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Montalban, Manuel Vàzquez (1839 - 2003)
Millennio. 1. Pepe Carvalho sulla via di Kabul, Feltrinelli, 2004
[Milenio. Carvalho. I: Rumbo a Kabul, 2004]
[Abstract: (dal risvolto di copertina) Mentre in un dei palazzi del potere di Barcellona Pepe
Carvalho viene accusato di omicidio, quest’ultimo e l’inseparabile Biscater si sono già imbarcati,
sotto i falsi nomi di Bouvard e Pécuchet, su una nave diretta a Genova. Appena arrivati, si
ritrovano su un’automobile con i freni manomessi. Usciti indenni, i nostri eroi proseguono la loro
avventura verso la Grecia, ormai decisi a fare il giro del mondo].
[15]
“Esperto nei diminutivi della letteratura medioevale spagnola”, così si era presentato Carvalho
quando madame Lissieux gli aveva chiesto della sua professione, e Biscuter aveva confermato, non
senza avergli rivolto un cenno di sorpresa con un breve aggrottamento di fronte. Era la prima volta
che sentiva Carvalho mentite sulla sua professione, e attribuì il fatto alla voglia di prendersi una
vera vacanza con l’intenzione di fare il giro del mondo, il che è sempre qualcosa di più di un’ansia
di verifica geografica.
[17-18]
Carvalho chiese come raggiungere in macchina la necropoli di Staglieno per poi imboccare la strada
per Roma; si trattava soltanto di salire, salire sempre dal livello del mare fino alla cornice dove
spiccava il taglio implacabile dell’autostrada. “E Genova?” domandò Biscater. […] Anche Biscater
sembrava armato di forchetta e coltello in attesa del banchetto del mondo quando arrivò il turno di
Carvalho di scendere dal traghetto e affrontare un confuso paesaggio di porto convenzionale e di
superstrade elevate. Non aveva rivelato a nessuno il suo itinerario genovese, ma Biscater estrasse da
una poderosa valigetta-biblioteca il libro più adatto, la cartina della città e tutto quanto era
necessario sapere per raggiungere il cimitero.
[72-73]
Il ritorno al Cairo suggerì a Carvalho un percorso che gli avrebbe permesso di soddisfare il suo
desiderio di raggiungere il Bosforo, ma attraversando Israele, la Palestina, brevemente il Libano,
ancor più brevemente la Siria e, quanto prima, la Turchia. […]
Finita la crociera, tornarono al Cairo in aereo. La macchina era lì ad attenderli, mezzo nascosta. […]
in un parcheggio improvvisato accanto all’aeroporto […]. Sul cofano del fuoristrada studiarono il
percorso che ignorava la qualità delle strade, o almeno quando cessavano di essere asfaltate per
diventare sterrate, sperando tuttavia che fino a Suez le necessità del traffico commerciale
garantissero una buona pavimentazione. Non era male, ma quasi tutte le indicazioni erano scritte in
arabo […]
[74-75] […]
Pochi minuti dopo videro sulla cresta del deserto pietroso un numeroso gregge di pecore guidato da
un pastore che sembrava uscito da un presepe natalizio italiano o spagnolo. Gli si avvicinarono e gli
esposero, con i migliori sorrisi, la loro intenzione di raggiungere Eilat. Ma non pronunciavano bene
il nome della città, per cui ritennero necessario indicargliela sulla cartina, finché capirono che non
sapeva leggere. A un tratto, il pastore si mise a parlare in inglese a ricordare la sua condizione di
giovane soldato dell’esercito di Nasser durante le spietate lotte del 1967. […]
Il pastore si alzò e con una certa solennità e, altrettanto solennemente, scrutò le tre strade possibili
indicando tassativamente quella in mezzo.
[78] […]
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Erano a più di trecento chilometri da una delle città sante della Terra e dovevano prendere il
Canyon Rosso verso Be’er Sheva. Carvalho si era messo al volante perché Biscuter potesse
ammirare e applaudire la spettacolare geologia che prometteva persino di migliorare se avessero
preso la strada della valle della Luna, una delle tante valli della Luna ubicate in diverse geografie,
una valle della Luna fra le tante su un pianeta Terra timoroso.
[108] […]
Fu necessario svegliare l’ospite per passare il controllo alla frontiera con la Seria. […] Samuel –
Carvalho e Biscuter ormai lo chiamavano per nome – seguì con sonnacchiosa indifferenza le
procedure alla frontiera. Non erano esattamente in missione ufficiale vera e propria, ma in gita
verso la costa turca, dove speravano di poter vedere gli esempi di architettura greca più straordinari
del mondo. L’ufficiale non ci credeva del tutto, turchi e greci? La Turchia è la Turchia e la Grecia è
la Grecia. Ma nel passato le carte geografiche non erano quelle di adesso, e l’ufficiale convenne che
la cosa era possibile e si segnò il nome di Efeso per parlarne con il figlio, che sapeva tutto a
proposito di storia, battaglie e rovine.
[126]
“A quest’età, si disse [Carvalho] “non vale la pena conservare nulla di quel che vivi né di quel che
temi, e si può solo impregnare la pelle di percorsi, visto che qualcuno ha scritto saggiamente, che la
parte più profonda dell’uomo è la pelle”.
[130-131] […]
Ma noi abbiamo interamente perso il senso di linearità di ogni giro del mondo ed è perfino possibile
che riesca a compierlo in ottanta giorni, un record sciocco fra tutti i record sciocchi che si possono
raggiungere. Il giro del mondo andrebbe fatto in ventiquattro ore o in tutta la vita o più volte,
seguendo percorsi monotematici. Un giro del mondo senza visitare una rovina, per esempio, o
mangiando solo ai McDonald o supponendo di visitare un paese che non è quello che si sta
visitando. Immagina Biscuter, che questa non sia la Turchia, ma il Portogallo o L’Argentina, e filtra
tutto quello che vedi, senti e sai attraverso le tue conoscenze portoghesi o argentine. Il Bosforo
sarebbe l’estuario del Tago o i canali del Tigre di Buenos Aires e noi saremmo qui ad aspettare una
guida tedesca alle rovine di Mision o per la visita a Fatima. C’è un altro modo di alterare la
geografia?”
“La geografia è quella che è”. Biscuter possedeva il dono dell’ovvietà, ma aggiunse: “Alla fine del
nostro viaggio potremo trarre conclusioni simili, perché lei lo ha iniziato da un posto e io da un
altro, anche se in apparenza siamo partiti dallo stesso porto e a bordo della stessa nave. Del resto,
non dobbiamo nemmeno coincidere nel finale”.
[156-158] […]
Mentre chiudeva e apriva gli occhi, Malena spingeva una porta che rivelava lo spazio di una piccola
aula dove qualcosa di simile a un derviscio in abiti borghesi insegnava a una trentina di persone.
[…]
[…] il professore si piazzò davanti a una lisa tela cerata con le zone del caviale del mondo e si mise
a indicarle con una bacchetta, […]
Levò la mappa di tela cerata dalla parete e al suo posto apparve un grande poster dove si
specificavano i diversi tipi di caviale.
[171-172] […]
Poi il paesaggio attirò la sua attenzione, perché a sinistra iniziava un deserto di tutto rispetto, uno di
quelli che l’avevano seguito fin dalle medie come luoghi speciali, singolari, non tanto estesi quanto
quello del Sahara. Il deserto del Kalahari, per esempio. E lì a destra c’era il deserto del Karakum e
più a nord quello di Kizilkum, frammenti della sua rotta memoria geografica insieme ai fiumi vicini
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e che sembravano appartenergli da sempre. Nell’Amu Daria avrebbe potuto bagnarsi i piedi,
accettando che la toponomastica la chiamasse Amu Darja, e non poteva essere troppo lontano il SirDarja, vale a dire, il suo libro di geografia conosceva la terra e comunicava la sua conoscenza ai
futuri viaggiatori e turisti. […]
[186-187] […]
Tra la voglia di visita sedimentata della città e quella di sapere come agire, decise di restare due
giorni nella capitale di Tamerlano […], Su una cartina della città dove non si facevano concessioni
ai vecchi quartieri incistati, il receptionist tracciò un cerchio proprio nel mezzo. Lì c’era tutto e la
cosa più sensata era inserirsi in un gruppo con la guida o trovarsi una guida tutta per sé […].
[200]
La strada di asfalto diventò più volte di terra battuta e sassi e fu sempre una tortura da spezzare la
schiena, nemica dei loro scheletri, appena compensata dalla bellezza feroce di un paesaggio che
sembrava in abbandono. Carvalho convocava le sue emozioni geografiche, fingeva entusiasmi per il
fatto di trovarsi tanto vicino alla geografia più esotica che mai avesse studiato, l’Indukush o
l’altipiano del Pamir, “il tetto del mondo”, come recitava il titolo dell’occhiello del suo libro di
geografia fisica e politica. Erano lì, ai lati dei sentieri o sparpagliati tra i molti campi incolti e i
pochi lavorati, i personaggi che più di cinquant’anni prima gli avevano inculcato il sospetto o la
speranza che l’uomo fosse la misura di tutti i paesaggi. […]
[262-263]
“Il mio nome è Paganel, sono un geografo francese, ultimamente specializzato in geografia
religiosa.”
“Ignoravo che esistesse tale geografia.”
“E’ un nuovo concetto che ho brevettato e in un certo senso imposto nell’università francese, e
persino in alcune università americane si parla della geografia religiosa di Paganel. Non solo mi
interessano i luoghi sacri della Terra che sono rimasti tali anche con un cambio di religione e di dèi,
mi interessa inoltre la sociologia della religione e il rapporto tra politica e religione. Io sono ateo. E
di questo ringrazio me stesso, non Dio”.
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