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A MASSIMO
BIANCO’S SERIAL. U.N.P. PUNTATA 1: “RISVEGLIO IN UN INCUBO”.
Verso l’una e mezza del mattino di un giorno di tarda estate, dopo aver trascorso una brillante serata
a casa di comuni amici, Ezio Torregiani e Moreno Piacenza, compagni inseparabili fin dall’infanzia,
si accomiatarono e se ne tornarono alle proprie abitazioni. I due abitavano all’altro estremo della
città, ma a quell’ora della notte non c’era traffico e in capo a dieci minuti giunsero a destinazione.
Ezio scese dall’auto di Moreno, s’infilò in casa e andò subito a dormire, cercando di fare il più
adagio possibile per non disturbare la moglie. Stanco com’era, appena poggiata la testa sul cuscino
si addormentò. Torregiani era un impiegato savonese di trentaquattro anni, sposato da quattro, con
un figlio che i quattro anni li avrebbe compiuti a breve e un buon passato da pugile dilettante, di cui
conservava tracce evidenti nel massiccio fisico da torello. Era laureato in geologia, ma i casi della
vita l’avevano indirizzato verso tutt’altro genere di lavoro.
Il mattino successivo si svegliò di soprassalto, con ancora impresso nella mente il più terribile
incubo della sua vita: imprigionato insieme a Moreno da una casa vivente d’origine aliena e
letteralmente sciolto e digerito da essa fino a morirne! Sospirò. Mai prima d’allora aveva sognato la
propria morte.
Sentì quindi il terreno freddo e duro sotto la schiena e l’aria frizzante delle ultime ore della notte e
aprì gli occhi. Sopra di sé si stendeva infinito il cielo stellato. Rimase immobile per alcuni secondi,
sconcertato. La sera precedente se ne era tornato a casa come al solito, cosa ci faceva ora
all’addiaccio? Concentrò quindi l’attenzione sulla volta celeste e con una punta di paura si rese
conto di non riuscire a distinguere nessuna costellazione nota.
Tutt’intorno suoni leggeri gli facevano capire di non essere solo: il respiro regolare di gente
addormentata, lo scalpiccio di uomini che si muovevano o si rigiravano nel sonno, il nitrire distante
di cavalli. Infine udì il frusciare leggero delle fronde mosse dal vento e il mormorio delicato
dell’acqua corrente. Evidentemente un fiume lento e tranquillo scorreva non lontano, nelle
vicinanze di un bosco. Alcuni metri più avanti intuì la presenza furtiva di un gruppetto di uomini in
movimento. Poi verso l’orizzonte intravide un primo lieve lucore, mentre la luce delle stelle
s’affievoliva. Presto sarebbe albeggiato.
Scostò la coperta che lo riparava dal clima notturno e si alzò, sentendo il corpo indolenzito. Doveva
essere sdraiato per terra già da parecchie ore. Oramai distingueva dozzine di dormienti. A circa
dieci metri di distanza quattro persone si stavano a loro volta alzando. In pochi minuti il campo
sarebbe tornato in piena attività. Non scorgeva però traccia di sua moglie. Dove si trovava,
insomma? E cosa stava succedendo? Gli occorrevano spiegazioni. Si avvicinò quindi ai quattro,
adesso impegnati a preparare la colazione: uno stava mettendo sul fuoco una vecchia caffettiera.
“Salve. Avanza qualcosa anche per me?” Chiese quando li ebbe raggiunti.
“Certamente. Siediti a mangiare con noi, amico.” Rispose quello che maneggiava la caffettiera.
“Sei nuovo tu?” – Aggiunse un altro. – “Sta affluendo tanta gente che la maggioranza non la
conosciamo nemmeno.”
“Ecco, sì, sono arrivato ieri sera.” Rispose Ezio a braccio, dopo qualche titubanza.
“Ah, allora sei giunto con Titone Passos.”
Con chi? Stavolta Ezio non disse nulla, non gli pareva prudente né confermare né smentire, tanto
insensata reputava la situazione. Meglio lasciar loro credere ciò che volessero. E non osò nemmeno
più chiedere le agognate informazioni, nel timore che trovassero qualsiasi sua domanda
eccessivamente strana. Si accontentò dunque di ascoltare la loro rilassata conversazione, sperando
di ricavarne notizie utili. Poi però il tizio del caffè, chiamato dagli altri Simeone, si rivolse
direttamente a lui, chiedendogli da dove provenisse. Ezio ci pensò su, incerto. Infine rispose,
sperando in bene, con una verità generica, affermando cioè di provenire dalla costa. E all’incirca ci
azzeccò, perché l’uomo non si dimostrò incredulo ma solo assai sorpreso, non avendo mai
conosciuto prima, così sostenne, qualcuno giunto da tanto lontano. Ciò detto gli rivolse un gran
sorriso, evidenziando un’inquietante dentatura: incisivi e canini apparivano sottili e acuminati in
maniera anomala. Ezio distolse lo sguardo, disgustato. Terminata la colazione, trovò degli abiti
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ripiegati vicino al suo giaciglio e delle armi e dopo non poche incertezze indossò gli uni e le altre.
Con disappunto non scorse invece né cellulari né iPhone, da cui non si separava mai.
In breve la compagnia fu pronta a partire. Dovevano essere all’incirca centocinquanta uomini,
dall’aria dura e determinata e armati di tutto punto, un piccolo esercito, insomma. Stava ancora
cercando di raccapezzarci, quando vide uno dei presenti puntare a passi rapidi nella sua direzione.
Ne riconobbe immediatamente la silouette. Si trattava del suo vecchio amico Moreno Piacenza, un
insegnante di scienze trentatreenne prossimo al matrimonio, biondo, alto di statura e con la faccia
da bambino. Lo accolse con gioia, lieto di trovare finalmente qualcosa di familiare nella follia che
stava vivendo. L’amico si dimostrò altrettanto felice di vederlo, purtroppo però neppure lui fu in
grado di schiarirgli le idee. Si era a sua volta svegliato lì, ignorando come vi fosse giunto e cosa ne
fosse dei congiunti e del mondo noto. Orecchiando le conversazioni aveva però compreso di essere
in Brasile. Tutti i presenti erano jagunços, i famigerati avventurieri fuorilegge brasiliani.
“In Brasile? E come diavolo ci saremmo finiti in Brasile?” Chiese Ezio, esterrefatto.
“Non ne ho la più pallida idea, eppure il panorama pare proprio quello tipico del sertao brasiliano.”
“Beh, questo spiegherebbe perché non riconoscevo le costellazioni, ma è assurdo. E poi com’è che
‘sti banditi brasiliani parlano in italiano corrente senza nemmeno un briciolo d’accento straniero?”
“Non chiederlo a me. A quanto mi risulta i cosiddetti jagunços non dovrebbero nemmeno più
esistere. Tutto ciò non ha senso, vecchio mio, credi che non me ne renda conto?”
Circa mezz’ora dopo gli furono affidati due destrieri – per fortuna entrambi sapevano cavalcare – e
dovettero mettersi in viaggio con l’intera masnada attraverso quei luoghi semi aridi. Avevano,
infatti, subito capito che costoro non avrebbero accettato diserzioni. Comandati da alcuni bravacci,
duri e ignoranti quanto gli altri ma che la soldataglia adorava, erano impegnati in una guerra privata
e loro due vi erano stati intruppati. D’altronde non vedevano nemmeno alternative. Ritornare in
Italia, nelle loro case, non gli pareva, almeno sul momento, realizzabile.
A metà pomeriggio incontrarono una pattuglia di soldati e i banditi diedero battaglia. Per buona
sorte si trattava solo di una piccola squadra e dunque Ezio e Moreno poterono tenersene discosti. La
pattuglia venne rapidamente sbaragliata, con metà degli uomini rimasta sul campo e l’altra metà in
fuga. Tra i jagunços si contarono invece due perdite. Qualcuno però sostenne che entrambi i caduti
fossero stati in realtà uccisi da un loro stesso compagno, per un regolamento di conti: da quella
gente c’era da aspettarsi di tutto.
Col trascorrere dei giorni i due si trovavano sempre più invischiati in tale follia. Sentivano
terribilmente la mancanza dei loro cari e cominciavano a temere di non rivederli mai più. Il mondo
che conoscevano, quello del solito tran tran cittadino, con il lavoro e i rapporti sentimentali, le varie
incombenze e gli altrettanti divertimenti, sembrava essere sprofondato in un passato sempre più
remoto e ormai quasi irreale.
Al suo posto c’era invece questa nuova realtà che, per quanto irragionevole fosse doverlo
ammettere, sembrava proprio appartenere al Brasile e per giunta nemmeno a quello odierno, ma
semmai a quello dei primi del novecento, se non addirittura della seconda metà dell’ottocento!
A peggiorare ulteriormente il contesto, tale loro esistenza di jacunços improvvisati non gli pareva
nemmeno del tutto consistente. Alcuni particolari non quadravano. Uno: benché di primo acchito i
loro compagni d’avventura sembrassero uomini normali, col passare del tempo, a parte due
eccezioni, si rivelarono abbastanza deboli di personalità, come se il loro carattere fosse appena
abbozzato; parevano insomma dei manichini, con non più d’un paio di caratteristiche salienti. Due:
tutte le pietanze provate, pur non essendo cattive, si dimostravano spiacevolmente insipide, tanto
che faticavano a distinguere il gusto dei vari cibi e bevande imbanditi.
Per spiegare la situazione si lanciavano in mille congetture, che stessero semplicemente sognando –
ma in tal caso avrebbero ormai dovuto essersi svegliati da un pezzo – che fossero preda di
allucinazioni causate da un tumore al cervello – ma chi dei due, allora, era un’allucinazione
dell’altro? – che fossero finiti in un universo parallelo – ma come e perché? – Insomma, nessuna
delle ipotesi vagliate li convinceva. Nel frattempo le lunghe giornate trascorse a cavallo, il caldo, le
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intemperie, le tante notti trascorse all’addiaccio, gli scontri a fuoco e le risse con compagni rozzi e
violenti ne mettevano a dura prova la fibra.
Un giorno Ezio fu aggredito verbalmente da un tal Gian Selvatico, il quale poi estrasse il pugnale
minacciando di sbudellarlo. Ezio dubitava di potersela cavare nel combattimento coi coltelli,
convinse però l’avversario a vedersela con lui a mani nude e, forte del proprio passato da pugile,
riuscì ad avere la meglio, evitando con abilità la maggior parte dei suoi assalti e centrandolo con
diverse serie di colpi al tronco e al volto, stroncandolo da demolitore qual era. Quindi, ancora in
preda all’ira, cominciò a prendere a calci l’avversario atterrato e alcuni presenti, tra cui Moreno,
dovettero intervenire e frapporsi. Mai un tempo si sarebbe lasciato andare così! Chi va con lo zoppo
impara a zoppicare, si dice, e il loro timore era che si stessero irreversibilmente incamminando
lungo la china della brutalità e della violenza. Anche perché, ed era questo un lato che trovavano
particolarmente preoccupante, tanto da esitare ad ammetterlo perfino con se stessi, per certi versi la
nuova vita in fondo iniziava a piacergli. Soprattutto a Ezio, forse perché era lui quello che pensava
di avere meno da perdere. Moreno dopotutto amava profondamente la fidanzata Rosanna e si
sentiva professionalmente realizzato, lui invece si era dovuto accontentare di un frustrante lavoro
impiegatizio in luogo dello studio di geologia cui ambiva e si era sposato non per amore ma solo per
aver messo in cinta la compagna di turno. Ora poteva assaporare una selvaggia libertà e ne era
irresistibilmente attratto, mentre la vecchia esistenza si faceva sempre più lontana.
Seguirono quindi varie serie di avventure, tra cui una violenta battaglia coi loro fantomatici
avversari. Durante lo scontro, conclusosi con una sconfitta in cui riuscirono almeno a minimizzare
le perdite, Ezio e Moreno si trovarono per la prima volta a uccidere pure loro degli uomini. Fu una
spaventosa sensazione, in cui mai avrebbero voluto incappare.
E avanti così, senza soluzione di continuità né speranza di uscirne, finché un giorno, dopo molte
settimane di permanenza nel sertao…
…Tentavano di attraversare un fiume, assai più vasto, profondo e tumultuoso dei torrentelli
incontrati in precedenza. Si trovavano a circa metà del guado quando, sorpresi da truppe regolari,
furono bersagliati da una scarica di fucileria. La banda riuscì a raggiungere la sponda ma subì
parecchie perdite. Moreno aveva ormai percorso più di tre quarti del passaggio quando, in un punto
in cui l’acqua tumultuosa raggiungeva il metro d’altezza, fu a sua volta colpito da un proiettile. Il
ragazzo cacciò un urlo soffocato e cadde sulle ginocchia.
Ezio riuscì ad afferrarlo prima che la corrente lo trascinasse via e, aiutato da Simeone, lo portò a
riva in un punto riparato. Nel frattempo Moreno gemeva di continuo, soffrendo terribilmente.
“Aah, che dolore, non resisto. Rosanna… dove sei? Io ti amo… Dio… come… mi manca.”
“È una ferita brutta assai, non mi piace per niente.” Disse Simeone a bassa voce, prima di
allontanarsi per prendere dei medicamenti.
“Sto tanto male Ezio. Credo…sento… che sto per morire… ”
“Non dire sciocchezze, non stai affatto per morire. Cerca di non parlare, non ti devi affaticare.”
Disse Ezio, spaventato, accarezzandogli dolcemente il viso.
Poco dopo Simeone ritornò ma non ci fu nulla da fare. Ezio lo guardò spegnersi lentamente e alla
fine non gli restò altro da fare che chiudergli gli occhi. Quindi urlò. Moreno era morto, morto per
davvero e lui era rimasto solo in quella assurda e inspiegabile pazzia! E, ormai lo sentiva, non aveva
via d’uscita. Vi sarebbe rimasto imprigionato fino a quando non fosse a propria volta defunto.
FINE.
N.B. Con questo episodio do il via a un progetto (un omaggio, scoprirete poi a chi o a cosa) cui mi sto
dedicando da tempo: è il primo di 8 racconti autonomi e auto conclusivi (non dovrebbe essere necessario
leggere i precedenti per capire e si potranno saltare delle puntate), ma collegati tra loro a formare un unico
affresco, che si chiarirà nel corso degli episodi. Ai lettori decretare la riuscita o meno dell’esperimento,
anche se in proposito devo esprimere il mio rammarico per l’abolizione dei voti (non piacevano? Sì, a chi ha
paura di affrontare il giudizio altrui) che potrebbe spingermi in futuro a non proporre più qui i miei scritti. A
partire da oggi ogni domenica uscirà un episodio, fino alla conclusione della vicenda. Appuntamento dunque
a domenica prossima, buone letture e saluti da Massimo Bianco.
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U.N.P. 2 “IN UN LUOGO INCOMPRENSIBILE”
N.B. Questo è il secondo di una serie di 8 episodi autonomi e autoconclusivi ma destinati, in un lento ma
progressivo sviluppo degli eventi, a formare un unico affresco in cui tutto si chiarirà. Non è necessario
leggere il precedente “Risveglio nell’incubo”, per capire. Saluti, Mas. Bi.
Moreno Piacenza, insegnante savonese di trentatre anni, alto e ben messo ma con un volto infantile
in contrasto con la sua possanza fisica, si destò prima delle sette nella propria camera da letto. Non
aveva fretta di alzarsi. Quando si svegliava presto gli piaceva crogiolarsi a letto e quella mattina ne
aveva tutto il tempo. Per il pomeriggio aveva in programma una gita con la fidanzata, ma la mattina
era ancora libero da impegni scolastici.
Rivolse un pensiero alla sua Rosanna e poi meditò sulla nottata, costellata da incubi come mai gli
accadeva. Per ben due volte aveva sognato la propria morte, dapprima assorbito, anzi mangiato, da
un essere alieno e poi ucciso durante uno scontro a fuoco tra jacunços e soldati brasiliani, provando
per giunta l’impossibile sensazione di aver vissuto intere settimane nel sertao.
Si decise infine a tirare via il lenzuolo e ad avviarsi a tentoni verso il bagno. Entrò, accese la luce e
s’immobilizzò. Ma che razza di lavabo era? Si guardò attorno, perplesso. Quella non era la sua
stanza da bagno! Eppure era convinto di essere tornato a casa sua, la sera prima. Ripensò alla serata
appena trascorsa. Uscito dall’abitazione di due vecchi amici, i fratelli Delfino, dopo l’una, aveva
accompagnato in auto l’altro amico Ezio e poi… beh sì, senza ombra di dubbio era venuto
direttamente a casa dove, stanco e assonnato, si era infilato a letto senza nemmeno accendere le
luci. Intorpidito com’era aveva forse sbagliato piano? Ma no, che sciocchezza, aveva aperto la porta
con le chiavi, ne era certo. E allora?
E allora lo sguardo gli cadde sulla propria immagine riflessa nello specchio e rimase impalato a
fissarla. Indossava un allegro pigiama a strisce stile clown. Eppure non possedeva pigiami. Fin
dall’adolescenza aveva sempre dormito con pantaloncini corti, t-shirt bianche e null’altro. Da dove
saltava fuori quel ridicolo pigiama?
Uscì dal gabinetto, si guardò intorno e sbatté gli occhi, sempre più confuso. Senza ombra di dubbio
quella non era la sua camera da letto, nonostante qualche somiglianza nella disposizione dei mobili.
Ma allora dove diavolo si trovava e perché non ricordava nulla di quanto gli era accaduto? Possibile
che fosse stato colto da amnesia? O stava forse impazzendo?
Percorse in fretta il resto dell’appartamento. Pareva vuoto. Lui però viveva con i genitori, che fine
avevano fatto? Attraversò un ingresso spoglio e un salotto immerso nella confusione, ignoti
entrambi, quindi entrò nella stanza da pranzo. La sua stanza da pranzo! O per lo meno lo sembrava.
Cominciava davvero a non capirci più niente e la perplessità si tramutava lentamente in paura.
Anche la cucina sembrava la sua, però qualche particolare non quadrava.
In quel momento gli venne in mente che in realtà forse non si era ancora svegliato e stava vivendo
un altro sogno. Una notte davvero del cavolo, in cui passava da un incubo all’altro senza soluzione
di continuità. Pensò allora di tornare a letto. Sognando di riaddormentarsi forse l’incubo si sarebbe
interrotto e il risveglio successivo sarebbe stato quello autentico. Tuttavia, dopo aver trascorso la
mezz’ora successiva a girarsi e rigirarsi inutilmente, capì d’aver deciso una stupidaggine, si alzò
bruscamente e si diede un pizzicotto, provando dolore. Dunque era proprio sveglio. Una pessima
scoperta, però, perché l’unica alternativa verosimile gli pareva quella di essere impazzito.
Sospirò profondamente. Aveva bisogno di farsi un buon caffè. Aprì lo sportello dove teneva la
confezione di Lavazza ma la disposizione interna degli armadietti era diversa da quella abituale.
Rovistando ovunque, alla fine trovò ciò che cercava o per meglio dire qualcosa di analogo. Studiò la
confezione. Era un pacchetto di caffè del Kenia! Scovò quindi la caffettiera, o per lo meno l’oggetto
che tra tutti quelli presenti ricordava maggiormente una caffettiera, e cercò di aprirla. La caffettiera
oppose però una strenua resistenza.
“Ma perché non si apre, sta maledetta.” Sbraitò tirandola come un indemoniato.
Nulla da fare. La studiò allora con maggior attenzione e notò la presenza di una fessura laterale.
Sembrava… non voleva neppure pensarlo, perché non aveva senso… tuttavia… la fessura sembrava
proprio della misura adatta per infilarci una monetina. Iniziava a preoccuparsi seriamente. E se un
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tumore al cervello gli stava provocando delle allucinazioni? Si guardò intorno e scovò una moneta
da dieci centesimi. L’infilò titubante nell’apertura e in effetti la caffettiera si aprì e poté introdurvi il
caffè. Andò quindi alla ricerca di abiti e indossò i primi che gli capitarono sottomano.
In quel momento suonarono alla porta.
“Chi è?” Chiese Moreno con circospezione.
“So che è presto ma sono appena arrivato in città. Sono G. G. Ashwood. Ho portato con me una
speranza per la ditta e me la devi confermare.” Rispose dall’altra parte un’entusiasta voce maschile.
“Chi ha detto che è, scusi?”
“Sono Ashwood, Chip, datti una svegliata e aprimi, ti ho portato una ragazza da esaminare.”
Moreno non ci aveva capito nulla. Chiunque fosse, però, forse gli avrebbe potuto spiegare cosa
stava succedendo. Girò la maniglia e fece leva sul catenaccio, ma la porta rifiutò di aprirsi.
“Cinque centesimi, prego.” Esclamò una voce proveniente dall’uscio, spaventandolo.
Eh? Moreno osservò l’ingresso con attenzione e… sì, effettivamente c’era una fessura pure lì. Cercò
ovunque, ma non trovò altre monete, solo cartoncini plastificati dalla forma più varia, a triangolo, a
cuore… intanto l’estraneo continuava a suonare, mettendolo in agitazione.
“Mi scusi signor… Asciuud, ma sono… ecco… rimasto senza spiccioli, può fare qualcosa?”
Una moneta rotolò negli ingranaggi della porta e questa finalmente si spalancò, permettendo al
nuovo venuto di entrare. Si trattava di un perfetto sconosciuto, paffuto, con l’espressione del viso
assai vivace e gli occhi luminosi e mobilissimi, vestito con un poncho e un cappello di feltro. Era
accompagnato da una bella adolescente in camicia, stivali e jeans, alla cui cintura erano attaccati
oggetti vari, tra cui un coltello e un telefono cellulare. L’estraneo si comportava come se si
conoscessero e insisteva a chiamarlo con lo strambo nomignolo usato in precedenza.
Moreno se ne domandò il perché senza trovare risposta. Un diminuitivo, forse? Moreno Piacenza e
Chip, no, non vedeva legami. Poi però smise di pensarci perché l’uomo disse qualcosa di insensato:
“Questa è Pat, il cognome non importa. Prendi l’attrezzatura per rilevare le sue capacità antipsi,
vedrai che ne resterai sorpreso.”
Il tizio sparì nell’appartamento trascinandosi la ragazza e continuando a parlare. Moreno stava per
richiudere la porta quando lo sguardo gli cadde sulla strada. Restò a bocca aperta. Quella che stava
vedendo non era Savona, poco ma sicuro. A giudicare dallo stile non doveva essere neppure una
località italiana. Davanti a lui si stendevano file e file di villini monofamiliari e in lontananza non le
boscose colline liguri ma una pianura costellata da svettanti grattacieli.
A quanto pareva l’assurdo era entrato all’improvviso nella sua vita e intendeva restarci. Cosa stava
succedendo, insomma? E soprattutto, se non si trovava più a Savona, cosa ne era stato della sua
esistenza? Del padre e della madre, che avrebbero dovuto essere in casa e della cui presenza o anche
soltanto del passaggio non scorgeva neppure tracce. Degli amici, del lavoro… ok, in estate le scuole
sono chiuse, tuttavia… Ma a preoccuparlo era soprattutto la fidanzata. Lui e Rosanna uscivano
insieme da quattro anni, erano, fenomeno ormai raro, molto innamorati e l’anno dopo, a maggio, si
sarebbero sposati. Cosa ne era stato di lei?
Guardava ancora con stupore lo spettacolo, quando una enorme auto americana sopraggiunse dal
fondo della strada e posteggiò davanti alla casa. La portiera si aprì e apparve Ezio Torregiani,
l’amico insieme al quale aveva trascorso la precedente serata, laureato in geologia ed ex pugile
dilettante, attività che gli aveva lasciato segni sul volto. Questi aveva un fisico da torello: di una
dozzina di centimetri inferiore per statura rispetto a quello dell’amico, ma straordinariamente
vigoroso. Stranamente Ezio aveva partecipato a entrambi i suoi più recenti sogni.
Gli andò incontro sorridendo, felice di vedere finalmente una presenza rassicurante. Sperava inoltre
che fosse in grado di fornirgli spiegazioni, ma l’illusione andò subito infranta. Torregiani ne sapeva
quanto lui, era altrettanto incredulo e l’aveva trovato per pura caso.
“E non chiedermi più nulla. Pare che io sia a capo di una ditta, ma non ho capito neppure quale
dovrebbe essere effettivamente il mio lavoro.” Concluse Ezio, amareggiato.
In quel momento Ashwood apparve sulla soglia e tornò alla carica.
“Ti decidi a esaminare la ragazza? Ehi, buongiorno capo, cosa ci fa qui? La credevo in Svizzera.”
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L’ultima frase l’aveva rivolta a Ezio, il quale non seppe articolare una risposta.
“Non sono un medico, cazzo, non la posso esaminare.” Sbottò invece Moreno.
“Diavolo, ma cosa ti prende, Joe, devi valutare la sua potenzialità psichica, mica visitarla.”
Moreno lo guardò imbambolato, non sapendo come comportarsi, quando all’improvviso ebbe un
capogiro, la tenebra calò sulla scena e un attimo dopo, quando tornò a vederci, non si trovava più
nell’appartamento ma in un luogo anonimo, dove c’era una tv accesa. Oltre a lui era presente
soltanto un uomo di colore, ignoto. Questi si lamentò, dicendo di sentirsi molto stanco e di voler
andare in bagno, quindi si appoggiò alla parete. In effetti aveva un aria disfatta. D’istinto Moreno si
offrì di accompagnarlo. Giunti davanti ai servizi il nero vi entrò, ma solo per uscirne qualche
momento dopo. Voleva mostrargli delle scritte sul muro. Moreno le guardò a sua volta. Non ci
trovò però nulla di particolare, le solite sciocchezze da gabinetto pubblico.
Il nero intanto si era accucciato a terra. Il suo organismo sembrava disgregarsi. Moreno non riuscì a
reggerne la vista e tornò, raccapricciato, nella stanza precedente. In quel frattempo sullo schermo
televisivo apparve il volto di Ezio Torregiani, il quale iniziò subito a parlare:
“Stanchi dei soliti sapori insignificanti? Il cavolo bollito ha invaso il mondo della vostra
alimentazione?…”
“Ehi, e questo cosa significa?” Moreno Piacenza lo guardava e ascoltava incantato. Pareva non
esserci più limite alla follia.
Poi Ezio fece un sorriso stanco e stavolta parve rivolgersi direttamente all’amico. Aveva il volto
ingrigito. Sembrava malato, sofferente.
“Non so nemmeno più cosa sto dicendo, perché parlo di cavoli bolliti? Mi sento spossato. Ci sta
succedendo qualcosa di brutto. Ho qui davanti agli occhi il testo del discorso che stavo leggendo,
me l’ha chiesto… lo speaker, ma non ha… senso. Qualcuno vuole che tu… usi uno spray e… scusa,
sono… stanco, tanto stanco, mi sento… debole, non ce… la faccio…
La sua voce si perse in un flebile mormorio fino a divenire incomprensibile, infine s’interruppe.
Piacenza spense la tv, quindi prese a passeggiare avanti e indietro per la stanza, sempre più
frastornato. E intanto cominciava a sentirsi affaticato pure lui. Alle sue spalle c’era una sedia. Ci si
lasciò letteralmente cadere sopra.
Poi qualcuno bussò alla porta. Moreno stentò a riscuotersi, ma infine andò ad aprire. Un fattorino
gli recapitò una bottiglietta spray. Lui chiese spiegazioni, ma il ragazzo sapeva solo che la ditta gli
aveva ordinato di effettuare la consegna. Lesse allora le istruzioni. Dicevano di spruzzarselo
addosso, in caso di spossatezza, per tornare in forma. In effetti oramai cominciava a sentirsi
addirittura stremato, ma ne era quasi contento. Qualunque prodotto contenesse il bottiglino spray e
qualunque cosa significasse non lo avrebbe usato. Voleva solo chiudere gli occhi e dormire e poi,
chissà, forse quel terribile incubo da cui non riusciva a uscire sarebbe finalmente terminato e tutto
sarebbe tornato alla normalità. Si sarebbe risvegliato nel suo letto, avrebbe fatto colazione, sarebbe
uscito, nel pomeriggio avrebbe effettuato la gita con la fidanzata…
Si accasciò su un divano e chiuse gli occhi. La sua non era una normale spossatezza, lo sentiva, era
una spossatezza malata. E non aveva capito assolutamente nulla di ciò che gli era successo dal
momento in cui si era svegliato – ammesso che fosse davvero sveglio – in una stanza sconosciuta,
forse anche perché gli eventi si erano succeduti in maniera troppo frenetica per permettergli di
ragionarci sopra a sufficienza.
Serrò gli occhi. Da come si sentiva aveva l’impressione di non doverli mai più riaprire: si sentiva
morire. Infine in un momento indefinito perse i sensi… o forse era morto sul serio.
FINE
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U.N.P. 3 “MISSIONE SU REGIS III”
L’astronave di seconda classe “Invincibile” penetrò nel sistema del vetusto sole rosso e iniziò le
manovre per rallentare e avvicinarsi al suo terzo pianeta. L’equipaggio, composto da ottantatre
uomini suddivisi più o meno equamente tra scienziati e marinai, giaceva profondamente
addormentato, in semi-ibernazione nelle apposite celle. Mentre la nave riprendeva la piena attività e
svolgeva le procedure automatiche preliminari d’atterraggio, il personale di bordo iniziò a
svegliarsi. Poco alla volta ognuno prese il proprio posto di servizio.
Il pianeta, avvolto da dense nubi arancioni, attraverso gli schermi appariva sempre più vicino.
Dapprima fu un immenso oceano a campeggiare, imponente, su ogni dove. Presto ai bordi della
distesa acquea cominciò a delinearsi la costa frastagliata di una vasta massa continentale, grigia e
brulla, costellata da crateri d’impatto. Quindi anche i più esigui particolari iniziarono a risaltare.
Infine l’astronave atterrò in una regione desertica e sabbiosa, dal predominante colorito rossastro,
appartenente al principale continente del pianeta “Regis III” nella costellazione della Lyra. In
plancia, il capitano astrogatore indicò il panorama desolato al suo smunto ufficiale di rotta e gli
espose la missione.
Sul ponte, il basso e solido savonese Ezio Torregiani, svegliatosi insieme a tutti gli altri membri
dell’equipaggio, sentì l’altoparlante annunciare l’atterraggio e la decisione di assumere le procedure
di sicurezza di terzo grado. Ne ignorava il significato, ma gli uomini attorno a lui ne furono
scontenti. Molte lamentele si alzarono, infatti, dalle loro gole. Ezio Torregiani non ci stava capendo
nulla. Finora aveva visto solo file e file di bare criogeniche, paratie metalliche e infrastrutture
spartane. Ignorava dove si trovasse e chi fosse la gente che lo circondava. Poi notò una finestra
tonda, andò ad ammirare il panorama e strabuzzò gli occhi, incapace di distogliere lo sguardo
dall’incredibile immagine. Al di sotto si spalancava un paesaggio alieno visto dallo spazio.
Doveva stare ancora dormendo, perché il suo posto non era certo a bordo di un astronave. Le navi
spaziali appartengono alla fantascienza, quindi si doveva trovare in stato confusionale, giusto? Lui
era Ezio Torregiani, viveva agli inizi del XXI secolo, aveva trentaquattro anni, era sposato con
Daniela Rocca e aveva uno splendido bambino di quasi quattro anni. Nella tarda adolescenza si era
dedicato al pugilato, sport continuato fino ai ventidue anni di età e i quindici incontri, di cui tredici
vinti. Era laureato in geologia, ma dopo tre anni trascorsi a lavorare sottopagato in un noto studio
professionale, aveva vinto un concorso pubblico e abbandonato il proprio campo di studi per la
sicurezza dello stipendio. Ma tutto ciò non centrava nulla con quanto vedeva.
Si sforzò di far mente locale. Cosa ricordava degli eventi precedenti al risveglio? La serata trascorsa
a casa dei fratelli Aurelio e Matteo Delfino, dove si era divertito a giocare con una grande novità
tecnologica creata da Aurelio; il rientro a casa accompagnato dall’altro ospite Moreno Piacenza; la
camera da letto e… incubi. Perché la notte era stata costellata da tanti, troppi incubi spaventosi, uno
più incredibile dell’altro. Prima mangiato da un’assurda casa vivente in un borgo dell’entroterra; poi
scaraventato in un immaginifico Brasile nel bel mezzo di una guerra tra due eserciti di banditi, dove
aveva dolorosamente assistito alla morte di Piacenza per poi rimanere a sua volta ucciso in uno
scontro a fuoco; quindi intrappolato in una folle città statunitense, in cui qualsiasi oggetto d’uso
quotidiano era a pagamento e dove si era letteralmente consumato fino a morire. E ora era a bordo
di un vascello spaziale in orbita intorno a chissà quale planetaria stravaganza.
Cosa poteva significare tutto ciò? Non vedeva legami tra un sogno e l’altro, a parte la costante
presenza del suo amico Moreno Piacenza, che però fino a quel momento sull’astronave non si era
visto. Per intanto giunse un uomo assai smunto ma dall’aria autorevole. Da quanto poté capire
doveva essere ufficiale di rotta e secondo di bordo. Questi chiamò tre uomini, Jordan, Blanck e
Kyser, per i rilevamenti esterni. Mentre due di loro cominciarono immediatamente a muoversi e a
chiedere informazioni sul comportamento da assumere, il terzo sembrava assente. Poi però
qualcuno da dietro le spalle diede un’energica ma amichevole botta sulla schiena di Ezio.
“Allora, signor Kyser, cosa aspetta? Non ha sentito il primo ufficiale Rohan?”
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Solo allora Torregiani si rese conto di essere lui quel tal Kyser appena convocato. Seguì i tre senza
obiezioni, rassegnato. Indossò l’auto respiratore, operazione svolta non senza difficoltà e scese a
terra con gli altri, utilizzando un montacarichi esterno. Appena toccato il suolo si guardò intorno,
ma vide solo grigie rocce affioranti nella sabbia rossastra e basse montagne brulle e inanimate, delle
medesime tinte, perdersi in lontananza, mentre un denso pulviscolo danzava spinto dal vento.
Quell’ambiente gli metteva tristezza. Non vi poteva essere nulla di vivo in un luogo simile.
Non appena ebbero piazzato i loro macchinari, Rohan, il secondo di bordo, s’informò sull’entità
dell’attività rilevata. Ezio ascoltava domande e risposte ma comprendeva poco. Per lui le
affermazioni di Jordan, inginocchiato davanti al rilevatore, erano del tutto sibilline.
“Qual è il suo rapporto, geologo capo?” Chiese infine Rohan, rivolgendosi a Ezio.
Dunque si trovava lì nelle vesti di geologo capo! Che sciocco a non averci pensato. Un legame con
la sua vita c’era, dopotutto. Forse stava sul serio sognando e la sua mente rielaborava fatti legati alla
sua esperienza. In fin dei conti era sempre stato un accanito lettore di romanzi di fantascienza e non
si perdeva mai le novità cinematografiche del genere.
Ezio si guardò intorno e raccolse con la mano guantata una manciata di terra rossastra.
“Questa sabbia è ferrosa, il colore rosso è dovuto alla presenza di ruggine. Vedo anche un’elevata
percentuale di rocce vulcaniche, ma potrò essere più preciso solo dopo le analisi.” Commentò.
“Tanto vale a questo punto risalire e farle subito, queste analisi.” Rispose Rohan.
“Certo che qui sembra tutto desolato e morto.”
“Davvero, appare molto desolato, ma qualche pericolo ci deve sovrastare perché da qui la Condor
non è più tornata, Kyser, vecchio mio.”.
Kyser-Torregiani non capì cosa avesse inteso dire. Risalì con gli altri a bordo della Invincibile e
trovò l’alto e solido Moreno Piacenza ad attenderlo. Non ne fu sorpreso. Piacenza era un insegnante
di matematica e scienze e un appassionato di immersioni, che trascorreva ogni anno due settimane
di vacanze ai tropici per ammirare dal vivo la fauna delle barriere coralline. Sembrava
indissolubilmente legato alla sua attività onirica.
Mentre il capitano ordinava l’inserimento in orbita bassa di alcune sonde, fu l’amico a spiegargli il
motivo della loro presenza su Regis III. L’astronave Invincibile era scesa alla ricerca della nave
gemella “Condor”, misteriosamente scomparsa su quel pianeta.
Nei giorni successivi l’equipaggio proseguì con studi e ricerche, incentrati dapprima sull’oceano e
in seguito su quelli che parevano i resti di una città. Ezio e Moreno però s’interessavano il meno
possibile alle varie attività. Entrambi erano ancora troppo scombussolati. Se fossero stati preda di
un sogno non avrebbero dovuto essersi svegliati già da un pezzo? Si chiedevano piuttosto. E poi chi
dei due stava sognando l’altro? No, non quadrava. Ma allora cosa gli stava capitando?
Ezio volle interrogare in modo approfondito l’amico circa le sue precedenti esperienze.
“Sì, esatto” – rispose Moreno – “Mi sono svegliato in una bara criogenica … ma sì, certo, ricordo
bene la nostra serata dai Delfino… e poi ti ho accompagnato a casa, certo.”
Insomma, i loro ricordi parevano collimare alla perfezione e non essere d’alcun aiuto. Eppure…
“E dopo che mi hai lasciato sotto casa sei sicuro di essere tornato direttamente alla tua abitazione e
di essertene andato a letto?” Insistette Ezio con pervicacia.
“Assolutamente!” Asserì Moreno.
“Così il mattino dopo ti sei risvegliato direttamente qui. Mm… e come è stato il tuo sonno?”
“Costellato d’incubi, ti dirò. Pensa che sono stato addirittura assorbito da una casa vivente aliena e
dopo essere morto ho sognato d’essermi risvegliato in Brasile, in mezzo a una banda di jacunços.”
“Ehi, ma tutto questo l’ho sognato anch’io. Senti, non è che per caso dopo hai sognato anche di
trovarti negli Stati Uniti, ma in una città del tutto improbabile?”
E in effetti Moreno rammentava il suo sconclusionato ridestarsi in un posto insensato e di essere
potuto uscire all’aperto solo dopo l’introduzione d’una moneta nel meccanismo d’ingresso. Ezio e
Moreno passavano insieme da un incubo all’altro e dunque la spiegazione doveva essere legata a
entrambi. In effetti la presenza del compagno pareva l’unico comune denominatore delle loro
avventure, qualunque ne fosse la matrice. Anzi no, c’era un altro fattore, a ben pensarci. Ogni
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avventura si concludeva immancabilmente con la loro morte, dopodiché si ritrovavano intrappolati
in un nuovo luogo incomprensibile.
“E siccome l’ultimo nostro ricordo normale è la visita ai fratelli Delfino, la causa di quanto ci
succede deve trovarsi lì, a mio parere.” Concluse Moreno.
Sì, Ezio comprese subito che l’amico aveva ragione. Anche perché la loro non era stata una normale
visita di cortesia. Aurelio Delfino, il maggiore dei fratelli, era uno scienziato e li aveva invitati per
provare il frutto della ricerca condotta dall’azienda per cui lavorava. In qualche maniera
quell’assurdo viaggio spaziale doveva essere legato all’esperienza vissuta a casa Delfino. Ezio e
Moreno si guardarono negli occhi e un lampo d’intuizione passò tra di loro. Ora sapevano con
esattezza cosa gli era successo: era colpa del progetto di Aurelio. Ignoravano però sia come fosse
accaduto, non essendosi sul momento accorti di nulla, sia come uscirne.
Per intanto dovevano però vedersela con un nuovo mondo ignoto. Al contrario della terraferma, gli
oceani di Regis III brulicavano di vita ma, contro ogni logica, pareva che nessuna specie avesse mai
tentato di avventurarsi al di fuori del mare. Le forme di vita del pianeta mostravano evidenti
convergenze evolutive con quelle terrestri, però erano dotate di un senso in più, che permetteva loro
di captare le variazioni d’intensità del campo magnetico. Tutte, indistintamente, dimostravano di
aver paura delle sonde terrestri. Chiaramente qualcosa di simile alle sonde le terrorizzava e gli
impediva di impiantarsi sulla massa continentale. Ma cosa?
Infine la Condor venne individuata, abbandonata a trecento chilometri dalle rovine della strana città,
con l’intero equipaggio perito. La sua corazza, solidissima e virtualmente inattaccabile, appariva
perforata in più punti. A bordo tutto era stato danneggiato o perfino ridotto in briciole. Oggetti,
vestiti e documenti erano stati fatti a pezzi come se da lì fossero passati degli ottusi vandali, anzi,
per meglio dire, dei bambini incoscienti e vandali. Nonostante le riserve di cibo e acqua fossero
intatte e in grado di garantire la sopravvivenza per anni, al termine delle autopsie gli astronauti
risultarono quasi tutti morti di fame e di sete. Le eccezioni più vistose erano rappresentate da due
cadaveri rimasti schiacciati nelle porte scorrevoli, come se fossero stati incapaci di adoperarle, e da
uno congelato nel vano frigorifero. Il diario di bordo riportava pagine e pagine di dati poco
significativi. Verso la fine il testo accennava però alla scoperta di esseri viventi, delle mosche,
anche sulla terraferma e subito dopo si concludeva con una serie d’incomprensibili scarabocchi.
Un giorno, infine, si verificò un grave e angoscioso incidente. Uno degli uomini, al lavoro dentro
una caverna, perse all’improvviso le proprie facoltà mentali e non riconobbe più nessuno. La sua
era ben più di una semplice amnesia. Non soltanto aveva perduto ogni ricordo del passato, ma anche
la parola e la capacità di leggere e di scrivere. Si trattava insomma di una completa disintegrazione,
un annientamento della personalità stessa. Erano sopravissuti unicamente gli istinti più primitivi:
sapeva, ad esempio, mangiare, ma soltanto a patto di essere imboccato. Come finirono presto per
comprendere, tutto avrebbe dovuto essergli nuovamente insegnato, come se fosse stato un neonato,
ma la sua personalità era andata distrutta per sempre. Una volta completato il nuovo apprendimento
sarebbe di fatto diventato un’altra persona.
A quel punto Ezio e Moreno ne ebbero abbastanza. Non volevano conoscere la soluzione al mistero
della Condor. Il pensiero di ridursi come quell’astronauta li sconvolgeva. E siccome la morte li
aveva sempre liberati da ogni orrore vissuto, siappure solo per trasferirli in un altro, la soluzione gli
parve evidente. Si consultarono a lungo, timorosi, ma infine presero la decisione. Qualsiasi novità
gli fosse capitata in seguito, sarebbe stata comunque preferibile alla situazione attuale. A bordo
della Invincibile c’era un arma micidiale, il mortaio antimateria: l’avrebbero usata su se stessi.
In attesa di essere investito dal raggio d’azione del mortaio, Ezio rivolse gli ultimi pensieri alle due
visite effettuate in casa dei fratelli Delfino e agli eventi verificatisi nel corso di quelle serate, senza
dubbio responsabili della loro situazione. Poi l’annichilatore lo colpì, uccidendolo all’istante.
Questo episodio è dedicato alla memoria di Franco Imparata, improvvisamente scomparso venerdì 14 ottobre
all’ospedale San Paolo di Savona per cause non del tutto chiare all’età di 41 anni.
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U.N.P. 4 “UN GIOCO APPASSIONANTE”
N.B. Presento qui il quarto episodio d’una serie di 8 racconti autonomi e auto conclusivi intitolati
U.N.P. Non occorre conoscere gli episodi precedenti per comprenderlo, né è necessario leggere questo
per affrontare il successivo. Tuttavia l’ordine degli episodi non è casuale. Se desideraste leggere gli
episodi già usciti, converrebbe farlo prima di affrontare l’odierna lettura, perché altrimenti vi
perdereste buona parte del mistero. Buona lettura a tutti.
Il massiccio cetaceo maschio con la bardatura e il maturo essere umano in
muta e maschera discorrevano nella sala comandi dell’astronave, una sfera
leggermente sporgente rispetto al corpo della nave e artificialmente
allagata con acqua sovra ossigenata.
Il vascello spaziale era ben nascosto nel fondo di un oceano alieno.
Il cetaceo, pur ricordando molto, nell’aspetto, un delfino, aveva
qualcosa di diverso da quegli allegri, intelligenti e famelici animali
marini terrestri.
Un cicalino suonò richiamando l’attenzione dei due esseri, che subito
interruppero la conversazione.
Il neodelfino galleggiava placidamente, in preda alle piacevoli correnti,
nel rassicurante liquido amniotico della plancia. Sullo schermo
secondario un tursiope di sesso femminile, a lui sottoposto, enunciò il
rapporto quotidiano con una curiosa parlata poetica, in versi. Fu quindi
il turno di un secondo neodelfino, il quale espose il proprio bollettino
per mezzo di una terminologia tecnica in una più normale forma di prosa.
L’uomo ascoltava interessato e interveniva saltuariamente per esprimere
qualche parere specialistico.
Quando anche il secondo rapporto fu concluso e lo schermo si spense, i
due mammiferi d’origine terrestre, il neodelfino e l’umano, ripresero a
parlare, poi l’uomo si allontanò a nuoto…
Matteo Delfino, studente fuori corso alla facoltà di filosofia da tempo immemorabile, alto, snello,
dinoccolato e dal naso ben pronunciato, rientrò a casa eccitato, nel tardo pomeriggio di venerdì, con
ancora vivida nella mente l’incredibile avventura vissuta la sera precedente e tratta da un famoso
romanzo fantascientifico. Chi l’avrebbe mai immaginato, solo una settimana prima, che un giorno
avrebbe provato la sensazione di vivere a bordo di un’astronave insieme a delfini autentici,
adattandosi al loro ambiente e rapportandosi con loro o, addirittura, di essere egli stesso un delfino,
non di cognome ma di fatto, con tanto di coda e pinne? Eppure per circa tre ore era stato davvero
convinto di galleggiare nelle tiepide correnti acquatiche, perfettamente ricreate.
Aveva sognato avventure subacquee per l’intera nottata successiva, come se il mare fosse stato il
suo elemento naturale! Matteo si era convinto che un neodelfino, se fosse davvero esistito, avrebbe
provato le medesime sensazioni da lui avvertite mentre si trovava nella simulazione.
Fattostà che dopo essersi immerso nelle spettacolari realtà virtuali del futuro cyber spazio, non stava
più nella pelle, ansioso com’era di riprovare il nuovo programma sperimentale portato due sere
prima dal fratello maggiore Aurelio, brillante scienziato informatico.
Finanziata da una holding cinese, la A.T.L. Informatica, l’azienda genovese per la quale Aurelio
Delfino lavorava, stava finalmente terminando di approntare il progetto a cui si dedicava da sette
anni. Erano stati approntati due prototipi e uno di questi adesso era installato proprio a casa loro.
Si trattava d’un avveniristico computer quantico basato sulla biologia molecolare. Più esattamente
era un ibrido tra chip elettronici e una componente biomolecolare e sfruttava le caratteristiche di
velocità degli scambi di elettroni per lo svolgimento delle proprie operazioni. Grazie a ciò aveva
potenza e capacità di memoria enormi. Le tecniche che ne avevano permesso la creazione erano
totalmente innovative, per cui il giorno del lancio ufficiale sarebbe stato più avanti di almeno dieci
anni rispetto a tutti gli elaboratori elettronici presenti in commercio. Il programma di realtà virtuale
narrativa era la prima applicazione pratica del progetto, ma ne sarebbero presto seguite altre.
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Matteo salì le scale a due a due e aprì la porta d’ingresso. Si cambiò gli abiti arlecchineschi che
soleva indossare con totale mancanza di buon gusto e si piazzò davanti al computer.
Niente romanzi questa volta. Si sarebbe dedicato a qualche racconto. Per Matteo, lettore
appassionato o, per meglio dire, famelico divoratore di scritti d’ogni genere, su cartaceo così come
su e-book o direttamente sul web, la novità era troppo entusiasmante per pensare alla cena. Leggere
e commentare racconti di Neteditor e di altri siti analoghi era certamente piacevole, ma poterli
addirittura vivere come se lui stesso fosse stato uno dei personaggi era tutta un'altra cosa.
Si era appena accomodato, quando da una delle numerose stanze sbucò la sua fiamma del momento,
che da una quindicina di giorni gli si era installata in casa.
“Ciao amore, sei arrivato finalmente.” Lo salutò lei. Quindi gli si fece incontro, gli avvolse le
braccia intorno al collo e lo baciò.
Lui si sciolse in fretta dall’abbraccio con un distratto “Sì ciao ma ho da fare adesso, scusa” e tornò a
dedicarsi al pc. In quel momento aveva ben altro per la testa che dedicare le proprie attenzioni a una
donna del tutto estranea alla sua passione del momento. Tale comportamento provocò una breve
quanto vana discussione, quindi la giovane si allontanò imbronciata.
Appena rimasto solo, Matteo prese il raccoglitore di dvd per scegliere la nuova storia da vivere.
Non si trattava peraltro di comuni dvd. Prototipi anch’essi, avevano una capacità di memoria di
svariati terabyte. Tra loro e l’hard disk si sarebbe potuto ricostruire virtualmente il mondo intero!
Indossò quindi la tuta tattile e s’immerse felice in una nuova avventura immaginaria.
Eretto in sella al suo destriero, avanzava nell’acquitrino gelido e
scivoloso… Indossava un’armatura leggera a maglie strette… Un lampo
squarciò il cielo, la pioggia prese a cadere incessante… Le mura del
castello si stagliarono improvvise, oltre i tetti di paglia delle case,
ma la nebbia ne nascondeva la parte superiore…
Ora era un Vasuri, il cacciatore di draghi ideato da Scribak in <<Dragon>>, uno dei suoi racconti
preferiti tra quelli letti su Neteditor.
Trascorse quasi sei ore filate a navigare nel cyber spazio, imbracato al computer, ed era la terza
serata consecutiva cui vi si dedicava. Sentiva però il desiderio di condividere quell’entusiasmante
giocattolo con qualcuno. E quel qualcuno non poteva essere altri che i suoi due migliori amici, Ezio
Torregiani e Moreno Piacenza. D’altronde a suo fratello sarebbe tornato utile che altre persone
sperimentassero il funzionamento del programma e ne dessero un giudizio obbiettivo.
Così il giorno successivo Matteo e Aurelio Delfino ricevettero la visita di Ezio Torregiani e Moreno
Piacenza. Il primo era un impiegato trentaquattrenne con un passato da pugile dilettante, coniugato
e con un figlio. Il secondo invece era un insegnante trentatreenne appassionato d’immersioni e
ancora fidanzato. I due si conoscevano dall’infanzia e formavano una coppia inossidabile.
“l’A.T.L. ha inserito nella memoria del nuovo computer una serie di racconti e romanzi” – spiegò
Aurelio dopo averli fatti accomodare – “Ma non si tratta di banali sessioni di lettura sul video, si
può fare molto di più di questo. Approfittando della grande memoria disponibile e di una tecnica
rivoluzionaria per condensare e trasmettere informazioni, ogni singolo romanzo è stato ricostruito
visivamente, appunto attraverso le realtà virtuali.”
“Cioè, se ho capito bene, questo programma permetterebbe di rivivere trame di romanzi?”
“Proprio così, Ezio. Vedete queste specie di torrette piazzate sul pavimento intorno alla pedana?
Sono sensori che emettono impulsi di luce invisibili all’occhio umano. La faccenda funziona un po’
come il sonar dei pipistrelli, che permette loro di volare orientandosi nello spazio senza correre il
rischio di sbattere contro gli ostacoli. Esso emette ultrasuoni che si diffondono nell’ambiente
circostante e l’animale, ricevendo l’eco di ritorno, può determinare con esattezza la posizione degli
ostacoli incontrati. Il sonar è così preciso da permettere ai chirotteri di catturare insetti in volo.
Bene, qui il concetto è più o meno lo stesso, solo che in questo caso il sensore emette continui flash
di luce infrarossa, un numero elevatissimo ogni secondo, che fissano di momento in momento tutto
quanto accade. Noi la luce non la vediamo, ma è come se il computer ricevesse, in pratica, una serie
di fotografie che mostrano tutti i vostri movimenti, come accade con i fotogrammi di un film,
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permettendogli di leggerli, interpretarli e riprodurli alla perfezione o rielaborarli all’interno della
simulazione. Vi basterà montare sulla pedana e collegarvi al computer. Quindi, indossando i visori
speciali a cristalli liquidi per vedere le immagini e alle cui stanghette sono collegate le cuffie per
udire i suoni, e infilando la tuta tattile per sentire gli oggetti virtuali toccati, avrete veramente
l’impressione di far parte dell’avventura. Vi sembrerà di essere presenti in carne e ossa,
camminando e agendo sul serio all’interno del paesaggio ricreato, in compagnia dei vari personaggi.
Vi garantisco che l’effetto è assolutamente realistico.”
“E l’azione non si svolgerà come un semplice film.” – Aggiunse l’entusiasta Matteo. – “Grazie alla
miriade di informazioni presenti nella stupefacente memoria del computer quantico e alla ancora
più impressionante velocità del processore, potrete interagire col racconto. Entrerete direttamente
nella storia come nuovi personaggi, rapportandovi con gli altri come se faceste parte di essa da
sempre o prendendo il posto dei vostri personaggi preferiti, sia seguendo la trama di momento in
momento sia apportando modifiche. È una figata pazzesca, ragazzi, ve lo giuro.”
“Sull’hard disk del pc quantico abbiamo inserito un’enorme quantità d’informazioni generali di
vario genere, mentre le trame vere e proprie sono ricreate sui dvd. Prendiamo un titolo a caso,
diciamo… toh, <<Una vita incredibile>>. È uno di quelli selezionati da te, no, Matteo?”
“Sì, è un racconto di Starsky che ho scovato in rete, uno dei suoi gioiellini, a mio parere, una
brillante, malinconica rivisitazione dell’Uomo ragno. Un racconto per nulla banale, per giunta.”
“Ebbene, tra hard disk e dvd abbiamo ricostruito non solo il testo originale, ma anche l’intera
metropoli newyorkese e innumerevoli informazioni sul personaggio tratte dai fumetti marvel. Così
interagendo con la trama si potrebbe visitare qualunque punto della città, anche se mai citato nel
racconto e affrontare uno qualsiasi dei supercriminali apparsi negli albi dell’Uomo ragno.”
Ma non solo, nel hard disk erano state inserite anche miriadi di informazioni in apparenza estranee e
tuttavia necessarie. Aurelio aveva ad esempio caricato una serie di foto di Torregiani e Piacenza,
necessarie per creare i loro avatar. Chi giocava indossava tuta e occhiali, tuttavia grazie alle
fotografie il programma sarebbe stato in grado di riconoscerli ugualmente e di visualizzarli col loro
aspetto autentico. Per giunta con una sufficiente quantità di immagini disponibili, il programma
poteva perfino estrapolare la mimica facciale d’un volto, ricostruendone l’espressività. Tutto ciò
naturalmente volendo apparire col proprio aspetto. Nulla però avrebbe impedito al visitatore di
assumere sembianze diverse, scegliendole tra le innumerevoli disponibili in memoria. Il software
era sufficientemente sofisticato per permetterlo.
A questo punto, sollecitati da Moreno, i padroni di casa caricarono uno dietro l’altro tutti i dvd,
ennesimo prodigio tecnologico reso possibile dalla A.T.L. Quindi mostrarono ai loro ospiti i
venticinque titoli disponibili fino a quel momento in catalogo, tra romanzi o serie di romanzi tratti
dal cartaceo e raccolte di racconti pescate da autori del web. Si trattava soltanto di sceglierne uno e
iniziare l’avventura.
Ezio e Moreno diedero una rapida scorsa all’elenco. C’erano grandi classici della letteratura
fantascientifica come, ad esempio, <<La mano sinistra delle tenebre>> di Ursula Le Guin” o
<<Neuromante>> di William Gibson, il geniale inventore del cyberpunk; capolavori della
letteratura mondiale del novecento, come l’introspettivo avventuroso <<Lord Jim>> di Joseph
Conrad o l’allucinante <<Il Processo>> di Franz Kafka; testi tra i più significativi della
letteratura italiana d’azione passata e contemporanea, come la quadrilogia poliziesca dedicata da
Giorgio Scerbanenco a <<Duca Lamberti>> o i primi tre volumi del ciclo del fantastico
<<L’inquisitore Eymerich>> di Valerio Evangelisti… Ce n’era insomma per tutti i gusti.
Infine Piacenza si offrì volontario per compiere, accompagnato da Matteo, il primo viaggio e scelse
<<Triste solitario y final>> di Osvaldo Soriano, una delle sue opere predilette.
Delfino junior allora l’aiutò a indossare il visore e la tuta tattile, da cui si dipartivano i sensori che
fornivano le stimolazioni elettriche necessarie per procurare la sensazione di sentire gli oggetti.
Infine i due s’imbracarono a sottili ma robusti cavi elastici pendenti dal soffitto, ingombranti e
tuttavia necessari per trattenere e indirizzare i visitatori all’interno dello spazio delimitato.
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“Altrimenti – spiegò Matteo – “rischieremmo di finire fuori dalla pedana senza accorgercene. Così
invece avremo piena libertà di movimento. Considera, giusto per fare un esempio, che se nella
simulazione vedessimo delle sedie e volessimo accomodarci su di esse, ci verrebbe istintivo
muovere i muscoli delle gambe per compiere l’atto di sederci, ma non trovando nell’ambiente reale
nulla sotto di noi, cascheremmo a terra. Invece grazie ai cavi che ci sorreggono il problema è
risolto. Nella simulazione possiamo compiere l’atto di sederci senza accorgerci di nulla.”
“Beh, ma con tutto ‘sto ambaradam addosso non perderemo l’effetto di realismo?”
“No Moreno, ti assicuro che una volta entrati nella simulazione non sentirai la presenza né della
tuta, né del visore, né dei cavi. Ti dimenticherai addirittura di portarli. È un effetto psicologico che
noi abbiamo trovato la maniera di rafforzare. Uno di questi sensori serve a desensibilizzare e
ingannare il cervello. Per te sarà come essere nudo e quindi se una simulazione prevedesse ad
esempio l’uso di vestiti eleganti, il tuo cervello verrà indotto a credere che il corpo abbia davvero
indosso giacca e cravatta. Ma basta parlare, seleziona la storia e andiamo.”
L’incontro tra l’anziano e triste Stan Laurel e il disincantato e stanco Philip Marlowe. L’arrivo del
giornalista Soriano. Le mirabolanti avventure di Marlowe e Soriano (E Moreno e Matteo) sulle
tracce del passato di Laurel, come, ad esempio, la tragicomica folle corsa in taxi con il tassista quasi
cieco. Scazzottate, tentati omicidi, sequestri di persona.
Certo, nulla avrebbe potuto restituire la meravigliosa capacità di scrittura di cui era dotato un così
grande artista e che rende i suoi romanzi dei capolavori, ma ciononostante, rivivendo l’opera, i due
avevano ritrovato quell’impossibile fusione di comicità e malinconia che rende indimenticabile
<<Triste, solitario y final>>.
Usciti dalla simulazione, mr Piacenza si guardò intorno sbattendo gli occhi.
“Allora, che te ne pare?” Chiese Delfino senior, che osservava, con una sigaretta tra le labbra, da
una delle due poltrone in pelle sistemate all’angolo della stanza.
“Fantastico.” Rispose.
“L’effetto realtà è buono no? Anche facendo molta attenzione, potrebbe sfuggire che si tratta di
ricostruzioni computerizzate. È vero o no che una volta entrati dentro la simulazione non ci si
accorge più di indossare i vari interfaccia e la tuta, nonostante l’ingombro?”
“Assolutamente. Io ho sempre amato molto l’opera di Soriano e viverla in questa maniera è stata
un’esperienza meravigliosa. Credo che ricorderò sempre la scazzottata alla consegna dei premi
oscar, e il piacere di aver potuto dare anch’io un bel pugno a quei due fottuti eroi senza macchia del
cazzo, John Wayne e Charles Bronson, è stato impagabile.”
Fu quindi il turno di Torregiani che, sempre accompagnato da Matteo, visitò <<La mano sinistra
delle tenebre>>, una storia tanto fascinosa quanto profonda, sull’amicizia tra esseri alieni, nel corso
della quale venivano descritte insolite culture umanoidi e si affrontava una spaventosa impresa nel
gelido, terribile inverno del lontano pianeta.
Nel frattempo Moreno, mentre seguiva dal vivo e sullo schermo le evoluzioni degli amici, strappava
al maggiore dei Delfino la promessa di ripetere l’esperienza qualche sera dopo, provando le realtà
virtuali in coppia, svincolati dalla necessità di farsi accompagnare da uno degli anfitrioni. Infine i
due sodali si accomiatarono e tornarono a casa contenti della splendida serata trascorsa.
Fine episodio. Appuntamento a domenica prossima per il quinto.
P.S. Come avrete capito, i miei U.N.P. cioè Universi narrativi paralleli, vogliono principalmente essere un
omaggio alla letteratura in generale e ad alcuni dei miei romanzi (e racconti di autori del sito specializzato in
letteratura Neteditor) preferiti in particolare. “Triste, solitario y final” di Osvaldo Soriano e altri li ho qui
espressamente citati. Chissà se qualcuno ha riconosciuto i romanzi rivissuti nei tre precedenti episodi e
nell’incipit di questo? Saluti, Mas. Bi.
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U.N.P. 5 “DENTRO UN RACCONTO DI MASSIMO BIANCO”
N.B. Il racconto, 5° di 8, è autonomo e autoconclusivo, tuttavia chi desiderasse leggere qualcuno
degli episodi precedenti, gli converrebbe forse a farlo prima di leggere questo, perché altrimenti si
perderebbe buona parte del mistero. M.B.
La “A.T.L. Informatica” aveva realizzato il primo computer quantico, un sofisticato ibrido tra chip
elettronici e componenti biomolecolari, dotato di enorme capacità di memoria e di un potentissimo
processore. Per cominciare a sfruttarne le possibilità, aveva inoltre creato un programma di realtà
virtuali, che avrebbe permesso di rivivere trame letterarie in maniera così realistica da farle
sembrare esperienze autentiche.
Ezio Torregiani e Moreno Piacenza, ospiti di Aurelio Delfino, principale artefice dell’invenzione, e
del suo fratello minore Matteo, stavano per riprovare il prototipo installato nello studio di Aurelio.
“Ma stavolta scegliete un racconto breve, che domani mi alzo presto.” Si raccomandò quest’ultimo.
“E poi li sentite i tuoni, ragazzi? Sta per scoppiare il temporale ammazza estate.” – Aggiunse
allegramente Matteo. – “Se aspettate troppo ad andarvene finisce che v’inzuppate.”
Nel catalogo delle realtà virtuali erano presenti i racconti degli scrittori del sito letterario Neteditor
preferiti da Matteo. Una short story, dunque. Dei 25 dvd realizzati, 20 ricreavano romanzi, mentre
gli ultimi cinque erano dedicati ad altrettanti autori di Net: GIULIA 75, MASSIMO BIANCO,
RUBRUS, SCRIBAK e STARSKY. Costoro apparivano con sei testi ciascuno, scelti non tanto
perché superiori agli altri ma perché ritenuti più movimentati e quindi più adatti alla realtà virtuale.
“Vediamo un po’, <<Pericolosi ronzii>>, <<Il cuore nero di Lucca>>, <<Stagione di caccia>>,
<<Erba cattiva>>, <<Bondel>>, <<Boom>>, <<Buon Natale 1-2-3>>, <<Fiamme>>… boh?
Non conosco né titoli né autori.” Brontolò Moreno, incertissimo.
“Forse sarebbe meglio leggerli tutti per poter decidere qual è meglio.” Disse Ezio.
“Sì, rinviando la navigazione a un altro giorno, però! Facciamo così, se permettete scelgo io, ok?
…Bene, allora propongo Massimo Bianco, che è nostro concittadino. Magari una delle sue storie
ambientate qui in provincia di Savona e che ci hanno permesso di ricostruirla quasi per intero.”
“Ah, d’accordo, vada per ‘sto Bianco. Così verifichiamo l’accuratezza delle ricostruzioni.”
Montarono dunque sulla pedana, indossarono i visori e le tute coi sensori che collegavano il pc al
cervello, s’imbracarono coi cavi elastici per sorreggersi ed entrarono nella simulazione.
Un tizio snello, di media statura e dal volto oblungo, occhiali fotocromatici in plastica e capelli
piuttosto lunghi, con indosso una felpa marrone e jeans neri, li attendeva davanti a una libreria
bianca e arancione. Si presentò: era l’autore, o meglio, il suo avatar. Torregiani e Piacenza risposero
affascinati al saluto, faticando a considerare l’uomo dinanzi a loro come un’immagine virtuale. Su
sua esplicita richiesta chiesero poi di visitar uno qualsiasi dei suoi racconti ambientati nel savonese.
“Ok, allora vi apro <<Non entrate dentro il borgo>>. Non mi sembra che abbiate mai visitato la
mia creazione prima d’ora. Se volete posso farvi da guida, cosa ne dite?” Aggiunse Bianco,
elargendo a fine discorso un bel sorriso che gli addolcì per la prima volta l’espressione. Gli avatar
degli autori erano stati creati apposta per fungere da Virgilio, se gli utenti lo avessero desiderato.
“No grazie, ci arrangiamo da soli.” Disse Ezio, senza esitazione.
“Bene, dato che vi sentite bravi, meglio così, fatica risparmiata.” – rispose Bianco con tono
aggressivo. – “Spero che non vi perdiate parte degli avvenimenti. Se però vi trovaste in difficoltà io
non ho nulla da fare, quindi sarete liberi di contattarmi, usando il pulsante sulla destra del visore.”
“Grazie. Ahem, ora scusaci, ma abbiamo una gran voglia di visitare il tuo racconto.”
“Una sola? Allora non dovete essere poi così entusiasti, altrimenti avreste avuto almeno tre grandi
voglie di visitarlo, no? Beh, arrivederci.” Pronunciata questa battutaccia girò sui tacchi e si dileguò.
“Tipo spiccio e assai diretto nel dire quanto gli passa per la mente, eh? Hai notato che solo lui usa
nome e cognome veri? Tra l’altro credo di averlo visto per Savona, con quei capelli lo si ricorda.”
“Sì, va bene, sarà come dici tu, ora però non perdiamoci in chiacchiere, che il tempo stringe.”
Avanzarono di due passi e si ritrovarono in Albenga, attiva cittadina del savonese, in una frizzante
giornata tardo autunnale. Il cielo era azzurro e il sole prossimo allo zenit. S’incamminarono
1
lasciandosi alle spalle gli ultimi edifici moderni ed entrarono nel centro storico. Alla loro sinistra
sorgevano degli esercizi commerciali. Moreno riconobbe un negozietto di prodotti tipici del posto,
in cui una volta aveva acquistato i baxin, deliziosi dolcetti che per l’aspetto ricordavano gli
amaretti. Restò qualche istante a guardarne, stupefatto, l’interno. Era proprio come se lo ricordava,
gli pareva perfino di riconoscere il commesso. Sulla destra invece sorgevano la cattedrale dell’XI
secolo e tre possenti torri con finestre a bifore. Alle spalle della chiesa s’intravedeva il battistero del
V secolo, il più prezioso monumento antico ligure, dove è conservato l’unico mosaico bizantino
presente nell’Italia peninsulare al di fuori di Ravenna. Più avanti si ergevano compatte case torri
nobiliari medioevali ed eleganti palazzi cinque e seicenteschi. Percorsero ammirati le strade del
centro storico, sembrandogli di trovarsi davvero lì, del tutto dimentichi di indossare la tuta e i visori.
D’altronde uno dei sensori a cui erano collegati desensibilizzava il cervello proprio a tale scopo.
***
I fratelli Delfino sedevano nelle nuove poltrone in pelle dello studio, illuminati dall’elegante lume
di Capodimonte posto sul tavolino tra i due sedili, e da lì osservavano gli amici affrontare la
simulazione. Certo era curioso vederli muovere sulla piattaforma, con la tuta sensoriale indosso,
imbracati ai cavi elastici che li sorreggevano, e sentirli parlare come se si trovassero altrove. Ma
attraverso il maxi schermo da 50 pollici collegato al computer, potevano pure seguire gli apparenti
movimenti dei loro avatar in jeans, magliette e giubbe virtuali, per le vie della finta Albenga.
***
Ezio e Moreno sbucarono nella piazzetta del municipio, in cui sorge la turrita palazzina ospitante il
museo navale romano e si diressero ai tavolini all’aperto d’un bar, desiderosi di scoprire l’effetto
prodotto dalle bevande virtuali, quando un uomo gli uscì incontro dalla vicina agenzia immobiliare.
“Buon giorno signori, siete puntualissimi. Prego, accomodatevi.” Esclamò costui, rivolto a loro.
I due restarono un momento sconcertati, poi capirono che il programma doveva prevederlo affinché
potessero affrontare l’avventura prevista ed entrarono nel negozio.
“Dunque, se ben ricordo, al telefono dicevate di voler acquistare un alloggio nella vicina
Castelvecchio. Ho ciò che fa per voi… Ecco qua, ingresso a sala, cucina abitabile, salotto, due
camere, bagno e soffitta.” Disse lo pseudo agente immobiliare, aprendogli la piantina sul tavolo.
“Ah, sì, ecco, interessante.”
“Bene, allora chiudo il negozio e vi accompagno a visitarlo. La mia macchina non è lontana.”
Ezio e Moreno uscirono nella piazza e attesero il loro interlocutore. Questi stava abbassando la
saracinesca, quando i due amici per alcuni istanti si sentirono mancare e quindi si ritrovarono in uno
stretto vicolo in salita, ignoto. L’agente immobiliare era sparito e non era nemmeno più
mezzogiorno. Il sole era basso all’orizzonte, prossimo al tramonto e l’aria si era fatta più tiepida.
***
I fratelli Delfino si alzarono di scatto dalle rispettive poltrone, spaventati. Matteo si portò le mani ai
capelli. Aurelio si precipitò verso la pedana. Intanto fuori dalla finestra infuriava il temporale.
***
“Ehi, ma cosa diavolo è successo?” Chiese Moreno, osservando, perplesso e stordito, i dintorni.
“Sarà stato un difetto del programma. In fondo è ancora in fase sperimentale.”
“Ma lo sai che adesso le immagini sembrano diventate addirittura più nitide?”
“Hai ragione. Si vede che prima il programma non funzionava al 100% delle sue possibilità.”
“Non capisco dove siamo finiti, però. Non mi sembra di essere ancora ad Albenga.”
Ezio si guardò intorno. In effetti non si trovavano più in un grande centro ma in un piccolo borgo.
Nei pressi sorgevano casette d’aspetto venerando. Il carruggio s’inerpicava ripido davanti a loro,
fino a sfociare ai piedi di un castello, abbarbicato tra le rocce alberate sulla vetta della collina.
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“Questa è Castelvecchio di Rocca Barbena. Abbiamo fatto un balzo in avanti nella trama, credo.”
Dopo qualche esitazione s’incamminarono lungo il carruggio, salendo verso il castello, ma poco
prima di raggiungerlo una coppia uscì da un ingresso e li invitò a casa loro.
Si trattava di due persone dell’apparente età di quaranta anni, lui pallido e grassoccio, lei assai più
asciutta, che si presentarono come Romolo e Anna Re, i loro vicini.
Moreno si bloccò all’entrata e fissò, basito, l’ambiente. Era quanto meno strano che l’arredamento
della saletta d’ingresso fosse identico a quello della sua stanza da pranzo. Gli sembrava addirittura
di trovarsi a casa propria! Poi lui ed Ezio entrarono e la porta sbatté con violenza, ma non se ne
preoccuparono, doveva trattarsi d’una corrente d’aria. Ebbero però appena il tempo di compiere
altri due passi dentro l’abitazione, seguendo i padroni di casa, che il pavimento si sollevò a formare
un’onda e Torregiani, Piacenza e i coniugi Re caddero a terra.
Gocce acidule iniziarono a piovergli addosso dal soffitto. Ezio posò la mano sul pavimento per far
perno ma, con sua profonda sorpresa, s’incastrò nel terreno per poi iniziare ad affondarci dentro.
L’ennesimo gocciolone gli cadde sul braccio. Nel punto colpito la carne prese a squagliarsi. I Re
intanto urlavano terrorizzati. Pur sapendo che nulla era reale, provò paura.
“La mano si è rammollita e mi si è incastrata. La pelle mi brucia, cazzo.” Esclamò, la voce incrinata
dall’emozione, dibattendosi invano nel tentativo di liberarsi.
“Sto male, Ezio… è doloroso… in che razza di trama siamo finiti? La prossima volta scegliamo una
storia che abbiamo letto, per favore.” Rispose Piacenza, la voce in parte coperta dalle grida dei Re.
“Ah, o merda, non credevo che nella simulazione si provasse dolore.”
“Sì che si prova, Matteo l’ha detto, ma i protocolli di sicurezza l’attenuano… strano, ho sonno.”
“È vero, il dolore sta passando, ora sento solo un po’ di fastidio, eppure continuo ad affondare
dentro la parete. Questa belin di casa ci sta assorbendo e la sensazione non mi piace per niente. Ehi,
ma mi ascolti Moreno?… non ti stai mica… addormentando? …Moreno, rispondi… sarà svenuto?”
Ezio Torregiani fissò i Re e l’amico, ora immobili, i corpi mezzo sciolti in via di sparizione dentro il
pavimento. Si sentiva sempre più stordito e assonnato. Era pieno di graffi e gamba e fianco destro
affondavano mollicci nel pavimento. Alzò lo sguardo e vide distintamente l’ennesimo gocciolone
staccarsi dal soffitto e precipitare fino a schiantarsi sul suo naso. Una stilla gli entrò in bocca. Era
vagamente acidula. Il suo stordimento s’accentuò, non sentiva più dolore e gli veniva sonno.
Spalancò con uno sforzo gli occhi e si guardò intorno. Le pareti e il soffitto incombevano su di lui.
Si muovevano, ondeggiavano, parevano respirare. Gli rammentavano… uno stomaco, visto
dall’interno. Sopraffatto dall’angoscia non riuscì più a connettere. Una lacrima gli si formò
dall’occhio sinistro e scivolò lungo la guancia. Infine perse i sensi e poco dopo morì.
Ezio batté più volte le palpebre. Era di nuovo imbracato dentro la tuta sensoriale, nello studio di
Aurelio Delfino, il quale gli si era accostato e lo fissava con un’aria vagamente preoccupata.
“Tutto bene ragazzi? Mi sembrate sconvolti.”
“Sì, sì è fantastico. Mangiato vivo dalla casa. Sembrava tutto vero, cazzo.” Rispose Ezio, entusiasta.
Aurelio si riaccomodò soddisfatto nel divano di velluto da cui aveva seguito col fratello l’evolversi
del viaggio, stagliandosi sotto il cono di luce della vecchia bajour di metallo a stelo posta alla sua
sinistra, che ne rimandava l’ombra sulla parete opposta. Intanto era ormai l’una e venti. Gli amici si
accomiatarono, montarono nell’auto di Moreno e, tornati alle proprie case, andarono subito a letto.
Moreno si svegliò con la spaventosa impressione di essere stato digerito dalla casa aliena. E non la
sera precedente, ma appena una manciata di minuti prima! L’assurdità dell’erronea sensazione
temporale lì per lì lo confuse, poi però capì: Aveva sognato. Una volta addormentatosi, la sua mente
doveva aver rielaborato l’esperienza trasformandola in un incubo, molto vivido, per giunta.
Si sentiva indolenzito e infreddolito, come se avesse dormito all’addiaccio. Scostò la coperta che lo
riparava, si alzò e restò stupefatto. Si trovava davvero all’aperto, circondato da decine di dormienti
e da altrettanti cavalli impastoiati nei pressi! Ma perché non era a casa sua? E per quale demenziale
motivo quel luogo gli ricordava il sertao brasiliano? Non se ne capacitava proprio.
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Fine dell’episodio
4
U.N.P. 6 “VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE”
N.B. Rendendomi conto che questo terzultimo episodio è forse meno comprensibile dei precedenti, isolato
dal contesto, suggerirei ai nuovi eventuali lettori di non affrontarne la lettura senza prima aver letto almeno il
primo e il quinto. La mia speranza ovviamente è che li leggiate tutti. Buona lettura.
Era in corso la prima guerra mondiale, teatro di brutalità e di sopraffazioni senza limiti. Non ancora
disumanizzata come gli ipertecnologici combattimenti moderni, coi loro cacciabombardieri e i
missili presunti intelligenti, ma nemmeno più a misura d’uomo come quando i guerrieri scaricavano
gli istinti aggressivi in singolar tenzone, la grande guerra sta al guado tra passato e presente. A ogni
modo fu odiosa, cattiva e sbagliata come ogni conflagrazione, anche se necessaria e inevitabile.
Perché non ci sono mai stati, né ci saranno mai, conflitti buoni e giusti, esistono tuttavia conflitti
necessari e inevitabili o per meglio dire che la follia e l’avidità umana rendono necessari e
inevitabili. La prima guerra mondiale non rientrò in nessuna delle due categorie.
I signori Moreno Piacenza ed Ezio Torregiani, anzi, Piacenzà e Torregianì, in tenuta ed elmetto
dell’esercito francese, i fucili con le baionette in resta, erano pronti a uccidere o a morire, insieme a
migliaia di povere comparse, in quel carnaio che fu la regina dei combattimenti di trincea. Eppure
erano del tutto estranei all’evento bellico, essendo nati sessanta anni dopo il suo termine. A parte il
fatto che assurdamente lì non solo loro ma tutti parlavano l’italiano corrente di inizio XXI secolo!
Fino a quel momento avevano assistito o partecipato a una serie inenarrabili di orrori. Gli era ad
esempio accaduto proprio il giorno precedente, quando un messaggero era giunto al campo mentre
cercavano di starsene il più possibile al riparo dalle pallottole vaganti che ogni tanto stendevano
qualche povero fantaccino. Il soldato aveva chiesto al sottotenente che lo aveva fermato di poter
comunicare col colonnello ed era stato subito accontentato. I due si erano parlati abbastanza
dappresso al nascondiglio di Ezio e Moreno da permettere a costoro di ascoltare: il messaggero
riferiva circa la morte di un commilitone, ucciso da una granata mentre procurava le vettovaglie.
Non che al tre stellette importasse di un decesso in più o in meno. Gli premevano soltanto le notizie
sugli alimenti, da tempo scarseggianti. Non ricevette però mai risposta adeguata, perché l’alto
ufficiale e la misera staffetta morirono in una subitanea deflagrazione, dalla cui caligine furono
avvolti pure Ezio e Moreno.
Poco dopo, appena il fumo si fu diradato, i nostri eroi ritrovarono i cadaveri in fondo al pendio,
praticamente abbracciati e accomunati nella morte. Lo spettacolo era agghiacciante. Al messaggero,
privo della testa, fuoriusciva dal collo sangue a garganella, irrorando i cespugli circostanti. Il
colonnello invece aveva il ventre squarciato e una terribile smorfia di dolore dipinta sul volto.
Moreno, incapace di abituarsi a tali raccapricci, si sentì male. Allora si voltò, cercando di resistere
ai conati, tuttavia ben presto l’erba divenne giallastra del suo vomito. Eppure quando più tardi
annunciarono la morte del colonnello a un brigadiere, questi commentò distrattamente che un
graduato in più o in meno cambiava ben poco.
I due italiani ora se ne stavano nascosti in una trincea non lontana dalle linee tedesche, in perenne
attesa che una bomba gli cadesse sulla testa o che dal quartier generale ordinassero una carica, forse
suicida. E non avendo nulla di meglio da fare, in attesa degli sviluppi discutevano a bassa voce.
***
Aurelio e Matteo Delfino guardavano spaventati i corpi inerti ma ancora vivi dei loro amici.
La A.T.L. Informatica, per cui il brillante ingegnere Aurelio lavorava, aveva creato i prototipi del
primo avveniristico e potentissimo computer quantico, basato sulla tecnologia biomolecolare, e di
un innovativo programma di realtà virtuali basate sulla letteratura.
Purtroppo un violento temporale era scoppiato improvviso e un fulmine si era abbattuto sul
computer, mandandolo in corto circuito, proprio mentre i loro ospiti, Ezio Torregiani e Moreno
Piacenza, erano collegati al sistema attraverso una complessa serie di sensori e cavi elastici. I due
navigatori virtuali avevano perso conoscenza e Aurelio non riusciva a capacitarsene. Con tutti i
protocolli di sicurezza presenti, non sarebbe mai dovuto accadere.
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L’incidente era avvenuto alcune ore prima, ma solo in quel momento erano riusciti a scollegare dal
sistema i corpi inanimati e ad adagiarli sulle barelle. Ora, mentre gli infermieri portavano a termine
il proprio compito, Aurelio passeggiava nervosamente avanti e indietro e Matteo se ne stava
accasciato su una delle poltrone, le mani sulla faccia, stravolto dai sensi di colpa e invano consolato
sia dalla compagna sia dalla bella e solida Rosanna Cremona, l’insegnante ed ex mezzofondista
fidanzata di Moreno, prima e fino a quel momento unica familiare che avessero osato avvisare.
Eppure la povera Rosanna era perfino più disperata di lui. Stava però dimostrando una forza
d’animo eccezionale. Infine l’informatico scosse il fratello e lo sollecitò a seguirli in ospedale.
Matteo levò le mani dal volto e alzò sul congiunto uno sguardo inebetito e gonfio di pianto.
“Sono i miei migliori amici, Aurelio, e sono ridotti così per causa mia e del mio stupido entusiasmo.
Se non avessi tanto insistito perché provassero la tua realtà virtuale… non riesco a perdonarmelo.”
“Finiscila, accidenti a te.” – Rispose irritato l’altro – “Guarda che se qui qualcuno ha delle colpe,
quello semmai dovrei essere io. Ero convinto che il sistema fosse sicuro, ma mi sbagliavo e sono
stato imprudente a portarlo fuori dell’istituto e a lasciarlo usare da estranei.”
Aurelio tornò quindi a dedicarsi al computer, cercando ancora, ma invano, di spegnerlo. E per
qualche ignoto motivo il programma continuava a girare: sul maxischermo si vedevano le
immagini, vertiginosamente accelerate e a stento distinguibili, di una delle simulazioni presenti in
memoria. Beh, decise infine, rassegnato, ci penserò dopo, con più calma, ora non ha importanza.
“Forza Matteo, alza le chiappe da quella poltrona e andiamo.” Esclamò poi, sempre più stizzito.
***
“Le nostre coscienze devono essere rimaste imprigionate nella memoria del computer, mi pare
evidente.” – Stava dicendo Ezio Torregiani. – “E veniamo sbalzati da una storia all’altra, porco
cane. Noi c’eravamo convinti d’aver sognato sia l’avventura virtuale vissuta a casa dei Delfino sia
le due successive, invece ogni volta uscivamo da ciascuna simulazione solo per entrare
automaticamente in un’altra e le nostre menti, messe di fronte a degli eventi scioccanti e
incomprensibili, rielaboravano i ricordi, interpretandoli erroneamente come dei sogni.”
“Sì, questo lo afferro. Non può essere andata che così. Però la faccenda non mi torna lo stesso. La
prima volta ricordo benissimo di essere uscito dal programma di realtà virtuali, averti accompagnato
a casa ed essermene andato a dormire. Non ero più dentro quella dannata simulazione, capisci, ero a
casa mia. E allora come ho potuto risvegliarmi in Brasile, il mattino dopo?”
“Me lo stavo chiedendo anch’io e credo purtroppo di avere trovato la spiegazione…”
“E allora? Non tenermi sulle spine, sputa fuori.”
“Senti, non hai notato nulla di strano nello studio dei Delfino, quando l’avventura a Castelvecchio è
finita e ci siamo tolti il visore a cristalli liquidi e i sensori?”
“Di strano dici? No, no, niente, perché? Cosa avrei dovuto vedere?”
“In effetti neppure io lì per lì ci avevo fatto caso ma, pensaci un attimo, Aurelio e Matteo se ne
stavano seduti sul loro vecchio divano di velluto.”
“Sì, certo e con que… o ca…”
“Vedo che ci sei arrivato pure tu. I ragazzi hanno cambiato il divano tre mesi fa. Ero così abituato a
vederlo che lì per lì non ci ho fatto caso. Adesso al posto del divano hanno due poltrone in pelle.”
“Sì, hai ragione, però…. da dove è saltato fuori il vecchio divano? Non capisco.”
“Beh, a me pare ovvio, invece. Noi non siamo mai usciti dalla realtà virtuale. Quando siamo emersi
nell’appartamento di Aurelio ci trovavamo ancora dentro la simulazione. La casa dei Delfino non
era autentica, era una ricostruzione del computer.”
“Eh? E come potrebbe essere? No, proprio non capisco.”
“Perché tu non vuoi capire, Moreno. Quando però ci siamo sentiti al telefono per accordarci sulla
seconda visita, Matteo me lo ha spiegato e io te l’ho riferito. Per creare i vari avatar, il programma
di realtà virtuale utilizza delle fotografie, no? Beh, Aurelio deve avere inserito in memoria le foto
che abbiamo fatto l’inverno scorso in casa sua, quando ancora c’erano il divano e il vecchio lume a
stelo, poi sostituiti con le poltrone e quella raffinata bajour in ceramica di Capodimonte raffigurante
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due angioletti, te la ricordi? Quando siamo riemersi nello studio, i ragazzi erano seduti sul divano
davanti alla vecchia lampada e siccome il programma ha in memoria il precedente arredamento, noi
dovevamo essere ancora dentro la simulazione. Io credo che deve essersi verificato un incidente nel
momento in cui siamo stati sbalzati in avanti lungo la trama di <<Non entrate dentro il borgo>>.”
“Ma se siamo tornati a casa con la mia macchina!” Insistette Moreno, non convinto.
“Sì, ma quando i tecnici della A.T.L. Informatica hanno inserito in catalogo i racconti di Massimo
Bianco ambientati nel savonese, ne hanno approfittato per ricostruire l’intera provincia. Noi quella
sera eravamo piuttosto stanchi, siamo proprio sicuri che l’auto era esattamente identica alla tua?
Perché a me pare evidente che durante il viaggio di ritorno in macchina dovevamo essere già
intrappolati nella simulazione. A casa poi procedevo a tentoni al buio, per non svegliar mia moglie.”
“E non hai notato anomalie. Ok, dev’essere come hai detto tu, ora me ne rendo conto. Per qualche
motivo le nostre coscienze sono rimaste intrappolate nella memoria del computer e noi passiamo da
uno all’altro dei romanzi in catalogo, a random. Ma perché farci credere di essere tornati a casa?”
“Colpa dei protocolli di sicurezza. Se ho capito bene le spiegazioni di Matteo, un sensore rilevava
l’eccesso di stress nei navigatori e interveniva se venivano superati determinati valori.”
“Ma non potendo più farci uscire dalla simulazione, per alleviarci lo stress ha finto la fuoriuscita!”
“Così eccoci ora incastrati nella prima guerra mondiale e va a sapere da che libro sarà ricavata.”
“Visto che mi ci fai pensare… non ne sono sicuro, ma potrebbe trattarsi del <<Viaggio al termine
della notte>> di Celine. Ho letto quel libro sette od otto anni fa e non lo ricordo bene, ma la nostra
situazione un po’ me lo riporta alla mente.”
“Io invece credo di averne riconosciuto un altro. Quando ci siamo risvegliati in quel luogo pazzesco
e per uscire siamo stati costretti a inserire una monetina nella porta d’ingresso, hai presente?”
“E come potrei dimenticarmene? Un incubo assurdo, cazzo. Ricordo come fosse ieri…”
“Oh no, per favore Moreno, risparmiami le tue memorie, che non mi pare il momento.”
“Ok, ok, calmati, volevo solo dire di avere quella follia bene impressa nella mente. Sapevo di essere
andato a dormire nel mio letto, dentro la mia casa, ma poi mi sono alzato, sono andato in bagno, ho
acceso la luce e davanti a me non c’era il solito lavabo, perché quello non era il mio bagno!”
“E beh, durante quegli avvenimenti provavo uno straniante senso di dejà vu che non mi spiegavo,
ma ora ho capito tutto. Alla lunga non potevo non riconoscerlo, perchè è sempre stato uno dei miei
romanzi preferiti. Eravamo dentro <<Ubik>> di Philip Dick, un mitico capolavoro fantascientifico,
ma la stranezza della nostra situazione, uno sbalzo di trama e il fatto che anche il mio personaggio
si fosse consumato benché la trama originaria non lo prevedesse mi ha impedito di capirlo subito.”
“Già, e prima dobbiamo aver vissuto una qualche storia avventurosa ambientata in Brasile e poi un
secondo romanzo di fantascienza collocato su un mondo alieno. Il pianeta Regis… terzo, mi pare?
“Regis III, esatto. E sarei molto curioso di sapere di quali romanzi si trattava.”
“Ma chi se ne frega! Io vorrei invece che la simulazione non fosse così realistica da permetterci
perfino di rimettere, come mi è capitato prima. Ma vomitare cosa, poi? Bit su bit di informazioni?”
“Per lo meno non c’è puzza. Te n’eri accorto? Io me ne sono reso conto da un po’. Questo dannato
programma non è in grado di registrare gli odori.”
“Sai la consolazione. Dio, non ne posso più, meglio morire definitivamente che continuare così.”
“E se fossimo già morti? Nella memoria del computer sono rimaste imprigionate le nostre
coscienze, ma cosa ne sarà stato dei nostri corpi?” Concluse Ezio, con tono assai cupo.
Dopodiché nessuno dei due si sentì più di parlare. Poi qualcosa si mosse nella trincea di fronte.
Perché la trama di Celine procedeva ineluttabile, a parte inspiegabili salti in avanti – e unica via di
scampo una dipartita non consolatrice – passando dagli orrori della guerra a quelli del colonialismo
africano, dall’inumanità del protocapitalismo statunitense fino ai disagi delle banlieues parigine…
Come disse l’autore di quel capolavoro, “non è letteratura, è vita, la vita così come si presenta.
L’uomo è nudo, privo di tutto, anche della fede in se stesso.”
Fine episodio
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U.N.P. 7 (penultimo) “L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI”
Realtà virtuale: un branco di dinosauri bipedi bloccava Moreno Piacenza dentro un capanno al
centro di una radura. I rettili ricordavano i velociraptor resi famosi dal film Jurassic Park, ma al
biondo insegnante di scienze, che di dinosauri se ne intendeva, parevano troppo grandi per
appartenere a quella specie. Li riteneva piuttosto esemplari di deinonychus, i feroci dromeosauridi
loro parenti. Animali in grado di toccare i quattro metri di lunghezza e i centottanta cm di statura,
avevano un cervello estremamente sviluppato e caratteristiche fisiche rivoluzionarie. Erano ritenuti
predatori intelligenti e astuti, capaci di complesse strategie di caccia e di grande mobilità e velocità
di corsa. Se i Deinonychus erano stati riprodotti con tutte le caratteristiche scoperte dai
paleontologi, Moreno non sarebbe mai uscito vivo dal capanno. Affrontare sei avversari armati –
perché gli smisurati artigli a falcetto presenti nelle loro zampe anteriori erano da considerare una
vera e propria arma bianca – intelligenti, rapidi e feroci, gli pareva senza speranza. Aveva perciò
deciso di barricarsi. Ignorava però se esistevano possibilità di ricevere soccorsi.
La testa di un carnivoro apparve da dietro le inferriate della finestra. La belva l’osservò per lunghi
istanti, con quei suoi occhi fissi, privi di palpebre. Moreno ne ricambiò lo sguardo finché non uscì
dal suo campo visivo. Il cuore gli batteva all’impazzata o almeno così gli sembrava. Per alcuni
istanti non accadde più nulla, poi sentì raspare dietro l’uscio, mentre qualcosa cercava, vanamente,
di abbassare la maniglia. Quindi il primo colpo si abbatté con forza sulla porta, facendola tremare…
Un po’ prima il geologo Ezio Torregiani stava correndo nella radura diretto allo stesso capanno,
quando era stato raggiunto dai predatori e sbudellato a colpi di falcetto. Ora si trovava, indenne ma
sempre più stressato, in un prato di campagna, con intorno campi coltivati a grano, filari di pioppi e
una strada asfaltata che passava non lontano, oltre una siepe. Nei pressi sorgeva una fattoria. Sullo
sfondo s’intuivano basse collinette, appena illuminate dalla luna quasi piena.
Dapprima a tali immagini si sovrapposero, fantasmatiche, quelle della vicenda precedente, che però
sparirono quando l’aria vibrò e mulinò facendo apparire il suo amico Moreno, il volto distorto dalla
paura, la bocca atteggiata in un urlo disperato, che solo in parte gli uscì dalla gola, per l’orrore e la
sofferenza causati dai micidiali artigli e dai letali denti affilati.
Ezio Torregiani e Moreno Piacenza stavano provando un nuovo innovativo programma di realtà
virtuali, creato dal loro amico Aurelio Delfino, in grado di ricostruire trame di romanzi e racconti,
quando un incidente gli aveva imprigionato le coscienze nei loro avatar, costringendoli a vivere in
eterno i testi presenti in catalogo. Alcune storie gli erano ignote, come ad esempio una da incubo
ambientata in una Lucca viva e assassina o una seconda piena di mestizia, collocata su una Terra in
estinzione perché un morbo aveva ucciso la vegetazione, causando poi danni irreparabili alla fauna
e all’uomo. Invece altre simulazioni appartenevano a romanzi famosi, tipo <<Il processo>> di
Kafka, dove si cadeva vittima d’un meccanismo tanto perverso quanto incomprensibile. Ciascuna
(dis)avventura terminava con il naturale esaurimento della trama oppure con la “morte” dei due
visitatori. Ora erano usciti da Jurassic Park, il libro, ma ignoravano in quale vicenda fossero entrati.
Moreno si lamentava sommessamente. Ezio invece si era già ripreso e si guardava attorno, gli occhi
accesi d’interesse, senza prestare attenzione alle sue parole. In lontananza, in direzione del filare di
alberi, ci fu un lieve stormir di fronde, poi si udì il verso di un gufo. Ancora una volta appariva tutto
così vero, così credibile. Suo malgrado ne era affascinato. Si rivolse infine all’amico:
“Che ne dici se cerchiamo di farci un’idea più precisa di dove ci troviamo?”
“Eh? Ah sì, scusa. Ok e speriamo che stavolta ci vada meglio. Diamo un’occhiata a quella casa?”
“Là c’è una strada. Tentiamo piuttosto di ottenere un passaggio verso la città più vicina, se esiste.”
I due s’incamminarono oltrepassando un cancelletto al centro della siepe e giunsero al bordo della
via. Poco dopo sentirono il rumore di un’auto e si voltarono a guardarla. Era una ford antidiluviana
e piuttosto malridotta. Giunto a pochi metri da loro, il mezzo accostò e il contadino alla guida li
invitò a montare. Di certo la sua presenza doveva essere prevista dalla trama.
Durante il viaggio scoprirono di trovarsi negli Stati Uniti, stato di New York, a venti chilometri da
una cittadina chiamata Greenville. Intanto osservavano il paesaggio alla luce lunare. Tutto pareva
1
piacevolmente bucolico, sereno e tranquillizzante: campi coltivati, filari d’alberi, rare case isolate,
un trattore parcheggiato sul bordo della strada, infine i primi edifici di Greenville, palazzine in
muratura di pochi piani. Moreno era ancora frastornato dai balzi repentini, ma andava riavendosi.
Quando giunsero nella piazza principale del paese – definirla città, come aveva fatto il contadino,
pareva eccessivamente generoso – scesero e si guardarono intorno. Negozietti, auto d’epoca, pochi
pedoni che si muovevano senza fretta, il municipio e l’ufficio dello sceriffo in fondo alla piazza.
“Occhio e croce sembra un comunissimo, tranquillo e sonnacchioso paese nordamericano di
cinquanta o sessant’anni fa.” Commentò Ezio dopo che l’automobilista si fu allontanato.
“Che sicuramente ci riserverà qualche brutta sorpresa. Magari questo è un romanzo dell’orrore,
dove un maniaco mascherato fa a pezzi la gente con un’ascia e ci sceglierà come prossime vittime.”
“Può darsi. Per ora sappiamo solo che probabilmente è il romanzo di uno scrittore americano.”
“Statunitense. Gli USA sono solo una delle tante nazioni del continente americano. Canadesi,
brasiliani o venezuelani sono forse meno americani di loro? Eppure mai definiremmo americano un
brasiliano: è brasiliano e basta o al più latino o sud americano. È la loro sempiterna arroganza a
spingerli ad autodefinirsi americani come se fossero i cittadini per eccellenza di quel continente.”
“Va bene, che palle, ho capito, uno scrittore statunitense, allora, contento?”
Chiacchierando erano intanto giunti davanti a un locale, in una delle arterie centrali di Greenville.
Stavano per entrarci, quando seppero di avere raggiunto l’orizzonte degli eventi e di essersi infilati
nel buco nero della nuova avventura.
L’elemento incognito sbucò da dietro l’angolo, mentre loro attraversavano la strada, e si diresse
verso il bar. Quando ne raggiunse la soglia la ostruì quasi del tutto. Era, infatti, un mostro enorme,
alto sui due metri e venti e con il corpo ricoperto di vello e scaglie purpurei, privo di naso ma con i
denti, tanti denti, tutti acuminati: l’ennesima trama paurosa, come volevasi dimostrare!
***
Il reale: Aurelio Delfino col fratello Matteo, Marilena Rocca moglie di Ezio Torregiani, la madre
Daniela, Rosanna Cremona fidanzata di Moreno Piacenza e i genitori di quest’ultimo erano riuniti
in attesa di notizie. Un opprimente silenzio, interrotto da sporadici pianti sommessi, gravava nella
saletta d’attesa dell’ospedale in cui erano stati ricoverati i loro congiunti dopo l’incidente. Solo
l’alta e solida Rosanna, attraente pur nei suoi chiletti di troppo, ragazza forte di spirito e, un tempo,
sempre col sorriso sulle labbra, si era sforzata di tirar su il morale agli altri. Aveva la parola giusta
per tutti, perfino per i Delfino, colpevolizzati dagli inconsolabili genitori, eppure nessuno, forse,
soffriva più di lei. Poi Aurelio vide un medico e gli andò incontro per chiedere notizie.
“Lei è un parente?” Domandò il dottore.
“No, sono un amico. I parenti sono quelli là, ma preferirei che dicesse a me. Poi andrò a riferire con
la dovuta cautela.”
Il medico ci pensò su un attimo, poi annuì. “Dovete farvi coraggio, sono in coma irreversibile. Mi
spiace davvero, ma non c’è più nulla da fare. Ne discuta con calma con i familiari, ma credo che
dovremmo staccare le macchine che li tengono in vita finché gli organi sono utilizzabili.”
***
Ezio e Moreno erano intanto giunti alla stazione ferroviaria di New York. Tutto intorno una folla
abnorme, spropositata anche per una stazione metropolitana. Sul lato opposto all’ingresso, dietro
alla moltitudine di gente in piedi, c’erano decine di brande, per lo più occupate. In un angolo videro
pure due mostri purpurei. Il tabellone degli orari era desolatamente vuoto, eppure in una megalopoli
come New York sarebbero dovuti arrivare e partire treni ad ogni ora del giorno e della notte.
L’edicola della stazione riportava sulle locandine annunci strabilianti. La notizia principale riferiva
di un attacco di tali “Arturiani” e di una colonia marziana distrutta. Eppure l’arretrata società in cui
erano immersi non aveva certo l’aria di poter colonizzare i pianeti del sistema solare.
“Non so da quale romanzo sono tratti gli eventi, ma credo che questo mondo avrebbe potuto
piacermi, dopo tutto, se fossi stato un comune visitatore.” Commentò Ezio guardandosi intorno.
2
Non avendo motivo di trattenersi ulteriormente in stazione, decisero di andarsene. Mentre stavano
per superare l’ingresso, una delle guardie di piantone gli rivolse la parola, come al solito in italiano:
“Ehi, non vorrete di certo uscire, voi due.”
“Perché, non si può?”
“Non ci sono divieti, ma attraversare la città con la Total Nebbia è molto pericoloso.”
“Ma noi non possiamo restare qui, a casa ci aspettano.” S’inventò Moreno lì per lì.
“Oggi sembra che abbiate tutti una gran voglia di farvi ammazzare,” – intervenne il collega, – “due
minuti fa se ne è andato un tizio e adesso voi. Immagino che sarete almeno armati.”
“Armati? No, veramente no.”
“Beh, sono affari vostri, naturalmente, ma io vi sconsiglio assolutamente di uscire, almeno se
desiderate rivedere l’alba vivi.”
“La ringrazio agente, faremo molta attenzione. Vieni Ezio.”
“Ne sei proprio convinto? Qui saremmo al sicuro, credo.” Chiese Ezio, titubante.
“Ma fuori cosa abbiamo da perdere, in definitiva?” Insistette Moreno.
Un attimo dopo uscirono e si ritrovarono letteralmente nel nulla, mentre i poliziotti si affannavano a
richiudere la porta dietro le loro spalle. Era come trovarsi nel vuoto siderale, sperduti a metà strada
tra due ammassi di galassie. Bastarono pochi passi perché la luce della stazione non fosse più
visibile e rimanessero completamente avvolti nell’oscurità. Il buio era inspiegabilmente assoluto,
nulla poteva penetrarlo. Sembrava quasi dotato di spessore, corposità.
Per alcuni istanti ebbero l’agghiacciante impressione di essere diventati ciechi. Avanzarono
lentamente, a tentoni, nervosissimi, tenendosi per mano per non rimanere separati. Perdere d’un
colpo il rassicurante aiuto della vista era spaventoso. Oltretutto erano costretti a muoversi a caso,
privi com’erano di punti di riferimento, non essendo mai stati prima a New York. Perfino i suoni
risultavano ovattati. All’inizio discorrevano per sentirsi rassicurati dal suono familiare delle loro
voci, ma ben presto non ne ebbero più la volontà. Poi udirono in lontananza uno spiacevole rumore
stridente. Non furono in grado di identificarlo, ma ne rimasero turbati.
Procedettero avvolti in quel nero assoluto, che doveva essere la total nebbia citata dall’agente,
percependo solo il battito dei loro cuori, potenti come stantuffi e i respiri sempre più affannosi.
Presto persero la cognizione del tempo. Strisciarono lungo i muri, sbattendo contro alcuni ostacoli,
senza la minima idea di dove si trovassero o stessero andando e sentendosi sempre più sconvolti.
Avessero almeno potuto tornare in stazione, ma ormai non sarebbero più riusciti a ritrovarla.
“Ma in che razza di assurdo universo siamo capitati, stavolta?” Sbottò infine Ezio.
“Sst. Zitto, ascolta.” Lo interruppe Moreno.
Qualcosa di indefinito vibrava in lontananza. Contemporaneamente ebbero l’impressione di sentire
voci molto lontane, di persone intente a parlare tra loro. S’incamminarono nella direzione da cui
parevano provenire. Per un poco le sentirono farsi più vicine, ma presto non udirono più nulla.
Tutto parve nuovamente assopirsi. Poi, continuando a brancolare alla cieca, immersi nelle tenebre,
udirono di nuovo la vibrazione, che presto si definì in una serie di ticchettii, inizialmente appena
percettibili, ma solo per aumentare d’intensità via via che si facevano più prossimi. I due si
fermarono in attesa, incapaci di procedere, con la tensione alle stelle. I ticchettii parvero presto
giungere da ogni direzione. All’improvviso da un punto indefinito arrivò un urlo disumano, come se
qualcuno venisse scannato e, forse, era proprio così.
Allora il non poter vedere cosa succedeva li fece cadere in preda al panico. Si diedero a una fuga
disordinata, ma l’ormai sempre più forte ticchettio era ovunque. Un vetro andò in frantumi, poi
qualcosa colpì Ezio, che cadde a terra con un grido. Infine fu il turno di Moreno.
***
Ricevute le necessarie autorizzazioni, il medico spense le macchine. Torregiani e Piacenza furono
dichiarati ufficialmente morti. I funerali si sarebbero svolti il giorno dopo. Frattanto Aurelio,
rientrato già da ore nel suo studio, dopo aver tentato in vari modi di ripristinare o interrompere il
programma, staccò la spina del computer quantico. Eppure il programma continuò a procedere.
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U.N.P. 8 ULTIMO EPISODIO: “LA FINE”
L’occhialuto ingegnere informatico Aurelio Delfino osservava irato il prototipo guasto del
rivoluzionario e potentissimo computer quantico da lui realizzato. Ne era stato assai orgoglioso, ma
solo prima che andasse in corto circuito uccidendo due suoi amici, Ezio Torregiani e Moreno
Piacenza, mentre erano collegati per provare un innovativo programma di realtà virtuali, prima
applicazione pratica del progetto. Lui aveva tentato di ripararlo, ma non era neanche riuscito a
spegnerlo. Il programma, che permetteva ai navigatori di rivivere trame di romanzi e di racconti,
non facendogliele soltanto ripercorrere pedissequamente, bensì permettendo loro di interagire coi
personaggi fino al punto di mutarne le vicende, balzava senza pause da una storia all’altra,
riproducendole però accelerate in maniera vertiginosa.
In precedenza aveva riconosciuto un classico della sf e poi la famosa trilogia noir marsigliese scritta
da Jean-Claude Izzo, con le avventure del poliziotto di origine italiana Montale, in svolgimento
nonostante l’assenza di visitatori. Aveva seguito per un poco le situazioni tratte da <<Casino
Totale>>, il primo romanzo della serie. In particolare aveva riconosciuto una violenta scazzottata
prevista dalla trama, ma siccome dalle immagini si capiva poco, ben presto aveva lasciato perdere.
Adesso tornò a guardare lo schermo e distinse l’inconfondibile abito rosso e blu dell’Uomo Ragno.
Il supereroe era impegnato in frenetiche evoluzioni in mezzo ai palazzi newyorkesi, combattendo un
supercriminale. Qualche attimo dopo – benché nella simulazione dovesse essere trascorso parecchio
tempo – venne sostituito da un giovanotto, disteso immobile su un letto d’ospedale. Aveva presente
la storia, era in funzione la simulazione, ampliata ed rielaborata a fini spettacolari, di <<Una vita
incredibile>>, una malinconica, brillante rivisitazione del noto personaggio Marvel, firmata sul
web con lo pseudonimo di Starsky.
Strano, pensò Aurelio mentre l’inquadratura si soffermava sul volto dell’ospedalizzato,
permettendogli finalmente di distinguerlo, assomiglia a Moreno. Trovava il fatto curioso, anche
perché durante la battaglia tra Spider Man e l’Uomo Sabbia gli era parso di riscontrare somiglianze
tra quest’ultimo ed Ezio. A quanto pareva non riusciva proprio ad accettarne la scomparsa. Ma
ormai quei poveretti non c’erano più e doveva farsene una ragione.
Diede quindi un’occhiata all’orologio e alla batteria d’emergenza, che segnalava ancora cinquanta
minuti di carica. Staccare la spina era stata l’unica maniera per spegnere il computer. Non aveva
nulla di meglio da fare, quindi tanto valeva trascorrere l’attesa lì. Riportò lo sguardo sullo schermo.
Ora scorgeva un infermiere in piedi davanti al letto e non aveva pure lui l’aspetto di Ezio? Sta a
vedere che la disfunzione fa credere al programma che Torregiani e Piacenza stanno ancora
navigando. Ci meditò sopra qualche istante. Beh, in effetti questo avrebbe spiegato perché il
programma non si chiudeva.
Proprio in quel momento la trama giunse alla sua naturale conclusione e come al solito si passò
automaticamente, a random, a un altro episodio. Ma quale? Si domandò Aurelio. Ah, sì, è Il…
***
Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in
rivista i paladini. I cavalieri sostavano a migliaia, in attesa su di un immenso campo di papaveri.
Indossavano pesanti armature e portavano scudi, lance ed enormi spadoni o mazze ferrate. I volti
erano nascosti dalle celate. Pomposi pennacchi sormontavano i copricapo di cavalli e cavalieri e
vivaci stemmi spiccavano su gualdrappe e vesti. In quel caldo pomeriggio di prima estate il sole
faceva capolino da sotto le nuvole e gli uomini, in attesa all’interno delle armature da oltre tre ore,
bollivano per il calore infernale. Dietro a loro sostavano le truppe appiedate, dietro ancora, a ridosso
delle mura, c’erano gli attendamenti per chi non aveva trovato posto in città.
Ezio Torregiani e Moreno Piacenza, ufficialmente defunti nel mondo reale ma con le coscienze ben
vive intrappolate nell’hard disk del pc quantico, facevano parte della schiera dei paladini. Dopo aver
abbandonato le avventure dell’Uomo Ragno, si erano direttamente materializzati in sella ai cavalli,
sul prato di papaveri. Un errore dei programmatori o dell’autore del libro, quest’ultimo, sospettava
1
Moreno, insegnante di scienze. Aveva qualche dubbio, infatti, che a latitudini così settentrionali i
rosolacci crescessero ancora. Ma a parte quell’inezia, pur sapendo entrambi di vivere come avatar in
una realtà virtuale, trovavano come al solito la scena assolutamente autentica. Veri loro e veri i
cavalli alla cui groppa erano aggrappati. Veri gli altri guerrieri e vere le armi e le corazze. Vere le
fortificazioni parigine e veri, verissimi l’erba e i fiori, siappure fuori posto, calpestati dagli zoccoli.
Il problema semmai era lo stress, sempre più intenso a ogni cambio di storia, che li stordiva per ore.
Sopraggiungeva intanto, alto e barbuto, il grande sovrano. Fermava il purosangue dinanzi a ogni
pari del regno e lo interpellava, chiedendogli chi fosse, quante forze avesse con sé, quali successi
avesse riportato e scambiando poi due parole con lui.
“Sono Ulivieri di Vienna, sire! Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da
assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia, per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi.”
“Bernardo di Mompolier, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno.” E su la celata a mostrare il
volto.
Ezio e Moreno osservavano la scena perplessi. Che rivivevano le imprese di Carlo Magno e dei
paladini di Francia l’avevano capito, ma tratte da quale testo? <<L’Orlando furioso>> dell’Ariosto,
forse? O magari <<L’Orlando innamorato>> del Boiardo? In effetti un Orlando in quell’esercito era
presente. Tuttavia, a parte il fatto che i personaggi gli parevano tutti un po’ troppo grotteschi, non
avevano mai sentito dire che i musulmani fossero giunti addirittura alle porte di Parigi. Beh,
potevano anche sbagliare loro, naturalmente, dopotutto non conoscevano con accuratezza né il
periodo storico in esame né i relativi poemi, però il prode Orlando era di sicuro perito ben lungi da
lì e precisamente a Roncisvalle, sui Pirenei. E poi quello schieramento di forze era esagerato. Ogni
condottiero, e ce n’erano parecchi, dichiarava un numero variabile tra tremila e ottomila cavalieri al
seguito e almeno altrettanti soldati. Assommati formavano un esercito enorme, almeno per il
periodo storico. Se nella realtà ve ne fossero stati così tanti, i mori sarebbero stati spazzati via in
cinque minuti.
Dopo ore di attesa Carlo Magno stava intanto avvicinandosi al loro cospetto. Non potevano restare
in silenzio dinanzi a lui, ma non sapevano cosa dire e neppure avevano idea precisa di quanti
uomini avessero al seguito – in proposito Moreno aveva chiesto a un sottoposto, ma questi lo
ignorava quanto loro – e poi, per quanto ridicolo fosse, il pensiero dell’imminente incontro con il
mitico personaggio li rendeva nervosi. Volenti o nolenti finivano sempre per lasciarsi catturare da
ogni nuova avventura, pur riconoscendone la falsità.
Il sovrano giunse finalmente alla presenza di Ezio e gli rivolse la parola.
“E chi siete voi, paladino di Francia? Non rammento il vostro stemma.”
Ezio sollevò la visiera e disse:
“Sì, io sono… Ezio di Savona, del finalese e della Val Bormida, mio sire, con al seguito
duemilacinquecento cavalieri e cinquemila fanti, compresi i servizi, e ho sconfitto Saddam Ussein,
il pirata saraceno.”
“Savona?” – Rispose il monarca – “In terra di Liguria, se non erro? Sono lieto di vedere anche gli
eroici difensori di quella landa. Avete subito numerose perdite ultimamente, peccato.”
A Ezio occorse qualche istante per capire che il futuro imperatore si era aspettato un maggior
numero di uomini e perciò dava per scontato che avessero subito tanti lutti.
“Ah sì, ecco, sono caduti per la gloria del loro re.”
“Da prodi quali erano e quali siete voi.”
Il re, soddisfatto, si portò quindi innanzi all’uomo d’arme successivo.
“E chi siete voi, mio glorioso campione?”
“Io sono Moreno del ducato di Piacenza e Cremona e… uh… vincitore del feroce, uhm, Osama Bin
Laden e conduco con me quattromila cavalieri, seimila fanti e duemila servitori, mio sire.”
“Ah, Piacenza, ch’io strappai a quei pusillanimi di longobardi ed è ora tra le mie più fedeli città.”
Ciò detto Carlo Magno procedette avanti.
“Comunque mi piaceva di più essere l’Uomo Sabbia, quella sì che era una figata.” Commentò Ezio,
a bassa voce.
2
“Beh, però magari ci divertiremo, combattendo i mori in singolar tenzone.” Rispose l’amico.
Continuando a passare in rivista gli uomini, il monarca giunse all’ultimo della fila, un imponente
cavaliere che indossava un’armatura completamente bianca, a parte una righina nera ai bordi, e un
pennacchio multicolore. Questi si presentò con un nome lunghissimo, di cui da lontano si capì solo
una parte: Agilulfo Emo dei Guildiverni. E quando infine si decise, ripetutamente sollecitato da sua
maestà, a sollevare la celata, rivelò che al suo interno non c’era nulla. La sua armatura era
completamente vuota!
“Oh merda, cos’è, un fantasma? Questo allora deve essere un romanzo fantasy, dove possono
verificarsi tutte le pazzie e apparire maghi, draghi, orchi… Non mi piace.” Si lamentò Ezio.
“Non so se è proprio un fantasy, a dire il vero. Anche se l’ho letto da adolescente ora lo riconosco.
È <<Il cavaliere inesistente>> di Italo Calvino.” Rispose Moreno, con un pallido sorriso.
Le trombe intanto suonarono il rompete le righe. Il giorno dopo si sarebbe combattuto, ma per
qualche ora ci si poteva rilassare. Ognuno si dedicò alle proprie faccende, mentre il candido
cavaliere si aggirava instancabile per il campo, continuando a indossare l’armatura e unendosi ai
capannelli senza mai partecipare alle conversazioni e mettendo a disagio i colleghi.
Quanto tempo sarà trascorso da quando siamo qui? Si chiedeva intanto Ezio. Starà bene il bambino?
E mia moglie? Mia madre? Sentiva la sua passata esistenza sempre più lontana e non sapeva se
esserne contento o infelice. Decise quindi di consolarsi provando ad appartarsi con una donzella
parigina, per scoprire se anche le gioie del sesso erano ricreate in maniera soddisfacente.
L’inattività dava modo di meditare anche a Moreno. Negli ultimi tempi non aveva rivolto molti
pensieri a Rosanna, la sua fidanzata, perché quella sua folle esistenza virtuale era stata talmente
frenetica da non dargliene tempo e soprattutto perché aveva troppa paura di non rivederla più, per
approfondire. Ormai però era talmente abbattuto da anteporre il desiderio di abbracciare la donna a
ogni altra questione. La separazione forzata gli aveva fatto capire quanto la amava e il pensiero che
soffrisse lo addolorava. Cosa starà facendo, adesso? Si chiese, inconsolabile. Sarà in pena per me?
Gli mancavano inoltre gli alunni. Dopotutto la sua professione gli piaceva. Chissà se le scuole
saranno riprese? Si chiese immalinconito. Non riesco neppure a distinguere con certezza lo scorrere
del tempo. Mi manca tutto il mio mondo, accidenti. Riusciremo mai a tornare all’esistenza reale?
Gli sembrava che fosse passato davvero troppo tempo e cominciava a perdere la speranza. Ormai
avrebbero ben dovuto averli salvati, no? Perché invece non succede nulla? Si chiedeva. Perché
continuiamo a essere prigionieri della realtà virtuale? E se le nostre menti sono finite qui, cosa ne
sarà stato dei nostri corpi? Forse non possono far niente per noi? È questa la verità? Ma in tal caso
non sarebbe meglio se le nostre coscienze venissero cancellate per sempre, anziché essere costretti a
sopravvivere per l’eternità in questo modo insensato? Non lo so, dannazione, proprio non lo so. Alla
fine si ritirò nella propria tenda, ad attendere, sconsolato, l’alba e pianse per buona parte della notte.
Il giorno dopo l’esercito si mise in movimento. Lungo il cammino incrociarono un gruppo di anatre
starnazzanti e tra esse un mentecatto che, non discernendo la propria condizione umana, si era
convinto di essere anch’egli un’anatra, tentando perfino di alzarsi in volo. Poi, portatosi presso lo
stagno verso cui i pennuti si erano diretti, scambiò se stesso per uno dei pesciolini d’acqua dolce
che lo abitavano e cominciò a nuotare e a boccheggiare come un essere branchiato. Agilulfo lo notò
e lo volle con sé come scudiero. Insieme facevano una bella coppia: l’uno pur essendoci non si
rendeva conto di esistere, l’altro pur sapendo di esistere non c’era.
“Non trovi che quei due sembrano simboleggiare la nostra condizione?” – Disse Ezio – “Anche noi
siamo come il bianco cavaliere: sappiamo di esserci ma in realtà non ci siamo, perché i nostri corpi
sono altrove e tutto ciò che vediamo è irreale.”
“Già” – rispose Moreno – “e siamo condannati come quell’indigeno a cambiare continuamente
vesti, con personalità sempre diverse e sconosciute di cui il più delle volte non sappiamo nulla.”
Giunsero infine dinanzi all’esercito nemico e si schierarono. E all’improvviso un acuto e possente
biiip, proveniente da ovunque e da nessun luogo, sovrastò per qualche momento ogni altro suono e
rumore. I due si guardarono attorno, sbigottiti. Cosa poteva significare?
Ma non c’era tempo per pensarci. Gli eserciti stavano entrando in contatto: era tempo di combattere.
3
***
Aurelio aveva osservato l’evolversi della trama. Non che ci si capisse molto, guardando sul
maxischermo quelle immagini troppo veloci. Carlo Magno – sapeva che il personaggio al centro
della prima scena doveva essere Carlo Magno – pareva spostarsi freneticamente da un paladino
all’altro dell’imponente esercito. Poi al campo era trascorsa in un battibaleno un’intera nottata e il
mattino successivo era stato occupato con l’avanzata dell’esercito. A suo tempo si era molto
divertito a realizzare quel capitolo, uno dei pochi da lui curati di persona.
Nella poltrona di fianco alla sua ora sedeva Rosanna Cremona, la quale seguiva le scene addolorata.
Rosanna, insegnante di lettere nella stessa scuola di Moreno, era innamorata di lui fin da quando
erano entrambi giunti nell’istituto e ben presto ci si era fidanzata. Niente più matrimonio per loro,
però e la giovane non se ne faceva una ragione, trovando una morte così davvero troppo ingiusta.
Mezz’ora prima aveva telefonato ad Aurelio. I Delfino erano stati gli ultimi a vedere Moreno vivo e
desiderava sapere tutto ciò che ricordavano dell’incontro. Aurelio gli aveva riferito il curioso
fenomeno verificatosi sul computer, lei aveva insistito per venire a vedere e si era precipitata. Erano
venti minuti ormai che i due parlavano e osservavano. Rosanna avrebbe dato qualsiasi cosa per
rallentare le immagini e guardarlo bene per un ultima volta, prima della fine.
Poi giunse il cicalino che annunciava l’esaurimento della batteria. Se entro dieci minuti gli ipotetici
navigatori non fossero usciti dal programma chiudendo la sessione, tutto ciò che non era stato
salvato sarebbe andato perso. Alleluia! Pensò Aurelio, stufo marcio.
Erano trascorsi altri nove sanguinosi minuti effettivi e la battaglia era appena terminata, quando i
due spettatori videro un personaggio sollevare la visiera. Il suo volto occupò lo schermo per un solo
secondo, ma fu sufficiente per distinguere bene Moreno Piacenza. Vedendone l’espressione stanca e
sconvolta, in apparenza assolutamente reale, Rosanna fu colta da un dubbio improvviso: e se non
fosse solo il suo avatar? Se in qualche misteriosa maniera la mente, la coscienza del suo amore si
fosse invece trasferita dentro l’avatar che ne rappresenta le fattezze e vi sopravvivesse? Agitata,
riferì il pensiero ad Aurelio.
“Ma no, questo è inverosimile. Il programma è molto accurato nell’interpretare le emozioni degli
avatar, tutto qui.” Rispose lui.
“Eppure la sua espressione era così umana, perché il programma dovrebbe continuare a ricostruirla
tanto autentica se lì dentro non c’è più nessuno? No, io non posso proprio credere che quella che ho
visto sia solo una finzione. Fa qualcosa, Aurelio.”
“Io capisco il tuo dolore, è dura anche per me, ma devi sforzarti di accettare la verità, Rosanna,
altrimenti farai solo male a te stessa. Moreno è morto e non c’è più nulla da fare.”
Eppure mentre lo diceva venne colto dal dubbio. Assurdo, sì, ma effettivamente nella sua ignoranza
Rosanna aveva colto un punto. Perché riprodurre le espressioni nel volto degli avatar, se i sensori
non erano più collegati ai cervelli che avrebbero dovuto esprimere i sentimenti corrispondenti?
Possibile allora che le loro coscienze in qualche maniera…
Ma in tal caso avrebbe avuto senso salvarli? Ormai erano stati addirittura seppelliti! Eppure chissà,
non poté fare a meno di dirsi, con i prodigi della tecnologia moderna, anche se i corpi non esistono
più, magari una soluzione si trova… ma allora se non salvo la sessione di lavoro li uccido per
sempre, senza remissione?
In quell’istante suonò ancora il cicalino e apparve una scritta. CARICA DELLA BATTERIA: 0. Il
computer stava per arrestarsi. Preso da un impulso andò col dito sul tasto “Salva”, pigiandolo nello
stesso momento in cui lo schermo si spegneva. Non riuscì a capire se aveva fatto in tempo.
***
Ezio e Moreno stavano rilassandosi dopo la dura battaglia, quando udirono un nuovo biiip e nel
cielo apparve un’enorme scritta. CARICA DELLA BATTERIA: 0. Poi, tutto si oscurò.
FINE e stavolta definitiva. Saluti da Massimo Bianco, con la speranza che abbiate apprezzato.
4
U.N.P. 0. Spiegazioni e precisazioni finali. Un omaggio alla letteratura
La mia storia cyberpunk in otto episodi, intitolata “U.N.P.” e cioè Universi Narrativi Paralleli, è
terminata, con la fervida speranza che l’abbiate apprezzata. Come avevo già spiegato in calce al
quarto episodio, gli U.N.P. volevano principalmente essere un omaggio alla letteratura in generale e
ad alcuni dei miei romanzi preferiti in particolare.
In origine l’avventura era stata concepita per assumere le forme del romanzo cartaceo ma,
considerate la difficoltà di suscitare l’interesse editoriale su di essa e l’ambientazione nel mondo dei
computer e della realtà virtuale, mi è parso logico proporla all’interno dei siti internet specializzati
in letteratura. Siccome però nel web quasi nessuno è disposto a leggere testi lunghi oltre le 4 o 5
pagine word, nemmeno a puntate, dovevo cercare di suscitare l’attenzione di un pubblico che fosse
superiore ai soliti pochi intimi. Così ho rielaborato il progetto, scrivendo otto episodi autonomi e
autoconclusivi (per un totale di ben 26 pagine word corpo 12) e quindi privi dell’obbligo di essere
letti nella loro totalità, ma che al contempo formassero comunque una ben precisa trama in lenta
evoluzione.
La mia è stata una scommessa che per i motivi sopra indicati qualche lettore ha generosamente
voluto definire coraggiosa ma anche, visto l’apprezzabile riscontro di pubblico ottenuto, una
scommessa ampiamente vinta. Se, infatti, qui su Trucioli il successo è stato inevitabilmente assai
meno eclatante, su www.neteditor.it, che è appunto un sito specializzato ed è visitato
esclusivamente dagli appassionati di letteratura, ciascuno degli otto episodi ha ormai
abbondantemente superato le cento letture, ricevendo un totale di sessanta commenti, tutti positivi,
da parte degli utenti iscritti al sito (chi non vi è iscritto pur potendo leggere non può commentare).
Per giunta le letture crescono costantemente ancora oggi, a due mesi e mezzo di distanza dall’inizio
della prima pubblicazione.
Prima di addentrarmi nei singoli episodi devo però spiegare perché ho optato per uno scritto di
ambito fantascientifico. Ciò che a mio parere rende grande la fantascienza è la sua capacità di
consentire un’assoluta libertà espressiva. Attraverso di essa si può davvero affermare ciò che si
vuole ed esprimere concetti che, in un contesto realistico, normalmente risulterebbero velleitari o
confusi se non addirittura fonte di guai giudiziari. E in questo caso io non riesco a immaginare un
altro genere narrativo in grado di farmi onorare adeguatamente alcuni dei miei amori letterari.
Come ormai saprete, l’idea alla base della storia è che in un futuro prossimo sia stato finalmente
realizzato il cosiddetto computer quantico, progetto su cui la ricerca si concentra da molto anni, e
con esso un programma di realtà virtuali che permetta di ricostruire le trame di romanzi e racconti
della letteratura internazionale. Si suppone altresì che, a causa di uno sfortunato incidente, le
coscienze dei due protagonisti della mia storia, Moreno Piacenza ed Enzo Torregiani, rimangano
prigioniere della realtà virtuale stessa.
In ogni episodio i due si ritrovavano invischiati dentro la trama di un diverso romanzo o racconto e
questa naturalmente era una occasione per omaggiare ogni volta almeno un classico della
letteratura. Ed essendo stata concepita espressamente per Neteditor, dove chiunque si può iscrivere
per pubblicare i propri scritti e commentare quelli altrui, per dare un effetto di maggior interattività
alla storia, mi è parso logico e interessante inserire nell’opera anche i miei autori preferiti di quel
sito, divertendomi inoltre, giacché c’ero, ad auto citarmi. Il fatto poi che la maggioranza dei testi
omaggiati appartengano alla stessa fantascienza o alla letteratura d’azione dipende non soltanto dai
miei gusti personali ma da una convenienza artistica, parendomi tali storie ideali per delle
ricostruzioni virtuali.
“Triste, solitario y final”, magistrale romanzo tragicomico dello scrittore argentino Osvaldo
Soriano e “La Mano sinistra delle Tenebre” gioiello fantascientifico di grande profondità e
intensità della scrittrice statunitense Ursula Le Guin, li ho espressamente indicati nel quarto
episodio insieme a un elenco parziale dei vari romanzi presenti nell’immaginario catalogo e
ovviamente tutti tra i miei prediletti, gli altri li indico qui di seguito.
Come ricorderete, nell’episodio 1 “Risveglio in un incubo” i nostri eroi vanno a dormire nelle loro
abitazioni, al termine di una serata trascorsa a casa di amici, e il mattino dopo si risvegliano
all’addiaccio, solo per scoprire di essere stati chissà come catapultati in Brasile, in mezzo a una
banda di jacunços, i famosi avventurieri e banditi brasiliani. Ezio Torregiani e Moreno Piacenza
erano in realtà imprigionati all’interno della trama del mio romanzo preferito in assoluto e cioè
dentro “Grande Sertao”, massimo capolavoro dello scrittore brasiliano Joao Guimaraes Rosa,
forse il più importante scrittore della storia del Brasile, a cui dedicai anche una vecchia puntata
della mia rubrica Il libro del mese (che attualmente non ho voglia di curare, lo confesso) e alla quale
vi rimando, ammesso che riusciate a ripescarla dai meandri di Trucioli (era stata pubblicata prima
dell’ultimo restyling del sito e quindi non appare tra gli “articoli per autore”). Si tratta comunque di
un romanzo in cui la componente avventurosa, quella descrittiva e culturale e quella socio
psicologica vengono amalgamate in maniera magistrale.
Nell’episodio 2, intitolato “In un mondo incomprensibile”, invece – avete presente l’assurda
avventura vissuta in quel mondo in cui si doveva inserire una monetina per far aprire al porta di
casa? – Ezio e Moreno si ritrovavano dentro Ubik, uno dei massimi capolavori del genio
riconosciuto della fantascienza: Philip K. Dick. Grande, estroso e iper produttivo maestro sul tema
della confusione tra realtà e finzione, Dick, lo ricordo per chi ignora totalmente la letteratura
fantascientifica, è lo scrittore da cui sono stati tratti innumerevoli film hollywoodiani. “Blade
runner”, il mitico film di Ridley Scott con Harrison Ford e Rutger Hauer, da qualcuno considerato
addirittura il massimo capolavori del cinema degli ultimi trent’anni, lo conoscerete senz’altro tutti,
ma ce ne sono molti altri, da “Minority Report” di Steven Spielberg con Tom Cruise, a Total Recall
di Paul Verhoeven con Arnold Schwarzenegger e Paycheck di John Woo con Ben Affleck.
Nell’episodio 3 “Missione su Regis III” il romanzo da cui deriva l’avventura è “L’Invincibile” di
Stanislaw Lem, scrittore polacco maestro della fantascienza con un particolare interesse per il tema
dell’incomunicabilità, a suo tempo candidato dalla Polonia al premio nobel. Anche in questo caso
per maggiori delucidazioni vi rimando al mio scritto a lui dedicato qui su Trucioli (con lo stesso
problema di ricuperabilità del testo precedente). A ogni modo io considero L’Invincibile,
ambientato appunto sul pianeta Regis III, il suo massimo capolavoro insieme a “Solaris”, romanzo
quest’ultimo noto anche per l’omonimo film di Andrej Tarkovskij e per il successivo remake con
George Clooney.
L’episodio 4 “Un gioco appassionante” è un flash back in cui i protagonisti non erano ancora
prigionieri delle realtà virtuali e contiene le prime spiegazioni. All’inizio dell’episodio Matteo
Delfino di diverte a rivivere un romanzo di fantascienza. L’opera è “Le maree di Kithrup” di
David Brin, estroso romanzo in cui s’immagina un futuro in cui gli uomini, oltre a essere entrati in
contatto con innumerevoli civiltà aliene, abbiano ampliato, grazie a mutazioni genetiche,
l’intelligenza e le capacità di scimpanzé e delfini, permettendo a queste specie di creare vere e
proprie civiltà. Il libro vinse nel 1983 lo Hugo e il Nebula, i due più importanti premi letterari
dedicati alla fantascienza. Matteo Delfino entra inoltre nel racconto “Dragon” del brillante autore di
Neteditor che si firma con lo pseudonimo di Scribak e la cui conoscenza consiglio a tutti: per quale
motivo costui, nonostante l’evidente bravura, sia ancora un dilettante e non un acclamato
professionista della narrativa cartacea è per il sottoscritto un mistero editoriale insondabile.
Quanto all’episodio 5 “Dentro un racconto di Massimo Bianco”, un flashback anch’esso contenente
ulteriori spiegazioni: come sopra accennato non si tratta di un inserimento dettato dalla presunzione
di voler accostare i miei scritti ai grandi capolavori della letteratura ma soltanto di una autocitazione
giocosa. Se comunque voleste leggere il mio raccontino horror originale “Non entrate dentro il
Borgo”, dentro la cui trama finiscono i protagonisti, lo trovate negli “articoli per autore” a mio
nome qui su Trucioli.
Quanto all’episodio 6, “Viaggio al termine della notte” il titolo, omonimo al testo omaggiato, spiega
già tutto. “Viaggio al termine della Notte” è uno dei massimi capolavori della letteratura
novecentesca e inoltre una delle più feroci critiche all’umanità. Il Viaggio è stato scritto del grande
scrittore francese Louis Ferdinand Celine.
Nell’episodio 7 “L’orizzonte degli eventi” vengono invece rapidamente rivisitati ben due romanzi.
Durante l’elaborazione degli U.N.P., dovendo pensare anche alla fruibilità del testo, ho effettuato
qualche piccola concessione, scegliendo talvolta scritti pur sempre da me apprezzati ma non
necessariamente tra i miei preferiti in assoluto, perché mi permettevano di movimentare meglio il
racconto. Ed è appunto questo il caso soprattutto del primo dei due testi prescelti qui e cioè
“Jurassic Park” di Michael Crichton, opera senz’altro superiore all’omonimo e peraltro piacevole
film di Steven Spielberg che ne è stato tratto, ma non certo di fondamentale importanza. D’altronde
l’idea di costringere i miei eroi a vedersela con dei dinosauri mi stuzzicava troppo per non
sfruttarla.
Il secondo romanzo utilizzato è invece “Assurdo Universo” di Fredrik Brown, forse il più grande
maestro in assoluto del cosiddetto racconto lampo, di cui alcuni esempi appaiono in quasi tutte le
antologie scolastiche, e qui alla sua prova migliore sulla lunga distanza. Magari non è un
masterpiece della letteratura, ok, ma si tratta pur sempre di una spettacolare quanto allucinata
avventura, che diventa anche un’azzeccata satira della fantascienza più dozzinale. Oggi questo libro
risulta inevitabilmente datato, tuttavia la trovata alla base della trama è così azzeccata da renderlo
ancora meritevole di lettura, nonostante i circa sessanta anni sul groppone.
Infine nell’ottavo e ultimo episodio, “La fine”, si comincia con un fulmineo passaggio su “Casino
Totale” primo romanzo della trilogia marsigliese di Jean Claude Izzo, maestro del noir
prematuramente scomparso e alla cui mia disamina presente in “articoli per autori” vi rimando, per
poi passare – dopo un’altrettanto rapida visita a “Una vita Incredibile” forse il mio racconto
preferito tra quelli che ho letto su Neteditor, scritto da un autore che firma i propri scritti con lo
pseudonimo “Starsky” – come peraltro già esplicitato nel testo, a “Il cavaliere inesistente”, vivida
fantasia, a un tempo ricca d’azione e di simbolismi, di Italo Calvino, uno dei più grandi scrittori
italiani e internazionali del ventesimo secolo.
E se, dopo esser giunti alla parola fine di questa lunga avventura, anche solo un paio di voi si
sentissero invogliati a recarsi in libreria per approfondire le proprie conoscenze letterarie con
qualcuno dei testi che fanno da sfondo allo scritto, allora il tempo impiegato per completare i miei
“Universi narrativi paralleli” non sarà trascorso invano.
In conclusione riportiamo qui in calce i link degli otto episodi apparsi. Se qualcuno non ne
avesse letto nessuno e volesse iniziare adesso ma non avesse voglia di leggerli tutti, può in effetti
anche permettersi di farlo, gli U.N.P. dopotutto sono stati concepiti appositamente, tuttavia
dovrebbe per lo meno leggersi in ordine gli episodi 1, 5, 7 e 8, altrimenti la storia risulterebbe
davvero troppo monca e poco comprensibile e ancora meno godibile. Il mio consiglio ovviamente è
però quello di leggerli tutti.
Arrisentirci alla prossima occasione. Saluti da
Massimo Bianco.