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Leonel Nárvaez Gómez imc
con Alessandro Armato
LA RIVOLUZIONE
DEL PERDONO
SAN PAOLO
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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2010
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
ISBN 978-88-215-6818-3
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PREFAZIONE
Non dimenticherò mai quelle lacrime. Le lacrime di
Esmeralda, arrivata a un passo dall’uccidere il marito violento, col coltello da cucina, dopo anni di abusi subiti in silenzio. Le lacrime di Esmeralda, che trova la forza di promettere: rinuncio alla vendetta, voglio una vita nuova, diversa.
Come può una persona umiliata e offesa, spogliata della sua dignità, riuscire a sconfiggere il demone della rabbia senza fine? Quale potente artificiere sa disinnescare
un tale ordigno di odio? Il merito è dell’Espere e del suo
fondatore: un prete colombiano, padre Leonel Nárvaez
Gómez, che – con l’aiuto di Alessandro Armato – ha scritto questo libro, metà carezza, metà carta vetrata.
Se Esmeralda e molti altri con lei hanno potuto liberarsi
del passato e immaginare un futuro diverso è perché l’Escuela de perdón y reconciliación (questo il significato di
Espere) li ha convinti che l’irrazionalità del perdono è più
ragionevole dell’apparentemente cartesiana logica della
vendetta. Li ha persuasi che perpetuare la catena dell’odio
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non fa che alimentare rabbia e, in definitiva, generare altra violenza.
Detto così, sembra facile. Ma immaginate, per un attimo, la scena. Periferia di Bogotá, ovunque i segni di un ambiente povero e degradato. Esmeralda, al termine di un
corso dell’Espere, prende la parola per raccontare il suo
calvario e l’intenzione di uscirne. L’ascoltano una dozzina
di donne come lei, cresciute nella miseria e provate dalla
violenza domestica. «Tempo fa – la voce di Esmeralda si
incrina – mio marito mi ha lasciata, ma per un po’ abbiamo continuato a vivere sotto lo stesso tetto. Sono stati mesi di grande tensione. Più di una volta, di notte, sono andata in cucina, ho afferrato il coltello, pronta a fare una follia». Mi par di sentirla ancora, Esmeralda, che ripete: «Lo
mato o non lo mato?». Un sospiro per prendere fiato e coraggio. «Ora mio marito se n’è andato e ho cominciato una
nuova fase della vita. L’Espere mi ha insegnato a gestire le
mie emozioni e, soprattutto, a estirpare l’odio dal cuore. E
oggi – le ultime parole sono macigni, le escono a fatica –
vi dico che proverò a perdonarlo». Poi Esmeralda scoppia
a piangere. Finché il volto rigato di lacrime non finisce sotto un nugolo di braccia, tese a consolare.
Non è esagerato affermare che l’Espere rappresenti oggi una delle più rivoluzionarie iniziative di pace attive in
Colombia. Padre Leonel, che l’ha ideata, è un missionario
della Consolata che sta sperimentando da anni la forza debole del perdono. In obbedienza al carisma della congregazione cui appartiene, cerca di vivere il «ministero della
consolazione» quotidianamente, nel vivo dei drammi di un
Paese tormentato eppure bellissimo. Ama girare con una
felpa grigia griffata Harvard, ricordo dei suoi studi negli
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States, ma la cordialità e la spontaneità della sua persona
dissipano all’istante il sospetto di un cattedratico inavvicinabile.
Un tipo così aveva conquistato anche quel personaggio impetuosamente curioso e fuori degli schemi che era
Enzo Baldoni, il giornalista free lance rapito e ucciso in
Iraq nell’estate 2004. In un reportage, uscito postumo nel
settembre 2006 sul Diario di Deaglio, Baldoni descrive padre Leonel come «un piccolo sorcio baffuto che parla quattro lingue e conosce bene la guerriglia colombiana», uno
che «ha vissuto almeno tre vite, due delle quali in regalo:
la Provvidenza, dice lui».
Difficile sottrarsi al fascino di questa persona dopo averla conosciuta. Perché padre Leonel è uno che ha vissuto in
prima persona il dramma della guerra. Finendo per capire che «non è possibile un domani migliore se non si spengono i focolai di rancore, odio e vendetta che ciascuno porta nel cuore». Padre Leonel ama citare una frase del vescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la Pace, di cui
è amico: «Senza perdono non c’è futuro». In fondo, il segreto di Espere è tutto lì.
Le cose che padre Leonel dice non hanno mai il sapore della retorica accademica o sociologica né dell’ecclesialese, quel linguaggio incartapecorito e, in definitiva, falso
che dovrebbe veicolare il Vangelo e invece spesso lo offusca.
Per questo, da quando ci siamo conosciuti nel 2004, durante il mio secondo viaggio in Colombia, non ci siamo più
persi di vista. Abbiamo raccontato sulle pagine di Mondo e Missione la sua storia e, cogliendo l’interesse suscitato nei lettori, abbiamo chiesto a padre Leonel di curare
per un anno una rubrica intitolata «Nunca más» («mai
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più»). Ha accettato di buon grado e, oggi, possiamo dire
che molte delle riflessioni sommariamente proposte in quelle pagine trovano qui un’esposizione più organica e distesa.
Sfogliando questo libro, il lettore si imbatterà in espressioni insolite, a prima vista sorprendenti, quali «l’amministrazione della memoria ingrata», «guardare al carnefice con occhi nuovi», «giustizia restaurativa» e via dicendo.
Qualcuno, più avvertito, troverà consonanze interessanti
tra le pagine di questo libro con la «purificazione della memoria» tanto cara all’ultimo Giovanni Paolo II oppure con
le riflessioni sul ripensamento della giustizia e dell’istituzione-carcere sviluppate, negli anni, dal cardinale Carlo
Maria Martini.
Ma questo libro intende parlare a una platea assai più
vasta di quella dei credenti. La società italiana ha vissuto
il dramma del terrorismo rosso e nero, sperimentando sulla sua pelle quanto sia difficile sanare le ferite dell’odio e
faticosa la via della riconciliazione. Più di un lettore troverà qui idee e prospettive simili a quelle avanzate dai
testimoni più credibili del cammino di perdono e riconciliazione: penso a personaggi quali Giovanni Bachelet e
Gemma Calabresi.
In tempi più recenti, penso a un Carlo Castagna, che nella strage di Erba (dicembre 2006) ha perso moglie, figlia e
nipotino e tuttavia è riuscito a pronunciare parole di perdono e misericordia. Oppure a Margherita Coletta, rimasta vedova di Giuseppe, vicebrigadiere dei Carabinieri, ucciso nella strage di Nasiriyah e capace di ricordare, davanti
alle telecamere, le frasi scomode del Vangelo: «Se amate
quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
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Certo, migliaia di chilometri separano l’Italia dalla Colombia, eppure il messaggio che viene da quella terra risuona attualissimo e incalzante. Già, proprio da quella Colombia dipinta sovente come «il Paese dell’eccesso», tanto le brutalità commesse nel corso di decenni di violenza
sono inimmaginabili. Ebbene: padre Leonel e i suoi collaboratori di Espere stanno dimostrando, passo dopo passo,
che è possibile cambiare dal basso anche un Paese così provato da tensioni e conflitti. Di più: stanno testimoniando
che, anche nel «Paese dell’eccesso», anche nella terra di
Escobar, delle Farc, dei paramilitari si può avverare quanto dice san Paolo: «Dove sovrabbondò il peccato sovrabbondò la Grazia».
GEROLAMO FAZZINI
Direttore editoriale di Mondo e Missione
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GLI OCCHI NUOVI DI TERESA
Perdonare l’imperdonabile
Aveva 22 anni Teresa, quando uno sconosciuto le ha distrutto la vita. Era notte. Lei, ragazza madre, camminava
lungo una strada buia del suo villaggio, in Colombia, assieme al figlio di tre anni. All’improvviso sbuca fuori un tipo che comincia a importunarla. È insistente. La segue. La
molesta. Teresa non ne vuole sapere. Lo respinge senza
mezzi termini. Ma l’uomo non molla. Esasperata, allora, lo
allontana con uno spintone e tira dritto per la sua strada.
Ma l’uomo, invece di tornare sui suoi passi, in un impeto
di rabbia estrae un revolver e spara due colpi di pistola
contro il bambino, uccidendolo sul colpo. E gettando Teresa in un abisso di disperazione.
L’assassino si chiama Antonio. Viene arrestato e condannato a 18 anni di carcere. Teresa è inconsolabile. Resta
chiusa nel suo dolore per oltre un anno. Finché un giorno,
dopo avere preso parte ad alcune sedute delle Escuelas de
perdón y reconciliación (Espere), incoraggiata da alcune
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vicine di casa che vi avevano già assistito e che volevano
aiutarla a calmare la sua rabbia verso l’assassino del figlio,
decide di recarsi in incognito in carcere. Vuole guardare in
faccia Antonio, vedere chi è quella bestia che le ha inflitto un dolore così grande.
In carcere ci va accompagnata da alcune amiche della
scuola di perdono. Si fanno passare per dame della carità
che vanno a portare cibo ai carcerati. Nascosta dietro un
grosso foulard, degli occhiali scuri e un’abbondante dose
di trucco, Teresa non ci mette molto a individuare Antonio. Mentre tutti gli altri reclusi sono attorniati da parenti e amici, lui se ne sta seduto in un angolo da solo. Lei e
le amiche si avvicinano, gli offrono della frutta e cominciano a parlare.
Teresa lo osserva di nascosto, da dietro le spalle delle
amiche, mentre loro gli rivolgono una serie di domande
già concordate in precedenza apposta per ricostruire la sua
storia. Senza entrare nei dettagli, Antonio dice di essere
stato condannato a 18 anni di carcere per omicidio. Racconta di essere stato un figlio non desiderato e di essere
stato violentato dal padre quando era piccolo. Dice che la
madre lo ha abbandonato. Che per qualche tempo è vissuto con i nonni, ma che tutti e due sono morti presto,
costringendolo a finire sulla strada. Da quel momento ha
dovuto cavarsela da solo, rubando e rovistando nei cassonetti dell’immondizia, perché nessuno dei parenti lo voleva tra i piedi.
Il racconto di Antonio commuove tutti. Un paio delle
amiche di Teresa si mettono a piangere. «Se una vita del
genere fosse toccata a me non l’avrei sopportata», dice una
di loro. Anche Teresa resta toccata e, nonostante il suo ran12
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core, decide di continuare a visitare Antonio. Comincia così la sua meravigliosa avventura volta a dare un significato nuovo all’offesa e al dolore patiti.
Non ci vuole molto perché si scopra la sua vera identità.
Lui notava qualcosa di familiare nei lineamenti di quella
ragazza e le sue visite cominciavano a sembrargli strane.
Dopo quattro o cinque incontri viene l’ora della verità. Teresa lo guarda dritto negli occhi e gli dice quello che lui già
sospettava: «Io sono la mamma del bambino che hai ucciso». Antonio non può sostenere il suo sguardo. Abbassa la
testa e si copre il volto con le mani. Teresa gli rinfaccia di
avergli tolto il bene più prezioso che possedeva e di averla costretta a mesi di pianti, solitudine e disperazione. La
tensione è palpabile. Singhiozzi, silenzi, lacrime. Ma alla fine dalla bocca di Teresa escono delle parole sorprendenti:
«A causa tua ho perso la cosa più bella della mia vita, ma
ti perdono».
Dopo quella volta Teresa ha continuato a visitare regolarmente Antonio in carcere. Col tempo, misteriosamente,
i due si sono innamorati e hanno deciso di sposarsi. I familiari di Teresa sono stati colti di sorpresa. Non l’hanno
presa per niente bene. Accusavano Teresa di aver perso la
dignità. Lei ha persino dovuto impedire una visita del fratello in carcere per affrontare a viso aperto Antonio. Ma
i due si sono sposati ugualmente. Adesso hanno un figlio
e Teresa aspetta solo che lui esca di prigione per andare
a vivere assieme e formare una nuova famiglia. Antonio è
diventato un’altra persona. In carcere lavora più che può
per uscire il prima possibile. Dice che la settimana passa
in fretta nell’attesa di vedere il bambino.
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La violenza consuma, il perdono rigenera
La storia di Teresa è un esempio meraviglioso dell’enorme potenziale di rigenerazione, pace e armonia insito
nel perdono. Come Teresa, tutti gli esseri umani hanno la
capacità eroica di perdonare l’imperdonabile e di tornare
a vedere futuro e speranza dove prima c’erano soltanto disgregazione e sconforto. Contro l’irrazionalità della violenza, niente è più forte dell’irrazionalità del perdono. Nell’atto di perdonare è l’immagine del Dio di misericordia
che si manifesta in ogni cellula dell’essere umano. E se il
perdono diventa esercizio, scuola, cultura, le cose in questo mondo possono davvero andare meglio.
Fino a pochi decenni fa il tema del perdono era pressoché dimenticato dalle scienze sociali. Sopravviveva, interpretato spesso in modo riduttivo, soltanto in ambito
strettamente ecclesiale. Ma recentemente si è assistito a
un’inversione di tendenza. Tanto in ambito religioso quanto nelle scienze sociali, si è cominciato a comprendere che
la promozione su larga scala di una cultura del perdono
è una delle armi più potenti di cui disponiamo per combattere la violenza, risolvere ogni ordine di conflitti e costruire
la pace e il benessere materiale e morale dell’umanità.
Un’arte da insegnare per il bene della società
Il perdono e la riconciliazione rappresentano un’arte che
può essere insegnata; e l’esercizio di quest’arte porta benefici incalcolabili tanto al singolo quanto alla collettività.
Perdonare conviene. Perdonare salva, qui e ora prima an14
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cora che nell’aldilà. È quest’idea, questa convinzione
profonda – maturata negli anni in situazioni estreme – che
mi ha portato, con l’andare del tempo, come missionario e
studioso di scienze sociali, a elaborare un metodo pratico
per insegnare alle persone a perdonare e a riconciliarsi con
i propri aggressori.
Tale metodo prevede una serie di tappe e di strumenti
per favorire la graduale accettazione dell’altro, fino ad arrivare al perdono. L’itinerario ha un effetto catartico e aiuta le persone a liberarsi di rabbia e rancore che, accumulandosi, si trasformano in veleno. È stato messo in pratica per la prima volta a Bogotá, nelle Escuelas de perdón y
reconciliación (Espere), che offrono corsi, suddivisi in diverse tappe, in ciascuno dei quali vengono coinvolte una
ventina di persone di ogni strato sociale. Lavoriamo con
gli ex combattenti delle Farc e dei gruppi paramilitari, abituati a vivere nell’odio e nella violenza, ma anche con tutte le persone che per qualsiasi motivo sono imprigionate
dall’odio e dal rancore, tanto in famiglia quanto nell’ambito lavorativo, scolastico, religioso o comunitario. I partecipanti, in seguito, vengono invitati a ripetere l’itinerario
formativo nei loro rispettivi contesti, a piccolissimi gruppetti di 4-5 persone, moltiplicando così l’esperienza.
I risultati, per il momento, superano di gran lunga le
aspettative iniziali. Le Escuelas de perdón y reconciliación
si stanno diffondendo in tutto il mondo, coordinate dalla
Fundación para la reconciliación, con sede a Bogotá, di cui
sono direttore. Abbiamo ricevuto anche importanti onoreficenze, che ci incoraggiano a proseguire nel nostro lavoro: nel luglio del 2004 il Concejo de Bogotá ha insignito la Fondazione della croce d’oro dell’Ordine civile al me15
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rito José Acevedo y Gómez; nel settembre del 2006 l’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, ci ha concesso la Menzione
d’onore del Premio educazione per la pace per gli apporti pratici della Fondazione alla creazione di una cultura di
convivenza e pace; infine, nel 2007, il Congresso nazionale ha concesso alla Fondazione per la riconciliazione la croce di gran cavaliere dell’Orden de la democracia Simón
Bolívar per i suoi apporti preziosi alla riconciliazione e alla pace.
Quella che ha per protagonista Teresa è una delle storie
di successo delle Espere, ma se ne potrebbero raccontare
molte altre, ugualmente toccanti. A spingermi verso questo tipo di lavoro sul perdono è stata senza dubbio anche
la drammatica realtà del mio Paese, la Colombia, impantanato da decenni in un estenuante conflitto armato e
costantemente ai primi posti nel mondo quanto a indici di
criminalità e violenza. Come sacerdote missionario della
Consolata mi chiedevo spesso in che modo potessi mettere in pratica il mio carisma di «consolazione» in situazioni così drammatiche. Determinante, in particolare, è stato
l’aver partecipato in prima persona ai negoziati di pace tra
il governo e la guerriglia marxista delle Farc nella regione del Caguán, tra il 1999 e il 2002. È stato in quel periodo che mi sono reso conto di come, a impedire la fine del
conflitto colombiano, oltre a una serie di problemi «oggettivi» di carattere economico, politico e militare, esistessero anche altre questioni da risolvere, non meno importanti, di tipo «soggettivo»: rabbie accumulate, senso di esclusione, desiderio di vendetta. È anche a causa di questi
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problemi soggettivi se nel Caguán, dopo tre anni di intenso lavoro sulle cause oggettive del conflitto, non si è riusciti a costruire la pace.
Una volta compreso che i negoziati di pace erano destinati a naufragare, mi sono dedicato anima e corpo a studiare le cause soggettive del conflitto con l’idea di trovare
un sistema per neutralizzarle. Dopo avere vinto una borsa di studio, sono partito per l’Università di Harvard con
l’idea di elaborare un modello sperimentale di metodo per
l’insegnamento del perdono e della riconciliazione e lì ho
trovato un gruppo di professori e di professionisti di molteplici discipline che hanno collaborato attivamente alla
mia ricerca. Fra questi c’era anche il noto teologo Harvey Cox. Per quasi due anni ci siamo radunati una volta
alla settimana per lavorare sui meccanismi sociologici e
psicologici che conducono al perdono e alla riconciliazione. E da questi incontri ha preso forma gradualmente
il modello teorico del metodo che oggi applichiamo nelle
Espere. Un metodo che fonde l’essenziale del messaggio
cristiano con i contributi più avanzati delle scienze sociali.
La storia del mio Paese e l’esperienza che ho fatto del
mondo mi hanno insegnato che è inutile combattere la violenza solo con politiche repressive; come è inutile pretendere di instaurare la giustizia imbracciando il fucile e facendo leva sul rancore e sulla rabbia degli esclusi. Fortunatamente, negli ultimi anni, il mondo sta cominciando a
rendersi conto che per costruire la pace non serve aumentare a dismisura le spese per la sicurezza, ricorrere alla pena di morte o consolidare un sistema giudiziaro fondato sul criterio della punizione.
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Il castigo non è un modo sano di applicare la giustizia,
ma un modo cieco di ufficializzare la cultura barbara della vendetta. È giusto che chi commette un delitto sconti
una pena, ma l’obiettivo ultimo di questa pena dovrebbe
essere il recupero del colpevole e non, come spesso accade, la sua definitiva rovina. Un sistema giudiziario che si
rispetti dovrebbe inoltre provvedere anche al recupero della parte offesa. Ci si deve rendere conto che una vittima
che nutra rabbia e desiderio di vendetta è doppiamente
vittima e che la riparazione verso l’offeso è tanto importante quanto la riabilitazione di chi ha perpetrato l’offesa.
Il segreto della costruzione di una pace solida sta nel recuperare e rigenerare tanto chi ha subito quanto chi ha
perpetrato una violenza. E ciò è possibile solo passando
per una promozione sistematica e il più possibile ampia di
una cultura e di una pratica del perdono e della riconciliazione. È un’etica che parte dalle vittime.
La grande tragedia delle vittime della violenza è che la
rabbia conseguente all’offesa si converte gradualmente in
risentimento e in desiderio di vendetta, favorendo in questo modo la moltiplicazione delle violenze. Per una vittima della violenza, come nel caso di Teresa, l’amministrazione della «memoria ingrata» o del risentimento diventa il problema più difficile e allo stesso tempo più urgente
da risolvere. La «memoria ingrata» rende infatti la persona schiava del suo passato. La mantiene nell’oscurità. Peggio ancora, la persona offesa (individuo o collettività) genera narrazioni o linguaggi che amareggiano la sua stessa vita e coltivano un rancore potenzialmente esplosivo.
Il perdono è un privilegio delle vittime e il primo passo verso di esso è comprendere che il risentimento provo18
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ca caos e oscurità e che, per questo motivo, è necessario
esercitarsi a passare dall’oscurità alla luce, capire le conseguenze negative della rabbia e del rancore (anche sulla
salute fisica) e liberarsi della «memoria ingrata» e «congelata» per arrivare a una memoria creatrice e dinamica,
che permetta di proiettarsi verso un futuro nuovo.
Il secondo passo nel processo del perdono è decidere
di perdonare. Questo è il momento più importante. Il perdono è fondamentalmente una decisione. Una decisione
che ha luogo e data. Una decisione nella quale confluiscono apporti dell’intelligenza emozionale, dell’intelligenza spirituale e, in minima parte, dell’intelligenza razionale. Di fatto, non si riesce mai a comprendere il perdono con
la ragione e per questo contro l’irrazionalità della violenza è necessario proporre l’irrazionalità del perdono.
La capacità di perdonare è una delle facoltà morali più
alte dell’essere umano. In altre parole è la capacità di guardare con altri occhi. Questo è il terzo passo. A volte basta riuscire a immedesimarsi con chi ci ha fatto del male,
sforzandoci sinceramente di capire come ciò sia potuto accadere, per guardare una persona con altri occhi. Nelle
Scuole di perdono e riconciliazione proponiamo degli esercizi in cui cerchiamo di immaginarci l’ambiente in cui vive la persona. Ci sforziamo di capire che opportunità ha
avuto nella vita, come ha vissuto fino ad oggi. Nel caso di
Teresa è stato a questo punto che lei ha sentito la necessità di recarsi a incontrare Antonio. Tutto ciò è molto importante, perché, se uno riesce a mettersi al posto dell’altro, molto spesso arriva alla conclusione che avrebbe agito peggio.
Il quarto passo è una vera ascensione umana. L’offeso
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comprende che deve gradualmente sviluppare sentimenti e atteggiamenti di compassione, bontà, misericordia. Chi
perdona riesce a sviluppare l’aspetto più sublime e prezioso degli esseri umani: la tenerezza, la compassione. È
un momento di divinità, di grandezza infinita. È somigliare a quel Dio la cui misericordia non ha fine. È l’estetica e l’etica della vita in tutta la sua pienezza.
Più avanti vedremo che il perdono è un esercizio di igiene personale che non implica necessariamente la riconciliazione con l’aggressore. Può esserci perdono senza riconciliazione, ma normalmente non esiste riconciliazione
senza perdono. Mentre il perdono è un esercizio di elevazione personale verso le alture della compassione e della
bontà, la riconciliazione è un esercizio sociale di avvicinamento all’aggressore. Questo esercizio richiede tre elementi
fondamentali: verità, giustizia/riparazione e il patto di non
ripetere mai più l’offesa.
Né l’etica né l’estetica delle persone o delle società possono basarsi su una giustizia punitiva o su una morale di
castigo, inferno e morte eterna. Coloro che vogliono lavorare efficacemente per instaurare il regno di Dio in questo
mondo non hanno altra alternativa che farlo attraverso una
pastorale del perdono e della riconciliazione che coltivi la
compassione, la misericordia, la tenerezza. Così è Dio.
Il cristianesimo è una religione della memoria. Ma non
di una memoria triste, che non riesce a superare il crimine
subito da Gesù, bensì di una memoria che trasforma e ricorda il crimine con occhi nuovi. Il crimine subito da Gesù è un crimine che redime. Che toglie i peccati di chi compie le offese. Che si converte in un dono (si noti l’etimologia, per-dono) costante.
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La diffusione di una cultura del perdono e di un modello
di giustizia di tipo restaurativo (fondato cioè non sull’ufficializzazione della vendetta, ma sul recupero sia della vittima sia del «carnefice») è la chiave per la costruzione di
un mondo più umano. Se osserviamo con attenzione la storia del Novecento, constatiamo che le tirannie moderne
hanno edificato il loro potere, in modo più o meno evidente, sul presupposto dell’irreversibilità del male e sulla
conseguente cancellazione della dimensione del perdono. Tutta la «disumanità» e la barbarie che trasudano dalle pagine più oscure dei regimi novecenteschi derivano dall’idea dell’imperdonabilità del male. Il nazismo è stato forse la forma di totalitarismo che più di ogni altra ha portato
alle estreme conseguenze questo presupposto. L’immane
tragedia della Shoah ha la sua origine più profonda nella
convinzione che il male rappresentato dagli ebrei fosse irreversibile e che pertanto la risposta nazista doveva essere altrettanto irreversibile. È questo il nocciolo concettuale della «soluzione finale» e in generale di tutta quell’ansia di definitività e di scelte radicali che contraddistinse la
teoria e la prassi hitleriana e nazista. Una coraggiosa donna ebrea, profonda politologa, Hannah Arendt, griderà che
il perdono è una virtù politica e che quando le culture non
generano sistemi di perdono cadono in totalitarismi perversi.
Nel mondo di oggi, così agitato e confuso, forse è ancora più difficile sviluppare e mantenere nel tempo un
atteggiamento misericordioso e aperto alla dimensione del
perdono. Non è facile per i religiosi e a maggior ragione
non lo è per la gente comune, che spesso non è in grado di
controllare le emozioni di fronte a traumi di grossa entità.
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È per questo motivo che, nella prospettiva di un mondo
più umano, sono importanti iniziative come le Escuelas de
perdón y reconciliación, che in una certa misura alfabetizzano lo spirito, preparandolo alla misericordia e al perdono attraverso l’esercizio quotidiano.
Nelle Espere insegniamo a guardare il male e la colpa
non come una macchia incancellabile, ma quale segno della finitezza e dell’imperfezione che ci caratterizza tutti
quanti come esseri umani. Nessuno è perfetto. In qualche
momento ogni carnefice è stato una vittima e ogni vittima
è stata un carnefice. È la consapevolezza della nostra limitatezza e fallibilità in quanto esseri umani la fonte da
cui scaturiscono la misericordia e il perdono. Ma bisogna
fare attenzione e non cadere nell’ingenuità di credere che
il male, sconfitto una volta, sia sconfitto per sempre. Lo
scrittore Thomas Merton ce lo ricorda: «L’amore trionfa,
almeno in questa vita, non perché si elimina il male una
volta per tutte ma perché gli si resiste e lo si vince daccapo ogni giorno. Il bene non ce lo assicuriamo per sempre
con qualche atto eroico, va riconquistato ogni volta di nuovo, ripetutamente. San Pietro prevedeva un limite per il
perdono. Sette volte, e poi il peccato diventava irreversibile. Ma Cristo gli disse che il perdono andava replicato all’infinito»1.
Noi uomini viviamo nel regno della precarietà, dell’incertezza, dell’instabilità. Come non esiste malvagità assoluta e irreversibile, così non esiste bontà assoluta e irreversibile. Tanto il male quanto il bene sono fragili, sog1
Thomas Merton, Gandhi e il ciclope, introduzione a Gandhi. Per la pace, Milano 2002, p. 31. Lo scritto risale al 1964.
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getti al cambiamento. Perseguire il sommo fine della giustizia richiede, da parte dei singoli come delle società, l’esercizio costante del perdono, dell’umiltà e del discernimento.
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LA CROCE E IL FUCILE
Le mie origini (la Violencia)
Provengo da una cittadina che ha prodotto due grandi
«cattivi» della storia colombiana: Manuel Marulanda Vélez, il leggendario Tirofijo, capo supremo delle Farc per oltre quarant’anni, chiamato così per la precisione dei suoi
colpi1; e Luis Alfredo Garavito, alias «la bestia», violentatore di oltre 160 minori e serial killer, meno famoso del precedente, ma ben conosciuto dagli specialisti di criminologia di tutto il mondo.
La cittadina si chiama Genova, come la località portuale italiana che ha dato i natali a Cristoforo Colombo. Si
trova nel dipartimento del Quindio, conosciuto nel mondo per il suo eccellente caffè. È lì che sono stato educato
e cresciuto, anche se in realtà sono nato ad Argelia, un pic1
La notizia della morte di Tirofijo è stata confermata nel maggio del 2008.
Il comandante guerrigliero, di 78 anni, sarebbe morto per un tumore alla prostata.
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colo villaggio, nel dipartimento di Antioquia, da cui i miei
genitori si sono trasferiti quando ero ancora molto piccolo.
A volte penso che il mio destino fosse già scritto nella
toponomastica della regione in cui sono nato. Argelia, la
vicina Armenia, capoluogo del Quindio, dove abita attualmente tutta la mia famiglia, sono località sorte oltre un
secolo fa, contemporaneamente alle guerre e ai massacri
avvenuti nei luoghi di cui portano il nome. Argelia ricorda le vittime della lunga e cruenta occupazione francese
dell’Algeria, cominciata nel 1830. Mentre Armenia ricorda i cristiani assassinati dai turchi in Armenia occidentale alla fine dell’Ottocento. È come se i miei antenati possedessero già una sensibilità nei confronti delle vittime della violenza.
Ho trascorso l’infanzia nel mezzo della terribile Violencia degli anni Cinquanta. Liberali e conservatori, le due
«tribù» politiche della storia colombiana, si massacravano
a vicenda, animati da indicibile rancore e crudeltà. Tutto è
cominciato il 9 aprile del 1948 con l’assassinio di José Eliecer Gaitán, un caudillo liberale venerato dalle masse, che
sarebbe diventato certamente presidente della nazione.
«Mataron a Gaitán! Mataron a Gaitán!», gridavano per
le strade di Bogotá schiere di liberali inferociti. Risultato: la capitale è messa a ferro e fuoco – il famoso Bogotazo (termine con cui si indica il saccheggio della città) – e
nel giro di breve tempo l’intero Paese sprofonda in una
spirale di violenza cieca che si sarebbe protratta fino agli
anni Sessanta. I liberali, di orientamento laico e progressista, si riconoscevano dal colore rosso, mentre i conservatori, tradizionalisti e molto legati alla Chiesa, dall’azzurro. Bastava indossare indumenti di uno di questi due
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colori per essere identificati politicamente e trovarsi in pericolo di vita. Mio padre, ad esempio, che di professione
faceva il veterinario, si è sempre dichiarato conservatore e
per questa sua convinzione politica tutta la nostra famiglia
era a rischio.
Negli anni della Violencia il Paese è vissuto sotto l’incantesimo malefico dell’odio e del fanatismo. Circa 300 mila persone sono morte in questa assurda ondata di crudeltà, prodotta da una serie di rabbie e rancori accumulati. Ricordo che la sera c’era il coprifuoco. Bande di sicari
conservatori – chulavitas e pajaros2 – e guerriglieri liberali si davano la caccia a vicenda. Dato che le armi da fuoco scarseggiavano, le mattanze avvenivano spesso a colpi
di machete e nel corso del tempo si sono tramandate molte narrazioni macabre sull’arte di uccidere con quest’arma: c’erano il «taglio flanella», che consisteva nel tagliare
la testa e mozzare le braccia della vittima, lasciando il torso con la forma di una maglietta a maniche corte; il «taglio
cravatta», che consisteva nel praticare un taglio alla gola,
da cui poi si estraeva la lingua come una cravatta; il «taglio fioriera», che prevedeva di mozzare gambe e braccia
per poi inserirle nel torso dell’ucciso, ottenendo così una
macabra imitazione di una composizione floreale.
Eric Hobsbawm ha scritto che la presenza di uomini armati è parte naturale del paesaggio colombiano, esattamente come le colline e i fiumi, e che la Violencia degli anni Cinquanta ha rappresentato una delle maggiori mobili2
Per la precisione si trattava di gruppi di contadini di diverse regioni della
Colombia organizzati dall’esercito e dalla polizia per appoggiare i governi
conservatori degli anni Cinquanta.
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tazioni di civili armati dell’emisfero occidentale in tutto
il XX secolo. Quella Violencia si è portata via alcuni dei
miei familiari e dei miei amici e già allora, di fronte a quell’orrore, cominciavo a sentire la necessità di trovare qualche soluzione al problema della violenza. Dentro di me
sentivo il bisogno di impegnarmi per la pace.
Tirofijo e la mala educación
A Genova ho fatto presto la conoscenza della famiglia di Tirofijo, i Marín (Manuel Marulanda Vélez si chiamava in realtà Pedro Antonio Marín). Erano una famiglia
povera e disorganizzata, direi quasi una famiglia distrutta. Molti di loro avevano problemi di alcolismo. Gustavo
Marín era un mio compagno di scuola. Ricordo che frequentava ossessivamente la «zona di tolleranza» e, in seguito, sono venuto a sapere che è morto per una malattia venerea.
Di Manuel Marulanda all’epoca non sapevo granché,
dato che aveva molti più anni di me. Ma dopo avere ultimato gli studi di sociologia ho fatto delle ricerche sulla sua
infanzia e ho scoperto che non ha mai conosciuto il padre
e che, da ragazzo, ha incontrato seri problemi a scuola. Chi
ha avuto l’occasione di conoscerlo da vicino sa che una delle cose che ripeteva con maggior frequenza, e che più lo
addolorava, era il ricordo di una professoressa molto severa che lo castigava a righellate sulle mani ogni volta che
non eseguiva i compiti. Sembra che sia riuscito ad arrivare solo fino alla terza elementare, ma posso assicurare, dopo averlo conosciuto personalmente in seguito, che non
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era per niente una persona stupida o pigra. Al contrario,
era lucido, intelligente, entusiasta.
Essere istruito è una cosa, essere educato è un’altra. Nella sua giovinezza Tirofijo ha sempre incontrato persone
che hanno cercato di inculcargli la disciplina e un bagaglio
di conoscenze meramente nozionistiche. Ma non ha mai
trovato nessuno che gli insegnasse la bontà, la tenerezza,
la generosità. Nessuno che valorizzasse quelle capacità sociali che in seguito ha dimostrato di possedere. Ciò conferma, una volta di più, che la scuola andrebbe ripensata
in profondità. Non c’è dubbio che nella vita sia importante imparare la matematica o la grammatica, ma andrebbero appresi anche le carezze, gli abbracci, le pacche
affettuose del papà e della mamma sulle spalle. E su questo tipo di educazione, che chiamerei socio-emozionale,
andrebbero effettuate verifiche e valutazioni.
La prima volta che ho abbracciato Tirofijo – durante
uno dei suoi compleanni, quando ormai ero missionario –
l’ho stretto apposta con molta forza, appoggiando affettuosamente la mano su quel panno sporco che portava
sempre sulla spalla. Ho sentito con chiarezza che percepiva le mie espressioni di affetto. Mi batteva la mano sulla
spalla e mi stringeva forte contro il suo cuore. Dentro di
me ho pensato con gioia: «Tirofijo prova emozioni! Tirofijo è una persona umana!».
La pace si decide in casa e a scuola
A questo punto posso fare una prima considerazione
importante: la famiglia e la scuola sono due scenari fon28
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damentali per la costruzione della pace. Le esperienze di
vita e le ricerche accademiche che ho svolto finora lo hanno ripetutamente confermato. E lo provano anche le testimonianze dei 52 mila ex membri di gruppi armati illegali colombiani che negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare le ostilità per reinserirsi nella società: moltissimi
di loro, prima di prendere in mano un fucile, hanno vissuto e assimilato la violenza prima nelle loro famiglie e in seguito a scuola, dove hanno incontrato professori che li hanno maltrattati. Senza volerli in alcun modo giustificare per
le loro azioni, ricordo il caso di Hitler, che aveva un padre
alcolizzato che violentava la madre, o il caso di Mussolini,
cacciato varie volte da scuola perché praticava la violenza
con i suoi compagni. Questi sono solo due esempi che confermano questa tesi.
C’è un filo diretto che lega il fallimento della famiglia,
della scuola, e in generale della società, all’inclinazione verso la violenza. Anche la vicenda di Luis Alfredo Garavito,
l’altro «cattivo» dei miei conterranei, ne è una dimostrazione. Garavito è considerato uno dei serial killer più efferati della Colombia e del mondo. Quando è stato catturato, ha confessato di avere assassinato 147 bambini in diverse regioni della Colombia (ma la magistratura indaga
su 176 casi). Adescava le sue vittime facendosi passare per
venditore ambulante, frate, indigente, invalido o rappresentante di fondazioni fittizie in favore di bambini o anziani. Lo chiamavano Alfredo Salazar, El Loco, Tribilín,
Conflicto, El Cura. In genere sceglieva le sue vittime tra i
bambini poveri, di estrazione rurale, tra i 6 e i 16 anni. Offriva loro del denaro, li invitava a camminare e poi li aggrediva con una violenza inaudita. Da dove proveniva tan29
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ta violenza? Il suo passato in parte lo spiega: era il maggiore di sette fratelli e durante l’infanzia ha sofferto di gravi carenze affettive e maltrattamenti in famiglia; secondo
la sua testimonianza avrebbe anche subito abusi sessuali
da parte del padre. È ormai provato che una grande percentuale di vittime di abusi diventa a sua volta responsabile di abusi. Quando il trauma della violenza non si risolve positivamente, rimane solo una possibilità: vendicarsi
con una violenza ancora maggiore.
La violenza nasce sovente dall’incapacità di controllare
la rabbia derivante da un’offesa. Conducendo le mie ricerche sociologiche sull’infanzia di Tirofijo, sono stato particolarmente colpito dalle parole di un’anziana signora,
che un tempo era stata sua professoressa.
«Era un bambino – ha detto – che viveva sempre pieno di
rabbia: rabbia per essere nato povero, per essere stato escluso, per non avere avuto un padre, per non essere apprezzato
dalla professoressa di matematica. Era risentito nei confronti della sua famiglia. Era una persona intelligente, si rendeva
conto della sua situazione. Se l’è mangiato la rabbia».
Questa testimonianza conferma uno degli assiomi di fondo della teoria del perdono e della riconciliazione: una vittima che cova risentimento è due volte vittima, come un
povero prigioniero dell’ira è due volte povero.
Come già accennato, Manuel Marulanda è stato soprannominato Tirofijo (Tiropreciso) perché quando sparava per vendicarsi non sbagliava mai un colpo. Ricordo
che in un’occasione ho cercato di insinuargli l’idea che l’odio e il rancore danneggiano soprattutto chi li coltiva den30
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tro di sé. Ma di fronte a questo argomento ha iniziato a ricordare, straripante d’ira, tutti i membri della sua famiglia
crudelmente assassinati durante la Violencia degli anni Cinquanta, e mi ha detto: «Metta i piedi per terra, prete: chi la
fa l’aspetti!». Eppure era evidente che la vendetta non lo
appagava completamente. Tutte le volte che l’ho incontrato, sono sempre rimasto perplesso di fronte alle espressioni contraddittorie del suo volto. Era carico d’odio verso il governo ufficiale, ma in fondo ai suoi occhi si leggeva
chiaramente anche la solidarietà con chi era oppresso, la
nostalgia per la pace e il sogno di una vita tranquilla.
La rabbia che si agitava nell’anima di Tirofijo è la stessa che, con leggere varianti, provavano anche gli altri capi guerriglieri che ho conosciuto. Spesso i comandanti della guerriglia sono persone che hanno subito qualche trauma nelle loro comunità d’origine. Molti sono leader falliti,
che hanno sofferto l’esclusione politica, sociale o economica. Alcuni provengono da famiglie di un certo livello socio-culturale, ma non sono riusciti a raggiungere la posizione che desideravano. Altri manifestano una sensibilità
genuina verso la povertà e l’ingiustizia che regnano nel
Paese, ma trasformano questa sensibilità in rancore, e questo rancore va a sommarsi a quello derivante dall’esclusione personale, dando così origine a un cocktail di rabbie
che è pura dinamite.
Nelle Farc si sono succedute almeno tre diverse generazioni di guerriglieri: la prima, quella di Tirofijo e di Jacobo Arenas, composta prevalentemente da contadini decisi a resistere con la forza all’espulsione dalle loro terre
voluta dai latifondisti; la seconda, quella di Raul Reyes,
Alfonso Cano, Iván Márquez, Joaquín Gómez, formata da
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giovani accecati dal sogno della rivoluzione, dall’ansia di
colpire i ricchi e abbattere un governo corrotto e asservito agli interessi stranieri; infine la terza, composta, più prosaicamente, da persone alla ricerca di un salario, o, peggio
ancora, da bambini e bambine reclutati con l’inganno o
con la forza. Al di là della patina ideologica, se esiste un
elemento che lega insieme queste tre generazioni, altrimenti così diverse, è la rabbia accumulata e trasformatasi in rancore. Ancora oggi, quando i guerriglieri arrivano
in un villaggio, ordinano a tutti gli abitanti di riunirsi a
una certa ora nella piazza principale. Lì il comandante arringa la popolazione con parole sempre fondate sull’espressione del risentimento – verso un governo ingiusto e
sfruttatore, verso i latifondisti, verso l’impero americano
– e volte a suscitare il medesimo sentimento negli ascoltatori. È stato facendo leva sulla rabbia e sul desiderio
di rivalsa che la guerriglia è riuscita a illudere molta gente sulla possibilità di riuscita di una rivoluzione armata
che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto portare pace e benessere.
Teologia della liberazione
e filosofia delle mutande sporche
Forse sarebbe il caso di cominciare ad accettare il fatto
che determinate strategie e tecniche adottate finora per
sconfiggere la povertà e l’esclusione sono sbagliate. La via
corretta è quella indicata da personaggi come Gandhi e
Martin Luther King (o da altre figure meno note, ma ugualmente valide), che sono partiti dall’idea che la violenza
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genera altra violenza e, per mezzo della non-violenza, sono riusciti a ottenere cambiamenti importanti.
La trasformazione dell’umanità in direzione di una maggiore giustizia e inclusione non avverrà mai attraverso le
rivoluzioni armate, ma solo attraverso l’incontro, il dialogo e, soprattutto, la capacità di generare o recuperare –
questo è il grande segreto – l’elemento della bontà, della
misericordia, della solidarietà che è insito in tutti noi esseri umani.
Tutti coloro che si battono per la giustizia sociale, soprattutto in ambito cristiano, dovrebbero riflettere attentamente su questa questione.
Alcuni attivisti della Teologia della liberazione, ad esempio, si sono lasciati spesso guidare dal risentimento e non
hanno saputo sviluppare strategie adeguate per toccare la
corda della solidarietà e della bontà nel cuore delle persone. Un problema simile lo riscontro anche tra gli attivisti
dei diritti umani. Molti di loro, di fronte alle ingiustizie, diventano violenti sia nel linguaggio verbale che corporeo.
La violazione quotidiana dei diritti umani nel mondo li
riempie di collera. Il loro parametro per rivendicare il rispetto dei diritti umani è il castigo e, finché non lo ottengono, vivono immersi nel risentimento. Ma bisogna sapersi mettere nei panni degli altri e capire che i violatori dei
diritti umani spesso sono persone che sono state a loro volta violate nel corso della vita, o almeno sono persone da
cui non si otterrà mai un cambiamento per mezzo della
violenza.
Il castigo sic et simpliciter non paga. Qualche anno fa
una giornalista statunitense, Amy Sutherland, ha pubblicato un libro di estremo interesse sull’addestramento de33
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gli animali: Kicked, bitten and scratched 3. Il testo spiega come insegnare a un elefante a sollevarsi sulle zampe posteriori o come riuscire a fare saltare una tigre attraverso un
cerchio infuocato. E dimostra che l’apprendimento degli
animali aumenta quando si dà poca importanza ai loro sbagli e, al contrario, si valorizzano e si premiano i loro risultati positivi. Ad esempio, se ogni volta che un elefante compie un movimento corretto viene premiato con del cibo di
cui è particolarmente ghiotto, l’animale comincia a imparare. La stessa cosa vale – mutatis mutandis – per gli esseri umani. L’autrice dice di averlo sperimentato di persona.
E racconta la storia di suo marito, che aveva la brutta abitudine di lasciare le mutande sporche sul pavimento. Lei
diventava rossa dalla rabbia ogni volta che ciò succedeva,
finché un giorno, riflettendo su come vengono addestrati
gli animali, si è resa conto che il suo atteggiamento doveva essere completamente diverso: serenamente doveva lasciare le mutande sporche per terra fino a che il marito
avesse fatto l’atto eroico di raccoglierle e infilarle nella cesta della roba da lavare. Il giorno in cui il marito ha fatto
questo gesto, lei, invece di rinfacciargli che era ora che si
fosse deciso a farlo, lo ha abbracciato, lo ha baciato e l’ha
invitato a cenare in un buon ristorante come premio per
quello che aveva fatto. Da quella volta il marito non ha
mai più lasciato in giro i panni sporchi.
Potremmo dire che la povertà e l’ingiustizia sono le mutande sporche di questo mondo e che le strategie che abbiamo usato fino a oggi per cambiare le cose – strategie
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Amy Sutherland, Kicked, bitten and scratched, Viking Penguin, New York
(Usa) 2006.
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che molti ritengono ancora valide – sono sbagliate. L’ingiustizia non si combatte con la violenza. La rivoluzione
non serve a niente. L’indignazione giusta deve essere espressa – l’ha provata anche Gesù – ma non deve diventare collera e soprattutto non deve sfociare nella violenza.
Mio fratello nelle Farc
Ho compreso l’inutilità della violenza anche attraverso
una vicenda che ha toccato la mia famiglia. Verso la metà
degli anni Sessanta uno dei miei fratelli, José, un anno più
giovane di me, è andato via di casa per unirsi alle Farc, che
allora stavano muovendo i primi passi. Come tanti altri ragazzi, mio fratello era influenzato dalle attese messianiche
di rigenerazione e di rinnovamento legate alla rivoluzione cubana (attese poi amplificate dal Sessantotto e dalla
Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín)
e da modelli di eroismo come “Che” Guevara e Fidel Castro. Tra tutti i fratelli José era quello che sentivo più vicino. Dormivamo nella stessa stanza e ammiravo la sua spiccata coscienza sociale. Eppure non ho avuto la tentazione
di seguirlo.
A quel tempo ero accolito, mi stavo avvicinando molto
alla Chiesa e sentivo già una voce dentro di me che diceva che la guerriglia non era il cammino corretto. José e
io, pur condividendo gli stessi fini, avevamo preso strade
opposte: uno in un gruppo rivoluzionario, l’altro in un gruppo di Chiesa; uno con in mano il fucile, l’altro con in mano la Bibbia. È stato in quel periodo che ho incontrato per
la prima volta i missionari della Consolata. Un giorno, men35
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tre pensavo a quale scuola secondaria iscrivermi, è venuto a contattarmi a casa un seminarista della Consolata, che,
ironia della sorte, era figlio di un militare. Ho accettato di
fare un’esperienza in seminario e quella si è rivelata essere la mia strada, mentre lui ha finito per ritirarsi ed entrare nell’esercito. Anche lui, come mio fratello, ha scelto
il fucile, mentre io ho deciso di fare del messaggio di Gesù il centro della mia vita.
Per molto tempo non ho più saputo nulla di José. Lo
avevano mandato ad addestrarsi nella foresta, per occuparsi della propaganda e reclutare nuovi guerriglieri. Ma
nel 1976, quando ormai ero quasi diventato prete, mi arriva improvvisamente una chiamata urgente al radiotelefono che usavamo per comunicare tra noi missionari della
Consolata. Era padre Giacinto Franzoi, dal Caguán, una
regione di foresta nel dipartimento meridionale del Caquetá. Mi raccontava che verso l’una del mattino qualcuno aveva suonato insistentemente alla porta. Fuori, trafelato, sporco, malvestito, c’era mio fratello, che chiedeva
disperatamente aiuto. Era braccato dall’esercito. Lui lo ha
fatto entrare, lo ha nascosto sotto il letto, e il giorno seguente lo ha fatto uscire dalla regione. In questo modo è
riuscito a salvarsi. È stato molti anni in Italia come rifugiato politico, viveva a Legnano, nei pressi di Milano. Adesso si trova negli Stati Uniti.
Attraverso la vicenda di José, la vita stessa mi ha dimostrato che la guerra non ha senso e mi ha incoraggiato a continuare sulla mia strada. Anche se mio fratello aveva fatto la sua scelta con molta onestà – come tanti giovani, credeva sinceramente che l’unico modo per combattere
la povertà e l’esclusione fosse prendere le armi – la vio36
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lenza non è mai il cammino giusto. Mio fratello e tutti gli
ex combattenti con cui ho lavorato sono pentiti di avere
preso le armi.
Il tramonto della guerriglia
Il destino della guerriglia in Colombia è ormai segnato. In sociologia si studia che ogni movimento nasce, cresce, si riproduce e muore. Alla luce di ciò si può affermare che le guerriglie colombiane sono entrate nella loro fase terminale. Esiste un serio problema generazionale. La
spinta ideologica degli anni Sessanta-Settanta si è ormai
esaurita. Oggi, dietro la decisione di entrare in un gruppo
insorgente, c’è spesso un problema di disoccupazione, la
ricerca di un salario, quando non il reclutamento forzato
o il tentativo di vendicarsi contro qualcuno una volta che
si ha il fucile in mano. Inoltre le guerriglie dipendono economicamente dal narcotraffico, dal sequestro e dall’estorsione. Senza i proventi di queste attività non sopravvivrebbero. Negli anni Novanta, mentre in tutto il mondo il
comunismo tramontava, in Colombia le Farc e altri movimenti armati illegali nati contro di loro, come i paramilitari delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), hanno vissuto una fase di grande espansione. Ma ciò è stato
possibile unicamente grazie al business del narcotraffico,
finito nelle loro mani dopo lo smantellamento dei grandi
cartelli della droga, in particolare del cartello di Medellín
di Pablo Escobar.
Un gruppo come le Farc, fondato sulla violenza, l’autoritarismo e la disonestà, non può sopravvivere a lungo. Per
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quanto ho potuto constatare, le Farc sono profondamente
corrotte dalla ricerca dell’utile, oltre a essere seriamente
debilitate sul piano militare, per la mancanza di un comando centrale e per le difficoltà di comunicazione. L’unica cosa che ci si può aspettare da un movimento del genere, corrotto moralmente e debole militarmente, è che
muoia. Se ciò non accade è solo perché al suo interno rimangono persone che fanno ancora grossi affari col traffico d’armi e di coca. Se non si riesce a tagliare fuori le Farc
dal business delle armi e della coca, sopravvivranno ancora per un bel pezzo. Ma non si tratterebbe più di una guerriglia, bensì di un gruppo atomizzato di banditi.
Violenze di Stato
Il conflitto colombiano si presta anche a dimostrare che
la violenza, oltre a disgregare e corrompere chi la compie,
produce soltanto altra violenza. La violenza delle guerriglie colombiane di sinistra non ha forse prodotto la violenza, ancora più efferata, dei paramilitari di estrema destra? All’inizio degli anni Ottanta, in risposta alle azioni
militari delle Farc, dell’Eln e dell’Epl, in tutto il Paese sono cominciati a sorgere gruppi armati di destra, che, col
passare degli anni, sono diventati una potenza militare che
ha ingaggiato una lotta all’ultimo sangue con le guerriglie
su tutto il territorio nazionale, facendo sprofondare il Paese in una spirale senza fine di violenza, odio e regolamenti di conti. Decine di migliaia di morti. Milioni di desplazados (sfollati interni), che, costretti ad abbandonare le
campagne, sono finiti a ingrossare i cinturoni di povertà
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delle grandi città. Intere famiglie distrutte. Una quantità
di dolore impressionante. Una serie di atrocità che richiama alla mente gli orrori degli anni Cinquanta. Questo
è quello che si è ottenuto cercando di attaccare i ricchi con
la forza, invece di provare a toccarli nelle loro fibre umane più nobili.
Ma se è vero che la violenza paramilitare è stata una risposta uguale e contraria alla violenza guerrigliera, bisogna riconoscere che anche la violenza guerrigliera è stata,
originariamente, una risposta uguale e contraria alla rapacità dei latifondisti armati. La lezione è che nessuno è
del tutto colpevole o innocente. La violenza e il male sono un circolo vizioso che solo il perdono e la riconciliazione possono spezzare e trasformare in un circolo virtuoso. Sì, perché come la violenza genera violenza, così la
pace genera pace. Quando si riescono a creare gruppi di
pace al posto di gruppi violenti, la pace si rafforza e genera convivenza, progresso e rispetto per la dignità della persona. La pace è contagiosa, proprio come la violenza.
Le responsabilità del governo
Oltre alle guerriglie di sinistra e ai paramilitari, in Colombia un terzo attore ricorre alle armi: lo Stato. Credo
che il presidente Álvaro Uribe, in carica dal 2002, sia stato costretto a mostrare i muscoli davanti all’ostinazione
delle Farc nell’uso della violenza. Di fronte a un gruppo
orgoglioso e prepotente il presidente colombiano ha fatto
un esercizio di rottura, offrendo allo stesso tempo una via
d’uscita. La sua politica è riassunta nello slogan della sua
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prima campagna presidenziale: Mano firme y corazón grande. Con la sua azione di governo Uribe è riuscito ad ottenere qualcosa che altrimenti non sarebbe stato mai possibile ottenere: le formazioni paramilitari, gruppi violenti
di seconda generazione nati per rispondere alle Farc, sono
venute a patti col governo. A partire dal 2003 hanno consegnato le armi e, in un certo senso, sono state messe sotto controllo. Restano attive purtroppo alcune frange – denominate «bande emergenti» o confluite in nuove organizzazioni, come le Aguilas negras – legate al business della
coca, dei sequestri o dell’estorsione e dietro cui si nascondono giganteschi interessi privati. In qualche modo, grazie
alla politica di Uribe, il problema della reazione alle Farc,
che erano i paramilitari, è stato risolto o si sta risolvendo.
Con le Farc invece non si è riusciti ad arrivare a un accordo di smobilitazione, soprattutto a causa della testardaggine dimostrata dai capi guerriglieri nel perseguire il
loro obiettivo di prendere il potere con le armi.
Prima che Uribe salisse al potere, le Farc avevano già
perso un’occasione meravigliosa per porre fine al conflitto. Mi riferisco ai tre anni di dialoghi di pace nella zona
smilitarizzata di San Vicente del Caguán. Ho vissuto quei
negoziati in prima persona, giorno per giorno. Le Farc hanno avuto la possibilità di confrontarsi con ambasciatori,
capi di Stato di altri Paesi, personalità di spicco come Bill
Gates, esperti internazionali di risoluzione dei conflitti, ma
tutte le possibilità sono andate perdute solo perché i suoi
membri sognavano di prendere il potere militarmente. Non
capivano che, per arrivare al potere, dovevano prima guadagnarsi l’appoggio della popolazione, passando per una
fase di confronto politico. No, continuavano a credere nel40
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le armi. A un osservatore esterno questo atteggiamento
può sembrare ingenuo e anacronistico, ma viste dall’interno della guerriglia le cose non appaiono nella stessa maniera. Il fatto è che molti capi guerriglieri, vissuti per anni in clandestinità nella foresta, ignorano la profonda evoluzione subita dalla società colombiana. Hanno trascorso
trenta o quaranta anni sulle montagne e non conoscono le
nuove realtà di Bogotà, della Colombia e del mondo.
Ma bisogna aggiungere che, se i guerriglieri peccano di
orgoglio, è anche vero che lo Stato fa di tutto per inferocirli: criminalizzandoli, demonizzandoli, dipingendoli come mostri senza cuore. I principali mezzi di comunicazione nazionali, i capi dell’esercito e i politici troppo spesso si dimenticano – o è una strategia premeditata per
togliere ai guerriglieri l’appoggio della popolazione? – che
i membri delle Farc sono uomini, cittadini colombiani, non
topi di fogna. Lo si vede chiaramente quando i tg nazionali, dopo un combattimento, mostrano i corpi dei guerriglieri morti. La telecamera inquadra una fila di corpi anonimi, buttati per terra, ricoperti da un lenzuolo bianco macchiato di sangue, da cui escono solo le punte degli stivali
di gomma. In genere, in questi casi un generale in mimetica racconta quanti «banditi» o «antisociali» sono stati
abbattuti, come se fosse appena tornato da una battuta
di caccia grossa. Credo che occorra maggiore sensibilità
e pietà anche verso i nemici. Forse, se anche ai guerriglieri, come ai ricchi, si riuscisse a toccare il nervo della solidarietà, della bontà e della pace, se si offrisse loro una via
d’uscita degna da questo annoso conflitto, invece di accanirsi continuamente contro di loro con l’unico risultato
di incattivirli, la pace avrebbe più speranza.
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Disarmare la parola
Disarmare la parola, coltivare la parola amabile, dolce,
sensibile, è un importante esercizio di pace. La parola è incendiaria; utilizzata male, genera violenza. Giornalisti, politici, insegnanti, sacerdoti, genitori, tutti dovrebbero sforzarsi di controllare il linguaggio, impedendo che venga contaminato dalla rabbia e dalla violenza. La Fondazione per
il perdono e la riconciliazione realizza progetti di educazione alla pace in molte scuole di Bogotá. Nell’ambito di
questi progetti facciamo sistematicamente l’esercizio di disarmo della parola. Ci rivolgiamo principalmente ai docenti, facciamo l’inventario delle frasi e dei termini aggressivi che utilizzano spesso in classe e di fronte ai quali i
ragazzi non fanno altro che reagire con violenza. L’obiettivo è quello di far comprendere che, quando un ragazzo
rompe un vetro, un banco od offende un compagno, sta
esprimendo una violenza che riceve dall’ambiente esterno.
È di estrema importanza trasformare l’uso del linguaggio e sostituire narrazioni cariche di violenza con narrazioni di pace. Le narrazioni violente col tempo finiscono
per diventare parte della cultura e del linguaggio quotidiano; confluiscono nel canto, nella danza, nella poesia, nella musica, nel gioco. In questo modo legano la memoria
collettiva della popolazione a eventi luttuosi, rendendola
in qualche modo prigioniera degli orrori del passato e incapace di aprirsi a un futuro differente. I combattimenti di
galli, tanto amati dai contadini, e le corride di tori, tanto
apprezzate dai gruppi più borghesi, solo per fare degli esempi, non sono altro che espressioni ritualizzate del rancore
accumulato collettivamente nel corso degli anni.
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La Chiesa, la Madonna e Tirofijo
Anche la Chiesa, in determinati momenti storici, ha gettato legna sul fuoco della violenza colombiana attraverso
la politicizzazione della religione, l’uso di un linguaggio
violento o il silenzio complice. Dalla fine del XIX secolo
alla metà del XX, la Chiesa è stata molto legata al partito
conservatore e in determinati momenti ha espressamente favorito la violenza. All’inizio del Novecento il vescovo
di Pasto, Ezequiel Moreno (ormai santo), proclamava che
essere liberale era peccato e sembra che qualche vescovo
fosse abituato a dire che «tutti siamo uguali, infatti un conservatore è uguale a mille figli di puttana liberali».
Può darsi che questa fosse la mentalità dell’epoca, ma
ciò non impedisce di rilevare un grave deficit di umanità
in alcuni settori della Chiesa colombiana. Ciò si è tradotto in un’evangelizzazione superficiale, sbagliata, non autenticamente cristiana. Il cristianesimo è porgere l’altra
guancia, perdonare, amare, cercare la pace, non fomentare la violenza o incitare alla vendetta.
Mi sono reso conto di questo problema anche in uno dei
miei pochi ma significativi incontri con Tirofijo. La prima volta che l’ho incontrato è stato nella foresta del Caquetá, una regione scarsamente popolata della Colombia
sudorientale, dove abbondano le coltivazioni di coca e le
Farc spadroneggiano. L’episodio risale a molti anni prima dei dialoghi di pace del Caguán ed è avvenuto nel corso di una celebrazione guerrigliera alla quale Tirofijo presenziava assieme ad altri comandanti. All’epoca ero diventato molto amico di alcuni membri del Secretariado (il
comando centrale) e, tramite loro, sono riuscito a incon43
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trarlo. Quel giorno, mentre chiacchieravamo e bevevamo
birra assieme, abbiamo scoperto casualmente che compivamo gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio, e che provenivamo entrambi dello stesso paese, Genova. Queste
coincidenze ci hanno avvicinato. L’anno seguente, per il
suo compleanno, ho fatto preparare il muchacho relleno,
un piatto speciale della regione del Quindio, a base di carne ripiena, e gliel’ho portato. Quel giorno ho preso coraggio e ho osato dirgli: «Don Manuel, quando tu eri un buon
cristiano…». Ma lui mi ha subito interrotto dicendomi: «Io
sono un buon cristiano! Come puoi dire “quando eri”…
io sono…» e mi ha mostrato una catenina unta di grasso,
sporca, con l’immagine del Sacro Cuore e della Madonna.
Allora ho continuato: «Bene, Manuel, tu che sei un buon
cristiano, cosa si canta il 13 maggio?». A quel punto mi
ha fissato con un leggero sorriso e ha cominciato a intonare con voce grave:
El trece de mayo, la Virgen María
bajó de los cielos a Cova de Iría.
Ave, ave, ave, María.
Haced penitencia, haced oración
por los pecadores, implorad perdón.
Ave, ave, ave, María.
Tirofijo, jefe maximo di una guerriglia di ispirazione
marxista, si riteneva un buon cristiano e sapeva a memoria una canzone in onore della Vergine di Fatima, che parla di pace e di perdono. Parlando con lui ho scoperto anche che non gli piaceva dire che compiva gli anni il 13 mag44
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gio, bensì il 12, perché, essendo filocomunista, si vergognava di essere nato nel giorno della festa della Madonna.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere moltissimo sulla qualità
dell’evangelizzazione dell’America Latina. Spesso la formazione cristiana che noi missionari riusciamo a impartire è troppo esteriore, formale, ritualistica, costruita su tradizioni importate. Non sempre sappiamo trasformare il
cuore delle persone. Ecco perché molti guerriglieri mi chiedevano di benedire i loro fucili! Le armi non le benedivo
mai, mi limitavo a dire: «Che Dio ti protegga e ti aiuti a fare il bene; quest’arma un giorno la dovrai lasciare».
Il nostro modo di fare missione e di vivere il cristianesimo deve essere ripensato alla radice. Che cosa significa
aiutare realmente le persone a essere cristiane? Non basta contare i battezzati e ragionare in termini puramente
quantitativi. Le persone vanno segnate con l’amore di Dio.
Gesù ha detto di andare per il mondo e di lasciare sul prossimo il segno dell’amore di Dio. Non ci ha mai chiesto di
fare proselitismo. Eppure è quello che abbiamo fatto per
secoli, anche se originariamente l’intenzione di Gesù era
differente. La Chiesa è caduta nel proselitismo e spesse
volte nel fanatismo verso i non cristiani: si pensi solo all’Inquisizione o alle crociate. Se si riuscisse a rinnovare
in profondità lo stile missionario, rinunciando definitivamente al proselitismo e al fanatismo, sarebbe un passo decisivo in direzione del rinnovamento della Chiesa. Il pluralismo religioso con l’incontro, riconciliato, fra tutte le
espressioni religiose darà vita alla spiritualità più attraente del futuro.
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INDICE
Prefazione
pag.
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1. GLI OCCHI NUOVI DI TERESA
Perdonare l’imperdonabile
La violenza consuma, il perdono rigenera
Un’arte da insegnare per il bene della società
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2. LA CROCE E IL FUCILE
Le mie origini (la Violencia)
Tirofijo e la mala educación
La pace si decide in casa e a scuola
Teologia della liberazione
e filosofia delle mutande sporche
Mio fratello nelle Farc
Il tramonto della guerriglia
Violenze di Stato
Le responsabilità del governo
Disarmare la parola
La Chiesa, la Madonna e Tirofijo
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3. L’ESPERIENZA AFRICANA
Il Giubileo dei Gabra
Salvare un cammello e guarire i cuori
Creare ponti
Sapienza africana
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4. NEL CAGUÁN
Indignazione sì, violenza no
Guerriglia, coca e fumigazioni
«Narcomentalità» e morti insepolti
La Granja familiar amazonica
Il missionario non è un sedentario
Accanto alle vittime, accanto ai carnefici
Un capitale di pace
«Adesso mi ammazzano»
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5. NEL CAMPUS DI HARVARD
La pace è molto più del silenzio dei fucili
Il «covo» del rancore
Amnistia, amnesia e guarigione del cuore
La «cultura dell’Agnello»
Le religioni dogmatiche sono perdenti
Tre tutor per una tesi sul perdono
La politica del perdono
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6. LA TEORIA DEL PERDONO
Il rancore di Antonio
Che cos’è e che cosa non è il perdono
Come funziona il cervello di Caino
(e anche quello di Abele)
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Igiene dell’anima
Dall’oscurità alla luce attraverso la narrazione
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La decisione del perdono
Comprendere chi offende,
sviluppare compassione
Compassione solidale
e compassione carismatica
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7. TRE PASSI VERSO LA RICONCILIAZIONE
La verità che rende liberi
Una giustizia «restaurativa»
Il patto: «nunca más»
I tre gradi di riconciliazione:
coesistenza, convivenza, comunione
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8. ESPERE
Un metodo possibile
La Fundación para la reconciliación
Simboli e gesti: un metodo
Un’idea nata in un cimitero
L’esperienza con i paras
Il perdono nelle carceri
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9. DALLA TEOLOGIA
DELLA LIBERAZIONE ALLA TEOLOGIA
DELLA RICONCILIAZIONE
Cambiare il mondo con la forza?
La rabbia dei poveri
I due rischi della Teologia della liberazione
La Teologia della Riconciliazione,
la rivoluzione secondo Gesù
La compassione e il popolo
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Società San Paolo, Alba (Cn)
Printed in Italy
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