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LΑ voCє
dєL dєLfino
traduzione di Alessandra Orcese
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Mappa di Fred Van Deelen © 2012 Puffin Books
www.ragazzi.mondadori.it
© 2012 Michelle Paver
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Penguin Books Ltd
Titolo dell’opera originale Gods and Warriors
Prima edizione ottobre 2012
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-61666-5
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L’
asta della freccia era nera e impiumata di penne di
corvo, ma Hylas non riusciva a vederne la punta
perché gli affondava nel braccio.
Afferrandola perché smettesse di oscillare, si scapicollò giù per il pendio. Non c’era tempo per estrarla,
adesso. I guerrieri neri potevano essere ovunque.
Aveva una sete feroce, ed era così stanco che non
riusciva a pensare con lucidità. Il sole lo colpiva con
violenza e i cespugli di rovi non erano un buon nascondiglio; si sentiva tremendamente esposto. Ma ancora
di più lo tormentavano la preoccupazione per Issi e il
dolore incredulo per la perdita di Schizzo.
Individuò il sentiero che portava giù dalla montagna
e si fermò a riprendere fiato. Lo stridio delle cicale gli
rimbombava nelle orecchie. Il grido di un falco riecheggiò nella gola. Nessun rumore che facesse pensare a un
inseguimento. Era davvero riuscito a seminarli?
Ancora stentava a credere a quanto era accaduto. La
sera prima, lui e Issi si erano accampati in una grotta
sotto la vetta occidentale. E ora sua sorella era scom5
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parsa, il suo cane era morto e lui stava fuggendo per
mettersi in salvo: un ragazzo pelle e ossa, senza abiti né coltello; tutto ciò che possedeva si riduceva a un
sudicio, piccolo amuleto appeso a un laccio di cuoio
che portava intorno al collo.
Il braccio gli procurava un dolore tremendo. Sempre tenendo ferma l’asta della freccia, Hylas barcollò
fin sull’orlo del sentiero. Una cascata di sassolini precipitò con fragore nel fiume, così lontano sotto di lui
da fargli venire un attacco di vertigini. La gola era talmente scoscesa che le dita dei suoi piedi si trovavano
alla stessa altezza delle cime dei pini. Davanti a lui si
stagliavano in lontananza i monti della Lykonia, e alle
sue spalle incombeva il più possente di tutti: il monte
Lykas, con i suoi picchi splendenti di neve.
Pensò al villaggio che si trovava molto più in basso
nella gola, e al suo amico Telamon, nella roccaforte del
capoclan sull’altro lato della montagna. Possibile che i
guerrieri neri avessero bruciato il villaggio e attaccato
Lapithos? Ma allora, per quale ragione non riusciva a
vedere il fumo o a sentire i corni d’ariete che facevano
risuonare l’allarme? Perché il capoclan e i suoi uomini non rispondevano all’attacco?
Il dolore al braccio lo stava divorando. Non avrebbe potuto sopportarlo oltre. Raccolse una manciata di
timo, poi strappò la foglia grigia dalla peluria vellutata
di un verbasco gigante da usare come benda. Era spessa
e morbida come le orecchie di un cane. La sua espressione si incupì. “Non pensare a Schizzo.”
Erano insieme, subito prima dell’assalto. Schizzo si
era appoggiato a lui, il mantello ispido arruffato di lappole. Hylas ne aveva estratte dal pelo un paio, poi ave6
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va allontanato il muso del cane e gli aveva ordinato
di fare la guardia alle capre. Schizzo si era allontanato
tranquillo, dimenando la coda e voltandosi a guardarlo come a dirgli: So cosa fare. Sono un cane da pastore, è per questo che sono nato.
“Non pensare a lui” si disse Hylas con foga.
Stringendo i denti, afferrò la base dell’asta. Trattenne il respiro. Tirò.
Il dolore fu talmente atroce che per poco non perdette i sensi. Mordendosi le labbra, prese a dondolarsi avanti e indietro, lottando contro le ondate rosse di
nausea. “Dove sei, Schizzo? Perché non puoi venire a
darmi una leccatina per farmi sentire meglio?”
Con una smorfia, sbriciolò il timo e lo applicò sulla
ferita. Gli costò uno sforzo inaudito bendarsi il braccio con una mano sola, ma alla fine ci riuscì, legando
la fasciatura con un filo d’erba che aveva stretto tenendolo fra i denti.
La punta della freccia giaceva nella polvere dove
l’aveva lasciata cadere. Aveva la forma della foglia di
un pioppo, con una crudele punta rastremata. Non ne
aveva mai vista una simile. La gente delle montagne
fabbricava punte di freccia di selce o, nel caso dei più
ricchi, di bronzo. Ma quella era diversa. Era di lucida
ossidiana nera. Hylas la riconobbe soltanto perché la
vecchia saggia del villaggio ne possedeva un frammento. Diceva che era il sangue della Madre, vomitato dalle viscere ardenti della Terra e tramutato in pietra. E
che proveniva dalle isole al di là del mare.
Ma chi erano, i guerrieri neri? Perché gli stavano dando la caccia? Lui non aveva fatto nulla.
E avevano trovato Issi?
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Alle sue spalle, colombi selvatici esplosero nel cielo
in un turbinio di ali.
Hylas si voltò di scatto.
Dal punto in cui si trovava, il sentiero scendeva ripido, per poi sparire girando intorno a uno sperone roccioso. Dietro al contrafforte, si stava levando una nuvola di polvere rossa. Udì distintamente il rimbombo
di molti piedi e il tintinnare di frecce nelle faretre. Lo
stomaco gli si attorcigliò.
Erano tornati.
Corse oltre il bordo del sentiero, si aggrappò a un arbusto e vi rimase appeso come un pipistrello.
Il rimbombo dei passi si avvicinava.
Raspando con le dita dei piedi in cerca di un appiglio,
trovò una sporgenza. Si spostò di lato lungo la cengia,
sotto un aggetto della roccia. Aveva il viso schiacciato
contro la radice di un albero. Guardò in basso… e desiderò non averlo fatto. Tutto quel che gli riuscì di vedere fu una distesa di cime di alberi da capogiro.
I guerrieri si avvicinavano a passo pesante. Hylas captò lo scricchiolio del cuoio e il puzzo rancido di sudore, oltre a uno strano aroma amaro che gli era orribilmente familiare. Lo aveva sentito anche la sera prima:
la loro pelle era spalmata di cenere.
La sporgenza della roccia lo nascondeva alla vista,
ma alla sua sinistra il sentiero faceva una curva tonda e
si protendeva sopra la gola. Li udì passare di corsa. Poi
imboccarono la curva a gomito, e in una foschia di polvere color ruggine li vide: un incubo dalla rigida armatura di cuoio scuro, un folto di lance, pugnali e archi.
I lunghi mantelli neri fluttuavano dietro di loro come
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ali di corvo, e sotto l’elmo i volti erano grigi di cenere.
Un guerriero gridò, spaventosamente vicino.
Hylas smise di respirare. L’uomo si trovava esattamente sopra di lui.
Più in alto sul sentiero, gli altri curvarono e ripresero a scendere. Nella sua direzione.
Hylas udì il rotolare dei ciottoli, mentre uno di loro
tornava sui propri passi. Si muoveva senza fretta – immaginò fosse il capo – e la sua corazza emetteva uno
strano rumore metallico.
— Guardate — disse il primo guerriero. — Sangue.
Hylas si sentì gelare. “Sangue. Hai lasciato del sangue sul sentiero.”
Rimase in attesa.
Il capo dei guerrieri non replicò.
Questo parve preoccupare l’altro. — Probabilmente appartiene proprio al guardiano di capre — concluse frettolosamente. — Mi dispiace. Lo volevate vivo.
Ancora nessuna risposta.
Il sudore colava lungo i fianchi di Hylas. Sconvolto,
si ricordò della punta di freccia abbandonata nella polvere. Pregò che non la vedessero.
Allungando il collo, scorse la mano di un uomo aggrapparsi a un masso sul bordo del sentiero.
Era una mano robusta, e non sembrava nemmeno
viva. La pelle era ricoperta di cenere, le unghie tinte
di nero. La polsiera che ricopriva l’avambraccio aveva
lo stesso colore rosso scuro di un tramonto arrabbiato,
talmente intenso che faceva male a guardarlo. Hylas sapeva che cos’era, anche se non lo aveva mai visto così
da vicino. Bronzo.
La terra gli colava negli occhi. Quasi non osava bat9
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tere le palpebre. I due uomini erano così vicini che
riusciva a udirne il respiro.
— Sbarazzatene — disse il capo. La voce risuonò sepolcrale. A Hylas fece venire in mente luoghi gelidi
mai raggiunti dal sole.
Qualcosa di pesante venne scaraventato oltre il bordo del sentiero. Andò a schiantarsi contro una pianta
spinosa a un braccio da lui e rimase lì a tremolare, finché non si fermò del tutto. Quando Hylas capì di cosa
si trattava, per poco non vomitò.
Un tempo era stato un ragazzo, ma adesso era un
ammasso orribile di sangue nero e viscere azzurrine
spappolate come un nido di vermi. Lo conosceva: era
Skiros. Non un amico, ma un pastore di capre come
lui, di qualche anno più grande, e spietato nella lotta.
Il cadavere era troppo vicino; avrebbe quasi potuto
toccarlo. Avvertì la presenza dello spirito rabbioso che
si dibatteva per liberarsi. E se quello spirito lo avesse
trovato, se gli fosse scivolato dentro la gola…
— Questo è l’ultimo — disse il primo uomo.
— E la ragazza? — domandò il capo.
Hylas ebbe un tuffo al cuore.
— Che cosa ci importa di lei? È soltanto una…
— E l’altro ragazzo? Quello che è fuggito?
— L’ho colpito al braccio. Non andrà lontano…
— Allora questo non è l’ultimo — ribatté il capo con
freddezza. — Almeno finché quell’altro ragazzo è ancora vivo.
— No — ribadì il primo guerriero. Sembrava spaventato.
Una cascata di sassolini prese a rotolare mentre i due
cominciavano a risalire su per il sentiero.
Hylas pregò con tutte le sue forze che non si fermassero.
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All’altezza della curva, nel punto in cui il viottolo
si protendeva verso l’esterno, il capo si bloccò all’improvviso. Posò il piede su una roccia. Si sporse in avanti per dare un’altra occhiata.
Ciò che Hylas vide non sembrava un uomo, bensì un
mostro di oscurità e bronzo. Gambali bronzei ricoprivano gli stinchi possenti, e una corazza sempre di bronzo
rivestiva il corto gonnellino di grezza pelle nera. Il petto era di bronzo puntinato, sormontato da coprispalle
di bronzo spaventosamente enormi. L’uomo non aveva
volto: solo una fessura per gli occhi fra un alto coprigola
bronzeo, che nascondeva il naso e la bocca, e un elmo
pitturato di nero fatto di squame intagliate da zanne
di verro, con guanciali di bronzo e un cimiero di neri
crini di cavallo. Solo i capelli davano a vedere che fosse un essere umano. Gli scendevano fin sotto le spalle,
intrecciati in riccioli serpentiformi da guerriero, ogni
ciocca abbastanza folta da smussare una lama.
Hylas sapeva che il capo dei guerrieri avrebbe potuto
avvertire il suo sguardo, ma non riusciva a distogliere
gli occhi da lui. Scrutava la fessura nella testa ricoperta dall’armatura, ben sapendo che quegli occhi invisibili stavano setacciando i pendii per scovarlo.
Per un momento, la testa si girò a scandagliare il corso del fiume verso monte.
“Fa’ qualcosa” si disse Hylas. “Distrailo. Se si volta
indietro e ti vede…”
Puntandosi contro la cengia, lasciò andare silenziosamente l’arbusto e allungò la mano verso il cespuglio
di rovi a cui era rimasto appeso il corpo di Skiros. Lo
scosse. Il cadavere fu attraversato da un fremito, come
se non gradisse di essere toccato.
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La testa ricoperta di bronzo si stava voltando.
Allungandosi più che poteva, Hylas diede un altro
scossone: Skiros precipitò, rotolando e rimbalzando
giù per la gola.
— Guardate — disse ridendo uno dei guerrieri. — Sta
andando a farsi un giretto.
Uno scoppio di risa si levò dagli altri; a eccezione del
capo. La testa ricoperta dall’elmo rimase a guardare il
corpo del ragazzo schiantarsi sul fondo… poi si ritrasse.
Battendo le palpebre per rimuovere il sudore dagli
occhi, Hylas udì i passi allontanarsi, mentre risalivano il sentiero.
L’arbusto cominciava a cedere sotto il suo peso. Cercò di aggrapparsi alla radice di un albero.
La mancò.
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n po’ lasciandosi scivolare e un po’ precipitando
dal dirupo, Hylas raggiunse il fiume. Una pioggia
di sassi gli cadde in testa… sempre meglio delle frecce.
Era atterrato a faccia in giù in un cespuglio di ginestra, e si costrinse a rimanere immobile, sapendo che
un cacciatore era in grado di individuare un movimento più rapidamente di qualunque cosa. Si sentiva pieno
di graffi ed escoriazioni, ma non doveva esserci niente
di rotto, e aveva ancora l’amuleto.
Mosche gli ronzavano nelle orecchie e il sole gli bruciava la schiena. Alla fine alzò la testa e scrutò la gola.
I guerrieri neri se n’erano andati.
Skiros, invece, si era fermato a poca distanza da lì,
sul pendio. O, perlomeno, la maggior parte di lui. Le
sue interiora erano sparpagliate sulle rocce, come una
rete da pesca distesa ad asciugare. Gli avvoltoi stavano già volando in cerchio, e il cadavere aveva la testa
girata all’indietro, come stesse cercando di guardare
qualcosa.
Il suo spirito avrebbe avuto bisogno di aiuto per faci13
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litare la dipartita dal corpo, ma Hylas non poteva arrischiarsi a bruciarlo o a eseguire i rituali. — Mi dispiace,
Skiros — mormorò. — È una regola di sopravvivenza:
non aiutare qualcuno se lui non può aiutare te.
Salici e castagni incombevano sul fiume; era un sollievo stare al coperto. Barcollando nell’acqua bassa,
Hylas scivolò sulle ginocchia e bevve. Si spruzzò, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo e godendosi
la sensazione di fresco contro la carne infiammata ed
escoriata. Nell’acqua, colse un guizzo della propria immagine frammentata: gli occhi ridotti a due fessure, la
bocca tesa nello sforzo, i lunghi capelli che ricadevano sulle spalle.
Bere gli ridiede forza, e per la prima volta dal momento in cui erano stati attaccati si sentì capace di pensare. Gli servivano cibo, vestiti e un coltello. Ma più di
ogni altra cosa aveva bisogno di raggiungere il villaggio. Issi sapeva che quello era il posto più sicuro dove
andare, e anzi a quell’ora doveva già essere lì. “Per forza” si disse con veemenza.
La gola risuonò delle grida degli avvoltoi; Skiros era
sparito sotto un mucchio ondeggiante di colli sinuosi
e ali impolverate. Per impedire allo spirito di seguirlo,
Hylas raccolse in fretta e furia foglie di aglio orsino e le
scagliò dietro di sé; i fantasmi si nutrivano dell’odore
del cibo, più puzzava e meglio era. Poi cominciò a correre, seguendo il corso del fiume lungo la gola.
Aveva la sensazione che gli alberi e le rocce lo stessero guardando. Lo avrebbero tradito? Lui ci era cresciuto fra quelle montagne. Conosceva i loro sentieri
segreti e le abitudini delle creature selvatiche: il grido del falco, il lontano ruggito di un leone. Conosceva
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i burroni bruciati che era meglio evitare per via degli
Infuriati. Ma ora, ogni cosa era cambiata.
«Questo non è l’ultimo» aveva detto il guerriero
capo. Quindi sapeva che lui era ancora vivo. Ma l’ultimo di chi?
Sconvolto, Hylas si ricordò che Skiros non era solo
un pastore di capre. Era anche un Forestiero.
Anche lui era un Forestiero. E così pure Issi. Erano
nati fuori del villaggio; il capotribù Neleos li aveva trovati sulla montagna quando erano piccoli e aveva dato
loro un lavoro. In estate pascolavano le sue capre sui picchi e in inverno facevano la guardia al gregge nella gola.
Ma perché i guerrieri neri davano la caccia ai Forestieri? Non aveva senso. A nessuno importava dei Forestieri; erano gli infimi tra gli infimi.
Il sole avanzava verso ovest e le ombre si allargavano furtive sui fianchi della gola. Da qualche parte, in
lontananza, un cane abbaiava. Sembrava preoccupato.
Hylas desiderò che smettesse.
Giunse nei pressi di un piccolo tavolo in argilla a tre
gambe usato per le offerte al dio della montagna. Era
posizionato sotto un albero ed era ricoperto da una pelle di lepre ammuffita; la prese e se la legò intorno ai
fianchi. Una lucertola lo fissava ostile, e Hylas mormorò una preghiera, nel caso si trattasse di uno spirito camuffato.
Adesso non era più nudo, ma gli girava la testa per
la fame. L’estate era ancora troppo all’inizio per i fichi,
ma mentre correva raccolse alcune fragole rosicchiate
dai topi. Individuò un cespuglio di rovi in cui un’averla conservava il proprio cibo: sulle spine aveva infilzato tre cicale e un passero. Chiedendo rapidamente scu15
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sa all’uccello, Hylas trangugiò il tutto, sputando fuori
le piume e i pezzi del guscio delle cicale.
Cominciò a oltrepassare ulivi e chiazze di terreno
pianeggiante ritagliato fra i pendii. L’orzo era pronto per il raccolto, ma non c’era nessuno a occuparsene. Dovevano essersi tutti rifugiati nel villaggio… A
meno che i guerrieri neri non lo avessero incendiato e
raso al suolo.
Ma per fortuna il villaggio era ancora in piedi, sebbene immobile e silenzioso in modo inquietante. Come
pecore impaurite, le capanne in mattoni di argilla si
accalcavano dietro la barricata di rovi. Hylas avvertì l’odore di fumo, ma non udì voci. Fuori avrebbero
dovuto esserci asini e maiali che fiutavano in cerca di
avanzi. Niente. E i cancelli dello spirito erano chiusi.
Erano stati spalmati di ocra rossa, e l’Antenato sbirciava dalle ossa di toro selvatico legate alla trave trasversale. Si era impadronito del corpo di una gazza, ma
era un Antenato a tutti gli effetti; anche se non uno
dei suoi.
Hylas sparse l’orzo che aveva raccolto lungo la strada, ma l’Antenato ignorò la sua offerta. Sapeva che lui
non gli apparteneva. I cancelli dello spirito erano lì per
proteggere il villaggio e tenerne fuori i Forestieri.
Scricchiolando, i cancelli si aprirono di una fessura, e volti fuligginosi sbirciarono all’esterno. Hylas conosceva gli abitanti del villaggio da tutta la vita, ma
adesso lo stavano fissando come se fosse un estraneo.
Qualcuno teneva in mano torce crepitanti di gambi di
finocchiaccio; tutti impugnavano asce, falcetti e lance.
Abbaiando furiosi, i cani si precipitarono fuori e gli
si avventarono contro. Il capobranco era un cane da
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pastore di nome Freccia, grosso come un verro e addestrato a squarciare la gola di un uomo a comando. Si
fermò col pelo irto davanti a Hylas e tenne gli occhi
fissi su di lui, la testa minacciosamente bassa. Sapeva
che al ragazzo non era consentito entrare nel villaggio.
Hylas rimase immobile. Se avesse fatto un passo indietro, Freccia lo avrebbe attaccato. — Lasciatemi entrare! — gridò.
— Che cosa vuoi? — disse rabbioso Neleos, il capotribù. — Dovresti essere sulla montagna, a badare alle
mie capre!
— Lasciatemi entrare! Voglio mia sorella.
— Non c’è. Perché pensi che dovrebbe essere qui?
Hylas batté le palpebre. — Ma… allora dov’è?
— Morta, per quel che me ne può importare.
— Stai mentendo — disse Hylas. Ma si sentì travolgere dal panico.
— Avete abbandonato le mie capre! — ruggì Neleos.
— Lei non avrebbe osato tornare qui senza di loro…
E nemmeno tu avresti dovuto, a meno che non voglia
che ti faccia la pelle rossa!
— Arriverà presto. Lasciatemi entrare, mi stanno
inseguendo!
Neleos strinse gli occhi e si grattò la barba con una
mano callosa. Aveva gambe storte da contadino e le
spalle curvate dal peso del giogo, ma era più astuto di
una donnola, sempre intento a trovare il sistema per ottenere il maggiore profitto. Hylas sapeva che era combattuto fra l’urgenza di punirlo per aver abbandonato
le capre e il desiderio di tenerlo in vita, in modo che
potesse ancora lavorare per lui.
— Hanno ucciso Skiros — disse. — E uccideran17
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no anche me. Dovete infrangere le regole e lasciarmi entrare!
— Mandalo via, Neleos! — strillò una donna. — Non
ha portato altro che guai dal giorno in cui l’hai trovato.
— Aizzagli contro i cani! — gridò un’altra. — Se lo
trovano qui, saremo tutti in pericolo.
— Ha ragione lei, aizzagli contro i cani! Deve aver
combinato qualcosa, altrimenti quelli non lo starebbero inseguendo.
— Ma chi sono, quelli? — gridò Hylas. — Perché
stanno cercando i Forestieri?
— Non lo so e non mi interessa — rispose Neleos;
ma a Hylas non sfuggì il terrore che aveva negli occhi.
— Tutto quel che so è che arrivano da un qualche luogo
là fuori a est, e che danno la caccia ai Forestieri. Be’,
che lo facciano pure! Possono fare quel che vogliono,
purché lascino in pace noi!
Grida di approvazione si levarono dagli abitanti del
villaggio.
Hylas si leccò le labbra. — E il diritto d’asilo? Se qualcuno si trova in pericolo, voi dovete lasciarlo entrare!
Per un attimo Neleos esitò. Poi la sua espressione si
indurì. — Questo non vale per i Forestieri — sbottò. —
E ora vattene, o ti aizzerò contro i cani.
Presto avrebbe fatto buio, e non aveva nessun posto
dove andare.
“Bene” si infuriò Hylas “se non mi aiuterete voi,
vuol dire che mi aiuterò da solo.”
Ripercorrendo il sentiero fra i pini, si portò sul retro
del villaggio. Era deserto: tutti si trovavano ancora ai
cancelli dello spirito.
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Se pensavano che non avrebbe mai messo piede nel
villaggio, si sbagliavano di grosso. Quando eri un Forestiero, per sopravvivere eri costretto a rubare.
Si infilò in un’apertura fra i rovi e si accostò furtivo
alla capanna più vicina, che apparteneva a una vedova
avanti negli anni di nome Tyro. Sul fuoco era stata appena messa nuova legna, e muovendosi nell’oscurità rossastra annebbiata dal fumo Hylas rovesciò un piattino con
del latte posato lì per il serpente di casa. Su un giaciglio
in un angolo, un mucchietto di stracci emise un gemito.
Il ragazzo si immobilizzò. Silenzioso, afferrò una coscia di maiale affumicato da un gancio.
Tyro cambiò posizione e continuò a russare.
Hylas prese una tunica appesa alle travicelle ma lasciò lì i sandali, perché in estate se ne andava sempre
in giro a piedi scalzi. Altro grugnito da parte di Tyro.
Poi fuggì, rimettendo al suo posto la ciotola del serpente mentre passava: i serpenti si parlavano fra loro, e se
ne irritavi uno, li irritavi tutti.
La capanna vicina apparteneva a Neleos, ed era vuota.
Hylas afferrò una borraccia di pelle per l’acqua, una corda di cuoio grezzo da usare come cintura, un sacco di
erba secca intrecciata in cui cacciò un rotolo di salsiccia al sangue, del formaggio di latte di pecora, una pagnotta schiacciata e qualche manciata di olive. Bevve
anche un po’ di vino dall’orcio del vecchio, poi buttò
della cenere in quello che era rimasto, per ripagarlo di
tutte le percosse di quegli anni.
Voci si avvicinavano; i cancelli dello spirito si richiusero scricchiolando. Hylas sgattaiolò fuori per la
stessa strada da cui era venuto… e si rese conto troppo
tardi di non aver rubato anche un coltello.
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La luna si era alzata e i grilli stavano cominciando a
cantare quando raggiunse il boschetto di mandorli al
di là del villaggio. In fretta e furia si infilò la tunica e
si legò la corda intorno alla vita.
Qualche ape tardiva ronzava fra gli alveari, e Hylas
notò in mezzo all’erba un piccolo tavolo per le offerte.
Sperando che fosse rimasto lì abbastanza a lungo perché qualsiasi creatura inviata dagli dei avesse mangiato
a sazietà, ingollò due tortine al miele e una focaccina
di ceci farcita con una deliziosa purea di lenticchie, pesce essiccato e formaggio sbriciolato. Lasciò qualcosa
per le api e le supplicò di vegliare su Issi. Gli insetti gli
ronzarono una risposta; ma non sarebbe stato in grado
di dire se fosse un sì o un no.
Gli venne in mente che forse Issi avrebbe potuto non essere diretta al villaggio, o che avrebbe potuto mangiarla lei, quella focaccina. Doveva aspettarla
lì, oppure trovare la strada per Lapithos e sperare che
arrivasse laggiù in cerca di Telamon? Ma Lapithos si
trovava da qualche parte sull’altro lato della montagna, e né lui né Issi ci erano mai stati. Tutto quel che
sapevano di quel luogo lo dovevano alle vaghe descrizioni di Telamon.
Da qualche parte in lontananza, il cane che aveva
udito prima stava ancora abbaiando. Sembrava sconsolato, come se non sperasse più che qualcuno potesse udirlo. Hylas avrebbe voluto non sentirlo. Gli ricordava Schizzo.
E lui non voleva pensarci, a Schizzo. C’era un muro
nella sua mente, e dietro quel muro c’erano cose brutte che attendevano di essere ricordate.
Fra le montagne il calore si dileguava in fretta, una
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volta che il sole era sceso, e nonostante la tunica di lana
grezza Hylas rabbrividì. Era esausto. Decise di allontanarsi dal villaggio e cercare un posto dove dormire.
Non aveva fatto molta strada, quando si rese conto
che il cane aveva smesso di abbaiare. Adesso emetteva lunghi ululati indignati.
Divennero tutt’a un tratto più forti quando Hylas
svoltò dietro una curva.
Il cane non era grande come Schizzo, ma aveva lo
stesso pelo ispido. Il padrone lo aveva legato a un albero fuori dal suo rifugio di rami di pino e gli aveva lasciato una ciotola con dell’acqua, che l’animale aveva
completamente prosciugato. Era giovane e spaventato, e quando vide il ragazzo si scatenò, alzandosi sulle
zampe posteriori all’estremità della corda e agitando
quelle anteriori in un tripudio di benvenuto.
Hylas ebbe la sensazione che una mano gli fosse penetrata nel petto e gli avesse stritolato il cuore. Un’immagine gli balenò davanti agli occhi: Schizzo a terra,
morto, con una freccia nel fianco.
Il cane gli abbaiò contro e dimenò il didietro.
— Zitto! — gli intimò lui.
E quello inclinò la testa di lato e guaì.
Svelto, Hylas aprì la borraccia e rovesciò un po’
d’acqua nella ciotola, poi gli lanciò la salsiccia. L’animale bevve avidamente e ingurgitò il cibo, dopodiché gli saltò addosso e gli leccò la guancia. Hylas si
sentì sopraffare dal dolore. Seppellì il viso nella pelliccia, inalandone il tiepido odore. Poi, con un grido, lo cacciò lontano e si portò barcollando a distanza di sicurezza.
Il cane scodinzolava ed emetteva imploranti guaiti.
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— Non posso slegarti — gli spiegò Hylas. — Mi seguiresti e loro mi troverebbero!
Il cane lo fissava con aria supplichevole.
— Starai bene — lo rassicurò. — Chiunque ti abbia
legato ci tiene abbastanza a te da averti lasciato dell’acqua; tornerà presto, vedrai.
No, non poteva portarlo con sé, non con i guerrieri
neri alle calcagna. I cani non capivano quando bisognava nascondersi. E non si poteva dire a un cane di non
rivelare la tua presenza.
E se invece lo avessero ucciso, proprio come avevano ucciso Schizzo?
Prima di avere il tempo di cambiare idea, Hylas afferrò la ciotola dell’acqua, slegò il cane e se lo tirò dietro.
Quando furono in vista del villaggio, lo legò a un albero, gli riempì la ciotola e controllò che la corda intorno al collo non fosse troppo stretta.
— Andrà tutto bene — disse. — Vedrai che prima o
poi qualcuno arriverà.
Lasciò il cane accovacciato, che guaiva piano mentre lo guardava allontanarsi. Quando si voltò, l’animale balzò in piedi e se ne uscì con un uu-uu speranzoso.
Hylas strinse i denti e corse via nella notte.
Le nuvole nascondevano la luna, e Hylas non sapeva
più dove si trovava. La borraccia e il sacco con il cibo
gli pesavano. Alla fine vide una capanna di pietre costruita sul lato di una collina boscosa. Dal silenzio che
vi regnava e dallo stato di abbandono, si capiva che era
disabitata da un pezzo.
Dovette chinarsi per passare dalla porticina bassa,
calpestando cocci di vasellame che gli scricchiolarono
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sotto i piedi mentre inalava l’umido respiro della terra. Faceva freddo, e c’era una puzza nauseabonda come
se qualcosa si fosse infilato lì dentro a morire… Ma era
pur sempre un riparo.
Hylas si rannicchiò nel buio con la schiena contro la
parete. Si sentiva addosso l’odore del cane. Pensò all’ultima volta in cui era stato con Schizzo. Gli aveva allontanato il muso… ma gli aveva accarezzato le orecchie o lo aveva grattato sotto la zampa davanti come
piaceva a lui?
Non riusciva a credere che non lo avrebbe più rivisto. Mai più avrebbe sentito su di sé il suo corpo grosso, caldo e peloso. Niente più solletico dei suoi baffi
sotto il mento a svegliarlo il mattino.
Tolse il tappo alla borraccia e bevve un sorso. Aprì
il sacco con il cibo e frugò dentro in cerca delle olive.
Ma gli tremarono le mani e le olive caddero a terra. Tastò il terreno. Non riuscì a trovarle.
Il muro dentro alla sua mente si ruppe. E allora fu
investito dall’ondata dei ricordi.
Lui e Issi si erano accampati in una grotta sul picco
occidentale. Issi si era allontanata in cerca di radici di
asfodelo, mentre lui aveva scuoiato uno scoiattolo e lo
aveva messo ad arrostire sul fuoco.
— Vado al torrente a rinfrescarmi — aveva detto poi
alla sorellina. — Non far bruciare lo scoiattolo.
— E quando mai l’ho fatto? — gli aveva gridato lei
di rimando, offesa.
— L’altro ieri.
— Non è vero!
Ignorandola, Hylas si era incamminato giù per il
sentiero.
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— Non era bruciato! — gli aveva strillato dietro Issi.
Una volta al torrente, lui aveva posato coltello e fionda su una roccia, si era sfilato la tunica dalla testa e si
era immerso in acqua. Il grido di un falco era riecheggiato dalla vetta: ii-ii-ii. Si era domandato se non fosse un presagio.
Tutt’a un tratto Schizzo aveva iniziato ad abbaiare furiosamente: Torna qui subito! Problemi brutti!
Vieni, svelto!
Poi aveva sentito l’urlo di Issi.
Non si era nemmeno infilato la tunica. Afferrato il
coltello, era corso su per il sentiero. Orso? Lupo? Leone?
Doveva essere un grave pericolo, per averle fatto lanciare un grido così.
Avvicinandosi al luogo in cui si erano accampati,
aveva udito voci di uomini, basse e profonde, e aveva sentito uno strano odore amarognolo di cenere. Acquattandosi dietro un cespuglio di ginepro, aveva sbirciato attraverso i rami.
Aveva visto quattro capre distese a terra e fatte a pezzi; le altre erano fuggite. Aveva individuato dei guerrieri che frugavano in cerca di qualcosa. Aveva visto
Schizzo. Nel tempo di un battito di cuore, aveva notato il pelo ispido arruffato di lappole e le grandi zampe
ossute. E la freccia che gli sporgeva dal fianco.
Poi aveva intravisto di sfuggita Issi che si nascondeva nella grotta, il visino affilato bianco per la paura.
Doveva fare qualcosa, altrimenti l’avrebbero trovata.
La fionda era rimasta giù al torrente. Tutto quel che
possedeva era il coltello di selce, ma a cosa avrebbe potuto servirgli? Un ragazzo di dodici estati contro sette
uomini armati di tutto punto.
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Uscendo allo scoperto, aveva gridato: — Quaggiù!
Sette volti grigi di cenere si erano voltati verso di lui.
Schizzando a zigzag fra gli alberi, li aveva portati lontano da sua sorella. Non poteva arrischiarsi a gridare
qualcosa anche a lei, ma Issi era intelligente; avrebbe
capito che quella era la sua unica occasione e sarebbe
uscita dalla grotta.
Fischi di frecce. Una gli si era conficcata nel braccio. Con un grido, aveva lasciato cadere il coltello…
Rannicchiato nella capanna, Hylas si abbracciò le ginocchia e prese a dondolarsi avanti e indietro. Avrebbe
voluto sfogare la propria furia, gridare e ululare. Perché
i guerrieri neri avevano attaccato? Che cosa gli avevano mai fatto lui, Issi e Schizzo?
Sentì pungere gli occhi. Un nodo gli salì in gola. Lo
ricacciò giù con rabbia. Piangere non gli avrebbe restituito il suo cane. E non lo avrebbe aiutato a ritrovare
sua sorella.
— Non piangerò — disse a voce alta. — Non permetterò loro di farmi questo.
Digrignando i denti, sfregò il pugno contro il muro
per trattenere le lacrime.
A svegliarlo fu il chiarore della luna che filtrava attraverso la soglia, e per un momento Hylas non seppe
dove si trovava. Sdraiato sul fianco, lottò contro il panico. Poi gli tornò in mente tutto, e fu anche peggio.
“Non appena albeggerà” si disse “sarai in marcia verso Lapithos per andare a cercare Telamon. Issi dev’essere con lui. Se così non fosse, la troverai. È forte e
conosce le montagne, è in grado di sopravvivere sino
ad allora.”
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Chiuse la mente alla possibilità che la sua sorellina fosse morta.
Quando gli occhi si abituarono alla penombra, vicino alla soglia notò qualcosa che somigliava a un braciere di argilla, su cui era posato un mucchietto di ossa
bruciacchiate. Di fianco al braciere erano abbandonati un coltello di selce rotto e una fila di frecce, ognuna
spezzata in due di netto.
Con una fitta di paura, Hylas si mise a sedere. Poteva
esserci un’unica ragione per una fila di frecce spezzate.
L’uomo morto giaceva con la schiena addossata alla
parete di fronte a lui. Aveva il volto coperto con un
telo, ma dalla tunica incolore e dai piedi callosi Hylas
dedusse che era un contadino.
La sua famiglia doveva essere stata combattuta fra il
terrore dei guerrieri neri e la necessità di placare lo spirito arrabbiato del proprio congiunto; ma non gli avevano negato i riti funebri. Lo avevano adagiato su una
stuoia rossa con la sua falce e la lancia, dopo aver distrutto entrambe le armi spezzandole in due, così che
lo spirito potesse utilizzarle. Per lo stesso motivo avevano calpestato la sua tazza e la sua ciotola e strangolato il suo cane, sdraiato poco lontano da lui, pronto a
camminare dietro al padrone anche nell’aldilà. E doveva essersi trattato di un contadino abbiente, perché
nell’angolo più lontano era raggomitolato anche uno
schiavo morto. Come il cane, pure quest’ultimo era stato ucciso per poter continuare a servire il suo padrone.
“Una tomba” pensò Hylas. “Ti sei rifugiato in una
tomba.”
Non riusciva a credere di non averne notato i segni.
Era per questo che gli abitanti del villaggio avevano
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posto quelle offerte vicino agli alveari: perché le api
potessero partecipare al banchetto funebre. Ed era per
questo che la tomba era stata lasciata aperta: per permettere allo spirito di uscirne.
Lui aveva infranto tutte le regole. Non si era avvicinato da ovest con il pugno sulla fronte, né aveva chiesto
agli Antenati il permesso di entrare.
Non osando quasi respirare, allungò la mano per
prendere le proprie cose.
Nell’angolo, lo schiavo morto spalancò gli occhi e
lo fissò.
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