Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
JAMIE VARDY
DAL NULLA
LA MIA STORIA
con Stuart James
Traduzione di Stefano Chiapello
Vardy, Jamie, From Nowhere. My Story
First published in 2016 by Ebury Press. Ebury Press is part of Penguin Random
House group of companies.
Copyright © Jamie Vardy 2016
© 2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-452-8309-3
Prima edizione Bompiani novembre 2016
PROLOGO
“JAMIE VARDY È PRONTO A FAR FESTA”
Avevo preso dal sacchetto blu la prima lattina di Stella Artois e
l’avevo aperta. Erano le undici del mattino di lunedì 2 maggio, e
le strade del centro di Leicester erano silenziose; per le successive sette ore un ago carico di inchiostro mi avrebbe martellato
le costole, la pancia, i fianchi e la schiena. E la mia anestesia era
una confezione da quattro di birra.
Sulla porta del Blue Ink Tattoo Studio di Belgrave Gate era
appeso il cartello CHIUSO, ma aveva aperto in via eccezionale per
una seduta privata che eravamo finalmente riusciti a concordare dopo settimane di tentativi; il proprietario, Wes Morgan, si
era preso un giorno libero, ventiquattro ore dopo aver segnato
il gol del pareggio contro il Manchester United, ma il suo staff
mi aveva messo completamente a mio agio mentre sorseggiavo
la birra che mi avevano comprato al negozietto all’angolo.
Una coppia di passanti rimase piuttosto sorpresa di vedermi dietro la vetrina, appollaiato su uno sgabello nella sala d’attesa mentre osservavo l’orologio da tasca che era stato
disegnato per ricordare il momento della nascita di mia figlia
Sofia; non potevo fare a meno di pensare che sembrasse leggermente più professionale del mio primo tatuaggio, che avevo fatto nel salotto di casa di qualcuno a Sheffield e mi era
costato 25 sterline.
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Mi ero tolto la maglietta ed ero entrato in uno degli studi,
avevo sistemato il mio iPad su un tavolino e avevo guardato
tre partite di seguito – Walsall-Fleetwood, Brighton-Derby e
Burnley-QPR – tra smorfie e sussulti, mentre la mia pelle trasudava sangue.
C’era ancora una partita da vedere, quello stesso giorno,
Chelsea-Tottenham Hotspur a Stamford Bridge, ma dovevo
finire il tatuaggio ed essere a casa prima che iniziasse; quando
Christian Fuchs e Robert Huth passarono a prendermi, poco
dopo le sei, per tornare a Melton Mowbray, internet già pullulava di servizi che raccontavano: “Jamie Vardy è pronto a
far festa.” E meno male che all’Old Trafford ci eravamo messi
d’accordo per fare tutto in gran segreto.
Quel pomeriggio Wes mi aveva chiamato non tanto per avere aggiornamenti sul tatuaggio quanto per discutere i dettagli
sulle ore successive: gli addetti stampa del Leicester avrebbero
filmato e fotografato i festeggiamenti per la vittoria del campionato, nel caso che il Tottenham non fosse riuscito a battere
il Chelsea, e il capitano voleva assicurarsi che nessun giocatore
avesse problemi a riguardo. Alla fine concordammo di permettere ad alcuni di loro di essere presenti alla festa, che peraltro
ormai avrebbe anche potuto essere pubblicizzata con dei volantini, dato che c’era un sacco di gente accampata fuori da
casa mia che cercava di guardare oltre il muro.
In casa, sei o sette dei ragazzi stavano davanti al televisore,
mentre gli altri si erano piazzati nel soggiorno, con bottiglie di
birra che passavano di mano in mano e occasionali bicchieri di
whiskey utili a calmare i nervi. Io ero allungato sul pavimento, e mangiucchiavo qualcosa mentre cercavo di trovare una
posizione in cui il tatuaggio mi desse meno fastidio possibile.
Tutti erano tranquilli e rilassati, fino al fischio d’inizio: a quel
punto, come se fossimo stati in un pub del centro, indossammo
le magliette del Chelsea e a ogni fallo del Tottenham urlavamo
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in direzione della TV: “Arbitro! Buttalo fuori!” Quando Harry
Kane superò Asmir Begović e aprì le marcature, si udì ogni imprecazione concepibile, e il raddoppio degli Spurs poco prima
dell’intervallo rovinò del tutto l’atmosfera. “Be’, valeva la pena
di darci un’occhiata,” dissi a Wes.
Aveva finito per essere poco più di una sbevazzata, per i
ragazzi, e potevamo già immaginare i titoli del giorno dopo sul
Tottenham che era riuscito a rovinarci la festa, con tanto di
foto dei giocatori che uscivano da casa mia con “espressione
cupa”. Il Chelsea sembrava morto e sepolto, e tutti stavamo
già pensando alla partita del sabato successivo, in casa contro
l’Everton. “Ci toccherà chiudere lì la questione,” dissero alcuni, tentando di risollevare il morale.
Ma poco prima dello scoccare dell’ora, tutto cambiò. Su calcio d’angolo di Willian, Gary Cahill batté Hugo Lloris con un
tiro di sinistro che scacciò il malumore: “Cazzo, ha segnato!”
Improvvisamente la partita era riaperta, e noi non facevamo più semplicemente il tifo per il Chelsea, ma letteralmente
giocavamo per la squadra di Guus Hiddink, cercando da una
parte di deviare in rete il cross basso di Eden Hazard e dall’altra di opporci al tiro di Christian Eriksen.
E poi accadde.
Hazard ricevette la palla largo sulla destra, sgusciò tra un
paio di avversari, effettuò un passaggio a Diego Costa, raccolse
il passaggio di ritorno e… c-a-z-z-o! Con un fantastico tiro a
giro di destro il numero 10 del Chelsea spedì la palla nell’angolino alto e Melton Mowbray esplose.
La gente correva dappertutto: Riyad Mahrez e Matty James
superarono con un salto il cancelletto delle scale e si unirono a
un ammasso di corpi che si abbracciavano; io presi la scorciatoia e dalla cucina saltai sul divano del soggiorno con una capriola – mossa che non si vedeva dalla prima giornata di campionato, quando avevo segnato contro il Sunderland – mentre
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Marcin Wasilewski trascinava Wes per la cucina tirandolo per
le caviglie. Era un pandemonio.
Durante gli ultimi sette minuti ci riunimmo tutti in cucina,
dove gli addetti stampa stavano sistemando freneticamente la
loro attrezzatura; eravamo a un passo dalla TV e a un passo dal
titolo, stavamo tutti lì, spalla contro spalla, senza staccare gli occhi dallo schermo mentre contavamo i secondi che mancavano.
Era come stare ad aspettare il rintocco del Big Ben la notte di Capodanno, solo che quello succedeva ogni dodici mesi,
mentre non accadeva da 132 anni che il Leicester vincesse il
campionato. Erano stati concessi sei minuti di recupero e il
cronometro segnava quasi il 97’ quando Willian giocò la palla
sull’esterno per Hazard, che la toccò una volta prima del fischio finale: l’arbitro Mark Clattenburg fischiò tre volte, ma
noi udimmo solo la prima.
La stanza semplicemente esplose, fu qualcosa di incredibile: eravamo in estasi, completamente impazziti, ballavamo per
la cucina, urlando, abbracciandoci e stringendoci l’un l’altro;
eravamo scatenati, una macchina fotografica iniziò a scattare,
la TV andò fuori uso e noi iniziammo a cantare “Campioni!
Campioni! Olé! Olé! Olé!”
Non ci potevo credere, nessuno poteva crederci; uno dei
ragazzi piangeva, un altro continuava semplicemente a scuotere la testa. Fuori, sulle scale che scendevano in giardino, un
paio di giocatori si erano presi un momento per loro, e il prato
sembrava il cortile di una prigione con gente che camminava
su e giù. Altri erano al telefono con mogli o amici, mentre altri
ancora cercavano semplicemente di capacitarsi dell’accaduto.
Ma nulla di tutto ciò aveva senso, né al momento del fischio
finale né quando andai a dormire sei ore e mezza dopo. Il Leicester City, candidato alla retrocessione e dato 5000 a 1 per la
vittoria finale, aveva vinto la Premier League.
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1.
STRISCE BIANCHE E BLU
David Hirst. Non volevo essere nessun altro. Tutte le volte
che avevo il pallone tra i piedi, cioè in ogni momento libero
della giornata, mi trasformavo nel leggendario attaccante della
mia squadra del cuore.
Idolatravo David Hirst perché faceva esattamente quello che
avrei voluto fare io: segnare gol per lo Sheffield Wednesday. E
lui lo faceva meglio di chiunque altro: di sinistro, di destro, di
testa, con tocchi ravvicinati, tiri al volo, cannonate – ogni tipo
di gol esistente, Hirst l’aveva segnato. E io avevo fatto lo stesso,
ricreando tutti quei gol, telecronaca compresa, nel giardino sul
retro di Malin Bridges, o nel parcheggio del pub dall’altra parte della strada, dove una struttura di arrampicata fuori dal Yew
Tree Inn fungeva da porta. Anche se non poteva saperlo, David
Hirst in quel piccolo spiazzo di cemento segnava tantissimo,
proprio come a Hillsborough.
I miei genitori vivevano di fronte al pub, in una villetta bifamiliare con tre stanze da letto, in Loxley Road; ci eravamo
trasferiti lì mentre stavo terminando il mio ultimo anno alla
Malin Bridge Primary School. Spesso giocavo a “Wembley”
nel parcheggio finché faceva buio, cercando di segnare un gol
che valeva doppio facendo passare il pallone all’interno dei
triangoli posti negli angoli alti della struttura di arrampicata.
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Ashley Cross, che viveva a un paio di isolati di distanza e
frequentava la mia stessa scuola, faceva parte di quella dozzina
circa di ragazzi che giocavano con me, insieme a Tim Stanton e
a suo fratello Ben, che poi diventò il chitarrista della band indie
Harrisons – nome ispirato a Harrison Road, che era a un tiro
di schioppo dal pub.
Indossavo quasi sempre il mio completo bianco e blu dello Sheffield Wednesday, e rivivevo le partite che avevo visto a
Hillsborough, che era distante circa tre chilometri da casa mia
e dominava tutta la zona circostante, oltre alla mia infanzia.
Mio padre aveva cominciato a portarmi a Hillsborough
quando avevo circa 5 anni, e i nostri posti erano sulla Kop,
una delle tribune a settore unico più grandi d’Europa: poteva
ospitare circa ventimila persone – non pensavo nemmeno che
ci fossero così tanti tifosi del Wednesday – su una gradinata
enorme, che sembrava estendersi all’infinito. Dal momento che
ero molto piccolo mi faceva sedere su una delle ringhiere blu, e
non c’era visuale migliore: era come contemplare il mondo dei
sogni, mentre guardavo John Sheridan, John Harkes e Nigel
Pearson giocare per quel Wednesday che nel 1992 giunse terzo
nell’allora First Division.
Adoravo quell’atmosfera, i cori e il boato quando il Wednesday segnava, ma più di tutto amavo l’attaccante che tutti chiamavano “Hirsty”: il numero 9 del Wednesday aveva un sinistro
esplosivo – la sua conclusione al volo a 183 km/h che quasi
spezzò la traversa ad Highbury nel 1996 fu messa agli atti come
il tiro più potente nella storia della Premier League – e ogni
volta che era in possesso di palla potevi sentire l’eccitazione
salire; mi aspettavo sempre che succedesse qualcosa, così come
tutti intorno a me.
Sir Alex Ferguson insisteva per portarlo al Manchester United, ma Hirsty giocò per più di un decennio a Hillsborough; il
Wednesday era la sua squadra così come era la mia, e indossava
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quella celebre maglia come se ne andasse della sua vita. Ricordo quando nell’agosto del 1992 si ruppe la caviglia contro
l’Arsenal e non solo continuò a giocare, ma segnò anche un
gol meraviglioso, una fantastica sforbiciata di sinistro, dopo la
quale rimase a terra a faccia in giù, incapace di esultare o anche
solo di muoversi.
La mia ossessione per David Hirst, per lo Sheffield Wednesday e per il calcio probabilmente non mi aiutò a scuola, e di
sicuro creò qualche problema con i vicini di casa; a questo proposito, a distanza di più di vent’anni, devo fare una confessione
alla povera signora che viveva di fianco a noi in Holme Lane, a
Malin Bridge.
C’erano quattro case una di fianco all’altra, con un giardino
comune che si estendeva sul retro, e io sapevo che alla vicina
non andava che io giocassi a calcio lì; in realtà, dire che non le
andava è un eufemismo, perché non lo sopportava proprio e se
ne lagnava in continuazione, e addirittura a un certo punto aveva cominciato a bucarmi tutti i palloni. Devi essere veramente
cattivo per fare una cosa del genere a un bambino.
Così, quando un giorno vidi che le avevano consegnato
una finestra, che era stata depositata sul retro di casa sua, ebbi
l’occasione di vendicarmi. La finestra, si accorse la signora in
seguito, era stata rotta prima che i vetrai potessero montarla;
quello che nessuno sapeva era che il responsabile ero io, che vi
avevo tirato contro un mattone.
Non fu un bel gesto, lo ammetto, e sarei stato davvero nei
guai se i miei genitori l’avessero scoperto, ma per come la vedevo io impedirmi di giocare a calcio era un crimine ben peggiore, perché era l’unica cosa che desideravo sin da quando avevo
imparato a camminare.
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