I mondi reali_stampa.indd

Transcript

I mondi reali_stampa.indd
«Abelardo Castillo, un nome vivo da
aggiungere alla tradizione letteraria
rappresentata da Borges, Arlt e Cortázar.
Uno scrittore di razza, polemico, scomodo
e provocatore. Uno dei grandi.»
El País
«Castillo scrive cuentos, cioè a dire sistemi
chiusi, e non semplici storie in cui di
solito non si passa dal ricordo arbitrario
di una situazione senza quella tensione
che conferisce al racconto il suo valore di
trampolino psichico.»
Julio Cortázar
hanno scritto
formebrevi
13
Abelardo Castillo, I mondi reali
Titolo originale: Los mundos reales
Copyright © Abelardo Castillo, 2015
Copyright © Del Vecchio Editore, 2015
Editing: Giuliano Lozzi, Carlo Alberto Montalto
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | ifix
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
www.senzazuccheroblog.it
ISBN: 9788861101487
ISBN: 9788861101562 (ebook)
«Gli scrittori e gli editori
credono che un romanzo sia
più importante di un racconto.
Non ci credete. È solo più lungo.»
—
ABELARDO CASTILLO
TRADUZIONE E CURA ELISA MONTANELLI
formebrevi
Tutti i miei racconti
quelli già scritti e quelli ancora da scrivere
appartengono a un solo libro incessante e a una donna
A Sylvia
che ha dato a questo libro il nome che porta oggi
I mondi reali
Le altre porte
I. Gli iniziati
Anch’io ho sentito la propensione a
forzarmi, in un modo quasi demoniaco,
a essere più forte di quello che sono in realtà.
Søren Kierkegaard
La madre di Ernesto
Se Ernesto avesse saputo o no che lei era tornata (di come
era tornata) l’ho sempre ignorato, ma sta di fatto che poco
dopo se ne andò a vivere a El Tala e, in tutta l’estate, lo rivedemmo solo una volta o due. Era dura guardarlo in faccia.
Era come se l’idea che Julio ci aveva messo in testa (perché
l’idea era stata sua, di Julio, ed era un’idea strana, inquietante: sporca) ci facesse sentire colpevoli. Non per fare i
puritani, no. A quell’età, e in un posto del genere, nessuno
è puritano. E proprio per questo, perché non lo eravamo,
perché non avevamo niente di puro o di misericordioso e
in fin dei conti assomigliavamo abbastanza a tutti gli altri, l’idea aveva in sé qualcosa che turbava. Qualcosa d’inconfessabile, crudele. Attraente. Soprattutto, attraente.
È stato molto tempo fa. C’era ancora l’Alabama, quella stazione di servizio che avevano costruito all’uscita della città,
sulla strada. L’Alabama era una specie di ristorante inoffensivo, per lo meno di giorno, ma intorno alla mezzanotte si
trasformava in una sorta di night rudimentale. Smise di essere rudimentale quando al turco venne in mente di aggiungere qualche stanza al primo piano e di portarci le donne.
Ne portò una.
– No!
– Sì. Una donna.
15
– Dove l’ha trovata?
Julio assunse un’aria misteriosa, che conoscevamo molto
bene (aveva quel particolare virtuosismo di gesti, parole,
inflessioni che lo rendevano curiosamente famoso, e invidiabile, come un modesto Brummell di provincia), poi, a
bassa voce, domandò:
– Che fine ha fatto Ernesto?
– è in campagna, – dissi io. Tutte le estati Ernesto trascorreva qualche settimana a El Tala, ed era così ormai da
quando il padre, a causa di quello che era successo con la
moglie, non aveva più voluto tornare al paese. Io dissi è in
campagna, e poi chiesi:
– Che cosa c’entra Ernesto?
Julio tirò fuori una sigaretta. Sorrideva.
– Sapete chi è la donna che ha portato il turco?
Io e Aníbal ci guardammo. Mi ricordai in quel momento della madre di Ernesto. Nessuno parlò. Se n’era andata
quattro anni prima, con una di quelle compagnie teatrali
che girano per le città: scostumata, aveva detto mia nonna
quel giorno. Era una bella donna. Bruna e formosa: me la
ricordavo. E non doveva essere molto in là con gli anni, sarà stata sulla quarantina.
– Che puttana, vero?
Seguì un silenzio e fu allora che Julio ci piantò quell’idea
in mezzo agli occhi. O, forse, ce l’avevamo già.
– Se non fosse la madre…
Non disse altro.
16
Chissà. Forse Ernesto se n’era accorto, dato che durante tutta l’estate lo vedemmo soltanto una volta o due (in
seguito, a quanto dice la gente, il padre vendette tutto e
nessuno parlò più di loro) e, quelle poche volte, guardarlo
in faccia era dura.
– Colpevoli di cosa, ragazzi. In fin dei conti è una prostituta e sta all’Alabama da tre mesi. E se aspettiamo che il
turco ne porti un’altra, qui si muore di vecchiaia.
Poi, lui, Julio, aggiungeva che bastava solo rimediare
un’auto, andare, pagare, – e poi allora mi racconterete, – e
se non avevamo le palle di accompagnarlo si trovava qualcun altro che non fosse così pisciasotto, e io e Aníbal non
lo avremmo di certo lasciato parlare così.
– Ma è sua madre.
– Madre. Che intendi tu per madre? Anche una scrofa
partorisce porcellini.
– E se li mangia.
– Certo che si li mangia. E allora?
– E questo che c’entra? Ernesto è cresciuto con noi.
Dissi qualcosa a proposito delle volte in cui avevamo giocato insieme; poi mi fermai a pensare, e qualcuno, a voce alta, espresse esattamente ciò che stavo pensando. Forse proprio io:
– Vi ricordate com’era?
Certo che ce lo ricordavamo, erano tre mesi che non facevamo che ricordarcelo. Era bruna e formosa; non aveva
niente di materno.
– E per di più mezzo paese c’è già stato. Gli unici siamo
noi.
17
Noi: gli unici. Quell’argomento aveva la forza di una provocazione, ed era una provocazione anche il fatto che lei
fosse tornata. E tutto, quindi, sembrava schifosamente più
facile. Oggi credo, chissà, che se si fosse trattato di una donna qualunque, forse non avremmo seriamente pensato di
andarci. Chissà. Faceva un po’ paura ammetterlo, ma, sotto sotto, aiutavamo Julio a convincerci; perché l’ambiguo,
l’inconfessabile, il mostruosamente attraente di tutta quella storia, forse, era proprio il fatto che si trattasse della madre di uno di noi.
– Non dire porcate, su, – mi disse Aníbal.
Una settimana dopo, Julio assicurò che quella sera stessa avrebbe rimediato l’auto. Io e Aníbal lo aspettavamo sul
viale.
– Mi sa che non gliel’hanno prestata.
– Forse ci ha ripensato.
Lo dissi quasi con disprezzo, lo ricordo perfettamente.
Tuttavia, era una specie di preghiera: forse ci ha ripensato.
Aníbal aveva una voce strana, una voce indifferente:
– Non ho intenzione di aspettarlo tutta la sera; se entro
dieci minuti non arriva, io me ne vado.
– Come sarà ora?
– Chi… la tipa?
Stava per dire: la madre. Glielo lessi in faccia. Disse la
tipa. Dieci minuti sono lunghi, ed è difficile dimenticarsi
di quando andavamo a giocare con Ernesto, e lei, la donna bruna e formosa, ci chiedeva se volevamo rimanere per
il latte della merenda. La donna bruna. Formosa.
18
– Senti, tutto questo fa schifo!
– Hai paura, – dissi io.
– Paura no; è un’altra cosa.
Mi strinsi nelle spalle:
– Di solito quelle hanno sempre dei figli. Di qualcuno
doveva pur essere la madre.
– Non è lo stesso. Ernesto lo conosciamo.
Dissi che quella non era la cosa peggiore. Dieci minuti.
La cosa peggiore era che lei conosceva noi, e ci avrebbe
guardati. Sì. Non so perché, ma ero convinto di una cosa:
nel momento in cui ci avesse guardati sarebbe accaduto
qualcosa.
Aníbal aveva una faccia spaventata ora, e dieci minuti
sono lunghi. Domandò:
– E se ci butta fuori?
Stavo per rispondergli quando mi venne un nodo allo stomaco: dalla strada principale proveniva il fragore di un’auto a scappamento libero.
– È Julio, – dicemmo in coro.
La macchina fece una curva prepotente. Tutto era prepotente: il fanale, il tubo di scappamento. Infondeva coraggio. Anche la bottiglia che aveva portato Julio infondeva coraggio.
– L’ho fregata al vecchio.
Gli brillavano gli occhi. Anche a me e ad Aníbal, dopo i
primi sorsi, brillavano gli occhi. Voltammo in Calle de los
Paraísos, in direzione del passaggio a livello. Anche a lei brillavano gli occhi quando eravamo piccoli, o, magari, ora mi
sembrava di averglieli visti brillare. E si truccava, si truc-
19
cava molto. La bocca, soprattutto.
– Fumava, ti ricordi?
Tutti stavamo pensando alla stessa cosa, infatti non ero
stato io a dire quelle ultime parole, ma Aníbal; io dissi di
sì, che me lo ricordavo, e aggiunsi che si comincia sempre
per qualche motivo.
– Quanto manca?
– Dieci minuti.
E i dieci minuti furono di nuovo lunghi, ma questa volta lunghi esattamente al contrario. Non lo so. Forse era perché mi ricordavo, tutti ci ricordavamo, di quella sera in cui
lei stava pulendo il pavimento, ed era estate, e chinandosi
la scollatura della maglia le si era staccata dal corpo, e noi
lì a tirarci gomitate.
Julio spinse sull’acceleratore.
– In fin dei conti è una punizione, – la tua voce, Aníbal,
non era convincente, – una vendetta in nome di Ernesto,
così impara a fare la troia.
– Ma che punizione e punizione!
Qualcuno, credo di essere stato io, disse un’oscenità bestiale. Certo che ero stato io. Tutti e tre ridevamo a crepapelle e Julio accelerò ancora.
– E se ci fa cacciare via?
– Ma tu sei fuori di testa! Se se la tira lo dico al turco,
e metto su un casino che gli faccio chiudere il locale per
mancanza di considerazione verso la clientela!
A quell’ora non c’era molta gente al bar: qualche viaggiatore e due o tre camionisti. Nessuno del paese. E, chissà
20
perché, questo mi fece sentire audace. Impunibile. Strizzai
l’occhio alla biondina dietro il bancone; intanto Julio parlava con il turco. Questo ci guardava come se ci stesse studiando, e dalla faccia di sfida che fece Aníbal, mi resi conto
che anche lui si sentiva audace. Il turco disse alla ragazza:
– Pòrtali di sopra.
La biondina che saliva le scale: ricordo le sue gambe. E
come muoveva i fianchi salendo. Ricordo anche di averle
detto una sconcezza, e che lei rispose con un’altra, cosa che
(forse a causa del cognac che avevamo bevuto in macchina,
o del gin al banco) ci fece molto ridere. Poi ci ritrovammo in
una sala pulita, impersonale, quasi accogliente, dove c’era
un tavolino: la saletta d’attesa di un dentista. Pensai, vediamo un po’ se ci tolgono un dente. Lo dissi agli altri:
– Vediamo un po’ se ci tolgono un dente.
Era impossibile trattenere le risate, ma cercavamo di non
fare rumore. Ci dicevamo le cose a voce bassissima.
– Come a messa, – disse Julio, e a tutti la situazione sembrò di nuovo molto divertente; tuttavia, il momento migliore fu quando Aníbal, tappandosi la bocca e con una specie di grugnito, aggiunse:
– Oh, immaginatevi se da una di queste porte esce il
prete!
Mi faceva male lo stomaco e avevo la gola secca. Dalle
risate, credo. Ma all’improvviso diventammo seri. L’uomo
che era dentro uscì. Era basso, tarchiato, aveva l’aspetto di
un maialino. Un maialino soddisfatto. Indicando la stanza con la testa, fece un gesto: si morse il labbro e stralunò
occhi.
21
Poi, mentre si udivano i passi dell’uomo che scendeva,
Julio domandò:
– Chi va?
Ci guardammo. Fino a quel momento non mi era passato per la testa, o ero io a non avercelo fatto passare, che
saremmo stati soli, separati (ecco: separati) davanti a lei.
Scrollai le spalle.
– Che ne so. Uno.
Dalla porta mezzo aperta si sentiva il rumore dell’acqua
che scorreva da un rubinetto. Il lavaggio. Poi, un silenzio e
una luce che ci colpì in faccia; la porta si era appena aperta
completamente. Eccola. Rimanemmo a guardarla, incantati. La vestaglia semiaperta e quella sera d’estate, prima,
quando ancora era la madre di Ernesto e il vestito le si era
staccato dal corpo e ci chiedeva se volevamo rimanere per
il latte. Solo che ora la donna era bionda. Bionda e formosa. Sorrideva con un sorriso professionale, un sorriso vagamente meschino.
– Allora?
La sua voce, inaspettata, mi fece sobbalzare. Era la stessa. Tuttavia, qualcosa in lei, nella voce, era cambiato. La
donna sorrise di nuovo e ripeté “allora”, ed era come un
ordine; un ordine sdolcinato e focoso. Forse fu per questo
motivo che, tutti e tre insieme, ci alzammo in piedi. La sua
vestaglia, ricordo, era scura, quasi trasparente.
– Vado io, – mormorò Julio e avanzò, deciso.
Riuscì a fare due passi: non più di due. Perché lei a quel
punto ci guardò in pieno viso e lui, di colpo, si fermò. Chissà perché si fermò: per la paura, o forse per la vergogna, o
22
per lo schifo. E lì finì tutto. Perché lei ci stava guardando
e io sapevo che, nel momento in cui ci avesse guardati, sarebbe accaduto qualcosa. Noi tre eravamo rimasti immobili, inchiodati al pavimento, e vedendoci così, titubanti,
chissà con quali facce, il volto di lei cominciò a trasformarsi lentamente, pian piano, fino ad assumere un’espressione strana e terribile. Sì, perché all’inizio, per qualche secondo, fu perplessità e incomprensione. Poi no. Poi, sembrò aver misteriosamente capito qualcosa, e ci guardò con
terrore, dura, inquisitoria. Poi lo disse. Chiese se era successo qualcosa a lui, a Ernesto.
Lo chiese chiudendosi la vestaglia.
23
Il nuovo cuento argentino
postfazione
di Elisa Montanelli
La grande fortuna del racconto in Sud America, soprattutto in
Argentina, è nota a tutti. È sufficiente entrare in una qualsiasi
libreria di Buenos Aires per rendersi conto che questa forma
letteraria ha avuto una sorte molto migliore rispetto a quella
avuta in Europa, in particolare, nel nostro Paese. Gli argentini
sono soliti giustificare questo interesse per la narrazione breve
attingendo a una spiegazione forse troppo banale, e cioè che il
racconto dà la possibilità di non interrompere una storia e che
la gente non ha tempo per le lunghe trame. Se da una parte le
ragioni di questa tradizione cuentistica rimangono un mistero,
dall’altra si può azzardare qualche spiegazione di carattere storico–culturale che ci aiuti a capire un po’ meglio. Innanzitutto,
la letteratura argentina è una letteratura giovane. Non è passata
per le grandi opere trecentesche, non ha avuto un Dante o uno
Shakespeare e non ha conosciuto le dispute linguistiche che animarono l’Europa dopo la disgregazione dell’Impero Romano (e
sappiamo bene che una letteratura è figlia della propria lingua
prima che della propria gente). Per lungo tempo l’Argentina,
come tutto il mondo ispanoamericano, non ha potuto far altro
che accogliere, amalgamandoli alle proprie realtà culturali locali, l’idioma e la cultura di qualcun altro. I colonizzatori hanno imposto non solo la lingua, ma anche le letture, e tutta la
243
letteratura “nazionale” che ha prodotto l’Argentina dall’era dei
conquistadores fino all’Ottocento non è stata che una letteratura
in gran parte influenzata da quella del Vecchio Continente. Poi
sono arrivate l’indipendenza dalla Spagna, nel 1816, e la successiva proclamazione della Repubblica Argentina, nel 1853.
In altre parole questo Paese ha cessato di esistere soltanto come
Terra Argentea sulle carte geografiche, e si è costituita nazione
con le sue leggi, la sua lingua, la sua letteratura. È proprio in
quegli anni, infatti, che secondo la maggior parte degli studiosi ha avuto inizio la letteratura argentina propriamente detta,
e l’opera che designa questa importante tappa d’esordio è El
matadero di Esteban Echeverría: niente meno che un racconto.
Volendo dare a questo inizio un carattere di predestinazione,
possiamo anche fermarci qui e affermare che la sorte del racconto argentino fu segnata da El matadero; tuttavia si possono
individuare altre motivazioni più concrete da addurre a sostegno della tesi del cuento come genere privilegiato nel Río de la
Plata. Per esempio, non dobbiamo dimenticare che intorno al
1830 ebbero inizio le prime ondate migratorie degli europei in
Argentina e, proprio in quel periodo, in Europa il racconto stava vivendo il suo momento di maggior prestigio, soprattutto al
Nord. Grandi narratori come Hoffmann, Dickens, Poe, Gogol,
Puškin e Maupassant rinnovarono, dietro la spinta del Romanticismo, una forma letteraria considerata poco vitale e obsoleta,
che dopo i grandi esiti medioevali di Boccaccio o Chaucer, non
aveva più registrato picchi significativi. Gli europei che sbarcarono sulle coste del Sud del mondo portarono con sé questa
cultura, e le traduzioni castigliane degli autori sopra citati hanno avuto certamente il loro peso nella genesi della moderna
244
letteratura argentina. Poe, in modo particolare, influenzò moltissimo i nuovi autori e i racconti fantastici trovarono nei territori del Río de la Plata un terreno decisamente fertile, e gli stessi Borges, Cortázar e Castillo ne saranno più tardi la prova. A
cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, per fare solo due fra i più
grandi nomi, vissero e scrissero l’uruguaiano Horacio Quiroga
e l’argentino Leopoldo Lugones, grande modello per Jorge Luis
Borges. Entrambi si cimentarono nel racconto, ma Quiroga, in
modo particolare, rappresentò uno dei massimi esponenti del
genere, tanto da essere considerato il grande maestro da molti
scrittori ispanoamericani successivi e uno dei principali innovatori della nuova letteratura argentina. Un altro abilissimo cuentista fu Roberto Arlt (che fortunatamente l’editoria italiana sta
riscoprendo proprio in questo periodo), che nella sua breve vita
(1900 – 1942) scrisse più di settanta racconti. Ma è con Cortázar che si spicca il salto definitivo verso il rinnovamento della
forma del racconto, arrivando a una rivoluzione della struttura, dei contenuti e della ricezione da parte del lettore. Entriamo così in quella che il critico Carlos Mastrangelo definisce la
“nueva era cuentistica argentina”1, l’era in cui si inseriscono a
pieno titolo i racconti di Abelardo Castillo.
Abelardo Castillo: dal boom al crack
Con oltre settanta racconti all’attivo, quattro romanzi e due
pièce teatrali, senza contare gli innumerevoli articoli, prefazioni
C. Mastrangelo, 25 cuentos argentinos magistrales, Plus Ultra, Buenos
Aires 1986.
1
245
e saggi critici, Abelardo Castillo è uno degli scrittori più conosciuti in Argentina.
Nasce a Buenos Aires nel 1935, ma, fino all’età di diciassette
anni, vive con il padre a San Pedro, un piccolo pueblo di provincia; anni che marcheranno profondamente la sua produzione
letteraria. Poco più che ventenne, con il suo primo racconto
dal titolo Volvedor, vince un concorso letterario che vede fra i
suoi giurati personalità come Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy
Casares. Nello stesso anno, il 1959, fonda e dirige la prima di
tre importanti riviste letterarie del Paese, «El grillo de papel»,
che verrà proibita dopo solo sei numeri dal governo di Arturo Frondizi a causa del suo palese schieramento a sinistra. Già
nel primo editoriale, infatti, le parole di Castillo non lasciano
spazio a equivoci: «Creemos que el arte es uno de los instrumentos
que el hombre utiliza para transformar la realidad e integrarse a
la lucha revolucionaria». Sono i primi anni Sessanta e i giovani
artisti si nutrono del pensiero di Jean–Paul Sartre e di una Rivoluzione Cubana che avrebbe alimentato a lungo la speranza
di un risveglio di tutto il subcontinente, speranza certamente
non condivisa dalle varie dittature che si susseguono in Argentina una più sanguinosa dell’altra. Nasce così nel 1961 la seconda rivista letteraria, «El Escarabajo de Oro», che durerà fino al
1974. A conferma del fatto che si tratta di una delle riviste più
rappresentative e ferventi della generazione degli anni Sessanta, fra i suoi collaboratori spiccano nomi come Julio Cortázar,
Carlos Fuentes, Miguel Ángel Asturias, Augusto Roa Bastos ed
Ernesto Sabato, per citarne solo alcuni.
Intanto la produzione di Castillo va avanti e, sempre nel 1961,
escono la prima tragedia El otro Judas e la prima raccolta di
246
racconti dal titolo Las otras puertas con cui vince il prestigioso
Premio Casa de las Américas. La raccolta è strutturata al suo
interno in quattro sezioni e già il titolo suggerisce che queste
storie sono come porte che si aprono verso una dimensione di
dubbio e perplessità, una zona non ben definita, perturbante, dove convivono l’assurdo, la crudeltà, il sogno e la pazzia,
come conferma il famoso aforisma di Edgar Allan Poe posto
come epigrafe all’apertura della seconda sezione: «Ho una gran
fiducia nei pazzi. I miei amici la chiamerebbero fiducia in me
stesso». Al lettore non è permesso osservare da fuori lo svolgimento dei racconti, ma deve prenderne completamente parte,
collaborare con l’autore fino a quando quest’ultimo non mollerà la sua mano lasciandolo solo al di là di quella porta, solo
a inventare ogni volta il proprio finale. Sebbene il contenuto
delle storie sia sempre attraente e originale, è lo stile che consacra subito Castillo come un grande scrittore, determinandone
il successo già dalla prima raccolta. Usa una lingua semplice,
incisiva, ma allo stesso tempo elegantissima. Si destreggia con
estrema abilità fra il registro colloquiale, il linguaggio infantile
e il monologo allucinato, fra la prima e la terza persona, riesce
a connotare e rendere vividi i personaggi più disparati – vecchi
barboni, bambini, adolescenti, criminali – con linguaggi sempre diversi, ma senza mai rinunciare alla coloritura portegna,
al voseo2 e ai tempi verbali tipici dell’argentino. Questa prima
raccolta presenta già tutti i temi e gli stilemi che caratterizzeranno i racconti successivi e, come scrive Marta Morello–Frosch
Il voseo è un fenomeno linguistico tipico dei paesi del Río de la Plata che
prevede l’uso del pronome vos al posto del tú, con conseguente cambio
della coniugazione verbale.
2
247
nell’introduzione ai Cuentos completos3, Castillo riesce sempre
a mantenere, seppur crescendo ed evolvendosi negli anni, una
rara unità poetica.
Nel 1964, viene pubblicata la seconda opera teatrale, Israfel,
ispirata al genio e alla vita di Edgar Allan Poe, uno dei padri
letterari fondamentali per Castillo, soprattutto in questa prima
parte della sua opera.
Castillo concentra la maggiore quantità della sua produzione
nella decade del Sessanta, infatti nel 1966 esce la seconda parte
dei suoi racconti, Cuentos crueles, e un anno dopo vede la luce il
suo primo romanzo, La casa de ceniza, definito dall’autore stesso come una nouvelle gotica di stampo poeniano. Il particolare
momento storico e la precaria situazione politica di fine anni
Sessanta inducono Castillo a redigere l’unica raccolta da lui definita come totalmente “realista”, i Cuentos crueles appunto, in
cui elegge come leitmotiv la crudeltà, visitata ogni volta in chiave diversa attraverso variazioni più o meno sensibili del tema.
La violenza è presente in ogni storia in tutte le sue sfaccettature,
così che, nel suo insieme, la raccolta apre una rosa di sottotemi
satelliti, quali il tradimento, la vendetta e la vergogna. Questa
“deriva” verso una compattazione realista è piuttosto interessante e rappresenta un’eccezione per l’autore, il quale ha sempre
affermato che «realisti o fantastici i miei racconti appartengono
a un solo libro. E la letteratura, a un solo e intricato universo,
quello reale, fatto di tanti mondi»4. Ciò che lo spinge a espungere dalla raccolta alcuni racconti fantastici scritti anni prima è
3
A. Castillo, Cuentos completos, Alfaguara, Buenos Aires 1997.
4
Postfazione a Las panteras y el templo (1976).
248
quello che Castillo stesso definisce come una sorta di sentimento di vergogna, una mancanza di decoro. Negli anni Sessanta,
infatti, epoca di rivoluzioni sociali, lotte di classe e delle prime
mobilitazioni a favore dei diritti umani dei popoli dell’Africa,
uno scrittore doveva in qualche modo compromettersi con la
realtà e soprattutto con la Storia. Non ci sono parole migliori
per chiarire questo aspetto di quelle usate dallo stesso Castillo
nella postfazione dei Cuentos crueles, scritta nel 1981 in occasione di una riedizione della raccolta:
Cuentos crueles è stato scritto fra il 1962 e il 1966, niente meno che nel pieno degli anni Sessanta, anni che non
furono il tempo dorato e irresponsabile che alcuni immaginano, ma il preludio di anni atroci e violenti che seguirono e nei quali tutt’oggi viviamo. Io non so in che modo
i miei racconti testimonino quei giorni, che sono anche
questi giorni: so che in qualche modo li testimoniano. So
che non solo per i contenuti, ma perfino per l’esasperazione dei toni, si confanno a quel periodo turbolento in
cui la violenza, il sesso, la politica, la crudeltà, la nascita
e la quasi simultanea morte delle illusioni furono, per la
nostra generazione, non dei semplici temi letterari, ma il
contesto dove uomini, che eravamo noi, vissero, amarono,
credettero, tradirono, furono traditi e scrissero.5
E infatti ogni racconto è un ritratto a tinte forti della società
di quegli anni, dove i personaggi sono prototipi di un mondo
che ha fatto dell’umiliazione, del disprezzo, dello sfruttamento
e della solitudine le norme del vivere quotidiano. La lettura di
5
A. Castillo, Cuentos crueles, Editorial de Belgrano, Buenos Aires 1982.
249
Patrón, racconto dai barbari toni quiroguiani, ambientato nella
provincia e testimonianza della durezza della vita dei campi, ne
è senz’altro un chiaro esempio.
Sempre in questi anni, in un clima di fervente dibattito culturale, Castillo conosce al Café Tortoni la allora giovanissima
scrittrice Sylvia Iparraguirre, con la quale si sposerà pochi anni
dopo. Sylvia sarà sempre una presenza fondamentale nella vita
e nell’opera dell’autore, infatti, nel 1972, appaiono per la prima volta in Cile i racconti di Castillo riuniti sotto il nome Los
mundos reales, titolo suggeritogli dalla moglie e al quale l’autore
si dimostra subito attaccatissimo, tanto che, da ora in avanti,
le raccolte verranno tutte pubblicate con questo unico titolo
collettivo. La spiegazione di tale scelta artistica ed editoriale ce
la dà lo scrittore stesso nella dedica che, a partire dal 1972, apparirà sempre invariata in tutte le raccolte:
Tutti i miei racconti
quelli già scritti e quelli ancora da scrivere
appartengono a un solo libro incessante e a una donna
A Sylvia
che ha dato a questo libro il nome che porta oggi
I mondi reali
Il desiderio di ordinare i racconti sotto un unico titolo, creando
così un’opera “incessante” che nasce, si sviluppa e si rigenera nel
tempo, permettendo a ogni testo di dialogare continuamente
con i testi anteriori e posteriori, è quasi un’ossessione che accompagna Castillo fin dagli esordi. Questo lo ha portato a rivedere e correggere instancabilmente i propri racconti, come se la
250
correzione rappresentasse un’ulteriore strategia per attualizzare
la propria opera a ogni riedizione, come se fosse una maniera
di rinviarla, di renderla e rendersi immortale. Quanto all’interpretazione del titolo Los mundos reales si potrebbe dire molto.
Al contrario di Borges che afferma che in quanto finzione tutta
la letteratura appartiene alla sfera fantastica, Castillo è convinto
che anche i sogni, l’immaginazione e naturalmente la letteratura facciano parte della stessa realtà e che ogni suo aspetto e
manifestazione vada appunto a far parte di questi “mondi reali”. Le sue parole lo confermano: «I momenti più meravigliosi
della vita reale sono i sogni. Per questo i miei libri si chiamano
I mondi reali, perché immagino che i sogni prendano parte alla
realtà»6.
Nel 1974, anche la rivista «El escarabajo de oro» viene chiusa
per cause di forza maggiore, ma la testardaggine è una caratteristica condivisa da molti intellettuali del tempo e, nell’anno
più buio del Novecento argentino, il 1976, Abelardo, la moglie
e Liliana Heker, fondano e dirigono quella che sarà ricordata
come una delle pubblicazioni più importanti nel campo della
resistenza culturale alla dittatura di Videla, la rivista «El ornitorrinco», che uscirà fino al 1985. Nello stesso anno, l’Editorial
Sudamericana pubblica Los mundos reales, iii – Las panteras y el
templo, la terza parte del “libro incessante”, composta da undici
racconti, divisi a loro volta in quattro sezioni, e da una postfazione dell’autore. La postfazione, oltre che un esempio di impeccabile scrittura editoriale, è una lettura imprescindibile, non
A. Berlanga, Entrevista con Abelardo Castillo sobre <El espejo que tiembla>, in «Página/12», 17 settembre 2005.
6
251
solo per godersi al meglio le storie de Las panteras, ma soprattutto per capire a fondo la genesi del progetto de Los mundos
reales come libro a cui l’autore sente che lavorerà tutta la vita.
In questa nota finale, Castillo parla di molte delle sue ossessioni
e delle sue strategie di scrittura, per esempio parla della mania
di correggere i propri testi fino alla nausea, tanto che nelle varie
edizioni successive accade spesso di trovare paragrafi nuovi o
intere frasi espunte. Ma non si tratta solo di una postilla teorica,
infatti Castillo strizza l’occhio al lettore confidandogli anche
“algunos secretos privados”, come per esempio la scelta del titolo
della raccolta, che non sarebbe altro che una citazione errata da
un’opera di Kafka, che non parla mai di panteras bensì di leopardos. Un altro tema importante affrontato nel posfacio è quello dell’intertestualità e dell’imitazione dei maestri. Molte volte
è stato rimproverato a Castillo di rifarsi troppo apertamente ad
alcuni racconti di Borges, Cortázar o Arlt, ma con ammirevole
abilità retorica l’autore trasforma questa accusa indiretta in un
elogio verso i suoi precursori, sottolineando che «la tradizione
ci assicura che il plagio è la più sincera forma di ammirazione».
Quindi Castillo coglie l’occasione per rendere manifeste le fonti di alcuni cuentos della raccolta, come Crear una pequeña flor es
trabajo de siglos, il cui titolo è una citazione dall’inglese William
Blake mentre il testo è un omaggio a Escritor fracasado di Roberto Arlt. In molte interviste, d’altra parte, Castillo ha modo
di dichiarare che molti suoi racconti sono omaggi o riscritture
di altri testi famosi: Requiem para Marcial Palma di Cuentos
crueles è una rivisitazione di Hombre de la esquina rosada di Borges, Noche para el negro Griffiths deve molto a El perseguidor di
Cortázar e Also sprach el señor Núñez di Las otras puertas è “fi-
252
glio” di El jorobadito di Arlt. È interessante anche sottolineare
che nella postfazione appare una nota a piè di pagina, aggiunta
nel 1993, dove Castillo esprime la sua preoccupazione per il
fatto che è nata una nuova onda di giovani scrittori che vive la
tradizione come un peso e un ostacolo alla creazione di nuova
letteratura. In altre parole, questa generazione vuole disfarsi di
Cortázar, Marechal e di Borges, ma «io», dice Castillo, «non ho
l’età per partecipare a questi parricidi, che, d’altra parte, non
hanno mai intaccato la buona salute di nessun padre». Quanto
all’aspetto tematico e formale dell’opera, c’è da dire che Las
panteras y el templo è forse la raccolta più varia di Abelardo
Castillo. Qui, infatti, si alternano racconti fantastici, realistici
e umoristico–polizieschi, e i temi affrontati sono molteplici.
Soprattutto, Castillo scrive storie il cui sfondo è molto spesso
la vita di coppia, intesa come battaglia e sopravvivenza quotidiana, permeata da un’ironia grottesca che ci fa riflettere ancora
una volta sulla solitudine dell’uomo contemporaneo. Si parla
di pazzia e vergogna in Las panteras y el templo; si parla di solitudine in Triste le Ville, dove una cittadina non collocabile nel
tempo e nello spazio diventa l’allegoria dell’inferno quotidiano
di ogni individuo, in un’atmosfera che ricorda vagamente la città dei morti di Pedro Páramo di Juan Rulfo. Si parla di rottura
e di felicità perduta in Crear una pequeña flor es trabajo de siglos.
Sebbene l’uniformità poetica di Castillo non permetta al lettore
di riconoscere a prima vista un racconto del 1960 da uno degli anni Ottanta, e di conseguenza di non ricondurlo all’una o
all’altra raccolta, le storie de Las panteras y el templo forse sono
le più riconoscibili, quelle che a mio avviso hanno una marca
particolare. Questi testi, infatti, presentano uno stile ancora più
253
asciutto dei precedenti e i personaggi descritti possiedono una
maggiore vividezza, come se avessero fatto un cammino dalla
carta alla carne. I protagonisti dei cuentos de Las otras puertas,
per esempio, assomigliavano più a degli stereotipi, e i racconti
stessi avevano spesso il tono di un’amara fiaba moderna (La
madre de Ernesto, per esempio). Las panteras y el templo perde in
un certo senso quell’atmosfera da racconto di fate trapiantato
in un mondo di streghe, e si sporca di una dimensione più
quotidiana, a volte più crudele, a volte più ironica, ma sempre
grottesca. Lo stesso Castillo ammette che quest’opera rappresenta una sorta di virata nella sua produzione, e dichiara che
qui ci sono alcuni racconti che giudica i suoi migliori esiti, come se a un certo punto avesse sentito di aver imparato definitivamente a scrivere. La virata consiste nell’aver rielaborato i temi
e le forme delle raccolte precedenti in una dimensione diversa,
nell’aver trasposto la crudeltà, la vergogna, la pazzia e l’infedeltà
nell’ambito del conflitto privato, del dramma segreto di ciascuno. Scompare la dimensione storica che aveva caratterizzato
il Castillo precedente, e scompare in qualche modo anche la
speranza di una redenzione collettiva dell’uomo. L’individuo
de Las panteras è solo, non si sente parte di un processo storico,
non è uno degli artefici della ruota degli eventi e del progresso,
ne è semmai il distruttore. Il personaggio si vede sempre paradigmaticamente, per dirla in termini saussuriani, in absentia, in
perenne conflitto con quello che è e che potrebbe essere stato,
aspetto che nello stile si traduce in ossessivi salti temporali e
sdoppiamenti del narratore, che parla ora in prima ora in terza
persona, ora al presente ora al passato. Si può dire che, d’ora in
poi, la narrativa di Castillo si popola di “escritores fracasados”, di
254
ex–futuros unamuniani che ritroveremo ininterrottamente fino
all’ultima raccolta.
Nel 1982 la casa editrice Galerna di Buenos Aires pubblica
una selezione di racconti provenienti dalle tre raccolte anteriori, un’antologia che presenta un lungo testo inedito dal titolo
El cruce del Aqueronte. Questo racconto lungo, che parla della
disperazione ma soprattutto della locura e l’allucinazione dovute all’alcolismo, andrà a far parte, tre anni dopo, del primo
e doloroso romanzo intitolato El que tiene sed, costituendone il
secondo capitolo. In El que tiene sed, Castillo proietta se stesso
nel personaggio di Esteban Espósito, uno scrittore alcolizzato
in lotta con la sete insaziabile di whisky e di risposte, risposte a
interrogativi sul senso del mondo e della vita, sul ruolo dell’artista e della letteratura. Il romanzo diventa così un alternarsi di
momenti di lucidità e ubriachezza che lo trasformano in una
sofferta avventura metafisica, dove il linguaggio è un riuscitissimo miscuglio di crudezza e poeticità. Castillo non rinnegherà
mai il suo passato da alcolista, anzi, lo cristallizza in Esteban
Espósito, suo dichiarato alter ego.
La notorietà di Castillo in Argentina è ormai all’apice e gli anni Ottanta segnano un decennio importante per la sua produzione, sebbene l’autore non pubblicherà nemmeno un libro di
cuentos fino al 1992.
Nel 1991, invece, esce Crónica de un iniciado, il secondo romanzo, che vede di nuovo come personaggio l’alter ego alcolista di Castillo, Esteban Espósito. Insieme al libro incessante de
Los mundos reales, questo testo rappresenta il lavoro più lungo
e più sofferto dell’autore, tant’è vero che la sua stesura richiede
quasi trent’anni. Lo scrittore bonaerense Isidoro Blaisten parla
255
di quest’opera come uno dei romanzi più importanti che ci ha
dato la letteratura argentina, una favola amara in cui, sempre
usando le parole di Blaisten, nell’arco di tempo di trentasei ore,
Esteban si innamora, si ubriaca, fa letteratura e vende la sua anima al diavolo. Un romanzo complesso, dunque, dove il tempo
si annulla ma diventa l’unico vero protagonista, dove la città
di Córdoba è insieme scenario mitico e desolata realtà e dove
soltanto il diavolo sembra in grado di dare a Esteban le risposte
che cerca affannosamente.
L’anno successivo esce finalmente la quarta parte de Los mundos
reales, costituita da undici racconti riuniti sotto il titolo di Las
maquinarias de la noche. A più di quindici anni di distanza da Las
panteras y el templo, la prosa di Castillo conserva la stessa chiarezza ed eleganza del passato e ci fa esplorare ancora una volta
il suo inquietante mondo narrativo fatto di tradimenti, colpe e
abbandoni, accompagnandoci in ogni racconto nelle pieghe più
recondite della condotta umana. Di nuovo questi racconti non
sono né propriamente fantastici, né realistici, ma sono un’altra
prova del fatto che Castillo è testimone, attraverso le sue storie,
di un unico mondo di cui fanno parte tutti i mondi.
Ma ora siamo già negli anni Novanta e Abelardo Castillo è ormai uno dei narratori più conosciuti in Argentina. È proprio
nel 1997 che esce la prima edizione dei fortunati Cuentos Completos, la prima volta in cui tutte le sezioni de Los mundos reales
vengono riunite in un unico volume con lo stesso sottotitolo,
consentendo al lettore di esplorare il percorso della narrativa
breve di Castillo nella sua totalità.
Nel 1999, arriva il suo terzo e ultimo romanzo, El evangelio
según Van Hutten, l’unico libro di Castillo tradotto in italia-
256
no7. Si tratta di un’opera che esula un po’ dal resto della sua
produzione, dove si narra un enigma storico–religioso: il ritrovamento da parte di un archeologo uruguayano di un Vangelo
apocrifo che, se divulgato, metterebbe irrimediabilmente in crisi la Chiesa.
E nel 2005 vede la luce l’ultimo, fino a ora, degli appassionanti
mundos reales di Castillo: El espejo que tiembla, Lo specchio che
trema, una raccolta molto eterogenea che riunisce storie scritte
dagli anni Sessanta fino alla crisi finanziaria di fine millennio.
Di per sé, lo specchio è un elemento fondamentale nella letteratura di tutti i tempi, dalle fiabe alle opere novecentesche, poiché
simboleggia un tema onnipresente che affligge e affascina l’uomo da secoli, quello del doppio. In quest’opera, però, occorre
prendere in considerazione questo oggetto innanzitutto come
un “limite”, una soglia fra due dimensioni. E come suggerisce
di nuovo il sottotitolo I mondi reali, non possiamo fare a meno
di notare che lo specchio rappresenta la porta per l’altra realtà:
il nostro riflesso è un dato reale, comprovabile dalla scienza,
e al tempo stesso un’illusione, appartenendo contemporaneamente a due universi distinti. Ognuno di questi racconti è la
dimostrazione che esiste qualcosa intorno a noi che va al di là
delle nostre capacità conoscitive, qualcosa che non possiamo
afferrare, il freudiano unheimliche. E il lettore se ne accorgerà
confrontandosi con racconti come La Calle Victoria, che oltre
a un cuento del “limite” rappresenta anche una fantastica riflessione metaletteraria, quasi un corso di scrittura all’interno
A. Castillo, Il Vangelo secondo Van Hutten, tr. it. di Antonella Ciabatti,
Crocetti, Milano 2002.
7
257
della narrazione, o il bellissimo El tiempo de Milena o ancora il
cortazariano La que espera, La donna che aspetta.
Un’ultima precisazione: Castillo vive da una ventina d’anni in
Calle Hipólito Yrigoyen in una casa de altos con tre balconi, a
pochi isolati dal Congreso de la Nación di Buenos Aires. Nel
racconto La Calle Victoria, Villari incontra una vecchietta che
gli chiede indicazioni per Calle Victoria 2300, dove c’è una casa
de altos con tre balconi. In una delle interviste che ho avuto la
fortuna di fargli nel 2006, Castillo mi confida che si tratta della
stessa casa e della stessa strada, poiché Calle Yrigoyen in passato
si chiamava davvero Calle Victoria. Si sa che non c’è nessuno più
bugiardo di uno scrittore, tuttavia mi piace pensare che la sua
piccola confessione di quel giorno corrisponda alla verità: La
Calle Victoria è stato scritto prima che Castillo si trasferisse in
quella strada, prima che sospettasse anche soltanto l’esistenza di
quella casa. Alla domanda se la letteratura sia un destino o una
scelta, forse possiamo azzardare che per Abelardo Castillo sia stato un destino, o come ama dire lui stesso “una manera de vivir”.
258
La scatola nera del traduttore
Temevo questo momento, il momento di dovermi confessare, di
dover dare un nome a quella sensazione di vertigine che provo
ogni volta intraprendendo la traduzione di un testo di Abelardo
Castillo, questo ingombrante argentino dall’ego voluminoso,
che senza fare una piega (o forse facendone molte) sciorina riferimenti letterari immensi, dai greci ai suoi contemporanei, che
commenta, emula, copia, cita, scomoda i più grandi (Borges,
Cortázar, Arlt, Poe, Sartre, Kafka, Rulfo, Dante, Shakespeare),
senza alcuna reverenzialità, senza ritegno, solido come un gigante di pietra. Per affrontare Castillo bisogna diventare un po’
come lui, sfrontati, perché è uno di quegli scrittori che non
bisogna aver paura di toccare. La sua lingua è una lingua quotidiana, colloquiale, elegante al tempo stesso, una lingua che
mischia la merda con la Bibbia, e questo non deve sorprenderci,
né come lettori né come traduttori.
La parola che ho usato prima è “vertigine”: è esattamente la
sintesi dello stile di Castillo e di conseguenza la sintesi di tutti
gli elementi (analitici, strategici, emotivi) che hanno a che fare
con la sua traduzione. Mi riferisco in particolare alla vertigine temporale, alla difficoltà di rendere il suo tempo ciclico e
perennemente circolare, senza oltraggiare troppo la consecutio
temporum italiana. Sì, perché la consecutio spagnola è molto
più libera della nostra, la sintassi castigliana in genere permette
259
qualche anacoluto in più laddove l’italiano più ingessato griderebbe allo scandalo. E fra lingue affini è ancora più difficile non
farsi inghiottire da questo vortice libertino. Il tempo di Castillo è un tempo borgesiano, circolare appunto, con infiniti salti
temporali, resi quasi sempre con un unico tempo verbale: il
perenne pretérito indefinido, più o meno il nostro passato remoto. Più o meno, ecco. Lo spagnolo usa questo tempo molto più
frequentemente dell’italiano, e lo spagnolo americano ancora
di più, tanto da venire impiegato anche per indicare un’azione
che si è appena svolta. Ovvio che noi abbiamo il passato prossimo, ma abbiamo anche il trapassato remoto e a volte perché
non usare un bell’imperfetto, e sennò un presente storico, per
togliere un po’ di pesantezza ai dialoghi, per esempio. Tutto
questo è facile a dirsi, ma davanti a un racconto come I riti,
è stato difficile decidere di “avvicinare” tutto il testo al nostro
passato prossimo. È stata la vicinanza, la presenza di Virginia
a farmi prendere la decisione: un passato remoto avrebbe reso
tutto troppo distante, avrebbe sbiadito i contorni del ricordo di
Virginia, e invece Virginia è lì piantata nella testa del narratore,
quindi quell’esperienza non doveva essere allontanata dall’atto
della scrittura. Vertigine.
E poi la vertigine dell’“altro”. Questo alter ancora una volta
borgesiano. L’altro mondo reale, l’altro da sé, l’alter ego, insomma un perenne sdoppiamento, tanto da arrivare all’estremo
della dissociazione (o duplicazione?) del personaggio attraverso
l’uso simultaneo di yo e él in La creazione di un piccolo fiore è
lavoro di ere. Spesso i personaggi di Castillo si sdoppiano strada
facendo senza dare segnali, come il narratore de I riti, che a
un certo punto inizia a parlare sopraffatto dall’alcol. Non c’è
260
nessun limite fra la lucidità e la locura, nessun limite fra i due
mondi (ancora questi mondi reali!) e infatti non c’è nessun indizio nel testo che ci faccia intendere che ora il narratore stia
delirando: delira e basta. E forse anche il traduttore, a questo
punto. Vertigine.
E poi la vertigine della sospensione. Nei racconti di Castillo si
rimane sempre un po’ sospesi fra questi mondi, fra il sogno e
la realtà, fra il sonno e la veglia, fra la pazzia e la sobrietà. E stilisticamente siamo sospesi dalle continue domande senza punti interrogativi, che abbondano nel testo originale, ma che ho
scelto in buona parte di normalizzare nella traduzione. Questo
perché in spagnolo ci sono anche altri indizi che segnalano una
domanda, per esempio gli accenti sui pronomi interrogativi. In
italiano no, e il rischio di rendere illeggibile il testo era troppo
grande. Vertigine.
In un passaggio del celebre racconto di Borges Le rovine circolari si legge che «l’impegno di modellare la materia incoerente
e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che
possa assumere un uomo» (traduzione di Franco Lucentini) e
forse, suppongo, anche il più arduo che possa assumersi un traduttore. Buona vertigine.
Elisa Montanelli
261
Elisa Montanelli è laureata in Lingue e letterature straniere e
specializzata in Traduzione dei testi letterari. Ha svolto la tesi
di laurea a Buenos Aires dove ha iniziato ad approfondire la
letteratura argentina contemporanea, e lavora come traduttrice
e lettrice per varie case editrici che si occupano di letteratura
ispanoamericana. Roberto Arlt è fra i suoi autori tradotti. È
inoltre insegnante di Lingua e civiltà spagnola negli istituti secondari superiori.
Indice
I mondi reali
pag. 7
Le altre porte
pag. 11
La madre di Ernesto
pag. 15
Il candelabro d’argento
pag. 27
Racconti crudeli
pag. 37
Patrón
pag. 41
I
pag. 41
II
pag. 44
III
pag. 47
IV
pag. 51
V
pag. 53
VI
pag. 54
I riti
pag. 59
Le pantere e il tempio
pag. 79
La creazione di un piccolo fiore è lavoro di ere pag. 83
L’assassino irreprensibile
pag. 107
Triste le Ville
pag. 127
pag. 139
Le pantere e il tempio
I meccanismi della notte
pag. 145
Carpe diem
pag. 147
Il decurione
pag. 159
Il fratello maggiore
pag. 175
Lo specchio che trema
pag. 185
La donna di un altro
pag. 187
Calle Victoria
pag. 195
Ondina
pag. 207
Il tempo di Milena
pag. 209
Il disertore
pag. 223
La donna che aspetta
pag. 231
Note
pag. 239
Il nuovo cuento argentino – Postfazione
pag. 243
La scatola nera del traduttore
pag. 259
in uscita
«Perché scrivo? Non era qualcosa
di previsto. Non doveva accadere.
Non si vivono tutte le vite che
si potrebbero vivere. Non c’è nulla
che si possa vivere a ritroso. È la mia
seconda vita. Tutti sorridono, quando
lo sentono, come se si trattasse
di una metafora.»
— HILDE
DOMIN
WEN ES TRIFFT
Wen es trifft,
der wird aufgehoben
wie von einem riesigen Kran
und abgesetzt
wo nichts mehr gilt,
wo keine Straße
von Gestern nach Morgen führt.
Die Knöpfe, der Schmuck und die Farbe
werden wie mit Besen
von seinen Kleidern gekehrt.
Dann wird er entblößt
und ausgestellt.
Feindliche Hände
betasten die Hüften.
Er wird unter Druck
in Tränen gekocht
bis das Fleisch
auf den Knochen weich wird
wie in den langsamen Küchen der Zeit.
[…]
A CHI TOCCA
Colui a cui tocca
viene sollevato
come da un’enorme gru
e posato
dove niente ha più valore,
dove nessuna strada
porta dall’ieri al domani.
I bottoni, i gioielli, il colore
vengono spazzati via dai vestiti
come da una scopa.
Poi viene spogliato
e messo in mostra.
Mani ostili
toccano i fianchi.
Viene fatto cuocere
sotto pressione nelle lacrime
finché la carne intorno alle ossa
si fa morbida
come nelle cucine lente del tempo.
[…]
nella stessa collana
1. Il peso del tempo di Lutz Seiler
2. Prigioni e paradisi di Colette
3. Svanire di Deborah Willis
4. L’esteta radicale di Fouad Laroui
5. Le ore lunghe. 1914–1917 di colette
6. La ragazza del cinema di Marguerite Duras
7. L’uomo è buono di Leonhard Frank
8. Acqueforti di Buenos Aires di Roberto Arlt
9. Storie strane di Villy Sørensen
10. Le stanze dei fantasmi di Aa. Vv.
11. Tutameia. Terze storie di João Guimarães Rosa
12. La stella del vespro di Colette
I mondi reali è un preparato leggero e gustoso, dalle note corpose e speziate,
un classico per gli amanti della letteratura.
I MONDI
REALI
PROCEDIMENTO PER L’UTILIZZO
Aprite il prodotto e allargate gli elementi,
provocando un lieve spostamento d’aria verso il vostro naso. Assaporate così la prima
caratteristica del prodotto tramite l’olfatto,
uno dei nostri sensi più importanti.
Richiudete il prodotto. Posatelo su una superficie piana, e passate più volte il palmo della
mano aperta sulla superficie superiore. Si
consiglia di sfiorare con il palmo un minimo
di 4 volte in senso orario e 4 in senso antiorario. Recepite così il prodotto tramite le
vostre terminazioni tattili, contemporaneamente scaldandolo alla temperatura ottimale
per procedere nella preparazione e poi consumarlo.
PER IL CONSUMO ALL’APERTO (CONSIGLIATO
NEI MESI ESTIVI):
Preparate una limonata con ghiaccio e zucchero. Poggiate la limonata su un tavolino di
colore chiaro, all’ombra. Poggiate accanto
alla limonata il prodotto. Lasciate riposare
cinque minuti. Nel frattempo, distendetevi su
una sedia, anch’essa all’ombra, a una distanza dal tavolino non maggiore della lunghezza del vostro braccio.
Trascorsi i cinque minuti, prendete dal tavolino la limonata e il prodotto, contemporaneamente. Tenendo il prodotto in una mano,
bevete un piccolo sorso di limonata (tenendo
il bicchiere nell’altra mano). Mentre la
limonata scivola lungo l’esofago, poggiate
nuovamente il bicchiere sul tavolino. Passate
la mano con cui tenevate il bicchiere tre volte
in senso orario sulla parte cartonata del prodotto, poi girate il prodotto in modo da visualizzare la parte posteriore dello stesso e
con un movimento agile del polso apritelo e
consumatelo.
PER IL CONSUMO AL CHIUSO (CONSIGLIATO
NEI MESI INVERNALI E NELLE ORE SERALI):
Preparate un caffè piuttosto lungo con un
pizzico di cacao e/o cannella. Poggiatelo su
un tavolino di colore scuro e preferibilmente
di legno, accanto a una lampada dalla luce
calda. Poggiate il prodotto accanto al caffè.
Lasciate riposare solo un minuto e, nel frattempo, adagiatevi su una chaise longue o una
poltrona ampia di colore preferibilmente dal
verde scuro al marrone, a una distanza dal
tavolino non maggiore della lunghezza del
vostro braccio.
Prendete dal tavolino il caffè e il prodotto,
contemporaneamente. Tenendo il prodotto
in una mano, bevete un piccolissimo sorso di
caffè (tenendo la tazza nell’altra mano). Fate
schioccare la lingua sul palato e posate la tazza sul tavolino. Passate la mano con cui
tenevate la tazza tre volte in senso orario sulla parte cartonata del prodotto, poi girate il
prodotto in modo da visualizzare la parte posteriore dello stesso e con un movimento agile
del polso apritelo e consumatelo.
N. B.: in caso di ipertensione, soprattutto nelle ore serali, è consigliabile sostituire il caffè con un leggero tè nero
indiano alla vaniglia e cannella.
Finito di stampare nel Giugno 2015
presso la tipografia Printì di Saulino Ivana
Manocalzati (Avellino)