la figlia diversa

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la figlia diversa
MARIA TOORPAKAI nasce nel 1990
«Tu, Maria, sei diversa dagli altri bambini.
Non sei nata per seguire la corrente.
La verità è che sei nata direttamente dalle fauci
del leggendario leone. Ecco perché
sei così forte. Quando ti ho pescato,
i tuoi pugni serrati hanno lacerato la rete,
e ci sono voluti dieci uomini
per tirarti su.»
Khaled Hosseini
ISBN 978-88-17-08790-2
/RizzoliLibri
@RizzoliLibri
ISBN 978-88-17-08790-2
€ 18,00
maria
toorpakai
con katharine holstein
LA FIGLIA
DIVERSA
Una vita da maschio.
Ho sfidato l’integralismo
islamico sul campo
da gioco. E ho vinto.
In copertina:
fotografia, in basso a sinistra e in alto a destra, © Hasnain Dattu;
in basso a destra e in alto a sinistra, © Carrie Lee / Clee Images
Art Director: Francesca Leoneschi
Graphic Designer: Mariagloria Posani / theWorldofDOT
www.rizzoli.eu
LA FIGLIA
DIVERSA
«Maria non è solo un’atleta di fama mondiale,
ma l’ispirazione per ogni donna costretta
a lottare per inseguire i propri sogni.»
maria
toorpakai
nel Waziristan del Sud, al confine tra Pakistan e Afghanistan, che qualcuno ha definito
il luogo più pericoloso del mondo. Oggi è tra
le prime cento giocatrici del mondo e ha al
suo attivo tre tornei WSA (Women’s Squash
Association). Ma la sua lotta per il diritto allo
sport delle donne Pashtun continua attraverso la Only One Girl Foundation, che si pone
l’obiettivo di promuovere la parità tra i sessi
nei Paesi musulmani.
«Dove sono cresciuta, le ragazze finiscono
in manicomio, oppure lapidate. Le più fortunate vengono date in sposa a un membro
di un clan rivale. Sapevo che, nonostante le
idee liberali di mio padre e tutti i suoi sforzi,
nonostante le storie che ci raccontava, non
sarei mai stata davvero libera.» In Waziristan,
la regione più conservatrice del Pakistan dei
talebani, una donna non è autorizzata a lasciare la casa di famiglia a meno che non si
sposi. Le ragazze indossano il velo ed escono solo se accompagnate da fratelli, padri o
cugini che possano vigilare sul loro onore.
Eppure, a cinque anni, Maria decide di bruciare tutti i suoi vestiti. Vuole giocare, correre,
andare in bicicletta, cacciare, arrampicarsi
sulle montagne, e l’unico modo per farlo è
travestirsi da maschio. Poi scopre lo squash,
che in Pakistan è il secondo sport nazionale.
Si entusiasma: diventerà una campionessa,
anzi, un campione.
«Se mai dovessero scoprire cos’hai fatto, Maria, verranno a darti la caccia, credimi. Verranno a cercarti e ti uccideranno» l’aveva avvertita il padre. «Non c’è qualcuno in particolare, Maria: sono loro. Nessun volto, nessuna
anima: sono bombe e pallottole e grida ad
Allah che si levano tra le montagne.» Avendo
trasgredito alla sharia, Maria entra nel mirino del fondamentalismo, scopre la paura,
e il padre la costringe a rifugiarsi in Canada. «Mi sentivo come se mi fossi buttata da
una scogliera e stessi precipitando nel vuoto,
sperando ardentemente che laggiù ci fosse
qualcuno pronto a prendermi. Una volta mio
padre aveva detto che a me bastava una racchetta per essere felice. Ho dovuto lasciare la
mia terra per rendermi conto che in realtà mi
ci sarebbe voluto molto di più.»
Maria Toorpakai
con Katharine Holstein
La figlia diversa
Traduzione di Ilaria Katerinov e Elena Sacchini
Proprietà letteraria riservata
© 2016 by Double Yellow Inc.
© 2016 Rizzoli/RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-08790-2
Titolo originale dell’opera:
A Different KinD of DAughter.
the girl Who hiD from the tAlibAn in PlAin Sight
Prima edizione: aprile 2016
Realizzazione editoriale: Studio Dispari – Milano
La figlia diversa
A tutti i figli della guerra sparsi per il mondo,
che lottano per poter giocare in pace e ricevere un’istruzione.
Che queste pagine possano illuminare
il vostro cammino verso la libertà.
Prologo
Una profezia
Nel posto in cui sono cresciuta, le ragazze come me finiscono in manicomio oppure lapidate. Le più fortunate
vengono date in sposa a un membro di un clan rivale, in
modo da contaminare il lignaggio della tribù. Io sono il
prodotto di uno di questi matrimoni a scopo punitivo: la
figlia di una ribelle e di un rinnegato che si sono incontrati per la prima volta il giorno del matrimonio. Eppure il
loro è stato amore a prima vista, cosa che gli anziani non
avevano previsto, così come non avevano previsto la forza
del loro coraggio e dei loro ideali. E scommetto che non
avevano previsto neanche me. Una cosa è certa: nessuno
poteva impedire alla mia ingestibile famiglia di ribelli pashtun di crescere e moltiplicarsi.
Perfino i miei genitori si erano resi conto di avere una
figlia diversa. Odiavo le bambole, non sopportavo i vestitini leziosi e avevo un rifiuto per tutto ciò che riguardava
anche lontanamente l’universo femminile. Non mi sarei
mai sentita realizzata dentro una cucina o tra le mura domestiche. Io avevo bisogno di stare all’aria aperta e correre
libera: esattamente quello che la legge tribale proibiva.
Quando ero molto piccola, mio padre si fece prestare
un vecchio televisore Zenith con un videoregistratore e
una sera tornò dal bazar con una videocassetta sulle tatti9
La figlia diversa
che di caccia del leone. In quel video – come in tutto ciò
che nostro padre ci leggeva o ci faceva vedere – si nascondeva un’implicita lezione di vita destinata alla sua famiglia. Ci sedemmo sulle fresche piastrelle di terracotta del
soggiorno, catturati dalle immagini: un leone nel cuore
della rovente savana africana intento a cacciare un branco
di gazzelle. Pur essendo un predatore notoriamente lento,
il leone è in grado di catturare alcuni degli animali più
veloci sulla faccia della terra. Visto dall’esterno, in effetti,
sembrava partire svantaggiato. Eppure eccolo lì, incurante
della fame e accovacciato tra l’erba lambita dal vento come
un sovrano indolente, impegnato a sorvegliare la pianura con aria fintamente casuale. Di tanto in tanto si alzava
stiracchiandosi e si avvicinava un po’ di più alle sue prede. Quando le gazzelle guardavano verso di lui, il leone
restituiva lo sguardo ostentando indifferenza, senza mai
tradire le proprie intenzioni. E loro si sentivano sicure:
perché temere qualcuno da cui puoi scappare in qualsiasi
momento? Ma quella fiducia eccessiva nei propri mezzi
avrebbe decretato la loro rovina. Il leone possiede due doni in grado di cambiare le regole del gioco: una pazienza
incrollabile e una fenomenale capacità di mimetizzarsi.
Lo vedo ancora balzare fuori dall’erba con eleganza e azzannare al collo una gazzella sbalordita e completamente
ignara della sua presenza. Stupida gazzella, ricordo di avere pensato. Quanto la sa lunga, però, quel grosso gatto.
Quando stavo per compiere cinque anni, andai da mio
padre e gli dissi chiaro e tondo che non volevo un altro
di quei vestitini dentro cui mi sentivo soffocare. Perché
non potevo vestirmi comoda come i ragazzini che vedevo giocare per strada? Lui è scoppiato a ridere e ha detto
che non c’era problema. Che siano stati l’ampia maglietta
gialla e i pantaloncini che mi comprò al bazar a mettere in
moto tutto? Non avevo bisogno di raccomandazioni per
sapere che avrei potuto indossarli solo dietro l’alto muro
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Prologo. Una profezia
che circondava la nostra proprietà. Nella parte del mondo
in cui ero nata, girare a capo scoperto per le donne era
haram, proibito, un peccato contro Dio.
Il giorno in cui sfoggiai i miei vestiti nuovi fu anche
quello in cui per la prima volta mi trovai da sola in cortile,
davanti al cancello di ferro. I monti e le valli che si stendevano oltre il cancello erano un richiamo irresistibile, e
io provai l’impulso di correre fuori. Con la chioma nera
divisa in una cascata di treccine strette da fiocchi colorati,
mi lasciai inondare dal sole di mezzogiorno, con la maglietta che mi si incollava alla schiena, le gambe e i capelli
zuppi di sudore. Rimasi così, avvolta dal calore del sole,
con le braccia spalancate, sentendomi invadere dal senso
di libertà. Abbassai lo sguardo sulle mie gambe, ne seguii
i contorni lisci e scattanti, di solito coperti e già arrossati.
Poi tirai il chiavistello, spinsi il pesante cancello e corsi in
strada. Per fortuna non mi vide nessuno, e io mi guardai
bene dal raccontarlo.
Un pomeriggio afoso me ne stavo alla finestra con il
mento appoggiato sulla mano, a contemplare il fiume che
serpeggiava nella pianura. Mia madre mi aveva infilato un
abito pesante, tempestato di perline e ricami di seta, che
mi intralciava come un sudario. Le risate di un gruppo di
ragazzini che giocavano sollevando nuvole di polvere che
per un attimo nascondevano un tratto di fiume giungevano fino a me. Nelle mie orecchie rimbombavano i calci al
pallone, e mentre li guardavo ebbi una fitta allo stomaco.
Erano almeno in dieci, in maglietta e pantaloncini che
correvano dietro al pallone su un campetto dissestato. Mi
assalì il panico. Lì, in casa, il mio destino mi si squadernò davanti con chiarezza spaventosa: imbalsamata a vita
dentro qualche abitino, condannata ad andare a scuola o a
restare chiusa in casa. In quell’istante il mio cuore si fece
di pietra. Il mio mondo non contemplava una terza via
per quelle come me, le bambine che volevano trascorrere
le giornate all’aria aperta, giocare, fare sport. Mi rendevo
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La figlia diversa
conto all’improvviso che, nonostante le idee liberali di mio
padre e tutti i suoi sforzi, nonostante le storie che ci raccontava e le grandi mappe dei continenti, nonostante ce la
mettesse tutta per insegnarmi che là fuori c’è un mondo,
non sarei mai stata davvero libera. Nella nostra cultura le
ragazze devono vivere confinate tra quattro mura, nascondersi sotto il velo, starsene zitte e buone.
Mi alzai di scatto e mi allontanai dalla finestra, entrando nell’ombra fresca. Mi strappai di dosso il vestito, lacerando una manica e facendo rotolare a terra le perline.
Poi, con lucida furia, tirai fuori dall’armadio i miei abiti e
li portai in giardino. L’uno dopo l’altro. Erano così pesanti
che mi ci volle un’ora.
La buca per cucinare sotto l’albero era spenta – sotto la
griglia c’erano solo quattro sassi rotondi e qualche rametto
– ma sapevo che mia madre teneva i fiammiferi e il cherosene in un armadietto in cucina. Mi precipitai in casa
prima di cambiare idea. Sapevo che se mi fossi fermata
a pensare non sarei arrivata fino in fondo. Stringendolo
con entrambe le mani, trascinai lentamente il fustino di
cherosene attraverso la cucina e fuori dalla porta sul retro
senza rovesciarne neanche un goccio, lasciando una lunga
scia nella polvere del cortile. Impilai i vestiti sui sassi della
buca; le perline scintillavano al sole e la stoffa pesava come
piombo. Perfino quando si alzò il vento, gli abiti rimasero
immobili come cadaveri. Contemplando la pila ebbi un
attimo di esitazione: in fondo era un peccato ridurre in
cenere quel bellissimo guardaroba. Ma fingere di non sapere equivaleva a firmare la mia condanna a morte. Così
cosparsi gli abiti di cherosene e accesi un fiammifero. Lo
lanciai nella buca e feci un passo indietro, guardando il
fuoco divampare al mio comando come una piccola stella
cadente.
Ci fu una specie di esplosione, e una vampata d’aria rovente mi investì lasciandomi senza fiato, mentre i vestiti
scomparivano di colpo tra le fiamme. Le perline e i cristal12