I Maria Santini, la mia segretaria, mi vuole bene e

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I Maria Santini, la mia segretaria, mi vuole bene e
I
Maria Santini, la mia segretaria, mi vuole bene e mi capisce.
“Cosa sta facendo avvocato?” tuona da dietro un paio di
occhiali rossi che contribuiscono a diminuire almeno in parte
la sua perenne aria da zitella inacidita.
“Sto guardando la posta elettronica” tento di difendermi
sapendo già che l’impresa è impossibile.
“Mmm” bofonchia la mia solerte impiegata, “a furia
di guardare quelle cosacce su internet finirà col diventare
cieco.”
La adoro.
Lo scorso Natale, durante l’annuale festa degli auguri dello
studio, mi sono visto recapitare un libro a cui tenevo tantissimo. Solo lei ci poteva arrivare, con la sua voglia di prendermi
per il culo, ma anche, in fondo in fondo, di farmi cosa gradita.
La filosofia di Moana è da allora infilato, al contrario, nella piccola libreria del mio ufficio.
Al contrario, affinché i clienti non ne possano leggere il
titolo stampato sul dorso, perché non tutti potrebbero capire.
Beh, ho due o tre clienti che apprezzerebbero tantissimo,
forse me lo chiederebbero anche in prestito. Il ragionier Pizzetti, ad esempio, con quella sua aria da cumenda da commedia all’italiana anni Settanta, potrebbe benissimo apprezzare
il culo della signorina Pozzi.
Mi invitava sempre alle cene della sua famiglia, quando
ero fidanzato con Elena. Poi ha smesso, quando lei se ne è
andata con quel terzino che gioca nel Voghera.
Allora, siccome è rimasto comunque mio affezionatissimo cliente, ho compreso che mi invitava soltanto grazie a
Elena, gli piaceva contemplarla mentre portava il cibo alla
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bocca, oppure si accendeva le sigarette che tanto mi facevano
andar fuori dai gangheri.
Chissà se anche il terzino del Voghera è infastidito dal
fumo.
Spero di sì, spero che tossisca come un cretino tutte le
volte che lei si accende una delle sue slim.
“Bravo, vada avanti così che poi magari si dimentica pure
l’udienza delle dieci.” Maria è inflessibile nel fustigare i miei
costumi e temo che ormai non si fidi più di me.
Come darle torto: il mese scorso mi sono dimenticato
un’udienza abbastanza importante. Per fortuna, il legale della
controparte era quel galantuomo dell’avvocato Spinetta che
mi ha telefonato, non approfittando della situazione.
Già, Spinetta è rimasto uno dei pochi dei quali ci si possa
fidare. Mi fosse capitato con uno come Artioli, l’avrei preso
meritatamente in quel posto e avrei dovuto far intervenire in
fretta e furia l’assicurazione per i rischi professionali.
Mi infilo sotto il braccio il fascicolo della causa di oggi,
do un urlo a Pietro, il mio praticante pirla che come al solito
si rifiuta di venire in Tribunale a prendere una firma di frequenza, e me ne esco da solo nella piazza antistante il mio
studio.
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Succede quasi sempre così: la mia è alle dieci, peccato
però che anche tutte le altre udienze di quel giorno siano state
fissate alla stessa ora.
E le cause chiamate quel giorno sono circa quaranta.
Si formano le coppie di avvocati e iniziano i primi timidi
tentativi di scavalcamento: “Noi siamo i ventiduesimi dell’elenco, ma abbiamo solo da chiedere un rinvio” bofonchia con
noncuranza l’avvocato Preti, un vecchio principe del foro pavese al quale risulta difficile dire di no.
“La mia controparte è contumace, e io devo soltanto andare a conclusioni” annota l’avvocato Artioli, ben sapendo
che nessuno lo lascerà passare davanti agli altri, perché tutti
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non è una città per avvocati
lo considerano uno stronzo e piuttosto che fargli un favore
preferirebbero morire.
Io ho come controparte un giovane collega di primo pelo,
l’avvocato Gianluca Pasetti. È un bravo cristo, anche piuttosto preparato, ma ha paura della propria ombra.
Mi guarda, sperando che io interceda anche per lui e mi
getti nella mischia per guadagnare qualche posizione, con lo
scopo di non passare lì tutta la giornata. Ma ormai non è più
tempo per queste cose: qualche anno fa mi sarei scaraventato
a capofitto nella calca e, tra una baruffa e l’altra, sarei uscito
vincitore. Con la mia proverbiale faccia di merda avrei conquistato terreno fino a sedermi spavaldo davanti al giudice;
adesso non ci credo più, quel teatrino mi infastidisce, un rigurgito di dignità mi ha condotto a preferire una lunghissima
attesa piuttosto che un’assurda lotta che mi conduceva a perdere a poco a poco la mia autostima.
Così sospiro, guardo il povero Pasetti con commiserazione, apro il giornale e mi metto a leggere la pagina sportiva.
La Juve sta per comprare un giocatore di trentaquattro anni,
che un tempo era stato molto forte, ma che ora a malapena si
regge in piedi.
Chiudo il quotidiano con disgusto, poi lo riapro alla pagina degli spettacoli: viene recensito un bellissimo film che
parla di una coltivatrice di limoni in Palestina.
A Elena avrei potuto proporre di andare al cinema a vederlo, ma sono certo che mi avrebbe detto di no; riuscivo a
portarla alla multisala soltanto per vedere qualche film d’azione.
Pazienza, se voglio vedere quel film ci dovrò andare da
solo. Magari invito Pasetti a venire con me, oppure lo chiedo
a Pietro.
Sorrido, soltanto per aver pensato a una simile eventualità.
Anche stasera me ne starò in casa a meditare sul mio futuro, probabilmente senza cavare un ragno dal buco.
***
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Alle tredici e venticinque il giudice Gozzi mette il naso
fuori dall’aula d’udienza e si stupisce che due avvocati siano
ancora lì in attesa: con un sospiro ci invita a entrare per discutere l’ammissione delle nostre prove.
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