Lina Bo Bardi - CLEAN edizioni
Transcript
Lina Bo Bardi - CLEAN edizioni
cop teca 7 18-10-2012 17:02 Pagina 2 C M Y CM MY CY CMY K Direzione editoriale Domenico Chizzoniti (coordinatore), Lamberto Amistadi, Armando Dal Fabbro, Luca Monica Editing Anna Maria Cafiero Cosenza, Letizia Cattani Grafica Luca Monica Impaginazione Costanzo Marciano Copyright © 2012 CLEAN via Diodato Lioy 19 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-202-6 2 TECA Teorie della composizione architettonica L’idea di una collana sulle teorie della composizione architettonica nasce dalla consapevolezza di una lenta e inesorabile dispersione di conoscenze, strumenti e pratiche nella costruzione del progetto comune a diverse scuole. In particolare una tradizione di studi tra Milano e Venezia, ma anche tra Napoli e Torino, ha puntato su un particolare aspetto del progetto di architettura come conoscenza e come pratica dell’arte, con tutte le implicazioni di ordine letterario, filosofico ed estetico a cui queste “scuole” non si sono mai sottratte. Ora, i facili entusiasmi della emancipazione tecnica sembrano aver contraffatto la ricerca sul progetto, sulla composizione del progetto di architettura, attraverso procedure standardizzate. Ebbene, questo traslato tende a falsificare quel singolare procedimento artistico in cui ricerca e sperimentazione si combinano in quel “segreto religioso” che punta al progetto come conoscenza, sintesi poetica di arte e tecnica. La collana editoriale proposta tende a radunare, laddove certe salutari resistenze ancora operano, le esperienze di ricerca che ancora indagano teoria e progetto, critica e pratica architettonica, riservando alla composizione un ruolo privilegiato nell’indagine e nella sperimentazione operativa. L’obiettivo è di far “ri-scoprire” agli studenti delle facoltà di architettura, a cui la collana si rivolge, l’altro aspetto della creatività del progetto di architettura: quello della poesia, della seduzione, del fascino della forma e della figurazione, dell’idea, dell’affabulazione e della narrazione, dell’impegno e del rigore simbolico e ideologico. Lina Bo Bardi Il diritto al brutto e il SESC-fàbrica da Pompéia Luciano Semerani Antonella Gallo Sommario Il diritto al brutto 6 Luciano Semerani Due mostre Venezia 2004/San Paolo 2006 34 Il SESC-fàbrica da Pompéia 76 Antonella Gallo Translations 127 Indice dei nomi 152 Fonti delle illustrazioni 153 3 Il diritto al brutto 5 4 Il diritto al brutto Luciano Semerani Mostra “Mille giocattoli per i bambini brasiliani”, SESC–Pompéia, San Paolo, 1982, maschere di cartapesta e marionette. I limiti, all’interno dell’estetica, sono da sempre in discussione. La tesi un tempo più comune era che il brutto fosse, nell’arte, un disvalore, utile solo nella dialettica con il bello. Ma nel pensiero contemporaneo non è così. Adorno aveva, invece, già intuito che il «brutto» dava all’arte la possibilità di «negare l’assenso», di «interrompere la continuità», di «innovare il linguaggio». In termini diversi il «brutto» è stato accettato come elemento interno al procedimento artistico anche da Pareyson, con la teoria della formatività; da Gadamer, con l’esaurirsi del «fine» dell’arte nell’«opera» stessa, e da Freud con la nozione di «perturbante», il «ritorno del rimosso», l’«unheimlichtkeit». Due note: a volte il «quotidiano», il «normale» è assai più inquietante del «mistero» e, secondo, non è detto che il nostro desiderio più profondo, quando incontriamo un’opera d’arte, sia la quiete. Un vasto ricorrere del «brutto» nell’espressione artistica medioevale, barocca, romantica, decadente e moderna, europea ed extraeuropea consentirebbe a un filosofo di sviluppare un panorama vasto di considerazioni; ma qui io parlo da architetto di un architetto che ha sostenuto il diritto al brutto per raggiungere una comunicazione più profonda con il mondo in cui si è trovato a operare e che ha così rovesciato le regole e le tecniche della composizione architettonica. In linea generale, ogni volta che nel sociale è maturato un clima rivoluzionario, le nozioni di «estetico», di «tempo», di «composizione» hanno perso la possibilità di essere interpretate in termini di «continuità». È Lina Bo Bardi che ha inventato il diritto al brutto. Rivoluzionaria non tanto perché si dichiarava comunista quanto perché le lezioni rivoluzionarie della filosofia, della sociologia, dell’antropologia culturale, così come si erano affermate nella cultura internazionale del XX secolo1 sono tutte ritrovabili nelle sue intuizioni. Lei ha con queste parole contrapposto «Il Bello e il diritto al brutto» nel titolo della I Mostra d’arte dei Funzionari dell’INAMPS realizzata nel 1982 al SESC di San Paolo: «L’espressione Kitsch è nata in Germania alla fine del XIX Secolo quando la Rivoluzione Industriale ha preso definitivamente il potere. È lo stigma dell’alta borghesia colta contro i settori della stessa classe meno fortunati che, tramite l’industrializzazione, incominciavano ad avere accesso ai “Tesori dell’Arte”, al “Bello”. Questa piccola mostra non è una – Integrazione del kitsch – è soltanto un piccolo esempio di DIRITTO Al BRUTTO, base essenziale di molte civiltà, dall’Africa all’Estremo Oriente, che non hanno mai conosciuto il “concetto” di Bello, campo di concentramento obbligato della civiltà occidentale. Da 6 7 Sedia da bordo strada, 1967. Mostra "Nordeste", Solar do Unhào, Salvador, Bahia, 1963, il fifò, lampada da tavolo e da parete realizzata con latta di recupero e lampadina bruciata. tutto questo processo è stato escluso qualcuno ancora meno fortunato: il Popolo. E il Popolo non è mai Kitsch. Ma questa è un’altra storia»2. Rivendicare il «diritto al brutto» è un sovvertimento dei valori borghesi «bigotti» ancorati al trinomio bello/buono/vero. Si veda l’Estetica del brutto pubblicata da Karl Rosenkranz a Konisberg nel 18533. L’idealismo neohegeliano di Rosenkranz poneva «il brutto» tra i disvalori antagonisti dell’«armonioso», del «formalmente compiuto», del «proporzionato», dell’«equilibrato», del «simmetrico». Il «brutto» stava in compagnia col «ripugnante», il «falso», il «criminale». Tutti questi disvalori trovavano una ragion d’essere solo quando la rappresentazione artistica li chiamava in causa in dialettica col «bello» oppure avveniva in contesti narrativi in cui la «Ragion di Stato» o «le finalità della Chiesa» ne nobilitavano la presenza. La ricerca dell’autentico incontra «il brutto» quando attraversa il mondo «volgare». Il «volgare» tanto nella scelta della lingua quanto nella scelta degli argomenti. L’estetica del Novecento ha infatti affrontato i territori inesplorati della persona, dell’inconscio, dell’archetipico. È a Bahia, tra il 1958 e il 1964, che mette radici la personale «rivoluzione del gusto» che è per Lina Bo Bardi l’inveramento del «diritto al brutto». È l’unica rivoluzione praticabile in prima persona da un architetto e tuttavia essa è stata spesso male interpretata. A partire da Bruno Zevi Lina è stata sistemata nel «brutalismo», e altri l’hanno apparentata a personaggi gelidi e scontrosi, come gli Smithson o van Eyck come se la scontrosità del carattere (e delle architetture) bastasse a definire un’appartenenza. Il mondo di Lina ha, piuttosto, il suo motore nel desiderio. Derrida sostiene che la nozione di «bellezza» è inseparabile dall’esperienza del corpo. L’esperienza della bellezza sarebbe inseparabile dalla relazione e dal desiderio per l’altro. È difficile non pensare al «desiderio» come a un fiume che percorre tutta la creatività furiosa di Lina Bo Bardi, anche se esso non porta alla «bellezza» ma — vedi la Sedia da bordo strada o il Fifó, la lampada a olio da tavolo e da parete realizzata con latta di recupero e lampadina bruciata — al paradosso. Fin dalla tesi di laurea, intitolata Maternità per madri nubili (1939), il valore dell’«autenticità» viene affermato da Lina in modo scandaloso e provocatorio. Ma il paradosso è umano, denuncia la dimensione irrazionale e libertaria che la vita può avere. Il che significa, sul piano dell’architettura e del design, rendere intercomunicanti le colture, aprire i confini del «gusto». 8 9 Manifesto per la mostra "Intermezzo per bambini ", SESC–Pompéia, San Paolo, 1985. "Maternità per madri nubili", Tesi di laurea, modello, 1939. "Le Polochon" , apparato scenico ideato per la messa in scena di “Ubu, folias, physicas,pataphysicas e musicaes”, bozzetto, 1985. nelle pagine seguenti Mostra "Intermezzo per bambini", acquerello, 1984. Perché Lina non arriva mai né può essere considerata responsabile dell’estetica del disgusto che sul finire del XX secolo ha permeato le arti? Perché Lina non arriva mai al Kitsch? Sartre interpone tra il reale e l’idea «l’immagine» come modalità di tematizzazione della conoscenza ma anche come esito dell’intenzionalità della coscienza. Merleau-Ponty sostiene che il «linguaggio parlato» si manifesta, in una comunità, a partire da una «volontà di scambio». È l’equivalente della «forma» nella Gestaltpsycologye, che non e né «cosa» né «idea» ma «fatti» e «modi» di «costruzione della lingua». È una tesi che viene da Saussure. Il «desiderio dell’altro» è stato da sempre, e anche a Bahia, sublimato dalla «volontà di scambio» nella «costruzione della lingua». La sperimentazione di una nuova lingua trasmissibile non disgiunta dal principio della dignità della ricerca impediranno a Lina di precipitare nell’ammiccamento commerciale, cioè nel Kitsch. L’animaleria brasiliana nell’immaginario di Lina, è vissuta come un brodo culturale in cui anche le formiche e gli scarafaggi hanno diritto di cittadinanza e come universo d’innesti e trapianti in cui la metonimia regna sovrana. In questo senso le polochon, il maiale con due sederi, è solo uno dei capisaldi intorno ai quali gira una visione del mondo in cui le individualità animalesche diverse e le forme pure dei corpi s’imbastardiscono a causa d’assemblaggi, montaggi, sostituzioni o ripetizioni di parti, quali solitamente si riscontrano nei geroglifici, nei totem, nei tatuaggi, nelle maschere, negli amuleti, che rappresentano simbolicamente i concetti. Un nuovo rapporto tra artificio architettonico e naturalità. Una vita animale e vegetale esuberante, sensuale, un Paradiso Terrestre senza Arcangeli. Casa Bardi è stata la prima casa a essere costruita nel “Jardim Morumbi”, quando il quartiere aveva ancora questo nome (antica Fazenda di Tè Muller Carioca). Era una grande riserva di Selva Brasiliana, piena di animali selvaggi: jaguatiricas, armadilli, cerbiatti, cavie, sariguis, bradipi…Era anche una riserva di uccelli, e durante il giorno comparivano almas de gato, cuculi, sabias-laranjeira e sabias-pretos, anus, bem-te-vis, anhambus, tortore, seriemas, e di notte: curiambos, caborés, civette e altri uccelli notturni. Molti rospi e rane cantavano la notte. C’erano anche bellissimi serpenti e molte cicale. Dietro all’antica “Casa da Fazenda” tutta bianca e azzurra, che conservava ancora i ferri e le catene del tempo della 10 11 12 13 schiavitù, e gli enormi tegami, catini di rame e altri utensili, e dietro ancora alla “Senzala” [L’antica casa degli schiavi] rosa e ai grandi fichi, si estendeva il “lago”, circondato da araucarie, con in fondo una “Selva Atlantica”, piena di orchidee e di piante rare. Un enorme silenzio e molte leggende popolari avvolgevano ancora la Casa Grande [l’antica casa padronale] e la selva: leggende di indios [...] di schiavi, di gesuiti [...]4. Non incontra Lina solo un’animaleria ignota, di cui apprende i nomi dai servi, ma incontra, «il selvaggio», solo le sue tracce e le sue leggende ma non è solo un’ombra del passato, è un dato storico e antropologico di cui è intrisa qui la cultura. Quando o português chegou/Debaixo duma bruta chuva/ Vestiu o índio/ Que pena! Fosse uma manhã de sol/O índio tinha despido/O português Quando il portoghese arrivò / sotto una pioggia a dirotto / vestì l’indio / Peccato! / Se c’era il sole / era l’indio a spogliare / il portoghese5. Il poeta Oswald de Andrade è un’esponente del Movimento Antropofagico che si propone non di rifiutare l’Europa ma di digerirla e poi cagarla. Nella boheme di Bahia al progetto politico-culturale lavorano insieme compositori come Caetano Veloso e Hans Koellreutter, scrittori come Carlos Nelson Coutinho, registi di cinema come Glauber Rocha e di teatro come Martim Gonçalves, l’antropofotografo Pierre Verger6. Un clima di rifondazione culturale, che copre un arco enorme di interessi, che sembrerebbero contrapposti ma non lo sono: da una parte l’impegno politico-sociale di un’alfabetizzazione del popolo, dall’altra la sperimentazione delle ricerche più avanzate nel cinema, nel teatro, nella musica. Un solo obiettivo realizzare la comunicazione interpersonale. Lina è coinvolta come architetto e come intellettuale e vede ora chiaramente i suoi obiettivi: la «[...] creazione di un movimento culturale che, assumendo i valori di una cultura storicamente (in senso aulico) povera, potesse lucidamente, superando le fasi ‘culturalista’ e ‘storicistica’ dell’Occidente, appoggiandosi a una esperienza popolare (rigorosamente distinta dal Folklore), entrare nel mondo della vera cultura moderna, con gli strumenti della tecnica, come metodo, e la forza di un nuovo umanismo [...]»7. «Il diritto al brutto» non è uno slogan propagandistico. Esso implica per Lina di dover prender posizione su almeno tre importanti questioni generali che a me sembrano oggi più che mai attuali: 1) una questione politica: il rapporto tra il salotto 14 Marcel Duchamp, Ruota di Bicicletta, 1913. nelle pagine seguenti MASP, San Paolo, 1957-1968, la Pinacoteca con i cavalletti espositivi. (la cultura alta, l’Accademia, la tradizione occidentale) e la foresta (dove vive il sopraddetto selvaggio) e più in generale «il diverso»; 2) una questione scientifico-filosofica: la nozione del tempo; 3) una questione di linguaggio: la composizione architettonica. Non solo la terra, dove vengono costruite la Casa de vidro (San Paolo, 1951) e la Casa do Chame Chame (Salvador de Bahia, 1958), è impregnata di voci e credenze misteriose, ma è «il surrealismo del popolo brasiliano»8, di cui scrive Lina, è il candomblé stesso, che si insinua, con i suoi oggetti rituali, non solo nelle collezioni private nelle abitazioni di Pierre Verger e dei Bardi9, ma a trionfare nelle Mostre da lei allestite accanto agli ex-voto, alle crocifissioni, agli animali fantastici, agli Alberi Maestri che evocano una foresta imbalsamata. Nel candomblé di Bahia, come in generale nelle religioni africane di origine Bantù, ha un grande rilievo la «magia». Secondo Edgar Morin uno dei doni della «magia» risiede nel tema del «doppio». «L’esistenza del “doppio” è attestata dall’ombra mobile che accompagna ciascuno, dallo sdoppiamento di sé che avviene nel sogno, e dallo sdoppiamento del riflesso nell’acqua, cioè l’immagine. Di conseguenza l’immagine non è una semplice immagine, essa porta in sé la presenza del doppio dell’essere rappresentato e permette, attraverso questo intermediario, di agire su questo essere; è questa azione che è propriamente magica: rito di evocazione attraverso l’immagine, rito di invocazione all’immagine, rito di possesso sull’immagine (sortilegio)»10. Chi lavora a teatro conosce bene come con meccanismi consimili la messa in scena produca, quando funziona, il trasferimento all’attore, e quindi alla maschera, di un’identità evocata. Peraltro lo stesso Freud, sprezzante nei confronti del primitivismo ingenuo della magia, come di ogni ipotesi di «onnipotenza del pensiero» è costretto ad ammettere che «soltanto in un campo si è conservata “l’onnipotenza del pensiero” fino ai giorni nostri: in quello dell’arte. Nell’arte soltanto avviene ancora che un uomo, logorato dai desideri, elabori un’azione che rassomiglia all’appagamento e che questo giuoco — in grazia dell’illusione artistica — provochi delle risultanze affettive come se si trattasse di cosa reale. A ragione si parla dell’incantesimo dell’arte [...]»11. Nella stessa raccolta di scritti su Magia e civiltà Bronislaw Malinowski osserva che12 basta avere un po’ di buonsenso per capire che la vita, segnatamente quella più povera di risorse e di scambi, è fortemente cadenzata da situazioni accidentali e imprevedibili in cui la paura, le catastrofi, la malattia, la morte possono essere accettate solo ricorrendo a un patrimo15 16 17 Aby Warburg, Mnemosyne, Atlante delle Immagini, tav. 55, 1924-1929, Londra, Warburg Institute. nelle pagine seguenti Casa del Brasile in Benin, 1989, disegno di studio. Il costume di "Papà Ubu" disegnato per la messa in scena di “Ubu, folias, physicas, pataphysicas e musicaes”, 1985. Mostra "Bahia all' Ibirapuera", V Biennale, San Paolo,1959, il vaqueiro e l’albero delle girandole. 18 nio tradizionale di miti, di eroi, di antenati, di pratiche rituali depositati in un tempo memoriale immobile, senza passato, presente, futuro. Come ha scritto Olivia De Oliveira13 nel candomblé la danza è l’espressione più profonda del contenuto rituale. Il «medium» attraverso la possessione del suo spirito entra in contatto col divino. Il «tempo» si ferma durante la danza e l’ansia svanisce. Ci si trasferisce, per tutta la durata della danza nel tempo illimitato dell’«antenato». Infine è la Magia che ha la sua ragion d’essere proprio in un sapere fuori dal tempo. L’esempio del Museo d’Arte di San Paolo resta un riferimento d’obbligo ogni volta che affrontiamo il tema della museificazione. A San Paolo i capolavori si affollano disordinatamente e vengono — supportati da lastre trasparenti — festosamente incontro al visitatore sudamericano. Un visitatore, liberato da un’idea del tempo secondo Lina inventata dalla teologia, come continuum omogeneo, un’idea del tempo che è stata inglobata, nella società mercantile, dall’idea di «progresso». La questione è interessante perché nei numeri di “Quadrante”, collaborando con Pietro Maria Bardi, i giovani architetti milanesi (BBPR, Figini e Pollini) avevano già letto la tradizione mediterranea attraverso quell’empatia tra le figure che ricordava Aby Warburg. Oggi, chi visita il MASP, trova le opere ordinate per stanze, come in tutti i musei, secondo quell’ordinamento didattico che presuppone un progresso e uno sviluppo nel tempo della civiltà occidentale: Picasso viene dopo Van Gogh e Van Gogh viene dopo Tiziano ma, soprattutto, le famiglie stilistiche e le aree culturali si innestano sul filo rosso dello svolgimento temporale. La «legittimità» dell’istituzione museale è nata, oltre che dalla supremazia imperiale di Londra, Parigi e Berlino sulle nazioni povere, dall’idea che «il tempo» organizza «l’estetico». E anche dalla perdita (Gadamer) dell’intenzione «religiosa» o «celebrativa» che rendeva stretto il rapporto di ogni opera con un determinato luogo e una determinata committenza. Nel primo capitolo de L’attualità del bello, intitolato Arte come gioco, simbolo e festa, Gadamer si domanda «Come possiamo riuscire a capire il fatto che Duchamp ci offra d’improvviso un oggetto comunemente usato, isolato da tutto il resto, esercitando così su di noi una specie di violento stimolo estetico? Non si può dire semplicemente – che razza di banale idiozia!»14. Lo capiamo perché la trovata è «il trapianto» della banalità dentro il «museo». Il «museo» è un partner attivo dell’opera d’arte. Molte tuttavia sono le modalità di tale partenariato. L’estetica classico19 20 21 romantica vuole che l’antichità, l’oblio delle origini, la mutilazione, l’usura mettano in trono un’arte segnata da «Cronos». La modernità all’opposto investe sullo spiazzamento. Ne La Roue de bicyclette del 1913 non c’è passato, non c’è memoria, non c’è traccia di lotta o di usura. La sua dialettica con l’istituzione museale risiede anche nella sua negazione di quel concetto del «tempo» che, secondo Giovanni Semerano, risale a cinquemila anni or sono. Per la prima volta in Persia, cinquemila anni fa, si sarebbe dedotta, dalla durata del «viaggio del Sole nel Cielo», una misurazione del «Tempo». Insieme, in quell’epoca, a partire dalla fasi della luna sarebbe stato concepito «il Numero»15. «Ma — scrive Lina — il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente, il tempo non è “lineare”, è un meraviglioso groviglio in cui, in ogni momento, si possono scegliere “punti” e inventare soluzioni, senza inizio né fine»16. È la contrapposizione che la filosofia moderna ha maturato di un tempo «psico-fenomenologico» diverso dal tempo «fisicocosmologico», il tempo dell’arte è il tempo non oggettivo della «narrazione», il «tempo sociale» del rito e della festa che si interpone nel calendario del quotidiano indefinito come punto di incontro tra individui e società. Lo scompiglio creato da Lina e Pietro Maria Bardi nell’allestimento del Museo d’Arte di San Paolo riannoda esperienze molteplici: 1- l’eloquenza della comunicazione è basata (con Warburg) su consonanze e contrasti formali, sul ritmo degli accostamenti, sulla libertà concessa alle associazioni tematiche individuali; 2- la ragion d’essere nuova del Museo, non è né la contemplazione estetica né l’istruzione didattica ma piuttosto la partecipazione emotiva e quasi «osmotica» che deriva dal contatto con le «cose»; 3- il rapporto che l’«avanguardia», in particolare quella surrealista, ha sperimentato nella narrazione cinematografica, nello «spazio scenico» del teatro, facendo assumere ai concetti di «tempo» e di «luogo» dimensioni «oniriche». Tutti abbiamo incontrato, almeno noi più vecchi, in una casa di una nonna un «polochon», un divano con dei braccioli cilindrici, magari rivestito di velluto rosa. Questo arredo antico anche a noi aveva suggerito una corporalità morbida, quasi carnosa. Lina ha visto proprio un maiale, ma senza testa e però dotato di quattro glutei e un doppio di buchi e l’ha fatto girare tra il pubblico mentre andava in scena Ubu Roi, il vanaglorioso monarca di legno, demagogo e sanguinario, ingordo e vigliacco, tuttavia al potere proprio in forza della sua meschinità miserabile. L’invenzione del «Maiale a due teste» come quella della «Grande Vaca Mecânica» (un progetto irrealizzato che abbiamo noi 22 23 Mostra "Bahia all'Ibirapuera", V biennale, San Paolo, 1959, exvoto, scultura popolare in legno, Canindé, São Francisco das Chagas, Ceará. nelle pagine seguenti Mostra "La Mano del Popolo Brasiliano", Museo d'Arte di San Paolo, 1969, studi per l’allestimento e vista della mostra. ricostruito a Venezia) rientrano nel grande universo favolistico dove dormono tutti gli innesti e le contaminazioni possibili alla nostra fantasia. Alla fantasia di tutti, quella dei bambini e dei primitivi innanzitutto, ma anche a quella degli artigiani e dei manovali ai quali viene proposto di realizzare dei giocattoli e che subito applicano delle metamorfosi, sconfinano nel mostruoso, scoprendo territori estranei alla bellezza e piuttosto dominati dal sublime, dal terrifico, dall’orrore. È in queste terre che l’oggetto «brutto», frutto della deformazione, dell’urlo, del disprezzo del vero, dell’esaltazione dell’impossibile, svolge la sua azione esorcistica tale quale la catarsi nel campo della tragedia. La violenza del «brutto» innumerevole nel XX secolo ha varcato spesso il limite che separa il «Kitsch» commerciale (basta pensare a tanta musica e tanto cinema horror da consumo) dall’autentico. Analogo discorso vale per il bricolage, nel linguaggio della Bardi. Non è il «collage» decorativo di Braque e Picasso ma piuttosto quello di Max Ernst, realizzato con la composizione di materiali eterocliti, che appartiene tanto alla cultura della povertà, quanto a quella dell’avanguardia, ed è né più né meno che una tecnica compositiva. Mi pare che a questo punto è finalmente chiaro come la «bruttezza» ha a che fare con l’architettura nelle opere di Lina. C’è una prima interpretazione della bruttezza in Aristotele: «La bruttezza quando è innocua è ridicola». Ma c’è una postilla di un altro filosofo. Lessing precisa: «Quando la bruttezza è dannosa diventa spaventosa e quando è spaventosa è maestosa». Non possiamo cavarcela sostenendo che gli scritti e le mostre a fondamento antropologico e politico vanno separati dalle opere costruite che si presentano nella loro geometria essenziale come manifesti di un ardimento costruttivo che nella tecnica e nella razionalità ha i propri principi informatori. Non possiamo nemmeno riprendere l’usato adagio che insegna che in ogni opera d’arte il razionale e l’irrazionale si mescolano sempre e che è la loro compresenza che realizza la complessità. Piuttosto vedremo che contraddicendo i due filosofi, ormai così lontani nel tempo, l’ingrediente della «bruttezza», sotto una luce violenta come è quella dei tropici, in un’«estetica del sogno», come è quella teorizzata dal vulcanico Glauber Rocha («il sogno è l’unico diritto che non può essere proibito»), in un mondo di prepotenze e di abusi, l’ingrediente della «bruttezza» partecipa al raggiungimento della «maestosità». Il MASP è maestoso nell’ardimento strutturale che porta il trilite a un'ampiezza gigantesca, è violento nella sua pene24 25