11 luglio 2015 (formato PDF )

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11 luglio 2015 (formato PDF )
16 Sabato, 11 luglio 2015
Como Cronaca
Testimonianza. La storia di Samuel, 35enne arrivato in Italia un anno fa, dopo aver
attraversato un lungo viaggio attraverso diversi stati africani. Ci ha raccontato la sua
Istantanee di un viaggio della
“In Gambia non c’è la democrazia,
anche se la chiamano così. Per questi
disegni stessi disegni potrei essere
imprigionato”
“S
e lo rifarei?
Certamente
no! Se tornassi
indietro non
tenterei più la strada del
deserto; resterei in Senegal,
perché nel mio Paese, in
Gambia, non è possibile vivere.
Ma una volta che si è partiti
non è si può tornare indietro.
Semplicemente perché alle
spalle si lasciano gli stessi
pericoli che si incontrerebbero
andando avanti e, allora, tanto
vale proseguire e sperare di
riuscire ad arrivare”.
Sono queste le parole con cui si
è conclusa la nostra intervista
con Samuel, trentacinquenne
gambiano, arrivato in Italia un
anno fa, nel giugno del 2014,
dopo aver affrontato il Viaggio:
così i migranti chiamano
il lungo e difficile percorso
attraverso il deserto e il mare
fino all’Europa. Tra le mani
stringe alcuni disegni realizzati
per raccontare ciò che le parole
non riescono a catturare.
Immagini di quello che Samuel
e come lui tanti altri hanno
vissuto. “Ho scelto di realizzare
questi disegni – racconta – per
far capire alla gente il perché
abbiamo lasciato i nostri Paesi:
per raccontare quei momenti
in cui non ci sono giornalisti
e fotografi a descrivere quello
che succede”.
Ne sono nate delle istantanee
di quel viaggio iniziato alla fine
di febbraio del 2013 in Gambia,
il suo Paese natale. Uno
stato dell’Africa occidentale,
interamente circondato dal
Senegal, ad esclusione di un
piccolo accesso all’Oceano,
dove dal 1994 è presidente
Yahya Jammeh, salito al potere
al termine di un colpo di Stato.
Un sistema politico in cui il
Partito Progressista del Popolo
controlla tutti i posti chiave
dell’economica e della politica.
“Sono dovuto scappare a causa
di gravi problemi familiari
– racconta Samuel -. La mia
fidanzata era rimasta incinta
al di fuori del matrimonio e
questo non era accettato dalla
mia famiglia. In particolare mio
zio, imam della moschea locale
e uomo di spicco del partito al
potere, non poteva accettarlo.
Una questione che si è
aggravata quando ho espresso
il mio desiderio di convertirmi
e diventare cristiano. Quando
l’ho comunicato alla famiglia
ho avuto tutti contro e non
mi è rimasto altro da fare che
scappare”.
Arrivato in Senegal Samuel
inizia a fare dei piccoli lavori
approfittando della stagione
turistica. Realizza anche piccoli
oggetti d’arte da vendere.
Finita la stagione un amico
gli propone di partire verso
la Libia dove con la caduta
di Gheddafi e la guerra vi
sarebbero molte occasioni
di lavoro nel settore delle
costruzioni. “Siamo partiti –
continua Samuel – e il primo
tratto di viaggio, fino al Burkina
Faso, è stato semplice perché
avevamo i soldi per pagare
il trasporto. Quando i soldi
sono finiti è diventato tutto
più difficile perché l’unica
alternativa era quella di
“Una volta che si è partiti non
è possibile tornare indietro.
Semplicemente perché alle spalle
si lasciano gli stessi pericoli che si
incontrerebbero andando avanti
e, allora, tanto vale continuare
e sperare di arrivare”.
“Quando siamo arrivati
sulla spiaggia qualcuno
ha iniziato ad avere paura
e voleva tornare indietro.
Ma non era possibile.
Gli “arabi” volevano evitare
che tornando indietro
scoraggiassimo gli altri”.
Ci hanno caricato
il gommone sulle spalle
e ci hanno fatto camminare
fino al mare. Eravamo
in 115 su un gommone
di 12 metri”.
vendere la propria forza lavoro
ai trafficanti, per lo più “arabi”
(parola con cui si indicano
tutte le etnie di origine e lingua
araba del nord Africa e nel
Sahel, ndr). Così una tappa
alla volta abbiamo proseguito
attraverso il Mali verso Agadez,
in Niger, la porta del deserto”. Il
sistema é semplice: in cambio
del trasporto sui camion che
attraversano le aree desertiche
i migranti che non possono
pagare si impegnano a
lavorare, di fatto come schiavi,
per i trafficanti. “Ho passato
quattro mesi ad Agadez –
continua – facendo tanti piccoli
lavori: muratore, imbianchino,
manovale. Vivevamo stipati
in una grande casa da cui
potevamo uscire solo per
lavorare, ma in certe situazioni
è meglio essere schiavo che
rischiare di essere alla mercé
(continua a pag 17)
“Siamo stati in mare tre giorni e tre notti senza acqua né
cibo. Dopo il motore si è fermato. Eravamo in mezzo al mare
in balia delle onde. Siamo stati fortunati ad essere salvati.
Non è stato così per alcuni ragazzi che erano con me in Libia”.
Como Cronaca
Sabato, 11 luglio 2015 17
avventura attraverso una sequenza di illustrazioni da cui traspare la drammaticità
dell’esperienza vissuta e il sogno di un futuro diverso, lontano dalla violenza
speranza dal Gambia a Como
di chiunque potrebbe rapirti,
picchiarti e tentare di estorcere
del denaro”.
Così facendo, passati i quattro
mesi pattuiti con gli “arabi”,
Samuel lascia Agadez per
andare verso Bilma, ancora
in Niger, e poi Sabba in Libia.
In ciascuna di queste città
resta alcuni mesi: il tempo
necessario a ripagare, con il
suo lavoro, i trafficanti. Infine
l’arrivo a Tripoli dove resterà
per sette mesi. “Nella capitale
– spiega – non è possibile per
un migrante girare per la città.
Si finirebbe per essere arrestati
e picchiati. Vivevamo in un
grande compound controllato
dagli arabi da cui uscivamo
solo per lavorare. Per restare
nel compound, dove vivevo
in una stanza con altre venti
persone, dovevamo pagare
dieci dinari libici al mese. Non
è stato facile racimolare i soldi
necessari alla partenza (circa
800 dinari) perché spesso le
persone che ci davano lavoro
non ci pagavano o ci davano
semplicemente qualcosa da
mangiare”. Questo fino al 5
giugno 2014 quando, un anno
e tre mesi dopo la sua partenza
dal Gambia, Samuel e gli altri
migranti vengono trasferiti in
una casa verso la spiaggia. Da
qui il trasferimento in spiaggia
dove, gonfiato il gommone, si
imbarcano.
Arrivato in Italia, Samuel
viene trasferito a Como, dove
è accolto dalle Acli nella casa
albergo di via Domenico
Pino. È qui che, partecipando
alle attività promosse dalla
Caritas, entra in contatto
con quello che oggi è il suo
maestro, il pittore Vittorio
Mottin. “Ho incontrato Samuel
– racconta Mottin – quando
frequentava la scuola di
italiano a Rebbio e mi sono
accorto che aveva un talento
per il disegno. Gli abbiamo
proposto di partecipare
ad un corso di pittura
che l’associazione Maraja
organizza ad Albate e dopo
otto mesi di scuola iniziamo a
vedere i primi risultati”. Oltre
alla realizzazione dei disegni
che vedete in questa pagina
Samuel è stato coinvolto dal
pittore nella realizzazione
di tre grossi murales che, da
alcuni giorni, abbelliscono il
dormitorio della Caritas nei
locali del Centro pastorale
card. Ferrari. “Rendere belli
questi locali è certamente il
primo passo per una reale
accoglienza”, precisa il pittore.
Samuel intanto continua a
studiare e guarda al futuro.
“Purtroppo – conclude – non
so come andrà l’iter per la
richiesta di asilo politico.
La prima domanda è stata
respinta e ora attendo l’esito
del ricorso. La cosa certa è
che in Gambia non posso
tornare, anche se vorrei avere
notizie di mio figlio, ma forse
potrei stabilirmi in Senegal.
La cosa più importante è l’aver
scoperto questo talento e avere
la consapevolezza di potermi
guadagnare da vivere, ovunque
vada, con le mie mani”.
michele luppi
“La Caritas,
insieme all’Italia
e all’Europa
sono come una
Madonna che si
prende cura di noi,
indipendentemente
dalla provenienza:
ci aiuta dandoci
cibo, istruzione e
protezione”
nelle immagini che seguono alcuni
dei muralesi realizzati da samuel e
vittorio mottin presso il dormitorio
della caritas di via sirtori, a como