La Spilla d`oro

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La Spilla d`oro
La Spilla d’Oro sa che il cemento che ci lega è l’amore per l’opera che abbiamo insieme
compiuta e alla quale ciascuno di noi ha dato nella misura della sua possibilità e in
proporzione delle sue forze, tutto il suo contributo, con umiltà, pazienza, tecnica. La Spilla
d’Oro sa che questi valori, talora oscuri, non sempre appariscenti stanno nel cuore di ognuno
e nel cuore della fabbrica.
Quando la maggioranza delle «Spille d’Oro»1 che oggi salutiamo con simpatia e riconoscenza entrò i ditta, correvano
gli anni ormai lontani del 1927, 1928, 1929. Furono, quelli, anni di transizione e di intensa preparazione, transizione tra la
vecchia fabbrica e la nuova, tra i vecchi metodi e i nuovi, tra un’epoca romantica ed una più razionale.
La saggezza, l’esperienza e ancora di più la comprensione di mio padre, permisero a quella transizione, a quell’intenso
lavorio di mutamento di non diventare per nessuno un’angoscia né una minorazione. I metodi nuovi vennero accolti con
qualche diffidenza, ma senza opposizione. Molti ricordano ancora che in quell’anno 1928 i nuovi metodi di montaggio si
dovettero intraprendere quasi in segreto perché l’ing. Pomella ed io avevamo annunciato che si sarebbe aumentata la
produzione del 30 per cento, come infatti esattamente avvenne.
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Un aumento così rapido della produzione2 avrebbe potuto ripercuotersi sfavorevolmente sulle ore di lavoro e
sull’occupazione stessa provocando, in un’azienda condotta con metodi tradizionali, dei licenziamenti molto gravi per la vita
dell’operaio che non può più ritrovare il lavoro se non dopo lunghe prove, sacrifici, traversie, spostamenti talora estenuanti. Io
non avrei certo avuto la maturità e l’esperienza atta a comporre quei perturbamenti quasi inevitabili a da d’uopo ripetere che
essi furono evitati dalla mente chiaroveggente dell’ing. Camillo3.
Nell’affidarmi allora la riorganizzazione delle officine mio Padre mi aveva conferito grandi poteri, ma mi aveva pure
avvisato ed ammonito con precise indicazioni e in questi termini perentori: «tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare
qualcuno per l’introduzione dei nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe
operaia». Una coraggiosa politica commerciale accompagno la riorganizzazione tecnica e si deve a questa contemporaneità
dell’azione nel campo tecnico e commerciale se non sopravvennero incidenti.
La recente crisi di un altro stabilimento cittadino è stato un esempio abbastanza evidente di squilibrio tra l’organismo
tecnico e quello commerciale, il secondo non essendo stato proporzionato e strutturato per le esigenze della quantità di
maestranza occupata4. Ricordo questi episodi non perché i sia stato, a quell’epoca, di quelle trasformazioni l’assertore o lil
regista più o meno capace, ma per ricordare come il tema dell’equilibrio tra produzione e vendita abbia sempre preoccupato la
direzione dell’Olivetti ed ancora oggi costituisca il problema fondamentale della fabbrica.
La fabbrica si era, dunque, fatta adulta, in seguito alla nuova organizzazione.
In virtù di quella complessa e rapida operazione commerciale le macchine prodotte si irradiarono in tutta Italia,
iniziando un declino – che ebbe poi a rimanere permanente – delle macchine straniere che avevano avuto, sino ad allora, un
posto dominante sul mercato italiano. Furono quindi quelli gli anni che segnarono una svolta per la storia de il destino della
nostra fabbrica. Essa poteva rimanere una piccola industria, piena di calore umano, raccolta nelle sue mura, un po’ antiche
come l’avevano pensata l’ing. Camillo e il sig. Burzio5, oppure diventare, come diventò, una grande fabbrica intesa in un senso
moderno e capace di accogliere migliaia di lavoratori. Nessuno tornerebbe indietro per adattarsi a preferire una strada più
facile ma inadatta ad accogliere le esigenze così vive nel nostro Paese dove ogni anno le famiglie senza lavoro continuano ad
essere così numerose, che il problema della disoccupazione è il problema numero uno per chi nella vita sociale abbia sensi di
viva ed umana responsabilità. Onde l’espansione della struttura indultale italiana al Nord come al Sud rimane l’imperativo
categorico di una classe dirigente veramente consapevole.
Ma la fabbrica grande ha posto numerosi problemi umani, ha fatto nascere degli inconvenienti nei rapporti tra le
persone, non tutti risolvibili e non tutti eliminati. Ne siamo consapevoli e ci adoperiamo ogni giorno in taluni perfezionamenti
della nostra organizzazione a porre qualche riparo, qualche emendamento e nemmeno tutti i progetti, i dispositivi pensati e
preparati a questo scopo hanno potuto essere ancora completamente realizzati.
Mi piace ricordare, e mi vorrete scusare, un episodio personale relativo a quell’epoca. Eravamo forse nel 1927 e si
stavano preparando i piani di quella complessa conversione organizzativa che richiedeva il consenso e la collaborazione di
tutti. Fu allora e per quella ragione che mi misi per la prima volta a rivolgere un breve discorso agli operai dell’officina e del
montaggio, come soleva fare assai spesso mio padre. Mio Padre, tutti lo ricordano, soleva salire su una piccola cassa da
imballo nel piccolo cortile al centro della vecchia fabbrica tra gli spogliatoi di quel tempo e l’edificio delle caldaie che venne
poi soppresso. Anche il cortile non esiste più e più probabilmente in quel posto si trovano oggi le macchine più moderne di
una delle officine. In quegli improvvisati discorsi mio padre soleva commentare senza reticenze con il suo spirito franco e
vivace qualche fatto saliente della vita di fabbrica. E non escludeva nemmeno dalle paterne esortazioni i casi a parare suo più
gravi. Non ricordo bene cosa dissi quel giorno agli operai di quel tempo. Taluno di loro ebbe a ricordarlo assai meglio di me e
vedremo come questo fatto mi fu gradevole sorpresa molti anni più tardi.
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Nelle officine Olivetti coloro che hanno compiuto 25 anni di attività.
In un anno la produzione di macchine da scrivere aumentò di circa tre mila unità.
3
Camillo Olivetti nacque ad Ivrea il 13 agosto del 1868.
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Si allude alle vicende dell’officina meccanica Zanzi di Ivrea che intorno al 1952 licenziò in Ivrea oltre 500 lavoratori.
5
Domenico Burzio fu il primo direttore tecnico della fabbrica di macchine per scrivere di Ivre, e nacque nel 1876 a Ivrea.
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Certamente parlai degli uffici che si andavano creando, dei tempi, della produzione, delle ispezioni, di nuove macchine
che avrebbero avviato la fabbrica nella avventura del suo progresso, del suo – diciamolo pure con una punta di orgoglio – del
suo futuro di grande progresso. Non ricordo nei dettagli bene cosa dissi, ma ricordo che fu il primo ed ultimo mio discorso
durante la vita dell’ing. Camillo, perché non parlai più sin dopo la fine della guerra, quando finito il fascismo, si venne
adoperando questo spazio, che amiamo chiamare Salone dei Duemila, perché quando fu costruito, nel 1938, tale era il numero
dei dipendenti. Ricordo, dunque, quella mia lettura soprattutto perché, molti anni dopo, forse durante la guerra mondiale,
ricevetti la lettera di un operaio che mi aveva ascoltato e mi aveva creduto. Un semplice operaio, padre di famiglia mi scriveva
ricordandomi quel discorso e le speranze che aveva acceso nel suo animo l’immagine dello sviluppo della fabbrica e come
avesse riposto nel suo futuro, nell’avvenire di suo figlio le stesse speranze che io riponevo nel futuro della fabbrica e nel
disegno che ne avevo tracciato. Queste speranze erano andate deluse, per quel mio ascoltatore, perché il suo ragazzo
impiegato nella Divisione Macchine Utensile era stato ingiustamente colpito per qualche errore e mi si chiedeva di riparare
quel torto. Cosa che fu fortunatamente a quel tempo facile rimediare.
Ora i tempi, che non vorrei fossero troppo cambiati, non mi consentono di dedicare molto tempo, come vorrei, a
ciascuno di voi, di parlare con le Spille d’Oro, dei tempi passati, degli episodi comuni che hanno segnato il cammino della
fabbrica tra ore difficili e ore liete, tra il vecchio e il nuovo, tra l’ordine ed il disordine, tra il bene ed il male di ogni umana
vicenda.
Ma la Spilla d’Oro sa che il cemento che ci lega è l’amore per l’opera che abbiamo insieme compiuta e alla quale
ciascuno di noi ha dato nella misura della sua possibilità e in proporzione delle sue forze, tutto il suo contributo, con umiltà,
pazienza, tecnica. La Spilla d’Oro sa che questi valori, talora oscuri, non sempre appariscenti stanno nel cuore di ognuno e nel
cuore della fabbrica. C’è una lampada accesa, c’è una lampada accesa in questo cuore ed è la presenza del suo fondatore. Lo
spirito dell’ing. Camillo aleggia su di noi, da questa statua onorata per la nostra protezione, per l’avvenire nostro, per le nostre
più disperate speranze. La Spilla d’Oro sa che niente si improvvisa e che non si creano miracoli. La Spilla d’Oro ha visto 25
anni della vita di fabbrica e sa riconoscere il giusto dall’ingiusto, l’improvviso dal meditato, il facile dal difficile, in una parola il
bene dal male.
Per questo le Spilla d’Oro sono come pilastri fondamentali sui quali posa la saggezza della nostra fabbrica. I giovani
guardano ad esse con riconoscenza perché esse hanno loro spianato il cammino, ora più facile, perché a loro volta essi
preparino alle nuove generazioni una vita più alta e migliore. Di questa ansia di progresso siamo tutti partecipi, ma le Spille
d’Oro rivendicano in un titolo di glorioso lavoro la loro parte così meritata.
La Spilla d’Oro sa che il lavoro che egli ha dato per anni alla fabbrica è qualcosa di intimamente e profondamente suo,
onde a poco a poco questo suo lavoro è divenuto parte della sua anima. Perciò in essa splende una luce interiore, perché essa
appartiene al suo spirito. Il lavoro è perciò spirituale e il lavoratore si sente anche egli nel lavoro e sul lavoro vicino a Dio,
come Suo collaboratore e servitore. Per questa ragione Gesù si presentò agli abitanti di Nazareth e al mondo che lo attendeva
come figlio di falegname e fabbro. Onde il Cristianesimo, riscattando la schiavitù dell’uomo ed elevando la dignità della
persona umana fu principio di una autentica rivoluzione. Il mondo moderno deve accettare il primato dei valori spirituali se
vuole che le gigantesche forze materiali alle quali esso sta rapidamente dando vita, non solo non lo travolgano, ma siano rese al
servizio dell’uomo, del suo progresso, del suo operoso benessere.
Nessuno si illuda che i pericoli, i tragici pericoli che incombono sul mondo moderno, la guerra, il fanatismo
ideologico, il dominio dell’uomo sull’uomo, possano essere spazzati via senza sacrificio, senza cambiamenti nell’ordine sociale,
senza dare vita cioè ad un ordine più ragionevole secondo natura e secondo coscienza.
Il mondo moderno rassomiglia stranamente al tempo in cui ebbero vita nelle Chiese primitive di Oriente e di Roma gli
albori del Cristianesimo. I primi cristiani con la loro opera, la loro giustizia, dileguarono a poco a poco l’etica materialistica del
loro tempo, e animarono i popoli e i re di uno spirito nuovo.
Oggi i testimoni della verità devono ancora servirsi delle forze soprannaturali per vincere il disordine del mondo
moderno solo decorativamente cristiano e condurlo più pienamente, con slancio nuovo, verso forme nuove.
Per dare vita a questo nuovo mondo i ricchi e i potenti dovranno rinunciare alla corsa inconsiderata e indiscriminata
verso una ricchezza sempre maggiore, alla vanità del Potere e della effimera sua gloria.
Sarà questo possibile senza un urto definitivo? A noi non spetta dar risposta, ma attendere con tenacia alle
responsabilità che ci furono commesse e che ci siamo assunti. Perché le idee che nacquero in questa fabbrica, sotto
l’indicazione del nostro Maestro, ancorché tutt’altro che realizzate – e per molti versi ancora lontane – potranno essere forse
guida risolutiva al conflitto che rischia di gettare il nostro Paese in una nuova forma di involuzione politica, privandolo
nuovamente delle libertà individuali. E guida all’Europa stessa, anche essa socialmente immobile nella sua disordinata attesa, al
suo bivio inevitabile: da una parte le forme di una nuova società, dall’altra una nuova irreparabile catastrofe.
Con queste preoccupazioni ma con rinnovata speranza, in questa lieta domenica di vigilia mi sia concesso di stringere
la mano alle 120 nuove Spille d’Oro, dare loro la testimonianza della riconoscenza di tutti; il nostro grazie più sincero per la
loro fatica e l’augurio più alto per essi e per le loro care famiglie, affinché numerosi annidi salute e di serenità si aprano innanzi
a loro nella protezione della Provvidenza di Dio, nei caldi e sereni sensi dell’affetto di tutti, di tutti coloro che li seguono passo
passo dentro e fuori la nostra indimenticabili dimora di ogni giornata: la Fabbrica.
Discorso di Adriano Olivetti alle sue Spille d’Oro, 1954. Olivetti A. (2001 [1960 I edizione]), Città dell’uomo,
Edizioni di Comunità, Torino,
Lettura a cura di Gianluigi Mangia, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
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