Laura Pausini: una ragazza di provincia con un respiro

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Laura Pausini: una ragazza di provincia con un respiro
Laura Pausini: una ragazza di provincia con un respiro mondiale
da Vivaverdi, novembre-dicembre 2008
L’ultimo dei grandi chansonnier francesi, Charles Aznavour, sulla soglia degli ottantacinque
anni, nel suo cd di duetti che riunisce le canzoni composte in una lunga vita, ha voluta lei,
Laura Pausini, al suo fianco come unica voce italiana. Gli altri compagni di viaggio sono stati
Elton John e Paul Anka, Liza Minelli e Celine Dion, Sting e Julio Iglesias, Carole King e la greca
Nana Mouskouri, Bryan Ferry e Johnny Holliday, tutte icone della musica popolare degli ultimi
quaranta anni in tanti paesi del mondo. D’altronde, il commendatore Laura Pausini, malgrado
abbia solo trentaquattro anni e canti professionalmente solo da sedici, è da tempo avvezza ai
grandi exploit e quindi è solo una coincidenza che mentre esce in quarantasette paesi
contemporaneamente il suo dodicesimo album dal titolo Primavera in anticipo competa sul
mercato, nello stesso tempo, con i Coldplay e con l’indistruttibile cantautore armeno-francese
di Com’è triste Venezia e La boheme, che con lei duetta in Parigi al mese d’agosto, in un cd a
due facce dove il vecchio Charles, grazie all’elettronica, duetta anche con Frank Sinatra e con
la donna che lo lanciò, Edith Piaff.
Ma a la ragazza di Solarolo, un paesino dalle parti di Ravenna, ormai non tremano più i polsi. E
non per presunzione. Piange e ride come tutti quando prova grandi emozioni, ma non per
questo perde la testa: “Io penso si nasca cantanti- mi dice subito cercando di controllare il
diluvio di parole in cui è abituata a nuotare- sono convinta, infatti, che cantare è un talento che
nasce con te e non si può costruire più di tanto. Quando si ha per le mani una bella canzone,
magari orecchiabile, si può trovare infatti una bella ragazza o un bel ragazzo, perfino intonati,
capaci di eseguirla. Ma questo non significa, secondo me, essere cantanti. La voce è uno
strumento talmente particolare che può essere confrontata solo con gli occhi. Quando succede
qualcosa di speciale gli occhi lacrimano, per dolore o per gioia. E la voce è uguale, vibra
secondo le sensazioni che chi canta prova dentro. Se stai tentando di esprimere un’emozione
costruita chi ti ascolta, il pubblico, alla lunga se ne accorge”.
Forse è proprio nella capacità di far provare emozioni sincere, riconoscibili dal pubblico più
diverso, indipendentemente dal timbro o dalla qualità della sua voce, il segreto di Laura
Pausini, che ha venduto in pochi anni quaranta milioni di dischi in cinque lingue diverse e,
unica donna, ha riunito nel giugno del 2007, allo stadio di San Siro di Milano, settanta mila
persone, e al Madison Square Garden di New York ventimila spettatori.
“Quando hai avuto la percezione che, probabilmente, eri una cantante- le chiedo a bruciapeloe inoltre che quel mestiere per te non sarebbe stato l’illusione di una ragazzina?”.
“Devo tutto alla testardaggine di mio padre. Con alcuni amici, negli anni ’60, aveva formato un
gruppo che aveva in repertorio i successi dell’epoca e si chiamava Les copains music show. Ma
poi, per non lasciare sola mia madre, che faticava a portare avanti le gravidanze, e aveva già
perso due bambini, aveva scelto di rimanere in zona, facendo piano bar in Emilia Romagna in
modo da poter tornare sempre a casa la sera da lei. Un atto d’amore, perché lui è un gran
bassista, oltre che cantante, tanto che era stato chiamato da Roby Facchinetti per entrare nel
gruppo che poi avrebbe dato origine ai Pooh. Lui disse di no e al suo posto entrò Red Canzian.
Ma ebbe ragione lui, perché dopo di me e dopo che i medici avevano sentenziato che mia
madre non avrebbe più potuto avere figli, nacque mia sorella che infatti in casa chiamiamo “la
figlia del miracolo” ed io sono diventata l’artista che voleva essere mio padre, grazie alla sua
insistenza e malgrado la mia diffidenza. Perché io non ho mai sognato di diventare famosa e
forse, proprio per questo, in parte ci sono riuscita. Io volevo solo cantare, forse perché avevo
respirato la musica in casa fin dalla nascita. In pubblico mi sono esibita la prima volta a otto
anni. Papà faceva piano bar in un ristorante di Bologna, il Napoleone. La sera del mio
compleanno, il 16 maggio, i miei genitori avevano deciso di festeggiarlo anche se papà
lavorava. Così, ad un certo punto, avevano messo in piedi un gioco e papà mi aveva chiesto
cosa volevo per regalo. Forse aveva preparato una bambola o qualcosa di simile, ma io lo
spiazzai: “Voglio salire sul palco a cantare”. Era da un po’ di tempo che desideravo sentire
com’era la mia voce al microfono. Ricordo la faccia di mio padre, fra il sorpreso e il goduto. In
inglese maccheronico cantai We are the world e subito dopo Dolce Remì, la sigla di un cartone
animato. Raccolsi i primi applausi della mia vita. L’indomani, a casa, mio padre, molto
emozionato, disse che poteva insegnarmi qualche altra canzoncina, ma io lo sorpresi di nuovo:
“Io voglio proprio cantare con te, voglio essere la tua corista, voglio imparare le canzoni che tu
suoni ogni sera”. Da quel momento ho fatto piano bar, ma la percezione di essere una
cantante vera è cresciuta poco a poco”. Laura si è esibita con suo padre da quel momento fino
ai diciotto anni. E’ singolare come i nuovi talenti della nostra musica popolare vengano tutti dal
piano bar, non dalla discoteca, dove evidentemente non si fa musica, ma si scimmiotta la
moda.
Laura ha fatto la gavetta nei bar, come Andrea Bocelli, e l’unica differenza è che non si
accompagnava da sola, come lui, ma per questa incombenza ci pensava suo padre.
La stessa esperienza fatta da Giorgia, che cominciò come vocalist di un gruppo, Io vorrei la
pelle nera, dove suonava suo padre, patito della musica afro-americana. D’estate, quando già
Laura aveva sedici anni, i Pausini si esibivano a Cervia in un locale che si chiama Caffè Italia e
dove il padre aveva le sue fans. Da un certo momento in avanti queste fans incominciarono a
chiedere “Stasera canta la ragazza?”, perché altrimenti non sarebbero venute. “Mio padre
Fabrizio, invece di sentirsi toccato nel suo orgoglio di artista, la prese benissimo, ma cominciò
a pressarmi perché io partecipassi ai tanti concorsi di voci nuove che si svolgono in Italia- mi
spiega Laura- Ma a me quelle manifestazioni non piacevano, sia perché ero molto timida,
specie di fronte a quei manager o presunti tale che hanno un atteggiamento, diciamo così, di
potere, di persone che vogliono impacchettare la tua vita di artista e vogliono decidere come
devi proporti da quel momento in poi, sia perché ho sempre avuto il pallino della giustizia che
mi faceva domandare “E se poi vinco io in un concorso dove magari c’è qualcuno più bravo di
me che, per qualunque motivo, corretto o incorretto, rimandano a casa?”. E’ successo invece
che alla fine i concorsi mi hanno cambiato la vita. Un giorno torno a casa da scuola, la scuola
d’arte, dove mi sono diplomata in pittura e come ceramista, ascoltando molta musica durante
le esercitazioni pratiche perché i nostri professori ci invogliavano molto ad ispirarci con le note,
e mio padre, oltre a prepararmi un bel piatto di spaghetti al pomodoro, mi segnala che sotto il
piatto c’è una busta che mi riguarda. Nella busta c’era una lettera che mi annunciava di essere
stata ammessa al Festival di Castrocaro.
Subito mi arrabbiai molto “Scusa, ma perché mi hai iscritto senza avermi interpellato?”, chiesi
offesa a mio padre. Dovette intervenire mamma, che fa la maestra e rappresenta la parte
meno frivola, sognatrice della famiglia. Per questo la sera mi prese da parte per dirmi “Sai che
non ho mai messo bocca nella tua scelta di cantare professionalmente. Anche io preferirei per
te una vita più tranquilla di quella dell’artista. Vedo però che sei portata e allora fai un regalo a
tuo padre, vai a fare questo concorso. Cosa ti costa? Si svolge vicino casa, dalle parti di Forlì.
Vai, canti una canzone e poi te ne torni a casa, non succede niente di speciale”. Malgrado le
parole di mamma passai un mese nel panico. Era il 1991. Andai a Castrocaro e cantai New
York, New York, cavallo di battaglia di Liza Minelli, ma anche mio durante le serata al piano
bar, perché ogni volta che la eseguivo la gente si alzava in piedi. Eppure, come prevedevo, per
il mio scetticismo riguardo ai concorsi, allora non ancora smentito, non arrivai nemmeno in
finale. Anche in quella semifinale il pubblico presente si alzò in piedi per applaudirmi, un favore
totale, che non toccò a nessuno degli altri concorrenti della mia serata. Ma non venni reputata
degna di essere classificata nemmeno tra i primi cinque”. Come spesso succede nei concorsi di
canzoni, tutto era stabilito prima, ma la Pausini non ne fece una malattia. Non ci aveva mai
sperato e poi era nell’età nella quale stava mettendo in piedi la possibilità di formare un
proprio gruppo con i compagni di classe dell’Istituto d’arte.
Le interessava andare in giro a cantare, non farsi giudicare da gente sconosciuta e prevenuta
“Attenta più a come ti vesti e ti pettini, che a come interpreti una canzone. Una situazione che
mi dava sempre molto fastidio. Il padre di Laura, però, non si dava per vinto e diceva ”Non è
possibile, sei troppo brava, c’è qualcosa di particolare nel tuo modo di cantare” e Laura
rispondeva “Tu sei il mio babbo, è normale che tu mi dica queste cose”. Ma non ci fu verso di
dissuaderlo, la iscrisse a Sanremo Famosi “Quel concorso- ricorda ora l’interprete italiana di
musica popolare più famosa al mondo- doveva aprire la strada verso il Festival di Sanremo, ma
non fu così, anche se vinsi quella gara. Anzi, prima la persi, perché la vittoria era andata ad
un’altra concorrente, ma un quarto d’ora dopo seppi che la giuria mi aveva assegnato il
successo a parimerito. Fu tutto molto comico, perché nel filmato andato in onda su Rai Due,
nel pomeriggio, si vede uno della giuria che mi assegna un bel dieci, ma poi guarda gli altri,
tira giù la sua paletta, la cambia e mi assegna un sei. Poi i giurati si guardano tra di loro e si
vede che sono perplessi e fanno no con la testa, e allora lui ritira su il dieci contribuendo ad
assegnarmi la vittoria a pari merito con un’altra concorrente. Non mi sbagliavo quando, alle
insistenze di mio padre, mi negavo alla logica di questi concorsi.
Inoltre la chiamata dal Festival di Sanremo, malgrado fosse nelle clausole del contratto che
mio padre aveva firmato a mio nome (perché ero minorenne), non venne ed io rafforzai la mia
opinione sulle coincidenze del destino, che sempre decide per te. Fu allora che papà mi
raccontò della sua rinuncia a far parte di quelli che sarebbero diventati i Pooh, per poter essere
più vicino a mia madre, e mi invitò a non considerare chiusa la possibilità di essere
protagonista nel mestiere che avevo scelto “Non è possibile che in casa nostra falliscano
questo obbiettivo due generazioni di seguito”, sentenziò. Questa volta ebbe ragione lui”. Poco
tempo dopo l’esclusione da Sanremo giovani, attraverso la redazione de Il Resto del carlino
Laura Pausini fu contattata dal produttore Angelo Valsiglio, un autore solitario che viveva a
Forlì e attratto dalla sua voce voleva farle fare dei provini e farle conoscere il manager con il
quale collaborava, Marco Marati. “Con quest’ultimo, subito dopo l’affermazione del mio primo
singolo, La solitudine, litigai pesantemente e da allora ho interrotto ogni rapporto, ma devo
riconoscere che in quella breve stagione è stato un personaggio importante per la svolta della
mia carriera”. La voce della ragazza di Solarolo, un borgo tra Faenza e Imola, cominciava però
a interessare molti addetti ai lavori. Il primo in assoluto era stato Gianni Belleno dei New Trolls
“Era il compagno, in quel momento, di Anna Oxa- ricorda Laura- che per noi che iniziavamo a
cantare negli anni ’80 era un vero e proprio esempio. Erano poche le donne cantanti giovani di
valore in quell’epoca. Io avevo una venerazione per la sua voce. Spesso litigavo con mio padre
perché, senza accorgermene, imitavo la sua voce quando mi esibivo e lui, invece, mi chiedeva
di rispettare la mia personalità, la mia voce, anche se magari non avevo gli stessi pregi di
Anna. Io invece ero tutta Oxa, e per questo volevo affidarmi a Gianni Belleno, invece il mio
babbo mi spinse a dare una chance ad Angelo Valsiglio, uno della nostra terra, che anni prima
aveva scritto Ora mai per Fiordaliso”. Furono Valsiglio e Marati a proporre a Laura la canzone
La solitudine, scritta con Piero Cremonesi e Federico Cavalli, due che non facevano i musicisti
di professione, ma lavoravano all’IBM e componevano per passione. “Inizialmente il brano
cominciava con Anna se n’è andata- ricorda la Pausini- invece di Marco se n’è andato. Ma per
il resto la storia era la fotografia della mia vita fino a quel momento, perché io comunque
andavo veramente a scuola con il treno delle sette e trenta. Io quei due autori non li avevo mai
visti così, malgrado Valsiglio e gli altri mi continuassero a portare altri brani, dissi al mio babbo
che volevo cantare solo quella, cambiando solo il nome, Marco, perché lo svolgimento della
canzone pareva copiato da quello che succedeva a me. Marco era il mio fidanzatino dell’epoca
e per questo, quando cantavo quel brano, mi emozionavo tanto. Quando si è adolescenti
spesso piace descriversi con malinconia, anche se non è giustificata. Così, quella coincidenza
emozionale, fu l’inizio della mia affermazione come interprete.” La interrompo per semplice
curiosità “Cosa fa il fidanzatino adesso?”. Laura sorride “Si è sposato, ha un figlio e credo
faccia l’avvocato e il commercialista”.
Non è banale sottolineare la forza delle coincidenze nella carriera della Pausini. Il produttore e
il manager di allora sentenziarono che quella canzone, La solitudine, la cantava meglio di tutte
le altre che l’avevano provata. Bisognava portarla a qualche casa discografica per vedere se
avessero voglia e capacità per iscriverla al Festival di Sanremo. Allora le etichette indipendenti
non potevano nemmeno provarci, il via libera era solo per le grandi multinazionali del disco. La
Pausini e i suoi mentori incominciarono il pellegrinaggio delle mejor del disco. Fecero, però,
una scelta importante: non portare provini già realizzati. Doveva cantare dal vivo
accompagnata solo da un pianoforte.
“Mi proposi a sei o sette direttori artistici. Due mi fermarono appena dopo l’inizio del brano “No
grazie, non ci interessa”. Avevo diciotto anni e non conoscevo quella brutalità di
atteggiamento. Alcuni di questi super esperti li ricordo ancora adesso. Arrivammo a fine
giornata e l’ultima casa discografica a bocciarmi era stata la Wea. Rimaneva solo la Emi. Di
fronte avevo Fabrizio Giannini, il figlio di Peppino, che aveva fatto grande la Cgd della famiglia
Sugar, insieme a Franco Crepax. Inizio con una canzone di Whitney Houston e vedo Fabrizio
che si agita sulla sedia e io penso “Ora mi manda a cagare anche lui!”. Invece mi chiede
un’altra canzone ed io scelgo un brano scritto da Bigazzi per Mia Martini, mai eseguito né
interpretato da Mia o da altri. Una bellissima canzone che credo si intitolasse Fammi sentire
bella e aveva degli accordi in minore molto suggestivi. Le parole, come ho detto, erano di
Giancarlo Bigazzi, ma non mi ricordo in questo momento lo stupendo autore della melodia. I
miei due produttori avevano preferito non farmi esporre con La solitudine. Successe però una
cosa strana: a metà esecuzione della canzone inedita, Fabrizio Giannini si alzò, e mentre io mi
aspettavo un semplice grazie e arrivederci, lui cominciò a urlare “L’ho trovata, ho la nuova
Mina!”. Mio padre aveva le lacrime agli occhi.
Sono stata la prima artista, messa sotto contratto da Giannini, diventata, per così dire,
grande. Dopo il suo intuito gli ha permesso di lanciare Ligabue, Irene Grandi e Tiziano Ferro.
Fu degno di suo padre. Adesso non lavora più nella discografia, ha fondato una società di
management. E’ il segno dell’inadeguatezza attuale della discografia. Non è per caso che un
manager così intuitivo sia uscito dal settore”. Laura fu scelta dalla Emi per Sanremo nuove
proposte con il brano La solitudine, che lei pervicacemente aveva sostenuto. Quell’anno
c’erano diversi ragazzi di valore: Nek, Gerardina Trovato, Marcello Pieri, che aveva già avuto
un paio di successi radiofonici, Bungaro, un buon cantautore, e Clio. “Ancora adesso ricordo
quell’esperienza- confessa la Pauisini- come la più entusiasmante della mia vita, più dei
Grammy vinti. A Sanremo non avevo messo assolutamente in conto di poter vincere. Ogni
giorno girava un bollettino fatto dai giornalisti che ipotizzava delle classifiche. Io non ero
neanche nei primi dieci. Ma ero contenta lo stesso perché pensavo “Almeno mi avranno visto
tutti i professori del mio istituto, che giustificheranno le tante assenze che ho fatto
quest’anno”. Lo so che è ingenuo, ma io quell’anno dovevo sostenere la maturità e comunque
mi ero organizzata per non sprecare quel blitz al Festival. Avevo chiesto l’autografo a tutti i
concorrenti famosi. Almeno qualcosa lo avrei portato a casa. Fra i big era favorito Enrico
Ruggeri, che poi vinse con Mistero. Anche lui era della Emi. Due cantanti della stessa casa
discografica era impossibile che vincessero. Così la sera della finale cantai fra i primi e me ne
andai subito in hotel. In un salone avevano allestito una sala con televisione per i parenti dei
concorrenti.
Ad un certo punto, quando il Festival stava già per terminare, arriva trafelato Gerolamo Caccia
Dominioni, fino a pochi anni fa presidente della Emi, e mi dice che bisogna andare al Teatro
Ariston perché bisogna farsi vedere tutti in fila. Non mi passa neanche lontanamente l’idea che
mi stessero cercando perché avevo vinto. Arrivo dietro le quinte del palcoscenico, dove tutti
erano schiacciati in poco spazio, e faccio appena in tempo a togliermi il giaccone che sento
annunciare “Laura Pausini vince nelle nuove proposte”. Nelle immagini televisive si vede Pippo
Baudo che viene verso le quinte, allunga le sue lunghe braccia e mi tira dentro sul
palcoscenico. Io, imbranatissima, dico che non so cosa dire, perché pensavo di poterlo andare
ad annunciare prima ai miei genitori. Non mi veniva in mente nient’altro. Mio papà, che quella
sera lavorava ad una festa privata, non era riuscito a rinviare l’impegno. Era una festa privata
in casa di industriali. Era riuscito solo ad ottenere un televisore con megaschermo. Ma quando
ho vinto ha urlato “Io devo andare là”.
Passammo la notte in camera dei miei genitori perché proprio non sapevamo cosa si dovesse
fare quando si vince”. Non lo avrebbe imparato mai cosa si fa in queste occasioni, dato il suo
carattere allergico ai riti del palcoscenico, delle premiazioni, della fama. Eppure la sua vita di
artista laboriosa è stata segnata da coincidenze inaspettate e significative: dal primo album
Laura Pausini, completato in tutta fretta a Modena, nell’anno in cui, 1993, preparava la
maturità, alla partecipazione come big al Festival di Sanremo ’94, avendo vinto l’anno prima
nelle Nuove proposte, un Festival in cui arriva solo terza, ma poi Strani amori, il brano
presentato, diventa un successo pazzesco, oltre che in Italia, in mezza Europa. E poi i tre
World Music Award nel ’94, nel 2003 e nel 2007, fino ai Latin Grammy del 2005 e del 2007 e al
Grammy Award nel 2006, che un artista italiano non vinceva da quarantotto anni, da quando,
alla fine degli anni ’50, Domenico Modugno aveva trionfato con Nel blu dipinto di blu, che tutti
conoscono come Volare.
“E’ sempre per pura coincidenza” insiste divertita Laura quando racconta, come in questo caso,
le sue inadeguatezze (i chili in più che aveva, certe scelte del suo vestire in passato) o mette in
fila le medaglie e i trofei che neppure un campione olimpico avrebbe guadagnato in così pochi
anni.
A novembre del 2007, per esempio, quando, dopo il suo terzo World Music Award nella
categoria Best Selling Artist, ha vinto il suo secondo Grammy latino, dopo quello del 2005,
con Io canto , di Riccardo Cocciante e Marco Liberti, come Best female pop vocal album, Laura
è arrivata trafelata alla premiazione che si svolgeva a Las Vegas. In quella situazione ha
pensato che fosse meglio concedersi prima al rito della sfilata sul red carpet e a quello delle
interviste con le decine di stazioni televisive di tutto il mondo, piuttosto che “vedere un altro
vincere”.
Però, proprio mentre i fotografi le intimavano di andare sotto la scritta Grammy per le
istantanee, è arrivato il suo manager, Gabriele Parisi, che le ha urlato “Hai vinto!”. Lei che era
convinta che quel premio toccasse quella volta a Ricardo Arjona, il grande cantautore
guatemalteco, ormai popolare in mezzo mondo, è crollata sulle gambe e i giornalisti, un po’
immaginifici, l’hanno paragonata, per quella caduta, ad Anna Magnani di Roma città aperta:
“Io non stavo correndo, non ho inciampato, solo mi erano mancate le gambe per l’emozione”.
Perché non credere a questa cocciuta ragazza di provincia, che non si è fatta turbare dal
successo o che a diciannove anni ruppe con i suoi manager di allora, convinti, malgrado il
successo clamoroso in pochi mesi, che dovesse agghindarsi con scollature e tacchi a spillo
(“Ero piccola, grassottella, ma non ero un giocattolo”). Una ragazza che, in modo disarmante,
confessa invece “La mia scuola di canto è stata la mansarda della casa dei miei a Solarolo,
dove il mio babbo mi lasciava le cuffie e il microfono collegati al suo stereo, nel quale mettevo
gli Wham! Di George Michael, Claudio Baglioni, Enrico Ruggeri e Whitney Houston” e rivela che
l’esame alla Siae come compositrice lo ha fatto con il flauto traverso studiato dai dodici ai
quindici anni, quando era fanatica di Yan Anderson e Jethro Tull. Questa artista, col suo modo
di fare, a volte volutamente naif, è l’italiana più conosciuta e apprezzata negli altri paesi, una
vera e propria star in Sud America, dove la gente spesso vive di musica. Perché è successo a
lei? “Perché sono andata a cantare anche in paesi dove in teoria non rende, come
nell’Argentina in crisi di qualche anno fa, dove per la popolarità non potevo uscire dall’albergo,
ma poi al massimo si vendevano quindici mila dischi. Nelle nostre case discografiche spesso
non sanno nemmeno come farti concorrere ai Grammy, e magari considerano i Grammy latini
come una manifestazione per artisti del terzo mondo, ignari che invece da anni in quel
contesto vengono premiati alcuni fra i più grandi cantanti popolari del nostro tempo. Io, per
esempio, ho avuto l’occasione di duettare con Gilberto Gil, che con Caetano Veloso ha fatto la
storia del samba di Bahia, un’icona che è stato anche ministro della Cultura del Brasile. Il
duetto con lui, fra i tanti della mia vita artistica, è in assoluto, insieme a quelli con Pavarotti,
Bocelli e James Blunt, quello che mi ha emozionato di più”.