Una vita spericolata

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Una vita spericolata
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Una vita spericolata
La Laverda Jota 1000 rosso brillante faceva proprio una bella figura nel parcheggio: “Sembra una chioccia tra i pulcini” si disse
Fred, ammirando la sua moto d’epoca circondata da tanti anonimi mezzi a due ruote.
In effetti, anche se era un modello del 1976, non sembrava una vecchia signora: quando era stata immatricolata i genitori di
Fred andavano ancora alle medie, ma così ben tenuta, perfettamente a punto e cromata in tutti i particolari, sembrava nuova
di trinca.
“Si vede però che è diversa dalle moto di oggi - pensò Fred, agganciando il casco al lucchetto - ha classe da vendere”.
Certo non pesava poco e mettere il cavalletto era un’impresa, ma al suo proprietario non difettavano i muscoli. Muscoli veri, ci
teneva a precisare Fred, fatti trasportando mobili ed elettrodomestici, non in palestra con i pesi e ingozzando di nascosto
anabolizzanti.
Lui non si vergognava, come tanti, di dire che lavorava con le mani, ma non era un semplice operaio: da ragazzo, aiutando lo
zio falegname, aveva imparato a montare mobili e, in occasione del suo ventunesimo compleanno, il padre gli aveva regalato
un furgone usato. Così, da quattro anni, faceva il padroncino e tutto il giorno girava per la città consegnando colli per conto di
negozi e supermercati. Guadagnava bene, soprattutto grazie ai compensi extra che riceveva per il montaggio dei mobili:
quando si trattava di viti ed incastri nessuno lo batteva, era preciso, pulito, veloce e la sua opera suscitava sempre giudizi
favorevoli.
Certo si era scelto un mestiere faticoso, ma almeno non aveva superiori o orari da rispettare: quello era il genere di vita che
sognava fin da adolescente, si sentiva uno spirito libero e voleva essere in tutto e per tutto autonomo, nella vita come nel
lavoro.
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Per accontentare i clienti che, durante la settimana, sgobbavano per pagare le rate della cameretta o del frigorifero, accettava
volentieri di consegnare anche la sera dopocena e nei festivi. Poi però spariva per un giorno o due, andava in vacanza, oppure
dormiva fino a mezzogiorno: se aveva la “ragazza” si chiudeva nel suo monolocale per un “tour de force” dell’amore. Grazie a
Dio non doveva rendere conto di sé a nessuno e non aveva bisogno del permesso del padrone, dei familiari o della fidanzata
per decidere cosa fare della sua vita.
Provava pena per certi compagni del calcetto, sposati e con figli, ed anche per gli amici più giovani con fidanzata al seguito,
peggio di una moglie: gli sembravano già vecchi, uomini finiti pronti per la pensione. Di rado le loro donne tolleravano il
possesso di una due ruote che non fosse un domestico “vespone”. La moto è pericolosa, piagnucolavano, spaventate all’idea
che un incidente le privasse del galletto che avevano appena messo in pentola.
Per un breve periodo aveva frequentato un gruppo di appassionati di moto d’epoca, tutti scapoli e di una certa età, ma
quando girava in compagnia di quell’accolita di “easy riders” da commenda, codini imbiancati dall’età e schiene curvate
dall’artrosi, si sentiva ridicolo: i motori erano rombanti, i centauri rimbambiti.
Così, ultimamente, usava la Laverda solo per brevi spostamenti in città o, d’estate, per rapide incursioni al mare. La sua Jota
faceva anche 200 km all’ora e, a quella velocità, la costa non era lontana: un bagno e si tornava a casa in mezzo pomeriggio.
Naturalmente la moto rosso fuoco era anche il suo mezzo preferito per andare in discoteca. Casco nero, maglietta senza
maniche con tatuaggio in bella vista, praticato però sulla parte alta del braccio per essere facilmente occultato in caso di
necessità, quando arrivava nel parcheggio di un locale non passava mai inosservato.
Aveva un grande successo con le ragazze “no problem”, quelle che guardano l’uomo da capo a piedi prima di dire sì, ma poi
non vogliono essere chiamate fidanzate e sembrano sempre contente. Le “occhialute”, così Fred, chiamava le femmine più
esigenti, studentesse universitarie o impiegate, invece lo snobbavano: “mi evitano perché fiutano l’uomo che ama la libertà si diceva Fred - capiscono che non sono il tipo che si fa mettere il guinzaglio. Almeno non prima dei quaranta.” E quaranta
anni per Fred equivalevano all’anticamera delle pompe funebri. A quel punto poteva anche farsi una famiglia.
Tutto sommato si considerava fortunato: era un ragazzo sano, allegro e fornito di contante che si godeva la vita mantenendo
però il giusto equilibrio tra lavoro e divertimento, senza fare male a nessuno. E poi non aveva vizi particolari, beveva il giusto
e non si lasciava attrarre dalle droghe o dalle amicizie pericolose.
Quel giorno però Fred non aveva parcheggiato la sua Laverda vicino ad una discoteca o davanti alla spiaggia: l’edificio lì
accanto era l’ospedale.
Doveva fare un controllo, un esame del sangue, niente di particolare: la cosa veramente preoccupante, si disse, era lasciare la
Jota in un posto così malfamato, pieno di ladruncoli e teppisti, deficienti con la mania di rigare le carrozzerie e bucare le
gomme. Per sicurezza tolse un pezzo del motore e lo chiuse nel portaoggetti. Si allontanò augurandosi di ritrovare la sua
amata moto così come l’aveva, a malincuore, lasciata.
Si diresse verso il centro prelievi: sapeva dove si trovava perché, qualche mese prima, aveva fatto due o tre consegne,
scrivanie, armadietti e scaffali comprati in occasione di una ristrutturazione, ma non era mai stato quello che si dice un
“utente” del servizio.
L’ultima volta che si era tolto il sangue aveva forse tredici anni ed era accompagnato dalla mamma: il padre aspettava in
auto. Di quell’episodio infantile ricordava soprattutto la gioia provata per avere saltato un giorno di scuola. Non ricordava
neppure il motivo dell’esame, forse una tonsillite ricorrente.
In effetti godeva di una salute più che buona, non prendeva mai neppure l’influenza, ed aveva deciso di farsi un controllo solo
per scrupolo. Un dubbio, da un po’, lo tormentava…
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Qualche giorno prima aveva incontrato per caso Marcello, un ragazzo simpatico con cui si vedeva, di tanto in tanto, in
discoteca o al mare. L’amico non era l’allegrone spensierato di sempre, sembrava abbattuto, addirittura in lacrime, e Fred,
curioso di scoprire la causa del cambiamento, aveva deciso di fermarsi per scambiare quattro chiacchiere.
“Ormai la depressione è un’epidemia - pensò, osservando l’occhio spento di Marcello - persino quelli che vanno in discoteca,
se non si sbronzano, hanno la faccia da funerale”.
Ma il giovanotto non era depresso, aveva paura: “Sai, ti devo dire una cosa, se non la dico a qualcuno scoppio - borbottò dopo
i soliti convenevoli - Ti ricordi Mari, la ragazza con cui stavo questa primavera?”
Fred non aveva idea di chi fosse, all’epoca, la donna dell’amico, ma disse la cosa più ovvia che gli venne in mente “E’
incinta?”. Tanti finiscono fregati così, pensò, e poi spingono il carrozzino con l’aria più felice del mondo e magari il pupo
dentro non è neppure loro.
“Macché!” replicò irritato Marcello, come se Fred avesse detto una sciocchezza.
“E allora?”
“Beh, Mari ha detto che non stava bene ed era meglio se anch’io mi facevo controllare, sai - aggiunse a bassa voce - è
positiva”.
“Roba da matti! E te lo dice pure!?”
“Poverina, anche a lei l’ha rifilata qualcuno. Invece ha fatto bene ad avvertirmi, è una brava ragazza. Queste cose si curano,
se prese in tempo, però fanno davvero paura. Quando te lo comunicano ti senti impazzire. Roba da farsi frate”
“Già, ma la vita è tutta un rischio - replicò Fred - con la mia Laverda io corro anche a 200 all’ora e taglio le curve, se va bene,
bene, se no, addio! Ti immagini che divertimento se, per prudenza, viaggiassi sempre a 50? E poi bisogna essere fatalisti, la
vita senza rischio non ha gusto. Magari alla vecchina di cento anni che va a messa casca in testa un mattone ed uno che si
butta dal quinto piano non si fa un graffio! Pensa a quelli che bevono, che fumano, che si drogano a tutto spiano! Tanto si
muore solo quando arriva la nostra ora: guarda Mike Jagger, ancora saltella sul palcoscenico e ha l’età di mio nonno Francesco
che a fatica cammina con il bastone. Lui non aveva vizi, ma si è beccato un ictus. Possiamo vivere o morire, ma non vivere a
metà: ci vuole coraggio, solo i conigli sono felici nella tana”.
“Già, si fa presto a dire fatti coraggio! Sai, questa malattia magari non ti ammazza, però ti cambia comunque la vita: sei
sempre sotto cura, fai di continuo esami e poi gli altri ti trattano come fossi radioattivo. E tu stesso hai paura di contagiare le
persone care, i genitori, la sorella, i nipotini, la fidanzata, gli amici”
Fred cercava di dare una faccia all’ex ragazza di Marcello, ma il nome Mari gli suonava del tutto ignoto.
“Mari era la biondina che lavorava al Mac?” chiese per cercare un appiglio nella memoria.
“No, ma che bionda: è mora, con i capelli a caschetto, non ti ricordi? La ragazza che lavorava all’asilo! Pensa che l’hanno
spostata alla Nettezza Urbana, povera Mariella”.
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Fred all’improvviso si ricordò di Mariella, la moretta impiegata al Comune. Erano usciti insieme tre o quattro volte, all’inizio
dell’estate, ma non l’aveva mai sentita chiamare Mari e non sapeva che fosse la donna di Marcello. Non disse nulla, magari in
quel periodo i due si frequentavano ancora e cornuto, oltre che malato, era davvero un po’ troppo. Si salutarono cordialmente
e Fred strinse la mano dell’amico con calore, per fargli capire che lui non aveva paura del contagio.
Nei giorni successivi Fred cercò di non pensare a Marcello e Mariella. Era un fatalista, un giocatore, e non aveva la sensazione
di essere già al capolinea: fino ad allora tutto era andato per il verso giusto, perché mai la ruota doveva invertire il suo corso?
alla fine però decise di chiedere un parere al medico di famiglia.
Il dottore non lo vedeva da anni, comprese a pieno la situazione e prescrisse, oltre al test richiesto, una serie completa di
esami. Fred però non volle andare nel reparto di Malattie Infettive, gli sembrava di cattivo auspicio, quasi una morte
annunciata, così decise di recarsi nel nuovo centro di prelievo unico, il CPU.
Questo era il motivo per cui, quella mattina, si trovava all’ospedale. Entrò con passo tranquillo nella sala d’attesa, si registrò,
prese il numero di prenotazione e attese il suo turno, seduto in un angolo della sala. Per passare il tempo si mise a pensare
alle consegne che doveva effettuare nel pomeriggio, alla prossima vacanza, al televisore che aveva portato il giorno prima a
casa di un notaio, un cinema! “Magari per Natale me ne compro uno uguale, o più grande!”.
Dopo un po’ decise di mettersi a distanza di sicurezza da un giovane extracomunitario che tossiva con un po’ troppo impegno
e, alzandosi, gettò uno sguardo nella sala per scegliere un nuovo posto: notò un gran numero di donne gravide, qualche
signora di mezza età e poi tanti, troppi vecchietti agitati, impazienti di vedere comparire sul tabellone il loro numero. Avevano
una fretta del diavolo, ma di andare dove, alle otto di mattina? Al massimo al cesso, se soffrivano di prostata o al “cipressino”,
a fare terra da concime. Eppure lì c’era gente che davvero non aveva tempo da perdere, persone che dovevano andare a
lavorare e magari, come nel suo caso, se non lavoravano non mangiavano perché sul loro conto, a fine mese, non veniva
accreditata una pensione e neppure uno stipendio statale. Non era giusto fare la fila per lasciare posto a chi non aveva nulla
da fare tutto il giorno se non sputare per terra o guardarsi la pancia che cresceva.
Fred cominciò a pensare che, per lui, ogni minuto trascorso lì dentro equivaleva ad un guadagno mancato, senza contare che,
nel parcheggio incustodito, la sua amata Laverda era esposta al rischio di essere danneggiata o addirittura rubata: decise
quindi di andarsene. In fondo chi se ne fregava dei risultati: rosso si vive, nero si muore, l’importante è non entrare nel
meccanismo della malattia, diventando un invalido da compatire, e soffrire come un cane per poi arrivare ad un traguardo che
è uguale per tutti, il cimitero.
“Se sono sano - si disse - che ci faccio in questa sala di attesa con le gravide e gli arteriosclerotici? Se sono positivo niente
problemi: mi schianto con la moto a duecento all’ora contro un muro e tanti saluti”. L’idea di avere comunque un’uscita di
sicurezza da quella ipotetica situazione penosa lo rassicurò.
Mentre stava quasi per andarsene, sul tabellone comparve il suo numero associato al “12”. Cambiò repentinamente idea ed
entrò con decisione nel corridoio degli ambulatori.
Attraverso le porte aperte poteva sbirciare nelle stanze: erano cubicoli tutti uguali, privi di finestra e con una poltrona
reclinabile, simile a quella del dentista. Trovò quasi subito lo stabbiolo numero 12. L’infermiera era carina, ma un po’ in carne.
Portava un camice corto e pantaloni involontariamente aderenti.
Si dissero buongiorno e la ragazza lo invitò ad accomodarsi nella poltrona, poi si girò per armeggiare con provette ed adesivi.
Sedere grosso, notò Fred, ma il bianco, si sa, non snellisce ed il neon è spietato.
La ragazza diede un’occhiata alla richiesta e prese da una scatola dei grossi occhiali, quindi indossò guanti spessi e si voltò:
Fred, senza quasi pensare a ciò che diceva, esclamò con tono ironico “Hi, Lady Death” . L’infermiera rimase interdetta, ogni
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tanto capitava qualche paziente con problemi mentali, ma quel ragazzo, a prima vista, gli era sembrato normale. Fred si
accorse di avere esagerato con la sua sbruffonata e cercò di giustificarsi:
“Sa, con tutta questa luce al neon e quegli occhiali mi ha fatto venire in mente le esecuzioni che fanno in America, una
iniezione di veleno mortale e via…davanti ai parenti della vittima”
“Già, ma io sono un’infermiera, non il boia e poi dicono che la morte sia secca, quindi non mi somiglia affatto” rispose la
ragazza, leggermente irritata.
Quella leggeva nella mente, si disse Fred, era la classica “occhialuta” che vuole dominare il maschio, il tipo di ragazza che
pretende l’anello al terzo incontro e decide dove si va al mare a gennaio. Tra loro non poteva esistere feeling.
L’infermiera intanto si era seduta accanto alla poltrona del paziente, aveva legato al braccio di Fred il laccio e, sollevando la
manica, aveva scoperto il suo tatuaggio destro: teschio e tibie con il motto “Death’s lover” in caratteri gotici.
“Lei ha proprio la fissa della “comare secca” - disse la ragazza, preparando qualcosa sul carrello accostato al muro - se avesse
lavorato come me per un anno nel reparto oncologico capirebbe quanto è amabile la morte”. Aveva in mano la siringa ed era
pronta ad infilarla nella vena di Fred.
“Stringa il pugno”, ordinò bruscamente.
Quando Fred aveva deciso di fare le analisi del sangue in realtà non si era soffermato a pensare con esattezza alla procedura
del prelievo. Ovviamente sapeva che, per estrarre un liquido da un tubo, occorreva praticare un’apertura e lo strumento
utilizzato, in questo caso, era un ago, un piccolo aggeggio appuntito che s’infilava nella vena, ma non aveva messo in conto
l’effetto del luccichio metallico di quella minuscola lama: la fissò per un attimo e, all’improvviso, avvertì una grande
debolezza, poi si sentì scivolare dalla sedia e, in un secondo, finì sdraiato sul pavimento. Tutto divenne nero.
L’infermiera suonò il campanello d’allarme e nella stanza entrarono di corsa due colleghe. Intanto “Lady Death” aveva preso a
schiaffeggiare il suo paziente e lo faceva con un’energia decisamente superiore al necessario.
“Stimolo lo sternocleidomastoideo?” disse una delle nuove arrivate, un’allieva che si divertiva ad usare i paroloni e le tecniche
d’intervento che aveva appena imparato.
“Si, ma prima mettiti i guanti, forse è sieropositivo” replicò l’infermiera.
“Ecco, basta una parola su un pezzo di carta e sei un lebbroso - pensò Fred, che stava tornando lentamente cosciente - ma
cos’è questo sternoche… supercalifragilistiespiralidoso, la parola magica di Mary Poppins?”
Un terribile dolore alla spalla destra rispose alla sua domanda. La nebbia ormai si diradava e Fred ebbe un sussulto.
“Lo vedi che è vivo, questo cagasotto!- disse la schiaffeggiatrice - aiutami a girarlo su un fianco. Vedi mai che vomita e si
soffoca”
“Guarda che tatuaggio!” esclamò la seconda infermiera.
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“Sì, proprio un tatuaggio da furbo, c’è scritto “l’amante della morte”! Vedrai che bacini ti darà la tua innamorata se ti sei
beccato l’aids!” commentò acidamente la culona “occhialuta”.
“Già, a letto leoni e poi, all’ospedale, coglioni. Guarda nell’impegnativa come si chiama” ordinò la seconda infermiera
all’allieva.
“Federico, Federico Lastri. Poverino, si sarà sentito male per la malattia” disse la giovane aspirante infermiera. “Chi sa se,
oltre che sensibile, è pure carina” si chiese Fred: ormai era quasi completamente sveglio, tuttavia non aveva voglia di aprire
gli occhi.
“Ma che male e male - ribatté Lady Death - all’inizio stava benissimo e faceva pure lo spiritoso, è svenuto quando ha visto
l’ago. Forza Federico, sveglia, bello mio, su Federico, Federicooo!”: ovviamente, ogni volta che veniva chiamato il suo nome,
partiva uno schiaffone terapeutico.
“Gli sollevo le gambe per la circolazione - disse la seconda infermiera - ma, guarda che schifo, il nostro Riccioli d’oro se l’è
pure fatta addosso!” Le tre donne risero, sembravano le streghe di Macbeth intorno al paiolo. Fred non aveva letto
Shakespeare e pensò solo che era in balia di tre carogne senza cuore. E magari era davvero un povero malato con pochi mesi
di vita. Si vergognava come un cane così, nonostante fosse del tutto in sé, decise di fingersi ancora privo di conoscenza. Per
fare un dispetto alle sue aguzzine avrebbe volentieri esalato in quell’istante l’ultimo respiro.
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