevi, esattissime pennellate, gli
emblemi di un ritrarsi dalla responsabilità ("Il re"), di un’occasione mancata
("Uomo e cammello"), di una conoscenza caduca ("Ero stato un esploratore polare"), allestendo di immagine in immagine un affresco potente: la sua complessità altro non è che la mimesi dell’inafferrabilità di una condizione e dell’inaccettabilità di una finitudine con cui siamo inevitabilmente chiamati a fare i conti.
È un libro breve, Uomo e cammello, ma con una struttura precisa che procede
attraverso tre sezioni; e per quanto i temi ritornino dall’una all’altra, pure si avverte una sensibile mutazione di timbro. Alle evidenti allegorie della prima parte segue un infittirsi delle ambientazioni notturne, vero e proprio sfondo per il
riconoscimento (quasi una classica agnizione) dell’inafferrabilità del senso
delle cose e per l’accettazione del reale come dimensione tautologica. Ecco, con
un ultimo, improvviso scarto, anche restando sul piano della semplice registrazione delle cose, Strand fa comunque agire un pensiero critico, lasciando sempre avvertire che il punto di osservazione del mondo resta ancora l’io lirico,
proiettato in un caleidoscopio di figure e di piccoli eventi, còlti nel momento di
massima tensione tragica e semantica.
Roberto Deidier
S
i conoscono le premesse. Un virus di origine sconosciuta, forse
riportato sulla Terra da un satellite, fa risvegliare i morti, pervasi da
una fame insopprimibile di carne
umana, che li induce a divorare i vivi.
Poca o nessuna speranza per gli scampati al morbo, costretti ad asserragliarsi in santuari assediati da orde di cadaveri che procedono con andatura lenta e goffa, la parodia grottesca di una
dignitosa deambulazione.
All’interno di questa cornice d’orrore,
il regista americano George Andrew
Romero ha costruito un’epopea cinematografica stampatasi nell’immaginario di parecchie generazioni. Il film
La notte dei morti viventi, girato su
pellicola in bianco e nero, con pochissimi fondi, durante l’estate del 1968,
stabiliva le regole canoniche. Un
gruppo assortito di persone ordinarie
trova riparo fra le camere di un’abitazione. Fuori, i resuscitati cercano di
entrare per mordere, lacerare e masticare la materia organica vivente.
Lo schema si dilata nel capolavoro
assoluto, Zombie, del 1978. Qui l’assedio si verifica intorno a un immenso centro commerciale. Non ne esiste-
vano molti in Europa e in Italia quando il film fu importato dagli Stati Uniti. Peraltro, alla produzione aveva partecipato Dario Argento, curatore anche del montaggio e della colonna sonora composta dai Goblin, il cui timbrico battito è la versione rallentata
della musica disco e techno, assordatrice dagli autostereo e falcidiatrice
dei kamikaze usciti dalle discoteche il
sabato notte, partitura appropriata del
degrado.
Nelle metropoli nazionali si vedevano
al massimo supermercarti e qualche
ipermercato. Il Paese era ancora sanamente assestato in un’arretratezza mediterranea, meridiana, che, malgrado
tutto, riportava le cose a una misura
percettibile.
Invece Romero, da autentico genio,
preconizzava che l’umanità si avviava
a cannibalizzare se stessa con lo shopping compulsivo, con il consumismo
elevato a orgia della demenza di massa.
Perciò i suoi zombi costituiscono la
metafora perfetta del presente e non di
un futuro apocalittico. La fine del
mondo è già cominciata e forse terminata. I cadaveri utilizzati dagli strego-
U
crescono i due ragazzini, compagni a
scuola, inseparabili sulla strada negli
interminabili pomeriggi. I loro padri
spesso sono assenti, quello di Nino per
missioni segrete, quello di Turi per misteriosi viaggi in Svizzera. Molta parte della loro rabbia è originata dalla loro assenza e, forse senza saperlo, è diretta soprattutto contro di loro. In un
paesaggio devastato di macerie, dominato da una violenza cieca, che sembra rispecchiare i rapporti interpersonali, Nino e Turi partecipano, per crescere e sopravvivere, a quella distruzione: «Ci stupisce trovare devastazione e macerie anche nel centro abitato: allo Sperone, per esempio, c’è una
vecchia centrale del gas attaccata a una
specie di convento di monache. I lavoratori e i macchinari li hanno spostati in
una costruzione moderna, e così noi
possiamo spaccare tutto. Qualcuno,
però, ci ha preceduti, rompendo tutte le
vetrate. Ci rimangono le porte, i mobili, gli armadietti di ferro». Ciò che conta in questa Palermo-città da distruggere, primordiale nella sua brutalità, è di-
n romanzo di bruciante verità e
aspra bellezza, da segnalare e
ricordare. Dalla critica ha ricevuto attenzioni di molto inferiori a
quelle che avrebbe meritato, ma quelle poche di vaglia (Fernanda Pivano,
Giancarlo De Cataldo) ed entusiastiche. Al centro della storia è un’amicizia, folgorante e intensa, di due tredicenni, Nino e Turi. S’incontrano a Palermo, dove Nino si è trasferito con la
famiglia, da Bologna, per seguire il padre, magistrato antimafia. La loro è
un’amicizia che nasce al primo incontro, di quelle che segnano per tutta
una vita. Il padre di Turi è un mafioso.
Il romanzo si apre con Nino, ormai
adulto, che presso la redazione del
giornale on line dove lavora, a Milano,
apprende della morte del padre del
suo amico Turi. Da lì ha inizio il suo
percorso a ritroso nella memoria, che
al computer davanti al quale si trova
prenderà forma del libro che di getto
scriverà.
In una Palermo selvaggia, animata da
una rabbia incontrollata e distruttiva,
S t los
schede
libri
ALMANACCO
Vittorio Bongiorno / Chiara Daino /
Mark Strand / Jim Thompson /
David Wellington
Un corpo
consegnato
alla distruzione
CHIARA DAINO
"La Merca"
pp. 132, euro 12
Fara Editore, 2006
L
a Merca è un romanzo di deformazione. Atipico, coraggioso, sperimentale. Esperienza (di vita) ed esperimento (letterario) si fondono in quest’opera forte e disturbante, capace di affrontare con disarmante sincerità - brutale a tratti, e a tratti struggente - la tormentata realtà delle persone affette da disturbi del comportamento alimentare (d.c.a.). Tema di enorme, dolorosa complessità, eppure spesso dibattuto a sproposito, confuso e frainteso tra fatti di cronaca, analisi psicologiche da salotto televisivo, frettolose disamine sociologiche.
Chiara Daino decide l’esposizione totale del soggetto-oggetto del proprio raccontare. Pagina dopo pagina, la protagonista Jenny inscena un gettarsi spavaldo e disperato nell’arena, una sorta di privatissima performance, un feroce darsi in pasto (in senso neanche tanto figurato) al pubblico, ai lettori. Opera prima
della giovane Chiara Daino (nata a Genova nel 1981, attrice, autrice, songwriter e traduttrice), La Merca spiazza e conquista soprattutto per l’uso mirabile di
un linguaggio sdoppiato, elastico, duttile come metallo da battere e (carnem) levare. Una lingua che si fa strumento chirurgico, anzi arma da taglio, a sezionare con perizia sottile, impietosa e intelligente, un corpo schiavo della mente e
però padrone al tempo stesso, nella sua sempre più diafana e ingombrante presenza fisica: «Nessuno conosce il corpo meglio di chi lo detesta, e Jenny possedeva una visione, seppur dismorfofobica, del suo fisico, perfetta - al microscopio. Nessun margine d’errore per quelle forme al margine dell’osso».
Jenny si rappresenta così nella sua più completa nudità: il corpo asciugato di vomito e lassativi, le calorie da computare diligentemente, gli specchi nemici, le
cliniche-prigioni da cui evadere, le violenze subite, l’inutilità delle amicizie. E,
sopra tutte, le disastrose relazioni con l’altro sesso. Motivo di distrazione, di momentaneo riempimento di un vuoto altrimenti incolmabile, di sofferenza, e mai
di appagamento: «All’invito di Doc Rodrigo "Ciao bella! Come stai? Un colpo?"
Donna Abbondia rispose "Sì", la sventurata." La sua è una solitudine invincibile, eppure mai commiserata, mai oggetto di pietà. Piuttosto esibita con dissacrante reattività, con un’ironia urticante che è ultima, estrema difesa: «Jenny paranoica si massacrava di palestra e scopate, in misura eguale - pari e patte (aperte) - per calcolare le calorie bruciate in moto: su-giù lo stepper, sopra-sotto un
uomo. La sola differenza? Non dover rassicurare l’attrezzo (ginnico/Jennico) sulla qualità della prestazione». Quello di Jenny è un corpo che viene consapevolmente decostruito etto a etto e si consegna infine all’autodistruzione, a una deflagrazione atomica che ne polverizza il peso e l’esistenza. Bildungsroman al
contrario - come suggerisce Massimo Sannelli, curatore dell’editing del libro La Merca segna un esordio deciso.
Cristina Babino
L’ultima
battaglia tra
i vivi e i morti
ni caraibici come schiavi nelle piantagioni forniscono il modello comportamentale per gli abitatori delle società
più evolute, evolute fino a collassare
su se stesse.
Ma l’era dei morti viventi può essere
visitata da altre angolazioni. Per esempio quella del romanzo. David Wellington utilizza lo scenario di Romero
per Zombie Island. E conduce i lettori alla scoperta di quello che il regista
non poteva mostrare per limiti di budget: New York dopo il dilagare dell’Epidemia.
Il cinema ha raggiunto un grado elevato di realismo negli espedienti visivi.
Però non abbraccia tutta la gamma
degli altri sensi. Al contrario, la narrazione può almeno evocarli. David
Wellington dimostra con Zombie
Island che nel campo della creatività,
per fortuna, esistono e resistono anco-
Due amici
inseparabili
e divisi
mostrare di non aver paura, pena esser
tagliati fuori. Così si arriva al giorno in
cui i due inseparabili amici realizzano
l’impresa che li dividerà per sempre: la
volta che diedero fuoco alla scuola.
Scoperto, Nino verrà spedito dal padre
lontano, in una comunità di recupero.
Nella valigia porterà con sé un libro
dell’amato Bukowski, rubato tra i libri
della libreria del padre, con dentro una
sua foto da giovane, negli anni della
contestazione. E della letteratura beat,
della sua carica eversiva di utopia e di
sogno, il giovane Nino si appassiona, è
così che prende a bere birra anche se
non gli piace. Infine corona, forse, il
suo sogno, che tenacemente per anni
aveva perseguito: diventare uno scrittore. Scriverà il romanzo della sua vi-
DAVID WELLINGTON
"Zombie Island"
Trad. Silvia Montis
pp. 334, euro 17
Mondadori, 2007
ra le gerarchie negate altrove dalla società-melassa.
Per questo, anche quando si tratta di
effetti speciali, la letteratura è immensamente superiore al cinema e a ogni
altra forma espressiva. Infatti, sin dall’inizio del libro, balza all’attenzione
un fattore sin qui trascurato dei morti
viventi, l’odore della loro putrefazione. Lo ha di continuo nel naso Dekalb,
già funzionario dell’Onu per il disarmo, che ha visto il dilagare dell’Epidemia in Africa, dov’era assegnato a una
missione di pace.
Perduta la moglie nel contagio, lui e
la figlioletta Sarah vengono salvati
dalla dittatrice della repubblica islamica somala. La donna, malata di
Aids, ordina a Dekalb di recarsi con
una carretta dell’oceano a New York,
per appropriarsi di farmaci che possano curarla. In ostaggio, rimane la picVITTORIO BONGIORNO
"Il bravo figlio"
pp. 203, euro 17
Rizzoli, 2006
L’altra faccia
del sogno
americano
JIM THOMPSON
"Inferno sulla terra"
Trad. E. Lacorte
pp. 279, euro 14
Fanucci, 2006
I
nferno sulla terra ("Now and on earth") è il romanzo d’esordio (1942) di
Thompson (1908-1977). La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, Jimmie Dillon, impiegato negli uffici di una fabbrica di aerei a San
Diego, durante la Seconda guerra mondiale.
Egli è anche uno scrittore che sta attraversando un periodo di crisi, a causa della sua complessa vita familiare, della quale fanno parte la madre, la moglie Roberta, la sorella minore Frankie ed i tre figli piccoli Jo, Shannon e Mack.
Il suo racconto, attraverso numerosi flash-back, ripercorre tutte le tappe di una
storia di sofferenza, di malattie, di occasioni sprecate e di desiderio di ricominciare daccapo. Interessante il tormentato rapporto col padre, avvocato di successo, che è riuscito, grazie a speculazioni petrolifere, ad assicurare benessere
alla famiglia dopo anni di stenti, prima del crollo finanziario definitivo che costringe il quindicenne Jimmie a lavorare oltre che a frequentare la scuola.
Jimmie ha molto rispetto per suo padre William, per la sua dignità, ma non può
dimenticare la loro mancanza di dialogo, la predilezione paterna per Marge, la
figlia più grande, la quale, a differenza del fratello, ha il permesso di studiare
violino.
Inoltre, quando il protagonista è costretto a lavorare come fattorino notturno di
un albergo malfamato, negli anni della Grande Depressione, il padre non
comprende le sue sofferenze e non lo aiuta ad evitare le trappole del fumo e dell’alcol che lo fanno ammalare gravemente.
Tuttavia, inaspettatamente, William incoraggia il figlio ad andare all’università.
È un’occasione mancata, in quanto Jimmie conosce Roberta e la sposa subito,
dopo avere perso i suoi risparmi a causa dei pessimi consigli di una confraternita universitaria. Inizialmente, la nuova vita sembra riservare nuove e vantaggiose opportunità: Jimmie inizia ad essere pagato per la pubblicazione dei suoi
racconti, attività iniziata durante il suo impiego di fattorino.
I problemi ricominciano con la nascita della seconda figlia Shannon, una gravidanza non desiderata che si è tentato anche di interrompere con alcuni medicinali e che aggrava la situazione economica della famiglia.
Inoltre, i rapporti tra madre e figlia sono tesi, privi di affetto e tenerezza, il che
è causa di furibondi liti che minano la serenità familiare e l’equilibrio necessario a Jimmie per scrivere. Questi, pressato dal problema del mantenimento della famiglia, trova impiego nella fabbrica di aerei di San Diego, dopo avere inutilmente tentato di lavorare come sceneggiatore a Hollywood.
La nuova occupazione è causa di grande tensione emotiva, in quanto la disorganizzazione della produzione rende difficile la sua funzione di controllore burocratico.
Inoltre, le condizioni in cui sono costretti a lavorare molti operai è difficile, priva di tutele sanitarie. Jimmie ricade nel tunnel dell’alcol, del fumo e anche della droga. Il romanzo si chiude quando Jimmie, che trova un metodo per rendere il suo lavoro più ordinato ed efficace, decide di licenziarsi, in quanto alcuni
colleghi hanno scoperto il suo passato di membro del partito comunista.
Romanzo scorrevole, dai periodi brevi, con un uso del dialogo che caratterizza i personaggi, Inferno sulla terra rappresenta l’altra faccia del sogno americano: l’alcol, l’impossibilità di realizzarsi compiutamente, l’instabilità familiare, le disagiate condizioni lavorative. È un’opera autobiografica, in quanto lo
scrittore lavorò in una fabbrica di aerei ed ebbe problemi di alcolismo, anticipatrice dei tipici personaggi thompsoniani: uomini che lottano, inutilmente, per
migliorare la propria condizione, vittime di un passato di occasioni sprecate.
Come sottolinea Stephen King nella breve introduzione al romanzo, Thompson
è uno scrittore necessario in quanto ha avuto il coraggio di rappresentare con
realismo gli aspetti più degradanti della realtà contemporanea.
Federico Bianca
cola Sarah.
Zombie Island apre sull’arrivo a
Manhattan di Dekalb su una nave popolata di giovanissime guerriere somale. Non meno feroci degli zombie
che vagano per le strade, irradiando il
fetore della decomposizione. Tra di loro, tuttavia, si annida Gary, uno studente di medicina che, dinanzi all’inarrestabile piaga, ha deciso di trarne
un terribile vantaggio.
È riuscito a morire senza interrompere l’afflusso dell’ossigeno al cervello,
come accade per gli altri zombie, che
a causa di questo inconveniente si risvegliano privi di lucidità. Lui torna a
vivere, o meglio, a non vivere, consapevole e, anzi, iperdotato di energie
mentali. Non tarda, quindi, a trasformarsi in un temibile trascinatore di
zombie, capace di insidiare la missione medica di Dekalb.
Fra i due, inoltre, si erge una minaccia
perfino più orrenda. La mummia di un
druido celta, risvegliato anche lui dall’epidemia nel Metropolitan Museum
of Art.
La battaglia che ingaggiano vivi e non
morti cresce pagina in pagina lungo
una scala di sangue ed efferatezza.
Eppure, ciò che inorridisce di più non
è lo spettacolo della soppressione fisica, del macello, degli smembramenti,
bensì il risvolto etico. Questo crepuscolo dell’uomo ha le stesse tinte volgari e insulse del suo passato splendore. Le zombie di New York si aggirano con i capelli ossigenati, le scarpette da ginnastica e l’abbigliamento di
boutique.
Montclair Wilson, guida di una sotterranea comunità di sopravvissuti, si
autoproclama presidente degli Stati
Uniti e arringa i suoi illusi seguaci
con la medesima ingannevole retorica
che si ascolta sulla bocca dei politici
attuali, ormai esercitati a esibirsi per la
televisione, non a rapportarsi con la
coscienza civile.
Allora, quell’ipermercato del film
Zombie, di Romero, non basta più a
circoscrivere e rappresentare la tragedia di creature degenerate in divoratrici della loro stessa specie. Se New
York è una delle più grandi metropoli del pianeta, le sue arterie di cemento lasciano fin da adesso scorrere il
flusso di una civiltà contaminata, che
ha già la patologia della morte vivente.
Enzo Verrengia
ta e lo intitolerà "Violenza per amore",
che in un gioco di specchi si potrà assumere come titolo perfetto del romanzo
incendiario di Bongiorno.
Il percorso di crescita dei due ragazzi
- è anche un romanzo di formazione
questo di Bongiorno - dopo il decisivo
tratto di strada comune, si biforcherà:
Nino, il bravo figlio, diventerà un mariuolo di prima categoria; Turi da parte sua finirà, in età matura, per denunciare alle forze dell’ordine il padre
mafioso. Un ribaltamento dei ruoli che
il destino, per mezzo del padre, aveva
loro assegnato. Un’urgenza di verità
pulsa nel romanzo, come la storia attingesse a una realtà vissuta realmente, e trasferita sulla pagina con l’immediatezza con cui il personaggio-narratore, Nino, scrive la sua storia personale, dentro il romanzo. Ma Nino è lo
stesso che confessa, a chiare lettere, di
essere un bugiardo, il campione italiano dei bugiardi - in un passo posto all’inizio e giudicato tanto significativo
da essere ripreso in bella vista sulla
quarta di copertina -, e prima di lui suo
padre, campione mondiale dei bugiardi e suo maestro. Che poi equivale a
dire che la storia raccontata è stata trovata, come tutti i manoscritti, dentro
una bottiglia. Tra verità e finzione, come tante volte in letteratura, Bongiorno sceglie di giocare la sua partita, e sa
farlo al meglio.
Scandiscono il racconto le tre diverse
città presso le quali il protagonista si
trova a vivere, ciascuna legata a una
sua particolare fase; nell’ordine: Bologna, Palermo e Milano. Bologna è per
Nino la città dell’infanzia, l’età dell’innocenza; dopo il trasferimento a Palermo, l’incontro con Turi segna il periodo decisivo dell’adolescenza, in una
realtà spietata, violenta, e sarà l’età
della perduta innocenza; Milano è per
Nino la città della maturità, dove vive
e lavora da uomo adulto, nell’età della consapevolezza: «Alla lunga la rabbia non ti porta da nessuna parte», dirà
in un incontro tardivo, fugace e ultimo
con Turi, a distanza di anni, un Nino
oramai disincantato.
Marcello D’Alessandra
S t los
schede
libri
Un Paradiso
perduto
da sceneggiare
CEES NOOTEBOOM
"Perduto il Paradiso"
Trad. Fulvio Ferrari
pp. 192, euro 13
Iperborea, 2006
S
e esistesse una hit parade delle citazioni, quella sull’Angelus Novus di
Klee, con chiosa magistrale di Benjamin, si classificherebbe sicuramente ad uno dei primi posti. Per cui si rimane tra il perplesso e lo stupito
quando la si ritrova, in esergo, in questo ultimo romanzo di Cees Nooteboom,
scrittore solitamente schivo, poco corrivo alle mode mainstream.
Ma basta leggere le prime pagine per ritrovare di nuove le suadenti coordinate del Nooteboom’s touch: le atmosfere sospese e rarefatte, l’eccentricità delle
dislocazioni narrativo-temporali, il tema del viaggio e del doppio, dell’essere
e dell’apparire, la solitudine ed il peso del mondo, il desiderio e l’esperienza
estetica. Un uomo, uno scrittore, in un aereo, osserva con insistenza da voyeur
una donna che scarta un pacchetto: in esso c’è un libro.
Siamo dalle parti del Calvino di Se una notte d’inverno, evidentemente. Se ci
fosse qualche dubbio: «È un libro sottile come piacciono a me. Secondo Calvino i libri devono essere brevi, e in genere si è attenuto a questa regola». Nell’epilogo, collegato a questo prologo, i due dell’aereo s’incontrano in treno: lo
scrittore, che pirandellianamente incontra un suo personaggio, scopre così che
il libro letto dalla donna è il "Paradise lost" di Milton. Del resto, anche i personaggi che appaiono nella parte centrale di questo libro a scomparti, sono anch’essi esuli da un Paradiso
perduto, o da qualcosa che,
nella sua trasposizione terrena, lo evoca. Due ragazze, Alma ed Almut, teutoniche d’origine, ma viventi in Brasile:
la prima, in un quartiere chiamato antifrasticamente Paraisopolis, viene violentata. Il
crollo violento dell’idillio tropicale comporta la fuga verso
un altro Eden vagheggiato,
l’Australia. Ma anche qui l’idillio,
che
s’ammanta
d’er(s)otismo, dura poco. È
come se le protagoniste si aggirassero al pari di angeli caduti che provano nostalgia per un luogo meraviglioso che probabilmente un tempo è esistito, ma le
cui tracce paiono sempre più labili.
Il Paradiso è lontano ed irrecuperabile: esse ne sono state cacciate. Non resta che
mimarlo, sceneggiarlo: durante il festival di teatro di Perth, incentrato sul tema
degli angeli, le due ragazze, con ali posticce, in luoghi impensabili, recitano da
ragazze-angelo. Qui entra in gioco Erik Zondag, critico danese disincantato e
cinico, stroncatore di gran classe (tra le sue vittime tutto l’Olimpo della cultura olandese contemporanea, Nooteboom compreso!) alcolista, umorale, atrabiliare, alle prese con una mascolina crisi di mezza età.
Lo ritroviamo, dopo Perth, in una specie di clinica quisisana in Austria: e qui
ritrova, trasformata in massaggiatrice (una epifania) la ragazza-angelo che l’aveva tanto turbato al festival teatral-angelologico australiano. Nessun lieto fine, per fortuna.
Al di là della trama, ciò che rimane di questo romanzo è la serie di domande fondamentali che ci vengono poste, la cui bellezza nasce anche dalla loro impossibile solubilità: «E mentre si domandava quale fosse l’aspetto di un angelo in
volo e quanta massa d’aria spostasse con il movimento delle ali - questioni che
avevano a che fare con la santità quanto con l’aereodinamica».
Linnio Accorroni
V
23
ALMANACCO
Jack Higgins / Cees Nooteboom /
Ernest Renan / Vita Sackville West /
Charles Willeford
La bestialità
della vita
nelle metropoli
CHARLES WILLEFORD
"Playboy a Miami"
Trad. Fabio Zucchella
pp. 319, euro 15
Marcos y Marcos, 2007
M
ai come in questo caso si potrebbe affermare che il titolo riassuma in
maniera efficace la storia. Playboy a Miami, infatti, racconta le avventure di quattro single sui trenta alla caccia di ragazze; vitelloni a stelle e strisce nella Miami anni Novanta, con soldi in tasca e voglia di divertirsi.
Troppa forse, visto che ognuno di loro si troverà invischiato in un omicidio.
Per i quattro, la vita nell’assolata Florida non è per nulla difficile: cocktail a bordo piscina, serate a suon di biliardo, strafottenze, scommesse assurde. Purtroppo una di queste li porterà nel posto sbagliato: un cinema drive-in dove si ritroveranno in macchina il cadavere di una minorenne, evento da cui prenderà il via
tutta l’azione. Ossia una serie di strampalate e taglienti vicende a base di mogli soffocanti, killer implacabili, fughe, camicie sgargianti, alcol e hostess libertine. Playboy a Miami è, nel complesso, un romanzo spietato, lucido, incalzante sulla bestialità della vita umana nelle metropoli americane. Una folgorante
gimcana sulla sottile linea oscura che separa una vita agiata, rispettabile, «regolare», da un inferno in cui è fin troppo facile districarsi, incredibilmente impuniti, con cinica eleganza. E se cinematograficamente questo vi ricorda qualcosa, state tranquilli, siete sulla buona strada: lo stile ricorda Quentin Tarantino che, non a caso, proprio a Willeford ha dedicato il suo Pulp Fiction. Un personaggio davvero particolare, Charles Willeford, l’autore. Classe1919, trascorse l’adolescenza vagabondando per l’America sui treni merci fino a quando finì
per arruolarsi nell’esercito uscendone vent’anni più tardi con una serie infinita di aneddoti pronti per essere riversati nei libri. Cominciò a scrivere a trentasei anni ma arrivò tardi al successo, nel 1984, quando pubblicò Miami Blues.
Protagonista della vicenda, il detective Hoke Moseley: la sua Miami umida e
selvatica, diventò subito un mito. Seguirono due romanzi con lo stesso protagonista: Tempi d’oro per i morti e Tiro mancino, salutato come un capolavoro
assoluto. A quel punto non ci furono più dubbi sul talento letterario di Willeford:
l’anticipo pagatogli dall’editore americano per il quarto romanzo della saga di
Moseley fu stellare. La prima edizione di Come si muore oggi venne data alle
stampe nell’autunno del 1988. Willeford fece solo in tempo a vederla, a firmarne qualche copia. Morì proprio il giorno in cui il suo più grande successo uscì
in libreria. Destino beffardo. Dal 2005 i suoi romanzi più importanti sono riproposti nella prestigiosa collana americana Vintage dove Playboy a Miami è appena stato ripubblicato. Peccato ci abbia messo quattordici anni per essere tradotto in Italia. Quando si parla di soldi, e gli americani, come ben sapete, adorano parlare di quattrini, si sente che il libro è datato ma, per fortuna, la freschezza è rimasta intatta.
Paolo Roversi
irginia Woolf si sorprendeva
sempre di come Vita si desse
da fare in ogni campo, anche
nello scrivere che pure non era, come
per lei, un pensiero totalizzante. Vita
aveva impegni mondani, viaggi, amori, due figli e un marito. Amava la
montagna, le difficoltà degli altopiani
iraniani, le piaceva vivere in modo
intenso. Virginia si chiedeva perché
scrivesse. Non che scrivesse male, ma
c’era nel suo dettato una durezza, una
legnosità - che con il tempo in parte si
affievolì - ma era pur sempre un limite. Vita era fatta per cavalcare o per arrampicare più che per sedere a una
scrivania.
Leggendo il romanzo Legami (Il Saggiatore), che approda alla sua prima
traduzione italiana, non possiamo che
concordare con Virginia. È indubbio
che Vita sappia scrivere bene; è indubbio altresì che l’educazione aristocratica che le è stata impartita la rende capace di porsi nei confronti della vita da
un osservatorio culturalmente e mentalmente privilegiato; ma è indubbio
anche che non è destinata a scrivere come la Woolf - dei capolavori. Ciò
non toglie il fatto che la lettura presen-
ta molti spunti di vivo interesse. Il romanzo, il primo della Sackville-West,
pubblicato in Inghilterra nel 1919 è
ambientato in un paesino del Kent ed
è scritto in prima persona. L’io narrante è però solo un osservatore della
realtà ed entra pochissimo in gioco; ha
comunque un’importante funzione di
filtro in quanto giudica e prende le
distanze dalla narrazione di Malory,
un uomo conosciuto durante il soggiorno italiano a Sampiero della Vigna
Vecchia con cui ha instaurato uno strano rapporto di amicizia, da un lato
molto freddo, dall’altro durevole nel
tempo.
Per anni i due continuano a essere in
contatto, a intervalli e attraverso delle
lettere cosicché l’io narrante viene ad
essere il depositario privilegiato delle
confidenze di Malory in nome di quello strano fenomeno per cui si racconta la propria vita più facilmente a uno
sconosciuto che a una persona con
cui manteniamo e presumibilmente
manterremo dei legami.
Centro del romanzo è una famiglia
del Kent, una famiglia di lavoratori,
gente umile, attaccata alla terra e al lavoro e in particolare Ruth Pennistan,
Il sangue
del Sud
che ribolle
N
gins costruisce le sue storie legandole
con i fili di destini ai quali non ci si
può sottrarre, fatti di disperazione o
crudeltà, che impegnano i protagonisti in imprese fuori dall’ordinario ma
tuttavia plausibili, proprio perché dettate dalla necessità. Una formula che
regge alla prova del tempo, malgrado
la produzione dell’autore sia di gran
lunga più numerosa rispetto a quella di
Forsyth e Follett.
Ed è per un impulso irrefrenabile di
vendetta che si scatena la vicenda de
L’eredità del Führer. Torna in campo
Sean Dillon, ex combattente dell’Ira
passato a lavorare per il generale
Charles Ferguson, capo di un dipartimento segreto del governo inglese
modellato sulla 14 Company, versatile e poco pubblicizzata unità antiterrorismo. Per questo avventuriero drogato dal bisogno di azione si tratta di
sventare una temutissima eventualità:
la divulgazione del diario di Hitler, dal
quale risulta che nel 1945 intercorsero trattative al massimo livello in Svizzera fra nazisti e americani. Emissario
Diari di Hitler
Operazione
segretissima
egli anni ’70 il thriller di avventura e spionaggio cambia
per sempre dopo l’uscita di tre
romanzi: Il giorno dello sciacallo, di
Frederick Forsyth, La cruna dell’ago,
di Ken Follett e La notte dell’aquila,
di Jack Higgins. Un ipotetico attentato a De Gaulle, un agente nazista in Inghilterra scopre i piani dello sbarco in
Normandia e dei paracadutisti tedeschi cercano di rapire Churchill. Prima
ancora di diventare film di successo,
sono i temi e la scrittura a fare la differenza. Lo stile enfatico e la scarsa credibilità che fino ad allora confinano
questa forma letteraria nell’ambito
puramente commerciale sono finalmente scalzati da trame congegnate al
millimetro nelle pieghe dell’attualità e
della storia, sorrette da una prosa matura e priva di retorica. Forsyth si impone per la sua rigorosa conoscenza
della politica internazionale, palese e
occulta, da cui a volte gli derivano
scenari profetici. Follett è un eclettico,
che però riesce meglio sullo sfondo
della Seconda guerra mondiale. Hig-
pagina
una donna che nel suo carattere unisce
alle radici inglesi quelle spagnole (la
nonna era una zingara che ballava nei
locali di Cadice) ed è proprio questo
sangue del Sud che ribolle in lei e la
spinge a un destino inquieto. Malory,
un solitario per cui il genere umano è
tutt’al più materia di studio, si inserisce nella loro vita, portando illusioni e
di Roosevelt, il padre di Jack Cazalet,
presidente degli Stati Uniti. A custodire il volume dai possibili effetti dirompenti è il barone Max von Berger, ottuagenario, che lo ricevette in custodia
dal Führer medesimo, a Berlino, poche ore prima della disfatta tedesca.
L’aristocratico deve eseguire un piano
rigorosamente concepito all’epoca per
colpire la potenza vincitrice della seconda guerra mondiale. I tempi sono
maturi grazie alla minaccia terroristica del presente, che contribuisce a far
vacillare le basi dell’occidente.
In più, von Berger è motivato dalla
morte della stupenda Kate Rashid,
miliardaria di padre arabo e madre inglese. Versione al femminile di Osama
bin Laden, con quest’ultimo condivi-
VITA SACKVILLE-WEST
"Legami"
Trad. Elena Dal Pra
pp. 187, euro 14
Il Saggiatore, 2006
delusioni (ma poi alla fine anche
un’insperata soluzione positiva). In
realtà il Malory che veniamo a conoscere attraverso le lettere si trasforma
nel corso della narrazione e alla fine
risulta essere molto meno insensibile
di come si atteggiava all’inizio.
Virginia Woolf scrive che Vita, così
piena di vita, così esuberante ed eccentrica, in realtà aveva una sorta di maschera difensiva che la rendeva insensibile e sempre sul punto di andarsene.
Ammette la stessa Sackville: «C’è in
me qualcosa di muto, che non vibra,
qualcosa di arido… che non prende vita, e rende tutto quello che faccio irreale…» Quest’aspetto si riflette bene nel
personaggio di Malory, sempre in fuga da un luogo all’altro, spettatore curioso della vita altrui e almeno in apparenza scarsamente partecipe. Lo ritroviamo in mezzo ai contadini del Kent
JACK HIGGINS
"L’eredità del Führer"
Trad. Marina Deppisch
pp. 252, euro 18
Sperling & Kupfer, 2007
La linea laica
e razionale
di Gesù Cristo
ERNEST RENAN
"Gli apostoli"
Trad. Fabrizia Montanari
pp. 204, euro 14
Pendragon, 2007
N
on deve essere casuale che Pendragon ripubblichi ora, nella nuova traduzione di Fabrizia Montanari, Gli apostoli di Ernest Renan, secondo
dei sette volumi della Storia delle religioni, a centoquarant’anni dalla sua
prima uscita. Se la ragione dovesse essere che tra i lettori di libri Cristo è di moda, in questo primo scorcio del terzo millennio, è però bene dire subito che non
lo è solo per motivi di mercato. Il fatto è che l’ultimo secolo si è misurato con
le utopie ultime e i progetti definitivi, e in loro nome ha compiuto le stragi più
gigantesche accompagnate dai più intollerabili misfatti.
E mentre si ritrova a confrontarsi con un fondamentalismo che non capisce, che
è però costretto a subire, si chiede se non lo abbia guidato, nel secolo delle sue
follie, uno spirito di fanatismo religioso anche quando la religione sembrava o
essere negata o essere bersaglio di chi proponeva le utopie e compiva i misfatti che avrebbero dovuto realizzarle.
Soccorre, allora, riflettere sulla religione, e soccorre di più farlo con spirito laico, che è come dire cercare di capire il mondo partendo dalla ragione (kantiana poi tradotta in positivistica) per intendere di esso la parte che in un modo o
nell’altro si sottrae alla ragione: perché ritiene di poterne fare a meno, o perché
la ignora.
In tale contesto è di estremo interesse rileggere Renan, che ha scritto i suoi libri prima di queste tragedie, e ritrovare la sua
idea laica e tutta razionale di Gesù fondatore
del cristianesimo come religione dei poveri e
del concetto nuovo di carità, ma anche il senso di naturale rinnovamento del mondo che fu
realizzato dai suoi discepoli, raccontati come
uomini di tutti i giorni che in più avevano la fede intesa come amore sconfinato per quell’uomo che li aveva sedotti col suo esempio
fatto di amore: per loro e per gli umili, gli ultimi. Che creando le loro chiese, dopo la sua
morte e nella certezza della sua resurrezione,
e rifiutando dentro quelle comunità di giusti o
le assurdità della legge giudaica o il conformismo dei culti consueti, sperimentarono l’utopia del paradiso in terra.
Anche se non sapevano che i paradisi in terra
o non si possono costruire o, se costruiti, durano solo lo spazio della prima costruzione. Ma
neanche sapendo che, mentre portavano nel mondo i germi della storia futura
(perché il mondo da Cristo in poi trovò in lui le sue coordinate), ma rinnovata
nel segno dell’amore e della libertà del singolo, portavano anche, con la loro fede esclusiva, i segni di una nuova intolleranza che non avrebbe di meno angariato il mondo.
Raccontando di Stefano primo martire Renan dice cose che fanno riflettere: «I
martiri diedero inizio all’era dell’intolleranza: non è infatti azzardato dire che
chi dà la vita per la propria fede sarebbe intollerante se si trovasse in una posizione di potere... Chi ha versato il proprio sangue per una causa è troppo incline a versare anche il sangue altrui per conservare il tesoro conquistato». Che è
ciò che rende fascinose e terribili le religioni. Anche il cristianesimo di Renan.
Che tuttavia, se anche riduce tutto a misura umana, non ha dubbi sulla grandezza assoluta del suo fondatore, la storia della cui Vita così conclude: «Tutti i secoli proclameranno che tra i figli degli uomini uno più grande di Gesù non è nato mai».
Alfio Siracusano
col forcone in mano ma dotato di una
cultura che lo rende diverso, lo ritroviamo a Efeso a collaborare con un appassionato archeologo senza peraltro
condividere la sua passione. Un punto
fermo nella sua vita rimane però Ruth
che ritrova a distanza di molti anni e
con cui inizia una nuova vita dopo che
la donna ha raggiunto, attraverso il
suo inferno personale, un buon grado
di consapevolezza.
Attraverso l’espediente tecnico di una
prima persona che è solo testimone e
che osserva dall’esterno i fatti (ma
cerca anche di inserirsi negli stessi
apportando una dose di buon senso e
concretezza) e la narrazione di Malory
- che copre quasi tutto il libro sia in
forma diretta sia attraverso lunghissime lettere - l’autrice ha la possibilità di
una sorta di sdoppiamento che le consente di temperare lo spregiudicato
cinismo di Malory, abituato a considerare il genere umano materiale di studio, in una visione più sobria che via
via si afferma perché alla fine lo stesso Malory svela una fisionomia più
umana e spiazza il lettore con un finale quasi zuccheroso. «Restammo nella cucina calda e tranquilla, dove tut-
to brillava come nello splendore di
un morbido tramonto: i fiori cremisi, il
fuoco che si spegneva ,il rame rotondo degli utensili, il pavimento di mattonelle rosate come mele renette. In
lontananza sentivo il muggito delle
bestie, opulento e melodioso come i
toni della stanza. Vedevo e sentivo
queste cose inglesi, ma, come uno che
guardandosi allo specchio coglie la
propria immagine in un contesto inatteso, ebbi un’improvvisa visione di
noi due in piedi sul fianco di una nave… L’acqua si estendeva calma intorno a noi, rotta solo dal passaggio
della nostra imbarcazione».
Libro di riflessioni e di analisi psicologica più che d’azione che ci presenta una Sackville abile nel costruire un
romanzo con personaggi e ambienti
ben delineati e racchiude qua è là anche gemme preziose come alcune personali osservazioni sulla realtà umana
dell’autrice. «Immagino che ogni uomo appaia alla donna come un mezzo
genio e un mezzo scemo. Un po’ come un adulto forse appare alla mente
infinitamente più semplice e infinitamente più complessa di un bambino».
Marina Torossi Tevini
deva l’odio viscerale per l’Occidente
e gli Stati Uniti d’America. L’arma
della donna era ovviamente il petrolio,
del quale controllava una via d’accesso essenziale per l’approvvigionamento del mondo libero. A ucciderla
ci ha pensato proprio Sean Dillon, su
disposizioni del generale Ferguson.
Von Berger, già complice della Rashid
in una serie di fortunate speculazioni
petrolifere, aveva sviluppato per la
donna un’ammirazione che si arrestava sull’orlo dell’amore soltanto per il
senso delle proporzioni da parte del
barone, restio a intessere un legame
con lei, tanto più giovane di lui. Così
ora Dillon e Ferguson devono fronteggiare la macchinazione di von Berger
che, per sopperire alle scarse energie
fisiche di un vecchio, trova un braccio
crudele in Marco Rossi, suo figlio naturale, ex pilota di Tornado dell’aeronautica militare italiana durante la
guerra del Kossovo.
Sean Dillon deve quindi vedersela su
fronti diversi. A Londra indaga sulla
morte sospetta di Sara Hesser, segreta-
ria di Hitler nel bunker di Berlino e testimone della consegna del diario a
von Berger. Dillon l’ha interrogata insieme a Ferguson, sviluppando verso
di lei una sorta di devozione filiale che
non può perdonare chi l’ha uccisa facendo passare la cosa per una caduta
accidentale da un imbarcadero sul Tamigi. L’obiettivo del suo rancore è
proprio Marco Rossi, pupillo e sicario
di von Berger. Ma intanto, tra le nebbie del Mar d’Irlanda, si prepara una
spedizione di armi che, con la partecipazione occulta del vecchio barone,
potrebbe rinfocolare il terrorismo separatista.
Altro merito di Jack Higgins è che la
sua tecnica narrativa riduce di parecchio i tempi morti e, alla fine, risulta
pochissimo diluita nel procedere incalzante dell’avventura. Senza che questo
tolga mai ai suoi romanzi un’aderenza
alle tragedie riversate dai notiziari.
Perciò, il quadro planetario de L’eredità del Führer è fosco come le prospettive del terrorismo a molte teste.
Enzo Verrengia
24
I n t e r v i s t e
GIANNI BONINA
dogmi della chiesa cattolica si chiamano anche «misteri» perché la teologia
cristiana non li ha spiegati
razionalmente, ma chiede
che come Tertulliano si creda nell’assurdità.
Odifreddi - assecondando un pensiero che da
Voltaire passa a Borges («il cristianesimo è un
ramo della letteratura fantastica») e Saramago
(«senza religioni non ci sarebbero guerre»,
dove Odifreddi aggiunge che «non ci sono
guerre di scienza, ma solo di religione») - oppone che non si può credere a quanto non si capisce. Eppure il «Credo», nella stesura stabilita dai Concili di Nicea e Costantinopoli e ancora oggi recitato nel battesimo e in altre funzioni come massima professione di fede, impone di accettare come verità - articolo di fede appunto - una serie di enunciati che riassumono una sofferta transazione che è stata fonte inestinguibile di eresie, scismi e sette.
Lo scontro millenario tra le concezioni unitarie e trinitarie (da cui sono nati credenti separati quali evangelisti, protestanti, testimoni di
Geova, mormoni, battisti, ortodossi, tutti impegnati a disputare già dal terzo secolo la provenienza del Figlio rispetto al Padre, la sostanza dello Spirito Santo, la natura divina di Gesù) si è cronicizzato per via della ostinazione
della chiesa cattolica a difendere il principio
della consustanzazione contro contraddizioni
anche di tutta evidenza come quella per cui il
Figlio è stato generato «prima di tutti i secoli»
ma si è poi «incarnato nella Vergine Maria» in
un ben preciso momento storico.
Odifreddi raccoglie il risultato della dottrina
purista - di ascendenza gnostica ma ancora oggi viva - per concludere che proprio il «Credo»
segna l’atto di nascita della Grande Apostasia:
cioè «l’abbandono della fede evangelica di
Cristo e degli apostoli e il passaggio alla teologia dottrinale della chiesa e dei teologi, dominata da concetti di filosofia greca (ipostasi,
sostanza, essenza e compagnia bella) che Gesù e i primi cristiani avrebbero trovato completamente incomprensibili». Sicché se ne ricava
che è stato il cattolicesimo ad abiurare alla fede cristiana facendone non solo una sintesi di
principi spuri e compromissori ma anche un
apparato di assiomi il cui rifiuto - cioè la loro
non comprensione - costa al credente la scomunica, un articolato di punti di fede che ancora nel 1977 l’Alleanza di Losanna delle
chiese evangeliche riporta nel suo «manifesto»
come parte integrante e inconfutabile. Parliamo della stessa chiesa che in Italia lucra, tra
esenzioni fiscali e rimesse dallo Stato, circa
novemila miliardi l’anno, una somma pari
quasi alla metà della Finanziaria del 2006 e alla quale vanno aggiunti altri due miliardi e
mezzo che gli enti locali perdono in quota Ici.
Odifreddi è impietoso nell’accusare non solo
la chiesa cattolica, che nasce sin dal primo momento come controstato, concepita quindi in
una logica di potenza secolare (caustiche le pagine in cui sono ripercorse le vicende legate allo Ior e al papato imprenditore e affarista - oltre che persecutore e fondamentalista), ma
anche la dottrina cristiana come ci risulta dalle sacre scritture. Odifreddi le ha rilette con attenzione (servendosi anche di Google per contare l’occorrenza dei nomi: e notando per
esempio che se quello di Giacomo, fratello di
Gesù, ricorre poche volte è a ragione della rimozione fatta della corrente giudeo-cristiana
ortodossa secondo cui Gesù fu un comune
mortale diventato Messia per «elezione», ma
un Messia con il compito di salvare non il
mondo dal peccato quanto piuttosto i soli ebrei
dal dominio straniero) giungendo a risultati
che se non sono nuove acquisizioni hanno il
pregio di reiterare - con argomenti più pregnanti - una recidivante scuola di sconfessione. La tesi forte di Odifreddi è questa: l’interpertazione teologica si è posta, in una concezione dopotutto biblica, lo scopo di imporre il
cristianesimo come religione monoteista. Di
qui la caparbietà a teorizzare il credo trinitario
e a non concedere neppure una ipotesi «moda-
Salvatore Salemi
PHIL
PIERGIORGIO
ODIFREDDI.
IL LIBRO
PIERGIORGIO ODIFREDDI
"Perché non possiamo essere
cristiani"
pp. 266, euro 14,60
Longanesi, 2007
«Non si può
credere
di settimana
che il mondo sia
regolato da leggi
fisiche e chimiche
e credere invece
la domenica che
il pane e il vino si
tramutano, grazie
a una formula
magica, nella
carne e nel sangue
di un uomo»
Con il catechismo
e le sacre scritture
Il cristianesimo dal Genesi all’affermazione della chiesa cattolica, ricchissima e potentissima: il lungo itinerario
di una religione costellata di miti,
menzogne, contraddizioni, banalità ed
errori. Questo il passo che Odifreddi
tiene in un libro che è un poderoso
pamphlet scritto tenendo in una mano
le sacre scritture e nell’altra il catechismo della Cei; scritto anche con tono
ironico e a volte beffardo, con intonazione laica se non atea e con un gusto
tutto personale per la demistificazione
e la provocazione. A cominciare dal
bruciante titolo.
Processo al cristianesimo
l’accusa è di falso storico
listica» nel senso di ammettere tre Persone come diverse modalità di un unico Dio. Di qui
soprattutto la negazione di una lettura autentica del Vecchio Testamento, dove risulta evidente la presenza di due divinità onnipotenti e
primordiali, Javhé ed Elohim, entrambi Signori e Creatori e spesso in contraddizione se non
in contrasto tra essi, al punto che a loro nome
sono rinconducibili due diverse Tavole della
legge - laddove già il solo nome Elohim indica nel suo etimo una pluralità di dei.
La pregiudiziale giudaica di introdurre un solo Dio contro una tradizione politeistica imperante si è trasfusa dal Vecchio al Nuovo Testamento diventando il primo crisma del nascente cristianesimo e guadagnando fortuna grazie
al fatto che i testi neotestamentari vantano
una ricchezza di fonti storiche di gran lunga
superiore a quelli veterotestamentari che sono
perlopiù frutto di elaborazioni orali e di scritti compilatori affidati a una patristica mitografica e anagogica.
Ed è proprio sull’attendibilità storica dei Vangeli che si concentra Odifreddi smantellandone le parti ritenute più solide. Storiche per
esempio non sono né la figura di Gesù né
quella di Paolo che sono testimoniati solo da
fonti neotestamentarie. E se prove si vogliono
ricavare da testi laici come anche da una interpretazione letterale delle scritture, si arriva da
un lato a vedere in Gesù un profeta dotato di
poteri ipnotici e di grande fascino (tale da poter essere creduto il salvatore del popolo ebraico) e da un altro in Paolo un agit-prop che
ovunque vada vestendo i panni del predicatore non ottiene che di intorbidare le coscienze
gettando le basi per confessioni eclettiche
quando piuttosto non riscuote frizzi annunciando il ritorno - lui ancora in vita - del messia.
In coppia con Pietro (della cui qualità di «principe della chiesa» la storia peraltro nulla ci dice) Paolo è comunque l’artefice del primo
scisma del cristianesimo perché deciso a fare
giungere la nuova novella anche ai gentili, i
non circoncisi, mentre Cristo è stato chiaro
nell’affermare di essere al mondo per il solo
popolo eletto da Dio - sia pure non come messia, visto che annuncia più volte l’arrivo del
«Figlio dell’Uomo» non riferendosi chiaramente a se stesso. Sicché è semmai Paolo il ve-
ro fondatore della chiesa cattolica, cioè «universale», nonché apostolica e romana. Per
preparare la quale abbiamo un Gesù profeta
(per le genti più avvertite), un Gesù mago
(per i poveri di spirito) e un Gesù evangelico
con i suoi attributi di Cristo e di Messia: un
«unto» della stirpe di Davide, in predicato di
divenire re, che negli apostoli vanterebbe una
guardia del corpo armata nel seno della quale
non vedrebbe un iscariota, cioè un sicario,
quindi un «terrorista». Ma il Gesù evangelico
può anche essere quello della profezia veterotestamentaria, senonché i Vangeli canonici
sembrano a Odifreddi ricalcati sulle antiche
scritture per cui i miracoli attribuiti a Gesù altro non sarebbero che «segni» disposti a confermarle. Proprio partendo da questo nodo,
uno dei tanti di cui è cosparsa la sua ricerca,
Stilos ha intervistato Odifreddi.
Lei trova che i racconti della nascita, della
morte e della resurrezione di Gesù rimandino al Vecchio Testamento, come se siano
stati voluti e dunque inventati per realizzare le profezie. Questo vuol dire che il Nuovo Testamento è tutto una impostura?
Il collegamento fra i vari aspetti di quei racconti e le precedenti profezie bibliche è ben
noto, e sottolineato anche dalle note della versione ufficiale Cei. Per i credenti, questi fatti
sono la prova della divinità di Gesù. Per me, e
in generale per i non credenti, sono invece soltanto la traccia (e dunque la prova) della progressiva invenzione del mito di Gesù: anche
perché questi racconti non appaiono nei protovangeli, come la fonte Q che ha ispirato i sinottici e la fonte SQ che ha ispirato Giovanni, e
(almeno per la nascita e la resurrezione) neppure nel più antico dei Vangeli canonici, e
cioè quello di Marco.
I Vangeli sarebbero per lei opere devozionali e non storiche. Ma anche quelli apocrifi,
rifiutati dalla chiesa ma visti con interesse
dagli storici, sarebbero dei falsi?
«Falso» è una brutta parola, che presuppone
una truffa programmata. Io mi limiterei a dire
soltanto che i Vangeli, canonici e apocrifi, sono stati ispirati da insegnamenti, avvenimenti
e persone variegate e diverse, e che a poco a
poco essi sono stati fatti confluire in un racconto organico e unitario, riferito a un’unica persona che, in quanto tale, è appunto una costru-
mesogea
Mouloud Feraoun
TERRA E SANGUE
Un vecchio sapiente riappare dall’antichità «Le sembrava che lei e Amer
al giorno d’oggi.
formassero una
Profugo dell’esistenza,
strana coppia,
non ricorda quasi
ridicola, che,
niente della sua vita e
accanto a lei,
nulla sa del nostro
lui perdesse
mondo. Il vagare
la personalità
drammatico, visionario
di cabilo
e poetico nella terra
e lei non avesse più
di nessuno dell’essere
quella di francese».
umano «in corsa fra
gli steli dell’erba rossa».
pp. 128 – € 9,50
Nella foto Piergiorgio Odifreddi, autore per Longanesi
di Perché non possiamo essere cristiani
pp. 304 – € 16,00
zione immaginaria e letteraria.
Lei è un matematico e quindi uno scienziato. Naturale - verrebbe da obiettare - che
muovesse contro la religione con gli scarponi chiodati. Ciò che ha fatto senza concessione alcuna, per la verità.
In realtà in questo libro, più che uno specifico
matematico armato contro la religione, sono
semplicemente un generico uomo razionale
che legge un libro (la Bibbia) che di razionale ha ben poco.
Delle sue competenze di matematico qui in
effetti non c’è molto. Ma c’è almeno una curiosità che piacerebbe a Dan Brown: il numero dei pesci moltiplicati da Cristo nel suo
miracolo è uguale alla misurazione della
«vescica piscis», il simbolo del pesce dei protocristiani. Lei stesso parla comunque di
elemento esoterico.
Quel particolare episodio potrebbe essere soltanto una coincidenza, naturalmente. Ma non
ci sarebbe da stupirsi se nei Vangeli fossero
confluiti elementi esoterici, visto che essi sono comunque una stratificazione di varie immagini e ispirazioni: il Gesù Profeta dei detti
più o meno saggi, il Gesù Mago dei miracoli
più o meno ciarlataneschi, il Gesù Agitatore
che aveva appunto il nome di Messia, e così
via.
Non sarebbe stato più conforme allo spirito della sua ricerca intitolare il libro al contrario, "Perché non possiamo essere cattolici (e meno che mai cristiani)" visto che
l’apparato che attacca è quello messo su dal
cattolicesimo?
Non mi sembra. Un terzo del libro, quello iniziale, esamina il Pentateuco, che ha ispirato la
religione ebraica. Il secondo terzo analizza il
Nuovo Testamento, che sta alla base di tutte le
varie sette del cristianesimo. È solo l’ultimo
terzo che discute specificamente le elaborazioni dogmatiche che hanno definito il cattolicesimo come oggi noi lo conosciamo.
Il suo obiettivo non molto mascherato è stato quello di smontare la versione ufficiale
che della Bibbia dà la Cei, colta sempre in
stato di imbarazzo per le giustificazioni simboliche che trova alle tante incongruenze.
Ma l’interpretazione della Bibbia non è
sempre stata suggerita come metaforica,
trattandosi di testi dell’alba dell’uomo? Chi
L’isola che scrive
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LA CARNAGIONE DELLE BIONDE
N A R R AT I V A
I
S t los
incontri
ravvicinati
pagina
cerca un’ermeneutica storica e letterale non
rischia l’ebrefenia?
Non avevo nessun interesse specifico nello
smontare la versione ufficiale della Cei: qualunque altra versione dei Vangeli sarebbe andata bene. Ho scelto quella soltanto per comodità, visto che in Italia viene proposta ufficialmente dalla Chiesa ai fedeli. Ma leggendola mi
sono divertito a vedere i commenti nelle note,
che spesso rivelavano appunto un malcelato
imbarazzo, e a farle notare.
Non è eccessivo sostenere che Gesù Cristo
non è altro che una costruzione lettararia,
perché non si hanno prove storiche della
sua esistenza se non riferibili a fonti interne?
Mi sembra molto più eccessivo ritenere che
Gesù Cristo sia invece un personaggio storico,
quando mancano completamente prove esterne della sua esistenza. In tutta sincerità, non capisco su quale base la chiesa e i fedeli credano
che i Vangeli siano testi storici che narrano episodi realmente avvenuti, quando allo stesso
tempo (e giustamente) ritengono invece invenzioni mitologiche e letterarie gli innumerevoli e analoghi testi analoghi delle altre tradizioni e religioni. Perché i Vangeli sì, ma l’Iliade o
il Mahabarata no? Ovvero, perché Gesù sì,
ma Pallade Atena o Khrisna no?
Lei punta a distruggere il cristianesimo ma
nello stesso tempo non risparmia l’ebraismo. Il suo atteggiamento di miscredenza
nel trascendentale riguarda queste o tutte le
fedi?
Io non ho niente di particolare contro il cristianesimo o l’ebraismo: in questo libro ho esaminato la tradizione giudaico-cristiana, perché in
Italia è quella che ci condiziona attraverso la
chiesa, con una recrudescenza recente che non
può che scatenare reazioni di rigetto. Ma in un
precedente libro, Il Vangelo secondo la scienza
(Einaudi, 1999), avevo già fatto un discorso
generale contro tutte le religioni, tutte accomunate come «superstizioni».
Il cristianesimo è indegno della razionalità
dell’uomo. Sono parole sue. Ma che c’entra la ragione con la fede?
Niente, appunto. Sono modi contrapposti di
guardare al mondo, e non sono compatibili,
nonostante i salti mortali che la chiesa compie
per affermare in contrario. Non si può credere
di settimana che il mondo sia regolato da leggi fisiche e chimiche, espresse in linguaggio
matematico, e credere invece la domenica che
il pane e il vino si tramutano, grazie a una formula magica, nella carne e nel sangue di un
uomo, senza però acquistarne nessuno degli attributi. O che la Madonna è rimasta vergine
prima, durante e dopo il parto, o che è stata assunta in cielo col corpo. Queste sono barzellette, per un uomo razionale.
Lei rifiuta la Rivelazione al punto da adottare le sigle «p.eV.» e «e.V» per indicare un
prima e un dopo la cosiddetta era volgare,
riferimenti temporali che comunemente
vengono precisati con «a. C.» e «d. C.»
Non è un rifiuto della Rivelazione: soltanto
una economica presa di distanza da una datazione basata su un mito religioso mediorientale. La datazione riferita alla nascita di Cristo è
provinciale e anacronistica, e certo non va bene al resto del mondo, che infatti non la adotta (anche se ne adotta altre altrettanto provinciali e anacronistiche, a partire dall’Egira nei
paesi musulmani, o dalla nascita di Buddha in
quelli buddisti).
Lei definisce la sua ricerca una via crucis.
Perché teme anatemi da parte della chiesa
o perché l’ha vissuta con tormento? A me
pare che sia invece divertito a fare l’iconoclasta.
Via Crucis, perché per leggere quei testi sacri
ho dovuto fare uno sforzo, come se avessi dovuto leggere le relazioni di studenti poco dotati, molto pasticcioni e anche un po’ matti. Ma,
sicuramente, mi sono anche divertito, benché
in un modo un po’sadico: come uno che sa che
la strada è cosparsa di bucce di banane, e sta alla finestra ad aspettare che la gente scivoli e
sbatta il sedere o il naso per terra: come succede sistematicamente alla Cei, appunto, quando
si arrampica sui vetri per interpretare le assurdità di libri che si ostina a considerare ispirati
da Dio.
CAMMEI
IL DOLORE CONDIVISO
a cura di Gianpiero Chirico
Una spy story
ambientata a Palermo.
Un omicidio eccellente
su cui indaga un agente
ormai ‘dismesso’
dei Servizi segreti.
Lo spaccato di una
società travagliata
dalle ipocrisie di potere
e mentalità mafiosa.
Una selezione tra i più
importanti messaggi di
solidarietà inviati da
intellettuali, artisti e
scienziati per le vittime
del terremoto del 1908.
Da Marconi a d’Annunzio,
da Hesse a Debussy,
da Capuana a Deledda.
pp. 168 – € 12,50
pp. 160 – € 29,00
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