Mathias Énard Via dei ladri

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Mathias Énard Via dei ladri
Mathias Énard
Via dei ladri
Traduzione di Yasmina Melaouah
Proprietà letteraria riservata
© 2012 ACTES SUD
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07215-1
Titolo originale dell’opera:
RUE DES VOLEURS
Prima edizione: gennaio 2014
Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma
Via dei ladri
«Ma quando si è giovani bisogna vedere il mondo,
accumulare esperienza, idee, allargare la mente.»
«Qui!» lo interruppi. «Non si può mai dire! Qui ho
incontrato il signor Kurtz!»
joseph conrad,
Cuore di tenebra
I
STRETTI
Gli uomini sono cani, si strusciano fra loro nella miseria, si
rotolano nella sporcizia e non sanno come uscirne, passano le
giornate stesi nella polvere a leccarsi il pelo e il sesso, pronti a
tutto per il pezzo di carne o l’osso marcio che qualcuno vorrà
gettargli, e io sono come loro un essere umano quindi un rifuto
immondo schiavo degli istinti, un cane, un cane che morde quando ha paura e cerca le carezze. Rivedo la mia infanzia e la mia vita
di cucciolo a Tangeri; i miei vagabondaggi di bastardino e i miei
guaiti di cane bastonato; capisco la mia agitazione in presenza
delle femmine, che scambiavo per amore, e capisco soprattutto la
mancanza di un padrone, che ci spinge tutti a vagare nel buio alla
sua ricerca, annusandoci fra noi, smarriti, senza meta. A Tangeri
facevo cinque chilometri a piedi due volte al giorno per andare a
guardare il mare, il porto e lo Stretto, anche adesso cammino tanto, e leggo, sempre di più, un buon modo per ingannare la noia,
la morte, per ingannare anche la mente distraendola, allontanandola dall’unica verità, che è questa: siamo animali in gabbia che
vivono per godere, nel buio. Non sono mai più tornato a Tangeri, però ho incontrato tizi che sognavano di andarci da turisti,
affttare una bella villa sul mare, bere il tè al Café Hafa, fumare
hashish e scoparsi qualche indigeno, perlopiù maschio ma non
necessariamente, alcuni sperano di farsi chissà quali principesse
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da Mille e una notte, ve lo assicuro, in tanti mi hanno chiesto se
potevo organizzargli un piccolo soggiorno a Tangeri, con hashish
e autoctoni, per riposarsi, e se avessero saputo che l’unico culo
che ho visto prima dei diciotto anni era quello di mia cugina
Meryem ci sarebbero rimasti secchi o non mi avrebbero creduto,
poiché loro associano Tangeri a una sensualità, un trionfo del
desiderio, una permissività che per noi non ha mai avuto, ma
che nella nostra miseria offriamo al turista in cambio di monete
sonanti. Nel nostro quartiere di turisti non ne venivano. Il palazzo dove sono cresciuto non era né ricco né povero, e così la mia
famiglia, mio padre era un uomo pio, quel che si dice un uomo
dabbene, un uomo retto che non maltrattava né la moglie, né i
fgli – a parte qualche calcio nel sedere ogni tanto, che non ha
mai fatto male a nessuno. Uomo di un solo libro, ma quello giusto, il Corano: non gli serviva altro per sapere cosa doveva fare
in questa vita e cosa lo aspettava nell’altra, pregare cinque volte
al giorno, rispettare il digiuno, fare l’elemosina, il suo sogno era
andare in pellegrinaggio alla Mecca, essere chiamato Haji,1 Haji
Mohsen, era la sua unica ambizione, non gli interessava lavorare
duro per trasformare la bottega di alimentari in un supermercato, non gli interessava guadagnare milioni di dirham, aveva il
Libro la preghiera il pellegrinaggio e fne; mia madre lo venerava
e univa un’obbedienza quasi fliale a una condizione di schiavitù
domestica: sono cresciuto così, con le sure del Corano, la morale,
le storie del Profeta e dell’epoca gloriosa degli Arabi, sono andato in una scuola qualsiasi dove ho imparato un po’ di francese
e un po’ di spagnolo e ogni giorno scendevo con il mio amico
Bassam verso il porto, nella parte bassa della Medina e al Grande
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Haji è, in arabo, l’appellativo con cui ci si rivolge a chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. (N.d.T.)
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Socco a lumare le turiste, appena ci son spuntati i peli sulle palle
questa è diventata l’attività principale di me e Bassam, puntare
le straniere, soprattutto d’estate quando portano gli shorts e le
gonne corte. d’altronde d’estate non c’era praticamente un cazzo da fare, se non seguire le ragazze, andare in spiaggia e farsi
delle canne se qualcuno ci mollava un tocco di hashish. Leggevo decine di vecchi gialli francesi che compravo usati per pochi
spiccioli da un bouquiniste, dei gialli perché quasi sempre c’era
un po’ di sesso, c’erano donne bionde, macchine, whisky e grana, tutte cose che a noi mancavano, che nemmeno ci potevamo
sognare, intrappolati com’eravamo tra le preghiere, il Corano e
dio, che era un po’ come un secondo padre ma senza i calci nel
sedere. Ci piazzavamo in cima alla scogliera davanti allo Stretto,
circondati dalle tombe fenicie, che poi erano solo dei buchi nella
roccia, pieni di pacchetti di patatine e lattine di Coca più che di
cadaveri antichi, tutti e due con le cuffette nelle orecchie, e ce ne
stavamo lì per ore a guardare il viavai dei traghetti fra Tangeri e
Tarifa. Ci rompevamo da morire. Bassam sognava di andarsene,
di tentare la fortuna sull’altra sponda, come diceva lui; il padre
faceva il cameriere in un ristorante per ricconi sul lungomare. Io
non ci pensavo granché, all’altra sponda, alla Spagna, all’Europa, mi piacevano le cose che leggevo nei gialli, ma tutto fniva lì.
Grazie a quei romanzi imparavo una lingua, conoscevo dei Paesi;
ero fero di scoprirli, di averli tutti per me, non volevo che quella
bestia di Bassam me li sciupasse con le sue ambizioni. All’epoca
a tentarmi era soprattutto mia cugina Meryem, la fglia di mio zio
Ahmed; viveva sola con la madre, sul nostro stesso pianerottolo, il padre e i fratelli facevano i braccianti agricoli ad Almería.
Non era molto carina, ma aveva un gran seno e due belle chiappe
tonde; in casa portava jeans attillati o abiti mezzo trasparenti,
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dio mio, dio mio, mi eccitava da matti, mi chiedevo se lo faceva
apposta, e nelle mie fantasie erotiche prima di addormentarmi
mi immaginavo di spogliarla, di accarezzarla, di affondare la faccia tra le sue tette enormi, ma non sarei mai riuscito a fare il
primo passo. Era mia cugina, avrei potuto sposarla, ma non palpeggiarla, non stava bene. Mi limitavo a sognare, a parlarne con
Bassam durante i nostri pomeriggi passati a contemplare la scia
delle navi. Oggi mi ha sorriso, oggi portava questo o quello, credo che avesse un reggiseno rosso ecc. Bassam annuiva dicendomi
ti vuole, è sicuro, la attizzi, altrimenti non ti farebbe un numero
del genere, ma quale numero, rispondevo, è normale che si metta
un reggiseno, no? Sì, ma rosso, bello mio, ti rendi conto? Il rosso
è apposta per eccitare, e avanti così per ore. Bassam aveva una
bella facciotta da povero, tonda con gli occhi piccoli, andava tutti
i giorni alla moschea, con il suo vecchio. Passava il tempo a escogitare piani assurdi per emigrare clandestinamente, travestito da
doganiere, da poliziotto; sognava di rubare i documenti a un turista e, ben vestito, con una bella valigia, prendere tranquillamente
il traghetto come se niente fosse – gli chiedevo ma che cazzo
faresti in Spagna senza un soldo? Lavorerei un po’ per mettere
qualcosa da parte e poi andrei in Francia, rispondeva, in Francia
e poi in Germania e da lì in America. Non so perché, si era messo in testa che fosse più facile andare negli Stati Uniti partendo
dalla Germania. Fa molto freddo in Germania, dicevo. E poi lì
gli arabi non li amano. Non è vero, diceva Bassam, i marocchini
gli sono simpatici, mio cugino fa il meccanico a düsseldorf ed
è contentissimo. Basta che impari il tedesco, e loro ti rispettano
alla grande, pare. E il permesso di soggiorno te lo danno con
molta più facilità dei francesi.
Confrontavamo i nostri castelli in Spagna, da un lato le tette