il vampiro innamorato

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il vampiro innamorato
IL VAMPIRO INNAMORATO
di
Daniele Signorini
Parte prima: Il mostro della notte
Le luci del crepuscolo si smorzano sopra la fitta e cupa foresta di Glengarrion, circondata da desolate,
paludose brughiere. Il sole è declinato sotto l’incerta linea dell’orizzonte, tra nubi arancio-crema, nel trionfo
rosseggiante di un’aureola dorata. I primi raggi della luna piena, un bianco teschio ghignante incastrato
nell’emisfero del cielo limpido, si insinuano faticosamente nel fitto groviglio dei rami di conifere, di querce
e di bassi cespugli spinosi per raggiungere il soffice tappeto di muschi e di foglie secche che marciscono sul
terreno. Alle lugubri note del canto dei caprimulghi si mescola, in bizzarra cacofonia, la voce lamentosa di
una civetta.
E’ un fantoccio, un pupazzo che si muove comandato da fili invisibili, al sorgere e al calar del sole. Di
giorno dorme nell’oscurità profonda, umida e gocciolante di una cripta sotterranea, immobilizzato dal canto
del gallo dentro una massiccia, polverosa e spoglia cassa di mogano, un sonno profondo e senza sogni, a
dispetto degli occhi sbarrati, un rivolo di sangue che si rapprende sulle sue labbra sottili congelate in una
smorfia inumana e distorta. Calato il sole esce dal suo rifugio muovendosi prima a strappi, sonnambulico,
quasi oppresso dal rigor mortis, poi come un felino, a suo agio nell’oscurità più profonda, alla ricerca di una
preda. Una qualsiasi pulsante fonte di vita da cui spillare il liquido rosso, denso e caldo per spegnere il
tormento della sua sete innaturale, eterna, irresistibile.Uomo, tu che ancora vivi: prega di non sapere mai che
cos’è la sete!.......Le sue fredde ed esangui mani marmoree, portatrici di una forza sovrumana, trasmettono la
gelida rigidità della lapide, la loro stretta è un abbraccio ferreo e mortale. Negli occhi fosforescenti balenano
riflessi rossastri che sembrano proiettati dalle fiamme dell’Inferno, nella pupilla è impressa l’immagine di
un nero pipistrello svolazzante. Non è suo, è il sangue delle vittime che scorre, goccia a goccia, denso e
scuro, nelle sue antiche vene. Il petto non si alza nel respiro, mai il cuore pulsa in un battito vitale. La sua
voce ha gli echi sepolcrali di un sussurro spettrale. Il passo guardingo e felpato è quello della pantera, il
sorriso una smorfia ferina, un sogghigno incorniciato da acuminati, bianchissimi, lampeggianti canini.
Uscito fuori si guarda attorno, vedendo distintamente attraverso la barriera delle fitte ramaglie del bosco,
con la chiarezza del pieno giorno. Alle strida di una civetta che passa alta sul suo capo risponde con un
grido, rauco e sibilante allo stesso tempo. Per un attimo è come se un invisibile fantasma impastato di gelo
polare penetrasse veloce attraverso la boscaglia.
Parte seconda: L’orrendo contagio
Si rilassò, facendo il gesto di alzarsi e rischiando di cadere, perché stava già in piedi. I suoi sensi amplificati,
animaleschi, sovrannaturali, avvertivano il sibilo del vento che scavalcava colline lontane, il battito del
cuore di un passero che volava alto sopra la boscaglia. Al suo sguardo indagatore la luna appariva non come
un piccolo cerchio immerso nel buio, ma come un immane disco lattiginoso, butterato di crateri, che
invadeva un’ampia zona del cielo. Si appoggiò al basamento di una statua di alabastro annerita e consunta,
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lasciando qualche attimo le braccia ciondolare attorno al corpo, con un gesto che sembrava di noia o di
stanchezza. Ed era così. Il suo pensiero uscì dalla tenebra e tornò a molto tempo addietro, quando faceva
parte ancora dei vivi, che preferiscono di gran lunga la luce del sole al buio della notte. Chi era, o meglio chi
era stato, centinaia di anni addietro, prima di essere colpito dalla maledizione del nosferatu, del morto
vivente? Uno sforzo della mente, ancora umana nonostante la sua condizione ed il lungo tempo trascorso e il
ricordo si materializzò, lucido, doloroso come una ferita mai rimarginata: era John Winkler, morto da secoli!
Viveva in un paesello non molto lontano, ai tempi in cui era da poco finita la guerra sanguinosa e fratricida
che aveva contrapposto la rosa degli York a quella dei Lancaster, ricorda ancora il passaggio di squadre di
armigeri che, cantando canzoni sguaiate si avviavano con le loro alabarde e gli elmi luccicanti allo scontro,
mentre altri manipoli ritornavano, in disordine, alla spicciolata, con feriti, laceri e mutilati avvolti in stracci
polverosi e sanguinanti, sconfitti e senza speranza. Allora bisognava fuggire e nascondersi nelle campagne
vicine perchè quelle bande di disperati, perso ogni brandello di disciplina, erano usi alla violenza e pronti al
saccheggio.
Un giorno maledetto egli si era spinto, insieme con la sua bellissima e dolce Lisa, la figlia del sellaio del
paesello, che divideva con lui gli aneliti e i sospiri dei diciott'anni e con la quale aveva giurato eterno amore,
nei recessi della foresta, spingendosi per uno stupido gioco di falso coraggio e di malsana curiosità, nella
zona che nessuno frequentava perchè, dicevano gli anziani, era un luogo da cui nessuno tornava più indietro.
O, peggio ancora, chi tornava non era più lo stesso. Una volta avventuratisi in quella parte maledetta del
bosco, priva di sentieri, si erano persi e avevano vagato, impauriti e soli, finché, sorpresi dalla notte si erano
imbattuti nelle annerite rovine dell’antico maniero di Karnstein. Quel castello, ricordava ora come allora,
era stato bruciato oltre due secoli prima dagli abitanti inferociti dei paesi vicini, che avevano trovato il
coraggio di riunirsi in processione e distruggere con le fiamme la lugubre e sinistra costruzione, insieme con
la famiglia maledetta di adoratori del demonio, che rapivano di notte i loro figli per nutrirsi col loro sangue e
perpetuare così la loro immonda e sacrilega esistenza. Si ricordava, con strana lucidità e precisione i brividi
che avvertiva quando il nonno gli raccontava, seduto davanti al fuoco di cerro scoppiettante nel focolare
nelle lunghe serate invernali, che quella notte le potenze maligne sembravano voler proteggere i maledetti
castellani di Karnstein, avvolgendo i sentieri del bosco in una nebbia fredda e impenetrabile, fumigante
attorno alle croci brandite dai preti che guidavano la folla salmodiante e incerta stretta attorno ai simboli
della fede. Ma qualcuno – o qualcosa – era rimasto tra quelle rovine, perchè chi si spingeva in quella zona
del bosco, resa quasi impenetrabile da una barriera di rovi e di rami, difficilmente faceva ritorno. Vivo,
almeno. John Winkler si rifiutava di ricordare cosa gli era accaduto, ma in realtà non poteva dimenticare
che, come sorta dalle rovine, la malvagia castellana, Ludmilla di Karnstein, bellissima coi lunghi fulvi
capelli e avvolta nel suo lungo mantello blu notte ornato da filigrane d’oro, aveva accolto i due ragazzi
prima con falsa cortesia, offrendosi di indicare loro il sentiero per uscire dalla foresta. Li aveva invece
contaminati col bacio del vampiro, suggendone il sangue e iniziando così i due infelici giovani alla non-vita,
l’esistenza eterna, errabonda, degenerata e lunare dei morti viventi. Non erano più tornati al loro paesello.
Parte terza: Morte!
Terribile, terribile, l’intenso dolore lo pervade, lo sovrasta, lo domina!
Si gettò indietro con un gesto meccanico le pieghe del lungo mantello nero, svolazzante nella brezza
notturna. Profonda, la neritudine della notte lo avvolse. Era rimasto solo! Non era bastato trovare come
rifugio un inaccessibile sotterraneo dimenticato da tutti, un vano polveroso, pieno di vecchie ragnatele e di
gocciolante umidità, sufficiente per sfuggire alla caccia degli uomini ma non al trascorrere inesorabile e
paziente del tempo e allo scatenarsi della furia cieca e impersonale della bufera. Per giorni e notti la pioggia
e il vento di erano abbattuti ferocemente, squassando e dilavando le diroccate e malferme mura, gli
smottamenti avevano scoperto le fondamenta del perduto, dimenticato maniero di Glengarrion. Cedendo alla
forza degli elementi, una pesante grata di ferro rugginoso, vinta dal fulmine, si era spezzata penetrando in
profondità, come una lancia, nei pavimenti marciti e nei soffitti indeboliti e sconnessi, fino a piombare come
un proiettile, con un tonfo rovinoso dentro il sotterraneo in cui i due vampiri giacevano immersi nel pesante
letargo del giorno pieno. Le punte aguzze della grata avevano sfondato il coperchio della bara,
raggiungendo il petto e il cuore di Lisa, trapassandolo con la forza di un maglio.
I lunghi capelli castani uscivano dalla cassa ma sul corpo della non morta era caduta l’immobilità marmorea
della morte vera, assoluta, definitiva.
Parte quarta: Solo!
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John Wkler, sorto dal suo duro giaciglio al calar del sole, vide il disastro attorno a sé, la ferita aperta nel
soffitto a volta del suo rifugio, l’inferriata rugginosa precipitata sulla bara della compagna. Cosa era
accaduto lo immaginava, non aveva però il coraggio di guardare: la paura, una emozione che non provava
più da secoli lo paralizzava. La sua compagna non esisteva più, questa volta era morta davvero, come se
loro, gli uomini che vivono, quelli dal sangue ancora caldo, i cacciatori di spettri viventi, li avessero alla
fine raggiunti, col loro armamentario di acqua santa e croci, di martelli e paletti appuntiti, penetrando fin nel
profondo, gelido scantinato, per fermare i loro cuori già freddi e immobili. I raggi della luna nascente
penetravano nell’oscurità della cripta, attraverso gli squarci aperti dalla grata; il vampiro si accorse solo
adesso quanto in realtà il suo rifugio fosse così poco distante dal livello del terreno, non era affatto così
sicuro come aveva sempre creduto.
Cadde in ginocchio accanto alla bara sfondata e quasi schiacciata, sollevò senza fatica apparente la pesante
inferriata e la scagliò rabbiosamente contro una parete, colpita con un rumore sordo e vibrante di ferraglia
contorta, che suscitò echi metallici negli angoli bui dello scantinato, nell’aria immobile si levò un sapore
dolciastro di polvere rugginosa. Prese in mano, tremando, una ciocca di capelli della sua Lisa, la baciò,
continuando a gridare in silenzio, dentro di sé, il nome della sua compagna; poi salì indeciso la rampa delle
sconnesse scale di pietra ed uscì all’aperto, inoltrandosi nel cortile deserto, ingombro di detriti e di vecchie
rovine bruciacchiate, nella nebbia e sotto la pioggia che continuava, indifferente, monotona a cadere.
“Lisa!” chiamò disperatamente, prima sottovoce, poi con energia, assaporando il gusto amaro del suo stesso
dolore, straziante e inutile. “Lisaaaa!”. Gli rispose il silenzio irreale e profondo che regnava sulle macerie
dell’antico maniero. Uno sguardo fugace: sembrava che due alberi stessero abbracciati, saltellando e
muovendosi in tondo, in una danza macabra e grottesca. Nulla! L’immobilità totale e il silenzio, cupo e
sinistro, tornarono a gravare sulle nere rovine. La creatura morta alzò gli occhi verso la luna e proruppe in
un lungo ululato, che sorprese e zittì le creature notturne del bosco facendole rabbrividire nelle loro tane,
concludendosi in una agghiacciante e bizzarra cacofonia di singulti spezzati, che si spensero infine nelle fitte
tenebre in cui giaceva il cuore della profonda selva di Glengarrion. Da una feritoia, aperta lungo i
sopravvissuti residui di un bastione merlato a barbacane, lo osservavano, interrogativi, i rotondi occhi
ammiccanti di un gufo. Quel suono alieno e mutevole conteneva il dolore sordo, l’angoscia terribile, la
sofferenza infinita che invadevano l’anima del mostro con disumana intensità. Il suo cuore non si fermava
solo perché esso era già spento da secoli. Il volto della creatura, contratto in un rictus spasmodico, era una
maschera sardonica deformata dal tormento. La bocca si contraeva nella vana ricerca di un pianto
liberatorio, fino a scoprire i denti affilati, avvezzi a penetrare nelle carni della preda, che scavavano violacei
solchi dolorosi nelle sue labbra; gli occhi si aprivano e si chiudevano nel digrigno di uno spasimo atroce. Le
lacrime erano ormai prosciugate da secoli!
Parte quarta: Ancora umani, nonostante tutto
La mente del vampiro percorse in brevi attimi la storia della sua lunga esistenza, brevissima come umano,
interminabile come mostro della notte. Cominciò ricordando come, lui e la bellissima Lisa, non si fossero
mai rassegnati al loro atroce destino. Si erano promessi, a dispetto della condanna che incombeva su di loro,
di non fare mai vittime. Nessun umano era mai caduto sotto i loro artigli, nessuno era mai stato contagiato,
per loro colpa, dalla dannazione del vampiro. Nonostante gli ordini e il sarcasmo della loro perfida padrona,
Ludmilla di Glengarrion, erano riusciti a mantenere questa reciproca promessa, nutrendosi solo del sangue
di piccoli animali della foresta, raramente avventurandosi in qualche villaggio per succhiare il rosso liquido
da mucche e cavalli. In loro, a dispetto di tutto, incontaminata era rimasta, la primitiva umanità e bontà, essi
traevano consolazione dal loro intatto, reciproco amore. Avevano perfino conosciuto e fatto amicizia con
alcune delle timide e miti creature che, di notte, vagano per i boschi e per le quali i vampiri erano soltanto
infernali creature, ripugnanti e pericolose, da cui fuggire con orrore e disgusto. Si erano invece avvicinate
alla infelice coppia, stupite dal comportamento dei due giovani che, seduti uno accanto all’altra sull’orlo di
un fossato o sull’erba bagnata dalla rugiada notturna, contemplavano la natura, sospirando sul loro
indimenticato sogno d’amore. L’animo si era mantenuto, più di quanto fosse pensabile nella loro mostruosa
condizione, puro. Avevano solo un desiderio, disperato e impossibile a realizzarsi: ritornare umani, godere
ancora della luce e del tepore del sole, amarsi così come si erano promesso, vivere insieme serenamente una
vita operosa e onesta, affrontando poi, alla fine, il passaggio naturale della morte: erano due buoni cristiani.
Subito dopo il calar del sole, qualche volta si erano spinti, non visti, volando sulle loro nere ali membranose,
fino alle case di qualche villaggio o presso qualche sperduto casolare e avevano osservato, con invidia, le
famiglie, i loro bambini, la vita dei vecchi e dei giovani; tutto ciò che loro avrebbero desiderato essere e che
non sarebbero mai più stati. Un pensiero attraversa la sua mente: in vita, la sua era stata un’epoca dominata
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dal terrore superstizioso, dalle paure ataviche generate dall’oscurità, carica di mistero e di minaccia.
Nell’attesa di una razionalità scientifica ancora di là da venire regnava la più grande confusione di
cognizioni, così che si potevano ritenere esistenti esseri impossibili o improbabili; oppure si potevano
attribuire qualità umane o diaboliche a creature della natura che i buoni cristiani vedevano sì ogni giorno,
ma che allo stesso tempo immaginavano impegnate in ambigue vite parallele durante le ore misteriose della
notte, quando si pensava che il male avesse più facile accesso fra le cose degli uomini. Ma John Winkler, a
dispetto di ciò, non aveva mai creduto all’esistenza degli esseri maligni descritti dalla credenza popolare;
lamie, folletti, ghoul, lupi mannari, spettri, vampiri: pure creature del sogno e dell’immaginazione, della
superstizione e della paura. E adesso era diventato uno dei figli della notte, un appartenente alla oscura
stirpe dei ritornanti, dei demoniaci succhiatori di sangue, maledetti dal sole e rifiutati dalla vita: non gli
sfuggiva la macabra ironia contenuta in questo, lo scherzo perverso che il destino gli aveva giocato!
Quando, due secoli prima, uomini armati di croci, paletto e martello avevano trovato il rifugio della loro
padrona, ponendo fine alla sua lugubre e feroce esistenza, lui e Lisa avevano gioito; in seguito essi ne
avevano anche disperso, con rabbia e disprezzo, i resti polverizzati per impedire che, per effetto di chissà
quale tenebroso maleficio o patto diabolico, la perfida castellana potesse tornare nuovamente, risorta, dal
sepolcro. Sapevano anche, confusamente che, una volta ucciso, un vampiro viene proiettato in una
condizione ancora più spaventosa e orrenda della sua semivita lunare. Un lungo brivido percorse il corpo del
mostro, a quel pensiero.
Ma una risoluzione, dapprima indistinta, cominciò a prendere forma sempre più decisa nella sua mente.
Parte quarta: Il riscatto
Il buio notturno si stemperava pigramente nei primi chiarori dell’alba imminente e il vampiro cominciava ad
avvertire, come sempre, i primi sintomi del sonno che appesantivano pian piano le sue palpebre; era ancora
però molto vigile: i suoi sensi, dotati di una percezione animalesca e sovrannaturale lo avvertivano
dell’avvicinarsi di una temuta, estranea presenza. E li vide: due uomini, superati i diroccati muri di cinta del
castello di Glengarrion, si muovevano circospetti verso il suo rifugio. Uno di essi, nerovestito, aveva
l’aspetto del sacerdote e portava un vistoso e luccicante crocefisso di argento appeso al collo, l’altro teneva
in mano un martello e alcuni paletti che al vampiro sembravano fosforescenti: erano intrisi di acqua
benedetta. Pazzi, inetti e miserabili omiciattoli! Il mostro digrignò i denti, si sentì avvolgere da una furia
cieca, un’ondata di odio e di disprezzo; aprì le mani, le dita artigliate scricchiolarono, allungandosi. Sentì
forte, istintivo, il desiderio di annientarli con un semplice gesto, di dominare le loro deboli menti per farne
degli schiavi e di spegnere lentamente, con deliberata crudeltà, le loro miserabili vite dissetandosi col loro
sangue, cavato goccia a goccia. Avrebbe visto l’appannarsi delle loro pupille, la vita sfuggire da loro,
insieme col caldo, vermiglio liquido, zampillante dalle loro vene. Sarebbe stato fin troppo facile, per una
creatura i cui poteri, alimentati dall’esperienza dei secoli, erano ormai diventati perfino maggiori di quelli
posseduti dalla nera e perfida Signora di Glengarrion! Presa la forma di un gigantesco pipistrello si avventò
stridendo contro di essi, che lo videro e lanciarono un urlo di terrore immobilizzandosi, raggelati. Ma poi,
inaspettatamente cambiò direzione, dirigendosi in alto, con volo diseguale e spezzato, sopra il cortile.
Ripresa forma umana, John Winkler scese lentamente nei recessi del suo antico e ormai violato rifugio,
spostò con delicatezza il coperchio della bara di Lisa, ne osservò con infinito amore il corpo immobile e
quasi pietrificato, si chinò a baciarle ancora i capelli, la fronte, le labbra. Poi le prese una mano e
mormorò:”Lisa, amore, non so dove tu sia adesso,....forse stai camminando, smarrita, in un luogo fatto per
le nostre anime perdute, terribile aldilà di ogni immaginazione, peggiore dell’Inferno stesso e stai vagando
senza sosta, senza pace, tormentata da chissà quali esseri spaventosi....Non sarai più sola! Il nostro sarà un
solo destino, io tornerò a dividere con te, eternamente, le sofferenze che tu forse stai già affrontando,
qualunque esse siano. Ti terrò per mano, cammineremo insieme, come una volta ci giurammo: in vita e in
morte. Nessuna potenza infernale potrà mai più separarci!”. Poi si distese, come sempre, nel sepolcro di
mogano che per secoli lo aveva accolto, allo spuntar del nuovo giorno. Sulle palpebre calò il pesante torpore
dei non morti. Lontanissimo, inconsueto, giunse il grido del gallo che salutava l’alba.
Parte sesta: La sconfitta delle tenebre
All’esterno i raggi del sole cominciavano a farsi strada, tra sparse, mutevoli, galoppanti nubi rosacee. La
pioggia aveva smesso di cadere; contorti, fugaci riccioli di nebbiolina sottile si levavano dai morti tronchi
dei vecchi alberi cresciuti sulle rovine dell’antico castello, rivestiti di licheni verdastri. I due cacciatori di
vampiri, ripresisi dall’ondata di subitaneo terrore che li aveva attanagliati alla vista del mostro e fattisi
coraggio, facendosi più volte il segno della croce, scesero esitanti nel cupo scantinato, sul pavimento del
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quale videro appoggiate due bare, una semidistrutta e l’altra intatta ma stranamente aperta. Nella prima
capirono ben presto che la vampira aveva cessato di esistere: nel suo petto era affondato uno spezzone
metallico che rendeva inutile il loro intervento. Il sacerdote depose comunque, al suo interno, quasi con
delicatezza, un piccolo crocefisso d’argento e spruzzò il corpo con alcune gocce di acqua benedetta. Non
accadde nulla. Guardando all’interno della seconda bara si aspettavano di vedere un essere cui era rimasto
ben poco di umano: gli occhi sbarrati, pieni di terrore e di rabbiosa impotenza per la coscienza della morte
definitiva che stava per calare sopra di lui, un volto dominato dal digrigno delle labbra ferine, dalle quali
sarebbero fuoriuscite le lunghe, affilate zanne del vampiro. Il mostro, di cui conoscevano i poteri, forse
avrebbe anche cercato di ipnotizzarli, di impadronirsi delle loro menti se solo avessero commesso l’errore di
guardarlo negli occhi. Niente di tutto questo!
Videro invece un giovane uomo, quasi un ragazzo che, avvolto elegantemente nella sua nera, lucida veste,
teneva gli occhi chiusi nel sonno, sulla bocca aleggiava l’ombra di un sorriso, l’espressione distesa del volto
era quella di chi si era addormentato, per la prima volta serenamente, ormai in pace con sé stesso. Solo il
colorito bianchissimo del viso, la freddezza e la rigidità innaturali delle sue membra confermavano che
quell’uomo doveva essere un vampiro, una creatura la cui esistenza i due uomini erano venuti a chiudere per
sempre.
Sforzandosi di distogliere gli occhi dal volto cereo e sereno del mostro, oramai non più tale, l’uomo armato
di paletto levò in alto il mazzuolo, rivolgendolo verso la testa del cuneo la cui punta teneva appoggiata sul
petto della creatura della notte, in direzione del suo immobile cuore. L’altro, vestito da sacerdote recitò una
breve litania, in un linguaggio cantilenante, arcaico e dimenticato, che risvegliò inquietanti echi sepolcrali
sotto le basse, crepate volte del sotterraneo. Poi, riposto il libro da cui aveva letto, concluse, frettolosamente:
“Nel nome del Cielo e degli Uomini, noi siamo qui giunti per...”. Alla fine, in un ultimo attimo di
indecisione, il primo dei due uomini cercò nuovamente il conforto di un segno di assenso da parte del suo
compagno, che annuì, socchiudendo gli occhi, con un lieve cenno del capo.
La mano, armata del pesante martello, scese giù, veloce.
Parte quinta: Insieme, per sempre
In un limbo sospeso al di fuori dello spazio e del tempo, oltre le dimensioni della memoria e della coscienza
degli uomini, l’edificio di una antica maledizione si stava finalmente sgretolando. Le due anime che vi erano
imprigionate potevano così riprendere il lungo cammino e chiudere il ciclo della loro esistenza.
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La coppia di giovani innamorati camminava felice, tenendosi per mano, lungo una tiepida spiaggia che si
illuminava di un’alba verde, profumata dai fiori del loto e punteggiata di rosse conchiglie. Sullo spumeggiar
delle acque, lungo il lontano disegno dell’orizzonte rischiarato da lampi violacei, discendevano una cascata
di rutilanti scintille e vortici di polvere d’oro. Tra le onde e i gorghi saltavano i delfini, l’aria vibrava per il
canto delle sirene che saliva dalle azzurre, cristalline profondità.
Ormai molto distante, in una tetra zona perennemente infestata dalle tenebre, una legione di oscuri demoni
che aveva il compito di trascinare i due ignari innamorati nell’abisso più profondo e tormentarli in eterno,
fuggiva invece disordinatamente, sempre più lontano, in rotta disperata. Una fitta, violenta pioggia di lapilli
incandescenti precipitava senza tregua su di loro. Vicinissima, inesorabile, una enorme spada
fiammeggiante, brandita da spietate mani invisibili, trafiggeva l’oscurità e li incalzava implacabilmente,
roteando.
Alcune fonti di ispirazione: The Undead Die (l’immortale, 1948) di Ray Bradbury e Edward Everett Evans
The Grey Lady of Glengarrion (la Dama di Glengarrion, 1955) di Clark Douglas Stuart
La stirpe di Elän (Zona X, 1992-1995) di Federico Memola
Azathot (Azatoth, 1922) di Howard Philips Lovecraft
Carmilla (Carmilla, 1872) di Joseph Sheridan Le Fanu
Almanacco della paura: Vampiri! (Dylan Dog, 1993), di Mauro Boselli
In a Graveyard (In un cimitero, 1935) di Eando Binder
Dracula’s Guest (l’ospite di Dracula, 1897) di Bram Stoker
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A Rendez-Vous in Averoigne (Il Signore di Malinbois, 1931) di Clark Ashton Smith
Sem'ja vurdalaka, 1839 (I Vurdalak, 1839) di Alekséj Konstantinovič Tolstòj
The vampire (Il vampiro, 1816) di John William Polidori
Vij (Il Vij, 1835) di Nikolaj Gogol’
La Belle Vampirisée (La Bella Vampirizzata, 1849) di Alexandre Dumas
The Room in the Tower (La Stanza nella Torre, 1912) di Edward Frederick Benson
Skulls in the Stars (Il Vampiro della Brughiera, 1929) di Robert Ervin Howard
Una fossa bianca di luna (I Racconti di Dracula, 1965) di Frank Graegorius
Nere ali di morte (I Racconti di Dracula, 1973) di Irving Mathias
Il tempio dell’orrore (I Racconti di Dracula, 1961) di Morton Sidney
Messager is waiting (Il messaggero bussa alla porta, I Racconti di Dracula, 1970) di Morton Sidney
Il castello sulla collina (I Racconti di Dracula, 1979) di Red Schneider
La legge dell’al di là (I Racconti di Dracula, 1962) di Max Dave
La tomba di Satana (I Racconti di Dracula, 1960) di Geron Brandanus
The Treader of the Dust (Colui che cammina nella polvere, 1935) di Frank Belknap Long
Varney the Vampire; or, The Feast of Blood (Varney il vampiro, 1847) di Thomas Preskett Prest
Sing a Last Song of Valdese (La ballata di Valdese, 1976) di Karl Edward Wagner
Number 13 (La camera numero 13, 1904) di Montague Rhodes James
The Feast in the Abbey (Il festino nell’abbazia, 1935) di Robert Bloch
Phantoms (Fantasmi!, 1983) di Dean Ray Koontz
Twilight Eyes (Là fuori, nel buio, 1985) di Dean Ray Koontz
The Year's Best Horror Stories-Series V (La stirpe della tomba, 1977) di Gerald W. Page
The Fall of the House of Usher (Il crollo di casa Usher, 1839) di Edgar Allan Poe
Ligeia (Ligeia, 1838) di Edgar Allan Poe
Salem’s Lot (Le notti di Salem, 1975) di Stephen King
Night Shift (A volte ritornano, 1978) di Stephen King
Plenilunio di morte (I Racconti di Dracula, 1972) di Red Schneider
Il buio oltre la materia (I Racconti di Dracula, 1972) di Harry Small
Il marchio del vampiro (I Racconti di Dracula, 1964) di Werner Wrengel
Il ritorno delle ombre (I Racconti di Dracula, 1964) di Harry Small
La fredda ala della morte (I Racconti di Dracula, 1969) di Alan Preston
I morti possono aspettare (I Racconti di Dracula, 1969) di Daniel Scott
.....e ancora molti, molti altri....
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