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GUADALUPE
(Storia e significato delle apparizioni)
Introduzione
«Sbocciano i fiori sulla terra, è tornato il tempo del canto» (Cantico dei
Cantici 2,12) Quando, alcuni anni fa, sostai davanti alla bella riproduzione
della Madonna di Guadalupe che si conserva sull'altare maggiore della
chiesa parrocchiale di Santo Stefano d'Aveto (Genova), nell'Appennino
ligure, non immaginavo certo che di lì a poco tempo mi sarei trovata ai
piedi del suo originale nel santuario de La Villa alle falde del cerro
(collina) del Tepeyac, a Città di Messico. Qui, 467 anni fa, appena dieci
anni dopo l'arrivo degli europei e la distruzione della cultura azteca, Dio si
è fatto « vicino » a un popolo oppresso, mediante la presenza di sua madre
che apparve a un indio, Juan Diego, da poco convertitosi al cristianesimo.
Al Tepeyac si ritorna sempre volentieri, come a casa propria. Lì la madre
non cessa di vegliare sui suoi figli lontani... Come figli con la propria
madre, così vivono il loro rapporto con la Madonna i milioni di pellegrini
messicani e latinoamericani che incessantemente affluiscono alla basilica.
E quando si avvicina la festa liturgica del 12 dicembre, nessuno vuole
mancare. La celebrazione dell'« onomastico» della madre diventa per
molti occasione di pellegrinaggio: è il momento di ritornare « alla propria
valle », secondo una suggestiva immagine paraguayana. L'11 dicembre le
principali arterie della città sono invase da una processione interminabile
di gente d'ogni condizione: uomini, donne, bambini, giovani e anziani
provenienti dai luoghi limitrofi alla capitale o da altri centri più lontani, a
piedi o in bicicletta, dopo ore o, più spesso, giorni di cammino e di
preghiera. E così capita di vedere la gente che esce dalle proprie abitazioni
per offrire ai pellegrini una bevanda fresca, una tazza di caffè, un panino,
con il calore e la spontaneità con cui si accoglierebbe un ospite a lungo
atteso. Il 12 dicembre il sagrato della basilica brulica di gente che,
attraverso la musica e le splendide fantasiose composizioni floreali,
portate a spalla almeno nell'ultimo tratto di cammino per essere offerte
alla Madonna, celebra la sua gioia ai piedi di colei che considera la sua
«Regina». L'offerta alla Madonna dev'essere generosa, perché nessuno si
presenterebbe al cospetto della madre a mani vuote, e così la basilica si
riempie di profumi e di colori. C'è chi compie voti e promesse, chi
percorre in ginocchio lunghi tratti del sagrato in segno di devozione e di
penitenza. Molti gruppi indigeni improvvisano danze al ritmo incalzante
del tamburo e dei cimbali, oppure sacre rappresentazioni che risalgono al tempo precedente l'arrivo degli europei... Attraverso la preghiera
del rosario il popolo dialoga familiarmente con Maria, con cui sente di avere in comune tante cose: la povertà, la semplicità, il sacrificio,
l'accoglienza e l'ospitalità. La celebrazione eucaristica naturalmente è il cuore della festa ed è lì che il messaggio delle apparizioni viene
ripreso, approfondito, riletto e attualizzato: la pietà popolare, infatti, pur essendo vivissima, ha continuamente bisogno d'essere riorientata
verso l'essenziale. La madre ricolma abbondantemente di doni i suoi figli, ma chiede anche la collaborazione di un sacrificio da parte del
figlio: quello di un'autentica conversione. L'attenzione di tutti si concentra sulla straordinaria e bellissima icona guadalupana, rimasta
inspiegabilmente intatta nonostante il trascorrere dei secoli: la Morenita, una Madonna dal volto nobile, di colore bruno, mani giunte, vestito
roseo, bordato di fiori. Un manto azzurro mare, trapuntato di stelle dorate, copre il suo capo e le scende fino ai piedi, che poggiano sulla luna.
Alle sue spalle il sole risplende sul fondo con i suoi cento raggi. Non dobbiamo dimenticare che l'immagine della Vergine è fondamentale
nella teologia popolare latinoamericana. Non si tratta, infatti, di una mera raffigurazione, ma in essa si rende presente e s'incontra in modo
misterioso la persona stessa, e ha una funziona protettiva. Per la Guadalupana si trova ovunque: nelle case nei questo negozi, ai crocicchi
delle strade... Noi europei scorgiamo nella dolcissima figura femminile i tratti dell'Immacolata di Genesi 3,15, ma una lettura culturale
indigena vi scopre altri simboli, che è necessario identificare per comprenderne a fondo il messaggio. Guadalupe è infatti un perfetto esempio
di evangelizzazione inculturata. Per comprendere come il Tepeyac, dedicato dagli aztechi alla dea Tonantzin, sia stato trasformato in
santuario mariano, è interessante rileggere il racconto delle apparizioni tramandatoci dal Nican Mopohua, un codice del secolo XVI, di
Antonio Valeriano, un indio educato nel rinomato collegio francescano di Santa Cruz di Tlatelolco, l'attuale piazza delle Tre Culture. Su
quello che oggi è un colle verdeggiante - ma che era un luogo brullo e inospitale all'inizio del dicembre 1531 - un canto soavissimo di uccelli
attira l'attenzione di Juan Diego, diretto a Tlatelolco per la settimanale catechesi tenuta dai francescani. Avvolta in un alone di luce, gli appare una Signora che si rivolge a lui gentilmente e gli chiede di far conoscere al vescovo il suo desiderio: costruire una cappella a lei dedicata
proprio su quella collina. Fallito il primo incontro con il vescovo, Juan Diego pensa di suggerire, a quella che aveva già riconosciuta come la
madre di Dio, di affidare l'incarico ad altri più rispettato e credibile. Ma la scelta della Madonna è caduta proprio su di lui, così Juan Diego
deve tornare una seconda volta dal prelato, il quale, seppur scettico, chiede un segno. La Vergine lo promette per il giorno seguente. Juan
Diego, però, non ritorna al Tepeyac l'indomani, perché giunto a casa trova l'anziano zio, con cui vive, in condizioni disperate per un attacco
di viruela (vaiolo), grave malattia contagiosa. All'alba del 12 dicembre decide di raggiungere Tlatelolco per cercare un sacerdote, ma prende
una strada diversa da quella percorsa nei giorni precedenti: non vuole, infatti, essere trattenuto dalla Signora. Questa, però, gli appare durante
il cammino e lo rassicura sulla sorte dello zio invitandolo a confidare nella sua bontà di madre. Lo manda, perciò, sulla cima della collina: lì
troverà il segno che il vescovo ha chiesto, fiori profumati spuntati miracolosamente sull'arido colle popolato di cactus e per di più durante la
stagione invernale! Juan Diego dovrà mostrarli soltanto al vescovo. Quando l'indio allargherà il mantello per mostrare i fiori, un segno ben
più grande apparirà sulla tela: l'immagine della Vergine che ancor oggi veneriamo con il titolo di Guadalupe, nome che lei stessa aveva
rivelato apparendo all'anziano zio del veggente per ridargli la salute e che, secondo l'etimologia araba, significa « fiume di luce» o «fiume
d'amore». Lo straordinario evento guadalupano è dunque evangelizzazione in parole, simboli, miracoli. Il linguaggio nahuatl è quello
semplice della fede: fiori e canto (in xochit in cuicati) racchiudono in sé tutta la bellezza, la verità, la grandezza, la poesia, la filosofia, il
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mistero della divinità; erano il mezzo di comunicazione con il cielo. L'arrivo degli spagnoli era stato interpretato dagli aztechi come una
catastrofe, percepito come un abbandono da parte degli dèi. Ora, invece, il cammino dei fiori e del canto indicava che era sempre aperta la
comunicazione con Dio. Il veggente Juan Diego è chiamato a comunicare con la Regina del cielo attraverso il canto degli uccelli e i fiori
miracolosamente sbocciati sull'arida collina del Tepeyac. Da questo segno e dalla presenza della Vergine prorompe il messaggio di speranza
verso nuovi orizzonti, verso una nuova èra, una primavera di vita. Culturalmente il mondo indigeno scompare, ma il tramonto del « Quinto
Sole» azteco diventa in realtà preludio di una rinascita: dalla fusione delle due razze avrà origine il nuovo popolo, quale aurora del Messico
odierno. Lei, la madre universale, con brillanti immagini e tenerezza materna riconcilia vincitori e vinti in un solo popolo di Dio. Il veggente
Juan Diego è premiato con il miracolo dell'immagine impressa nel suo rozzo mantello (ayate o tima), un tessuto di fibra di maguey, tipica
agave messicana. La tilma nella cultura nahuatl non era solo un capo di vestiario, ma rappresentava l'identità, la personalità dell'individuo.
Maria entra dunque nel cuore e nella vita dell'indigeno e di tutta la gente messicana: è un fatto incontrastato che la santissima Vergine di
Guadalupe sta al centro della religiosità popolare. Guadalupe è un valore fondante e immanente al processo storico, sociale, religioso e
culturale del popolo messicano. La preziosa tilma fu inizialmente custodita in una cappella (ermita) fatta costruire sul luogo dell'apparizione
dallo stesso vescovo Juan de Zumarraga e affidata alle cure di Juan Diego, che li visse per diciassette anni, fino alla morte. L'afflusso
continuo dei fedeli portò alla costruzione, nel 1553, della cappella detta « de los Indios» e successivamente, nel 1666, della chiesetta
coloniale del « Cerrito », là dove erano sbocciate le rose. Finalmente, nel 1709, alle falde del colle fu eretto un santuario più ampio, di stile
barocco, a tre navate, con cupola e quattro torri esterne. Oggi quest'antico santuario è chiuso al pubblico per i restauri resi necessari da
visibili segni di deterioramento. Esso sarà trasformato in museo. La basilica ove attualmente si conserva l'immagine è stata inaugurata nel
1976. Tre anni dopo venne visitata dal papa Giovanni Paolo Il, che dal balcone della facciata su cui sono scritte in caratteri d'oro le parole
della Madonna a Juan Diego: «No estoy yo aqui que soy tu Madre?» ha salutato i milioni di messicani confluiti al Tepeyac; nello stesso
luogo, nel 1990, ha dichiarato beato il veggente Juan Diego. Sostenuta da cento pilastri sotterranei, con una capienza di 12.000 persone,
questa basilica ha la forma di un enorme tenda che riunisce i fedeli sotto il manto e lo sguardo misericordioso di Maria e li invita all'incontro
pasquale con il Figlio. La tilma si trova al centro, dietro l'altare centrale fatto interamente di marmo, ai cui lati due passaggi permettono di
sostare ai piedi della « donna» dell'Apocalisse, vestita di sole e con la luna sotto i piedi, madre misericordiosa che intercede per tutti i
credenti. Dal soffitto pende una ghirlanda di lampade elettriche. Il tempio viene aperto alle sei del mattino con la prima celebrazione
eucaristica, e in qualunque giorno feriale è possibile incontrare molti fedeli che vengono anche a piedi attraverso la città, che si sta appena
svegliando, per salutare la Vergine Morena. Si ritiene che circa 20.000 pellegrini visitino il santuario del Tepeyac ogni giorno. L'esaltazione
di Maria nell'America Latina è evidente: in un ambiente maschilista si tende a idealizzare la madre, per la quale si riserva nel cuore un posto
tutto particolare, della quale si celebrano le virtù domestiche, alla quale si riservano un'autorità e un potere quasi illimitati. Questo sustrato
culturale favorisce il culto alla Vergine, che viene acclamata, con un'espressione guadalupana, « Signora del cielo » per la sua vicinanza con
Dio. Le parole di Maria: « Non ci sono qui io che sono tua Madre? Non sei forse sotto la mia protezione? Non sono io la fonte della tua
gioia? Non stai nelle pieghe del mio scialle, nell'amplesso delle mie braccia? » la configurano come la tipica madre azteca: madre è colei che
è presente là dove c'è sofferenza e necessità, che non abbandona mai; madre è colei che offre un rifugio sotto il manto, simbolo dell'autorità
nella casa; madre è il grembo protettore al quale si torna nei momenti di difficoltà. Come madre, Maria evangelizza: porta cioè la buona
notizia della presenza di Dio accanto al popolo che soffre. Annuncia la buona notizia della fede, dell' amore, del perdono e della pace,
favorisce cioè l'avvicinamento tra i due popoli e fa nascere un popolo nuovo. Il volto mestizo di santa Maria di Guadalupe si erge all'inizio
dell'evangelizzazione dell'America Latina, simboleggiando l'identità culturale e religiosa, come afferma il documento di Puebla al n. 446.
Modello della Chiesa, Maria parte da un atteggiamento profondamente rispettoso della cultura del popolo e sa che la meta
dell'evangelizzazione è la trasformazione della mentalità mediante l'adattamento al linguaggio antropologico e ai simboli culturali propri di
coloro a cui ci si rivolge perché accolgano l'invito ad abbandonare false concezioni di Dio.. Anche nel documento della Conferenza
Episcopale Messicana del 1978, La presencia de Nuestra Senora de Guadalupe y el compromiso evangelizador de nuestra fe, Maria viene
additata come modello di inculturazione del vangelo. Nel documento di Santo Domingo al n. 299 si legge che Maria è la donna ebrea che
rappresenta il popolo dell'Antico Testamento con tutta la sua realtà culturale e che tuttavia si apre alla verità del vangelo. E’ presente in terra
messicana come madre sia degli indios sia degli europei che vi sono giunti, propiziando fin dall'inizio la nuova sintesi culturale che è
l'America Latina, con chiara allusione alla mariofania del Tepeyac. La devozione guadalupana non si limita peraltro all'America Latina. La
sua fama si è estesa anche negli Stati Uniti e in Canada. Nel santuario nazionale dell'Immacolata Concezione di Washington c'è una cappella
dedicata a nostra Signora di Guadalupe. In Canada fu eretto, nel 1963, un santuario guadalupano nella città Johnstown, in Nuova Scozia. In
Giappone c'è un altare guadalupano nel santuario dei venticinque martiri di Nagasaki (1597), tra i quali si distinse per la sua fede eroica il
francescano messicano Felipe de Jesus. Anche in Europa incontriamo in molti luoghi riproduzioni della Madonna di Guadalupe,
«imperatrice» delle Americhe: si venera in Francia, in Inghilterra, in Austria e in Germania, in Svezia, nelle Fiandre, in Irlanda e in varie
regioni della Spagna. In Polonia, nel santuario di nostra Signora di Czestochowa, Jasna Gora, il cardinal Wyzinski intronizzò la Vergine di
Guadalupe. Una copia dell'immagine guadalupana ha avuto il privilegio d'essere collocata nella «gloria » del Bernini, nella basilica di San
Pietro a Roma, nel 1933, alla presenza del papa Pio XI e di 226 vescovi dell'America Latina. Nelle Grotte Vaticane, vicino alla tomba di san
Pietro, c'è una cappellina dedicata a nostra Signora di Guadalupe. Nella chiesa agostiniana di Sant'Ildefonso si venera la piu antica immagine
di santa Maria di Guadalupe che si trovi in Roma: è un dipinto di Juan Correa del 1669, portato a Roma da un padre agostiniano nel 1672.
Dal 1932 c'è una parrocchia che porta il nome della Vergine Morena a Monte Mario. Sulla via Aurelia c'è un'altra parrocchia in onore di
Guadalupe, gestita da religiosi messicani. Nel convento della Visitazione si può ammirare il dipinto eseguito dal celebre pittore messicano
Miguel Cabrera nel 1752 e inviato in seguito al papa Benedetto XIV. Alla sua vista il pontefice esclamò parafrasando il salmo: « Così non ha
fatto con nessun altro popolo ». In varie città d'Italia si venera la Vergine di Guadalupe, ma merita uno speciale ricordo quella di Santo Stefano d'Aveto, menzionata all'inizio. L'immagine fu regalata dal cardinale Giuseppe Doria Pamphili, segretario di Stato di Pio VII e discendente
della famiglia Doria, naviganti genovesi. Infatti nella battaglia di Lepanto combattuta contro i turchi (1571) l'ammiraglio Giovanni Andrea
Doria aveva voluto sulla sua nave l'immagine della Vergine di Guadalupe. Secondo gli annali della dinastia Doria, si tratta di una copia fatta
dipingere dall'arcivescovo di Città di Messico Alonso de Montufar (1498-1573) e regalata al re di Spagna Filippo II (1527-1598), il quale a
sua volta ne fece dono all'ammiraglio suddetto. Così la vittoria sui turchi fu attribuita alla Vergine del Rosario e di Guadalupe. L'Italia,
quindi, sembra possedere una copia guadalupana delle più antiche, cioè del secolo XVI. Quando il re Carlo III, nel 1767, espulse la
Compagnia di Gesù dai territori spagnoli, molti gesuiti messicani si rifugiarono in Italia, diffondendo il culto guadalupano in varie regioni
del paese. Tra le altre, merita di essere citata la chiesa di Arsoli, nel Lazio, dove nella casa generalizia delle Orsoline si conserva un'antica
copia dell'immagine di santa Maria di Guadalupe. La Morenita è patrona anche di numerose chiese nelle diocesi di Tortona, Bobbio, Casale.
Nel 1983, alla presenza del vescovo primate del Messico e di altri pastori messicani, si è realizzato un gemellaggio tra il santuario di Paitone
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(Brescia) e quello del Tepeyac. Un sacerdote nativo di Paitone lavora alla periferia di Città di Messico come espressione missionaria della
comunità in cui ha ricevuto il battesimo. Nel santuario di Albino, a dieci chilometri da Bergamo, si trova una copia di nostra Signora di
Guadalupe che i gesuiti di Puebla alla fine del secolo scorso regalarono al tenore Federico Gambarelli resosi famoso nei teatri messicani e
nativo della cittadina italiana. A Loreto la sesta cappella è dedicata a Guadalupe. Ad Andria (Bari), nel 1982 è stata solennemente benedetta
la prima pietra di un grandioso tempio dedicato a nostra Signora di Guadalupe. Tra la folla si distingueva un gruppo di pellegrini messicani
guidati da monsignor Carlos Talavera Ramfrez, vescovo ausiliare di Città di Messico, e da padre Lauro Lopez Beltran. Lo scopo di questo
libro è quello di penetrare, attraverso un indagine storica, il significato dell'evento guadalupano, per cogliere tutta la ricchezza simbolica e
culturale che racchiude e che ne fa un patrimonio di tutti gli uomini in tutti i tempi. Ci si soffermerà dapprima sul contesto storico;
successivamente si darà risalto al contenuto teologico e antropologico delle apparizioni, facendo emergere il profilo del veggente Juan Diego,
appartenente alla schiera degli umili che sanno rallegrarsi della vicinanza di Dio e la testimoniano con la loro vita. Infine si prenderà in
esame la continuità della tradizione guadalupana, alla luce delle diverse prospettive e delle nuove scoperte che sono in grado di dare contorni
sempre più marcati all'evento guadalupano. Il presente lavoro, pur con gli inevitabili limiti, vuole essere un approccio pieno di rispetto a un
elemento tanto significativo di una cultura così diversa da quella in cui sono nata, ma che sono chiamata ad assumere e ad amare, conscia del
fatto che si evangelizza solo quello che si ama. Desidero esprimere un particolare ringraziamento a padre Valerio Maccagnan, dei Servi di
Maria, mariologo italiano da quarant'anni in America Latina, che, onorandomi della sua stima, mi ha aiutato a trovare le chiavi di lettura del
fatto guadalupano, offrendomi l'appoggio delle sue conoscenze e della sua esperienza.
1.
IL CONTESTO STORICO DELL’EVENTO: CONFRONTO FRA I DUE MONDI
Ci pare indispensabile presentare - sia pure brevemente e con gli inevitabili limiti - la cultura azteca nei suoi aspetti salienti, allo scopo di
chiarire il contesto religioso e sociale all'interno del quale la Vergine di Guadalupe si è manifestata. Comprendere il contesto storico delle
apparizioni del Tepeyac appare indispensabile in relazione al tema che vogliamo trattare, ossia il significato, oltre che la storia, del
messaggio guadalupano.
1. L'impero azteco: origini e struttura sociale
Le tribù mexicas erano comparse per ultime, a metà secolo XIII, sullo scenario principale della storia precedente l'arrivo degli spagnoli, cioè
nella Valle di Messico. Qui si erano succedute varie culture, con un ritmo cadenzato che ricorda quello delle maree. Una tribù selvaggia
giungeva e distruggeva la precedente, già civilizzata, civilizzandosi a sua volta per cadere vittima, puntualmente, della seguente invasione.
La storia tradizionale dei mexicas ci indica che la tribù, partita intorno al 1168 da un punto situato a nord nel Messico, impiegò circa un
secolo e mezzo per giungere al centro del paese e installarsi nelle terre melmose del grande lago di Texcoco, che allora occupava gran parte
dell'altopiano centrale. Gli aztechi, entrati in contatto con popoli in avanzato stato di civilizzazione, come i toltechi di Tula e quelli delle città
lacustri, parlavano il nahuatl, la lingua dei toltechi, ma non erano in possesso della stessa cultura. Ciò nonostante, avevano una convinzione
che li guidava: quella di essere nientemeno che il « popolo del Sole », convinzione che li portò a diventare, già sul finire del secolo XV,
abitanti dell'Anahuac, nome dato alle coste del Messico e, per estensione, a tutto il paese. Gli aztechi fondarono la loro capitale, Tenochtitlan,
nel 1325. Un secolo dopo, ormai assimilata la cultura tolteca e totalmente indipendenti, i mexicas diedero inizio alla fase imperialista della
loro storia. Li guidava il re Itzcoatl (1428-1440) che, insieme al re di Texcoco, aveva vinto gli antichi dominatori di Azcapotzalco e aveva
stipulato la « triplice alleanza » tra Tenochtitlàn, Texcoco e Tacuba, sottomettendo le tribù più deboli e obbligandole a pagare umilianti e
onerosi tributi. All'arrivo degli spagnoli, nel 1519, la dominazione azteca si estendeva dalle coste del Golfo sino al Pacifico e al Guatemala.
La struttura sociale della tribù al tempo della migrazione era molto semplice. Ogni capofamiglia prendeva parte con gli altri alle discussioni
in cui venivano prese le decisioni più importanti. Quanto al livello di vita, era lo stesso per tutti: uguaglianza e povertà. Solo i sacerdoti di
Huitzilopochtli, la divinità solare e guerriera che li guidava, formavano in quell'epoca l'embrione di una classe dominante e il nucleo di un
potere Ma al principio del secolo XVI è ormai avvenuto un cambiamento rilevante. La società azteca si è differenziata, è più complessa e
gerarchizzata, e le diverse funzioni sono espletate da varie categorie di persone. La trasformazione appare profonda ed è avvenuta in un
tempo relativamente breve. La democrazia tribale ha ceduto il posto a una monarchia aristocratica e imperialista. Il sovrano porta il titolo di
tlatoani (« colui che parla »). In origine il suo potere gli viene dalla capacità di parlare nel Consiglio degli Anziani. Eletto dai funzionari
d'alto rango, è il capo supremo dell'esercito. I suoi primi doveri lo legano agli dèi, poi al popolo di cui è padre e madre. Insieme al sovrano,
gli alti dignitari governano riuniti nel Tlatocan, o Consiglio Supremo della città, che delibera intorno a questioni di politica estera. I dignitari
(tecuhtli) danno ordini e dispongono del potere. Il cacicco, capo di un villaggio, di un paese o di una città, è pur sempre un personaggio: i
suoi abiti e i suoi gioielli lo distinguono. Vive a spese dei cittadini, tanto che gli vengono assegnate delle terre: è al tempo stesso agente di
polizia, esattore delle imposte e incaricato dello stato civile. E’ responsabile del buon andamento generale di quanto gli è stato affidato.
Eletto dai sùoi concittadini, doveva la sua permanenza al potere alla buona volontà del sovrano. I sacerdoti, circondati da riverente rispetto,
non si confondono con le autorità militari o civili, ma costituiscono una gerarchia parallela alla classe dirigente. I due sommi sacerdoti di
Huitzilopochtli e di Tlàloc portavano entrambi il titolo di « Serpente piumato »: rivendicando il sigillo della divinità secondo il mito di
Quetzalcoàtl, si presentavano in pratica come i suoi successori. Esisteva una numerosa classe di sacerdotesse e sacerdoti, specializzati nel
culto agli dèi e nelle molteplici funzioni ad esso connesse. Il potere spirituale che esercitavano sulla società azteca era enorme, tanto come
interpreti della divinità quanto come rappresentanti della massima cultura dell'epoca. Tra i doveri sacerdotali era particolarmente importante
l'osservazione dei movimenti celesti sia per le loro implicanze scientifico-religiose sia per i loro fini pratici. Il calendario, con le sue
molteplici serie di combinazioni, era una questione religiosa, così come le molteplici predizioni del futuro: era necessario conoscere la
scrittura geroglifica. La gerarchia militare, in un paese continuamente in guerra, offriva ai più valorosi e agli ambiziosi una carriera particolarmente brillante. Dei quattro ordini militari, i due superiori erano quelli dei Cavalieri Aquila e dei Cavalieri Tigre. Ogni soldato che
riusciva a catturare quattro prigionieri giungeva di colpo ai più alti gradi della scala sociale. Una moltitudine di mexicas si occupava del
commercio: pochteca era il titolo dei membri delle potenti organizzazioni che avevano il monopolio del commercio con altri paesi. Quelli
che si dedicavano a quest'attività vedevano aumentare sempre più la loro influenza. Anche gli artigiani costituivano una classe numerosa ed
erano conosciuti soprattutto per la lavorazione delle piume e dei gioielli. La plebe (macehuales) lavorava la terra e aveva pesanti doveri
collettivi, prestava il servizio militare, pagava le imposte. Tuttavia le distribuzioni di viveri dovevano in gran parte ricompensarla e la sua
posizione, benché umile, era dignitosa. Al limite tra la plebe libera e la classe degli schiavi, incontriamo una categoria, quella dei contadini
(tlamaitI) che vivono con la loro famiglia sulla terra che è stata loro concessa. L'agricoltore non ha i diritti del cittadino, ma dipende dal
padrone, pur non essendo completamente abbandonato a un potere privato. Infine esiste il tlacotl, lo schiavo. Appartiene come una cosa allo
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stato, ma è trattato benevolmente, tanto che può possedere dei beni e sposare una donna libera. La sua condizione non è definitiva.
Diventano schiavi i prigionieri di guerra che non erano immediatamente sacrificati oppure coloro che avevano commesso dei crimini. La
moralità era difesa con vigore: il furto era punito con la schiavitù, l'adulterio con la lapidazione, l'assassinio, l'ubriachezza e la frode con la
pena di morte. Il sistema giudiziario funzionava quotidianamente ed era inappellabile. I giudici corrotti erano condannati alla pena capitale.
La maggior parte della popolazione di Tenochtitlàn veniva educata nei telpochcalli, scuole popolari il cui scopo era quello di preparare i
giovani alla guerra. Esistevano comunque anche scuole d'ordine superiore, come i calmecac, dove si coltivava negli alunni, sottoposti a una
rigida disciplina, il dominio di se stessi, l'abnegazione e la devozione alla cosa pubblica. L'educazione impartita nei calmecac si concentrava
sull' aspetto intellettuale della formazione dello studente. I calmecac erano i centri in cui i tlamatinime, i saggi, comunicavano il grado più
elevato della cultura nahuatl e cercavano di perfezionare la personalità dei loro alunni nei due aspetti fondamentali: dare saggezza al volto
(ragione) e fermezza al cuore (intelligenza e volontà). Due erano i principi fondamentali che guidavano l'educazione nahuatl: quello
dell'autocontrollo attraverso una serie di privazioni a cui il giovane doveva abituarsi, e quello della conoscenza di se stesso e del proprio
ruolo sociale, inculcato dal padre con ripetute esortazioni. Per questo non deve meravigliare che, normalmente, potessero accedere al
calmecac i figli dei re, dei nobili o di gente ricca. Tuttavia non c'era esclusivismo di classe: lo prova, tra l'altro, la testimonianza resa dagli
informatori di Sahagtin. Di fatto la maggior parte della popolazione destinava i figli al telpochcalli, da dove sarebbero usciti trasformati in
guerrieri; tutti i giovani, però, potevano accedere all'una o all'altra forma di scuola; solo le donne erano escluse dal calmecac. E’ certo,
comunque, che un guerriero, il quale si era particolarmente distinto, accedeva alle più alte cariche; che i sommi sacerdoti erano scelti senza
tener conto delle loro origini e potevano essere figli di semplici cittadini; che pure un contadino poteva essere investito dall'imperatore di
funzioni che lo facevano entrare nella classe dirigente. La società azteca era una struttura aperta, fluida, intercomunicante.
2.La visione del mondo propria degli aztechi
I mexicas rappresentavano il mondo come una specie di croce di Malta: l'oriente, regione della luce e della fertilità, in alto; il nord, regione
delle tenebre e dell'aridità, a destra; l'occidente, regione delle nebbie e dell'origine dell'uomo, in basso; il sud, regione del sole di mezzogiorno e di Huitzilopochtli, a sinistra. Lo spazio è così suddiviso in diverse aree e messo in relazione col tempo: il giorno o l'anno assumono
quindi le caratteristiche assegnate a ogni punto cardinale. Per gli aztechi, che erano in possesso di eccellenti conoscenze astronomiche,
esistevano due tipi di calendari: l'anno solare di 365 giorni era diviso in 18 mesi di 20 giorni ciascuno, ai quali si aggiungevano 5 giorni, detti
nemonteni, durante i quall poteva verificarsi un evento straordinario tanto nefasto come favorevole. Un ciclo intero durava 52 anni. Il periodo
più lungo della cronologia messicana (due volte un ciclo, quindi 104 anni) era definito « una vecchiaia ». Parallelamente al calendario solare
si sviluppava quello rituale o astrologico, composto di 260 giorni, suddivisi in 20 serie di 13 giorni, e ognuna delle serie veniva considerata
favorevole o nefasta secondo il significato del suo primo giorno ed era dedicata a un dio. Tutta la cosmologia azteca era dominata
dall'immagine delle quattro direzioni, a cui si deve aggiungere una quinta, il centro: tale concetto si trova in tutte le manifestazioni religiose
del popolo azteco. Il geroglifico nahuatl più familiare è una figura che, pur con infinite varianti, è formata sempre da quattro punti unificati
da un centro (il sole: Huitzilopochtli), disposizione chiamata quicunce. Il cinque è la cifra del centro, il quale a sua volta costituisce il punto
di contatto fra il cielo e la terra. La religione occupava una posizione preminente nella vita degli aztechi che la vivevano con assoluta abnegazione: univa alle credenze tipiche dei nomadi cacciatori quelle dei popoli agricoltori che li avevano preceduti sull'altopiano. Era una
religione aperta: gli aztechi vincitori cercavano d'incorporare all'impero, insieme alle province conquistate, anche gli dèi che esse adoravano.
Il pantheon azteco illustra la tendenza dello spirito del popolo al sincretismo. La principale divinità, Huitzilopochtli, personificava il sole allo
zenit, il sole di mezzogiorno; dio di una tribù di cacciatori e guerrieri venuti dal nord, Huitzilopochtli apparteneva a un gruppo di divinità che
erano state importate dalle popolazioni settentrionali che avevano invaso il Messico. Era lo stesso per Tezcatlipoca, dio del cielo notturno,
stregone che vede tutto nel suo specchio di ossidiana, protettore dei giovani guerrieri. A contatto con le civilizzazioni dell'altopiano e con la
tradizione tolteca, i mexicas avevano adottato i culti e le divinità agrarie delle tribù sedentarie e accolto nel loro pantheon il dio Tlaloc, colui
che convoca le nubi, dando così inizio alla stagione delle piogge, tanto attesa dagli agricoltori nelle angosciose settimane di siccità. Sole e
pioggia, le due grandi forze che dominano il mondo, erano così associate nella cultura azteca quasi a tratteggiare la sintesi di una storia dove
i guerrieri si erano convertiti alla vita sedentaria. Quetzalcoatl, il Serpente piumato, mitico sacerdote e re di Tula, capitale tolteca, che mai
aveva accettato i sacrifici umani e, per questo, non poteva far parte del pantheon azteco, fu trasformato in una divinità astrale: il pianeta
Venere Stella del mattino e della sera, tramonta al calar del sole, per risorgere il giorno seguente. Simboleggia la morte e la rinascita. La
metamorfosi di Quetzalcoatl in dio della stella del mattino offre un esempio dell'astralizzazione delle divinità presso gli aztechi. Portatori di
una religione essenzialmente astrale, i popoli cacciatori e guerrieri provenienti dal nord imposero i propri dèi e rimodellarono quelli delle
popolazioni sedentarie e agricole. I mexicas erano consapevoli che Quetzalcoatl aveva promesso di tornare a riprendersi l'Anahuac e che
perciò la loro sistemazione era solo provvisoria: il dio sarebbe ritornato da oriente, nell' anno che porta il suo nome « C-1 Acatl ». Per questo,
quando nel 1519, che nel calendario indigeno si chiamava appunto « C- 1 Acatl », sbarcarono a Veracruz gli spagnoli, Moctezuma non dubitò neppure per un istante che si trattasse del temuto ritorno del dio nelle sue terre. La religione azteca con il suo rituale minuzioso ed esigente e con la sua abbondanza di miti influenzava profondamente la vita quotidiana in tutti i suoi aspetti: forniva una regola di condotta, ma
soprattutto dava un interpretazione del mondo. Il pensiero nahuatl giunse metaforicamente alla scoperta di un essere supremo, maschile e
femminile, Ométeotl. Nell'azione generativa di Ométeotl al di là dello spazio e del tempo si trova il principio supremo, origine e fondamento
di tutto quello che esiste e vive. Ométeotl è l'unico veramente radicato in se stesso, e il mondo nahuatl accetta come vero solo ciò che si
radica in qualcosa di stabile e permanente. L'altra categoria chiave della visione del mondo degli aztechi è quella dei cicli: la terra, fondata su
Ométeotl, non è statica ma soggetta all'influsso delle forze cosmiche in lotta fra loro. L'idea della lotta applicata in modo antropomorfico alle
forze cosmiche è precisamente la forma utilizzata dai saggi per spiegare l'evoluzione dell'universo in cui si succedono vari cicli (che gli
aztechi più semplicemente chiamavano Soli) o età dell'universo. L'universo degli aztechi era quindi un universo fragile, continuamente minacciato di scomparire, nel quale gli uomini svolgevano un ruolo insignificante: il loro unico dovere era quello di combattere e di morire per
gli dèi e per la conservazione del mondo, fornendo il sangue dei sacrifici. La caratteristica predominante del rituale azteco, infatti, era il
sacrificio umano. Il sangue umano era indispensabile alla vita stessa del mondo in quanto manteneva in vita il dio sole, Huitzilopochtli. Il
sole è nato dal sacrificio e dal sangue. Gli dèi - si diceva - si erano riuniti una notte a Teotihuacan, città degli dèi, e uno di essi, Nanahuatzin,
si era offerto per gettarsi in un immenso rogo dal quale era uscito trasformato in astro. Rimaneva però immobile: aveva bisogno del sangue
per mettersi in movimento. Allora gli altri dèi si sacrificarono, e il sole, traendo vita dalla loro morte, intraprese il suo corso nel cielo. Qui ha
inizio il dramma cosmico nel quale l'umanità si vede legata agli dèi: perché il sole prosegua il suo cammino e le tenebre non avvolgano il
mondo, è necessario alimentarlo ogni giorno con il «liquido prezioso» del sangue umano. Il sacrificio umano è un dovere sacro che si è
contratto con gli dèi e una necessità per lo stesso bene degli uomini, la cui prima funzione è precisamente dare alimento a « nostra madre e
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nostro padre, la terra e il sole ». Niente nasce o vive se non per il sangue delle vittime dei sacrifici. Nessun aspetto della civiltà mexica
ripugna tanto come questo alla nostra sensibilità. Dal primo contatto degli spagnoli con gli indigeni, l'orrore che ispirarono loro i sacrifici
umani contribuì a convincerli che la religione autoctona era di origine infernale e i loro dèi non erano altro che demòni. Il sacrificio umano,
tra i mexicas, non era ispirato dalla crudeltà e dall'odio: era la loro risposta - l'unica che potevano concepire all'instabilità del mondo
costantemente minacciato. Per salvare l'umanità e il mondo era necessario il sangue: il sacrificato non era un nemico da eliminare, ma un
messaggero che si inviava agli dèi, rivestito di una dignità quasi divina. Tutte le descrizioni delle cerimonie, per esempio quelle che sono
dettate a Sahagùn dai suoi venti informatori aztechi, danno l'impressione che fra le vittime e i carnefici si stabilisse quasi una parentela
mistica: quando un uomo catturava un prigioniero, diceva: « Ecco il mio figlio diletto ». E il prigioniero diceva: « Ecco il mio venerato padre
». Il prigioniero, sicuro del suo destino e preparato fin dall'infanzia ad accettarlo, si sottometteva stoicamente. Di più: se gli si offriva salva la
vita, rifiutava. Fuggire il sacrificio era un incancellabile disonore. Tali considerazioni permettono di comprendere il senso della guerra per gli
antichi abitanti del Messico. Man mano che la dominazione mexica si estendeva, le loro stesse vittorie creavano una zona pacificata sempre
più vasta. Da dove allora potevano venire le vittime indispensabili per assicurare agli dèi il loro alimento? Era necessario mantenere la
guerra. Tale è la ragione di quella strana istituzione denominata guerra florida, che sembra essere stata iniziata a partire dal 1450 ad opera di
Tlacaetl, consigliere del re Moctezuma I (1440-1469). Di comune accordo, i sovrani di Tenochtitlan, Texcoco e Tlacopan e i signori di
Tlaxcala, Huexotzinco e Cholula decisero, in mancanza di guerre propriamente dette, di organizzare periodici combattimenti i cui prigionieri
sarebbero stati sacrificati agli dèi. La lotta aveva quindi come scopo di surrogare la guerra con la sua cattura di prigionieri. La guerra non era
solo uno strumento della politica, ma prima di tutto un rito, una « guerra sacra ».
3. L 'arrivo degli spagnoli
Quello che avverrà con l'arrivo degli spagnoli non sarà tanto uno scontro militare - gli aztechi volevano instaurare un rapporto pacifico di
mutua convivenza - quanto un confronto sul terreno culturale: due visioni del mondo si opporranno dal momento in cui gli stranieri metteranno piede in terra messicana, accolti come gli dèi venuti dal mare, di cui parlava l'antica tradizione. Per questo si può dire che gli aztechi
avevano rinunciato a combattere, convinti di essere impotenti di fronte al volere divino. E fu proprio questa errata identificazione ad aprire la
via all'invasione militare. Vent'anni dopo la scoperta dell'America, il Messico era ancora sconosciuto. Sebbene tra Cuba, dove si erano già
installati gli spagnoli, e la penisola dello Yucatan non ci sia che un passo, le correnti marine rendevano impraticabile quel tratto di mare alle
fragili imbarcazioni dell'epoca. Cortés sbarca a Santo Domingo in cerca di fortuna a soli diciannove anni, nel 1504; in seguito diviene segretario del governatore di Cuba, Diego Velàzquez, che gli affiderà una spedizione nelle terre dell'oro. La spedizione salpa il 18 febbraio 1519
da L'Avana con 10 navi, 100 marinai, 508 soldati, 16 cavalli, 32 balestre e altri pezzi d'artiglieria di piccolo calibro. Tra i compagni di Cortés
c'è anche Bernal Diaz del Castillo, che avrebbe poi steso la cronaca dell'impresa. Il 22 aprile 1519 sbarca sulla terraferma alcuni chilometri
più a nord di quella che oggi è la moderna città di Veracruz, sulle coste del Golfo del Messico. Nell'isola di Cozumel, di fronte alla penisola
dello Yucatàn, aveva raccolto Jeronimo de Aguilar, naufragato su quelle coste nel 1511 e ormai in grado d'intendere la lingua maya. Più
avanti, allo sbocco del fiume Grijalva, aveva avuto luogo il primo scontro a fuoco con gli indigeni e, a pace fatta, agli spagnoli erano state
offerte in omaggio venti schiave, tra cui Malitzin (o Malinche) che, per la sua conoscenza del nahuatl e del maya, sarebbe stata molto utile
come interprete. Accompagna Cortés anche un padre mercedario, fra Bartolomé de Olmedo, spesso costretto a moderare lo zelo missionario
del conquistatore. Approdati un venerdì santo, la domenica viene solennemente celebrata la messa di Pasqua, alla presenza del governatore
del posto, Teutle, e di altri nobili del suo seguito, venuti a riverire lo straniero. All'ora del vespro, gli spagnoli pregano inginocchiati ai piedi
di una croce di legno innalzata sulla spiaggia e fra Bartolomé espone agli indigeni incuriositi i fondamenti della dottrina cristiana - passione,
morte e risurrezione di Gesù per la nostra salvezza - sottolineando allo stesso tempo che gli dèi indigeni non sono altro che esseri diabolici.
Cortés manifesta a Teutle il desiderio di conoscere il suo imperatore Moctezuma Il, al quale chiede che sia inviato in dono un elmo che
Teutle dice essere simile a quello lasciato dai loro antenati. Moctezuma lo riceve infatti come presagio del ritorno di Quetzalcoatl, signore
dell'Anahuac. Cortés, invece di accettare i successivi omaggi di Moctezuma e di ritirarsi compiaciuto dell'ossequio e dei doni, insisterà
sempre nel voler proseguire verso l'interno, col desiderio di conquistare nuove terre. Per accertarsi dell'identità degli stranieri, il tlatoani sottoporrà gli spagnoli ignari a un test: verificare se si ciba-vano di sangue e carne umana oppure se di alimenti della terra, come appunto
Quetzalcoatl. Un sacrificio che viene celebrato sotto i loro occhi, come riferiscono gli informatori di Bernardino de Sahagùn, viene fatto
sospendere immediatamente da Cortés: essi infatti non sono dèi, ma uomini. Fondata Villa Rica de la Veracruz e bruciate le navi per
impedire il rientro a Cuba dei fedeli di Velazquez, Cortés inizia il suo viaggio verso l'interno il 16 agosto 1519. Ai primi di settembre gli
spagnoli giungono a Tlaxcala. I tlaxcaltechi escono a combatterli ma sono sconfitti e, constatata la superiorità militare degli stranieri, si
dispongono alla pace. Cortés, informato che si tratta di nemici degli aztechi, si allea con loro, che accettano con gioia. La tappa seguente è
Cholula, città legata da vassallaggio agli aztechi: qui sia gli indigeni di Cempoala, precedentemente offertisi come alleati a Cortés, sia quelli
di Tlaxcala insinuano sospetti di complotti a danno degli spagnoli. Cortés punisce duramente l'intento di tradimento - che gli indios negano ordinando una strage e il saccheggio della città. Alla fine di ottobre gli spagnoli abbandonano Cholula, che ormai appartiene a Carlo V. L'8
novembre 1519 gli spagnoli entrano a Tenochtitlàn. Bernal Diaz del Castillo descrive entusiasta quello che contemplarono i suoi occhi come
in un sogno - La città - che era andata crescendo sempre più grazie al terreno guadagnato attraverso abili interventi d'ingegneria idraulica, si
estendeva su una superficie a forma quadrangolare di circa tre chilometri per lato. Aveva giardini botanici e zoologici. Una rete di acquedotti
portava fino al centro della città l'acqua potabile. Il numero degli abitanti (250.000) superava di gran lunga quello delle più popolose città europee. Le strade erano piuttosto strette e in molte di esse esistevano canali che permettevano l'entrata delle imbarcazioni provenienti dalle
sponde del lago, cariche dei tributi delle province, di gioielli d'oro e d'argento, di piume, di cacao, di una membrana simile a pergamena fatta
con la corteccia di amate (che serviva per i codici), di schiavi e di vittime per i sacrifici umani. In città viene solennemente incontro a Cortés
Moctezuma con il suo seguito: distribuite corone d'oro e di fiori, inchinatosi, pronuncia con tratto generoso e amabile un brevissimo discorso,
invitando gli stranieri a riposare come nella propria casa. Più tardi, in colloquio con Cortés, Moctezuma si dichiara con preziosi regali
disposto a servirli in tutto, ormai certo di trovarsi di fronte a quegli dèi di cui parlavano gli antenati e che sono venuti dall'est a riprendere
possesso delle loro terre. Il conquistatore, già nel primo incontro, riassume brevemente la dottrina cristiana, si pronuncia apertamente contro i
sacrifici umani e annuncia la venuta dei missionari. Gli spagnoli vivono momenti di forte pressione psicologica, preoccupati di essere stati
accolti in città solo per essere annientati. Nonostante la splendida accoglienza di Moctezuma, temono che l'imperatore possa mutare parere e
si preparano ad attaccare o a difendersi: studiando la disposizione della città, la direzione dalla quale potrebbero giungere gli alleati, vagliano
l'opportunità di togliere ogni libertà di movimento a Moctezuma. Di fatto l'imperatore viene invitato a consegnarsi come ostaggio e diviene
praticamente prigioniero degli spagnoli, pur essendo trattato con il rispetto e gli onori dovuti a un uomo del suo rango. Nella primavera del
1520 giunge a Tenochtitlan la notizia che a Veracruz sono attraccate 19 navi con 1400 soldati provvisti di cavalli e balestre, inviati dal
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governatore di Cuba Diego Velazquez e al comando di Panfilo de Narvaez, con l'ordine di far prigioniero Cortés. Di fronte alle
intimidazioni di cui è vittima il contingente militare di Villa Rica de la Veracruz, ai primi di maggio Cortés è costretto a lasciare Tenochtitlan
per affrontare le truppe inviate contro di lui, delegando il comando in Tenochtitlan a Pedro de Alvarado. Come nota Sahagùn, il mese di
maggio aveva presso gli aztechi il nome di Toxcal e il primo giorno era dedicato a festeggiare Tezcatlipoca: la solennità della festa era
paragonabile a quella della Pasqua per i cristiani. Pedro de Alvarado, temendo che al termine dei sacrifici, durante le danze, gli indigeni
attacchino gli spagnoli, decide di prevenirli attaccando per primo. Quando i festeggiamenti sono ormai al culmine, gli spagnoli, profanate le
statue degli dèi, colpiscono e uccidono tutti quelli che si trovano nel cortile del Templo Mayor, senza che nessuno possa trovare scampo nella
fuga. La reazione degli indigeni non si fa attendere: finora solo l'ordine di Moctezuma, secondo il quale non esisteva uno stato di guerra, li
aveva trattenuti. Quando, alla metà di giugno del 1520, Cortés ritorna a Tenochtitlàn, dopo aver convinto il contingente di Narvaez a unirsi a
lui con la prospettiva di una vita lussuosa, gli aztechi sono pronti ad attaccare. Ai primi colpi di cannone sparati dagli spagnoli, ha inizio la
battaglia, che dura quattro giorni. La morte di Moctezuma Il, intorno alla quale nulla si sa di certo, è da situarsi in quei giorni. Nella notte tra
il 30 giugno e il 1° luglio 1520 gli spagnoli decidono di lasciare la capitale, preoccupati più di caricarsi d'oro che di prepararsi a un eventuale
attacco: dopo aver imboccato la calzada più rapida per raggiungere la terraferma, sono scoperti, accerchiati e attaccati. Nell'indescrivibile
confusione che segue, cadono centinaia di spagnoli. La rotta degli spagnoli è passata alla storia con il nome di noche triste. Cortés, con i
sopravvissuti, ripara a Tlaxcala, dove viene accolto amichevolmente. A Tenochtitlàn, passato il momento di euforia, gli aztechi devono
affrontare un nemico più pericoloso degli spagnoli: un'epidemia di varicella miete vittime tra la popolazione, tanto che soccombe anche il
nuovo tlatoani, successore di Moctezuma, Cuitlahuac. Nel maggio del 1521 gli spagnoli riappaiono da Texcoco e cominciano ad attaccare
dai brigantini: la gente di Tenochtitlan, in vista dell'assedio, si rifugia a Tlatelolco, dove infine si concentra la lotta. Cortés ha diviso le sue
forze in modo da attaccare simultaneamente dai brigantini e dalle tre calzadas di Ixtapalapa, Tacuba e Tepeyac. Tuttavia, contro ogni
aspettativa, Tenochtitlan non cade né al primo assalto né al secondo né al terzo né a nessun altro per settimane e mesi: per novantatré lunghi
giorni gli aztechi dimostrano la loro straordinaria resistenza e la loro abilità nel combattimento, tanto che vincono varie battaglie, catturano e
sacrificano dozzine di spagnoli e legioni di indios alleati degli spagnoli, bloccano i brigantini nella laguna. Ma incappano in un nemico
invincibile: la fame. Tenochtitlan non produceva nulla: una volta tagliati i viveri, distrutto l'acquedotto e le canoe, la città è condannata a una
lenta fine, accelerata però dalla fretta degli spagnoli, dall'ansia di vendetta dei loro alleati e dall'orgoglio degli stessi messicani che, costretti a
nascondere i cadaveri senza poterli seppellire, si risolvono a convivere con essi. Sahagùn riferisce di un ultimo tentativo di salvare la città:
Cuauhtémoc, che era succeduto come tlatoani a Cuitlahuac, decide di rivestire un capitano delle insegne del re Almizotì nella convinzione
che lo avrebbero reso invincibile. Il documento indigeno assicura che gli spagnoli tremarono di spavento al suo apparire: ma si tratta di un
trionfo effimero. Tutto è ormai inutile. Secondo gli spagnoli e gli indios loro alleati, Cuauhtémoc fu fatto prigioniero mentre tentava la fuga.
Solo fra Francisco de Aguilar riconosce che si recò a trattare con il capitano Guillermo de Holguin, il quale lo catturò e lo fece torturare per
strappargli, invano, le indicazioni circa il luogo dove era custodito il tesoro azteco, prima di farlo assassinare. In città la gente in preda al
panico fugge in tutte le direzioni, mentre gli spagnoli vanno alla ricerca dell'oro. Tenochtitlan è ormai un cumulo di rovine. Il calendario
segna il giorno « i Serpente dell'anno 3 Casa»: il 13 agosto 1521. Il mondo indio con tutta la sua cultura era tramontato per sempre,
nonostante i fiumi di sangue versato per alimentarlo.
4. La «Nuova Spagna»
Ancora oggi una lapide nella Piazza delle Tre Culture a Città di Messico ricorda che «la caduta di Tlatelolco non fu né trionfo né sconfitta: fu
la dolorosa nascita del popolo mestizo». Per gli indios l'atto dell'invasione fu traumatico. In uno dei cantares messicani giunti fino a noi
attraverso il Codice di Tlatelolco, che risale al 1528, il poeta erompe in questi versi accorati: « Piangete, amici miei, piangete. Ormai la
nazione messicana è scomparsa. L'acqua è diventata aceto, così pure il cibo ». In un brano successivo, il lamento si muta in disperazione: «
Lasciateci morire, lasciateci morire, perché ormai tutti i nostri amici del cielo sono morti ». Nel loro contatto con i conquistatori, i messicani
si trovarono di fronte a valori umani e sociali differenti. Il loro vecchio mondo crollava: presto si resero conto che li aspettava una nuova
vita, apparentemente senza speranza. Il fatto della caduta di Tenochtitlan scosse profondamente il mondo indio. Gli spagnoli, lungi dal
ritirarsi dopo aver concertato il tributo, si diedero corpo e anima a fare del Messico una « Nueva Espana ». La situazione che si venne a
determinare è descritta da Toribio de Benavente, uno dei primi missionari francescani, noto per la sua estrema povertà e umiltà, in una lettera
del 2.1.1555 a Carlo V. Il religioso non esita a rifarsi alle piaghe d'Egitto per descrivere i drammatici rivolgimenti che erano stati provocati
nella società indigena: le epidemie scatenate dagli agenti patogeni importati dagli europei, le guerre di conquista, le carestie conseguenti alle
vicende belliche, le vessazioni di amministratori esosi, gli onerosi tributi imposti, il lavoro forzato nelle miniere d'oro, le prestazioni
obbligatorie per l'edificazione di Città di Messico sulle rovine di Tenochtitlan, le forme di schiavitù e le violenze scatenate dalle rivalità
intestine sorte tra i nuovi arrivati La sproporzione numerica delle due razze, india e spagnola, e la situazione prodotta nei primi anni dopo
l'arrivo dei bianchi, quando non giungevano donne spagnole oppure i conquistatori non erano seguiti dalle loro mogli, originò la fusione
biologica chiamata mestizaj. Il mestizo (il nome fu posto dagli spagnoli ai figli che ebbero nelle Indie) è «un prodotto del suolo americano».
L'incontro fra quei due mondi, l'indio e lo spagnolo, per le modalità in cui si realizzò e per le sue contraddizioni, dovrà informare dall'inizio
una razza o, meglio, la storia di un mondo: il « latinoamericano », pieno di tensioni e di « radicalità » presenti ancora oggi.
5. Valutazione storica
Non possiamo comprendere la conquista senza rifarci all'esperienza medievale della Reconquista spagnola, epica impresa che permise ai
cristiani di riprendere il dominio della penisola iberica strappandola ai musulmani (i mori, come li chiamavano). Per lo studioso delle società,
si tratta di un periodo storico, quasi contemporaneo all'alto Medioevo, « durante il quale gli abitanti della penisola iberica crearono una civiltà caratteristicamente spagnola ». I motivi ispiratori della Reconquista furono essenzialmente due: riacquistare il suolo patrio e continuare
a essere per libera scelta un paese cristiano. Come ha affermato lo storico F. Lòpez de Gomara: « La conquista delle Indie comincia quando
fu ultimata quella dei mori, perché gli spagnoli hanno sempre combattuto contro gli infedeli ». Dall'esperienza della Reconquista venne agli
spagnoli, come ai portoghesi, la spinta verso l'Italia, la Grecia, fino all'Africa e alle isole dell'Atlantico e successivamente all'America e
all'Asia, nonché l'acquisizione di un bagaglio di esperienze nella conquista e nella colonizzazione delle terre straniere, dove diffusero valori e
istituzioni consolidatesi nel corso della lunga lotta. Colombo presentò infatti il suo progetto di navigazione verso l'Asia attraverso l'Atlantico
proprio quando - dopo otto secoli di guerra contro i musulmani, conclusasi con l'espulsione definitiva degli invasori dall'unico territorio
europeo che ancora occupavano - la Spagna poteva rivolgere tutte le sue energie interiori, le forze ideali e la capacità di azione verso altre
finalità e altri obiettivi. Quando ci si rese conto della quantità immensa di meraviglie, di ricchezze e di anime che non avevano ancora conosciuto Cristo, i castigliani, memori del loro passato, diedero al progetto delle Indie proporzioni più grandiose. « Dalla scoperta si passò alla
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conquista e dalla conquista alla colonizzazione, e così venne creato un impero » Fin dal momento del rientro di Colombo da San Salvador, il papa Alessandro VI, opportunamente informato dai sovrani spagnoli dello storico evento della scoperta di nuove terre, concesse ai « re
cattolici » il diritto di conquista e impose l'obbligo di evangelizzazione. La Corona autorizzò, diresse e regolò la conquista seguendo una
serie di principi generali enunciati per la prima volta dalla regina Isabella, miranti a stabilire una sovranità esclusiva sulle terre conquistate
oltre oceano, a convertire e proteggere le popolazioni locali e a ottenere, infine, un beneficio economico. I conquistatori e i coloni pensavano
invece di potersi arricchire sfruttando gli indigeni e di acquistare delle signorie. Gli scopritori e i conquistatori furono generalmente uomini
pratici, decisi a ottenere i loro scopi e pronti a essere spietati. Non provenivano da famiglie privilegiate, ma povere, e avevano come unica
aspirazione quella di avere dei vassalli sotto di loro; per questo motivo si lasciarono guidare dalla loro sfrenata cupidigia di ricchezze, che
impressionò gli indiani. Chi si recava nelle Indie inevitabilmente portava con sé i valori, le usanze e le caratteristiche delle regioni di
provenienza e ciò fu determinante per la costituzione della base culturale e sociale del Nuovo Mondo. Durante i primi secoli della conquista e
della colonizzazione, la maggior parte degli immigrati giungeva dall'Andalusia, dall'Estremadura e dalle due Castiglie: percio i valori della
Spagna tradizionale delle signorie e della pastorizia, proprie delle regioni in cui era ancora vivo lo spirito della Reconquista, ebbero un ruolo
determinante nella formazione delle culture latinoamericane. Come la scoperta si fonde nella conquista, la conquista sfuma nella
colonizzazione. Gli insediamenti delle progredite civiltà indigene suggerirono i luoghi più adatti per la fondazione delle città dei
conquistatori. Cortés incoraggiò efficacemente la colonizzazione e nel 1531 esistevano nel Messico centrale quindici comuni, il più
importante dei quali era Città di Messico. Pedro Borges ha sostenuto chiaramente che la civilizzazione dell'indigeno americano era
indissolubilmente legata alla cristianizzazione. Anzitutto l'indio doveva abbandonare i suoi costumi barbari, le sue idolatrie e acquistare
nuovi modi politici. Governanti e coloni, oltre ai religiosi, avrebbero dovuto collaborare in quest'impresa, mentre l'evangelizzazione era di
competenza soltanto dei missionari. Bisognava preparare l'indio intellettualmente e politicamente, per insegnargli successivamente gli altri
concetti religiosi. La Corona, il re e il Consiglio delle Indie (istituito nel 1524) furono i principali responsabili della civilizzazione del nativo
americano, oltre che della sua evangelizzazione. In virtù del patronato regio, i re spagnoli agirono come delegati del papa in ciò che
concerneva gli affari del Nuovo Mondo. I sovrani spagnoli fornirono i mezzi e posero le premesse perché l'annuncio cristiano potesse essere
divulgato, esercitando un ruolo che a partire dal 1622 sarà proprio della Congregazione «de Propaganda Fide »: divennero i coordinatori
supremi dell'evangelizzazione stessa, attuandola come delegati del papa in America, in virtù del suddetto patronato e dell'esercizio del
vicariato regio. I rappresentanti della Corona, cioè le autorità americane - viceré, governatori, capitani generali, componenti delle audiencias
(tribunali), semplici funzionari -, collaborarono nell'evangelizzazione non solo in quanto esecutori delle norme reali, ma anche come
realizzatori di iniziative proprie. Inoltre non dobbiamo dimenticare che, nonostante i limiti, i peccati e le contraddizioni a livello personale,
gli spagnoli giunti nel Nuovo Mondo possedevano generalmente una coscienza cristiana.
6. Aspetti della metodologia missionaria
Come primo atto dopo la caduta di Tenochtitlan, Cortés proibì i sacrifici umani e tutto il culto religioso tradizionale. Lo stesso Carlo V
confermò questa politica religiosa nel 1523. Cortés aveva inoltre rivolto un appello all'imperatore per ottenere l'invio di missionari in Messico; ci si rivolse soprattutto agli ordini mendicanti, e in effetti nella Nuova Spagna, fino al 1572, francescani, domenicani e agostiniani furono
in prima linea e nettamente prevalenti rispetto al clero secolare nell'esercizio del ministero apostolico e del compito missionario. Tre religiosi
francescani sbarcarono nella Nuova Spagna nel 1523. L'evangelizzazione sistematica comincerà, però, solo con l'arrivo di un gruppo di
missionari francescani conosciuti come i « dodici apostoli », uomini colti e di provata virtù, nel giugno del 1524. La grande speranza che
animò questi primi francescani fu che dall'opera evangelizzatrice potesse nascere « una vasta comunità organizzata indocristiana, dove un
nuovo popolo - gli indiani - sotto la guida non autoritaria ma paterna dei religiosi avrebbe instaurato una cristianità nuova, rinnovando il
modello esemplare della Chiesa primitiva ». La Chiesa, che giunse in America dotata di una spiritualità d'alto livello e di una dottrina
profondamente radicata, evangelizzò realizzando un'opera educativa attraverso un'ampia gamma di istituzioni scolastiche volute dalla Sede
Apostolica. Già nel 1535 i francescani fondarono il Collegio di Santa Cruz di Tlatelolco per i nobili di razza india, ai quali insegnavano tre
lingue: spagnolo, latino e nahuatl, con eccellenti risultati. Tuttavia l'evangelizzazione, almeno nella sua fase iniziale, si risolse in un'opera di
sradicamento della cultura e dei culti indigeni, attraverso la distruzione di tutti i simboli religiosi, considerati di provenienza diabolica.
Proprio per combattere l'idolatria, fu raccolta una mole considerevole di materiale etnografico: ricordiamo, in particolare, la più volte citata
opera monumentale di Bernardino de Sahagun, Historia generai de las cosas de la Nueva Espana. Non mancarono traduzioni nelle lingue
indigene di catechismi, formulari per la confessione e vite edificanti, nonché opere sulle lingue autoctone (grammatiche e dizionari), secondo
una politica missionaria attuata nella seconda metà del secolo XVI. Si può comunque parlare di «indigenizzazione» della catechesi, visto che
i catechismi erano pur sempre traduzioni di opere redatte in Europa? Il parere di Massimo Marcocchi è che non si giunse alla «creazione di
una chiesa india, perché il messaggio evangelico è stato annunciato attraverso le categorie della teologia europea trasferita sic et simpliciter
senza mediazioni e adattamenti. Ci fu, invece, una "conquista spirituale", per usare la densa espressione del Richard. I religiosi
s'impegnarono a organizzare splendide celebrazioni, processioni e feste, con la massima solennità possibile, gestendo in questo modo la
religiosità popolare indigena, e si avvalsero delle sacre rappresentazioni in lingua nahuatl per evangelizzare, istruire, edificare gli indigeni. In
questo modo la liturgia rispose maggiormente al gusto per lo spettacolare degli indios, ma rimase "latina ed esterna, cioè incapace di
coinvolgere in profondità». La prova che nei primi quarant'anni gli evangelizzatori non seppero instaurare un dialogo su un piano di uguaglianza e di rispetto nei confronti della cultura nahuatl è fornita dal « Libro dei Colloqui » che i « dodici » sostennero nel 1524 con i saggi
nahua (tlamatinime), come tentativo iniziale di evangelizzazione. Gli appunti di tale incontro, di notevole interesse per conoscere aspetti fondamentali del pensiero religioso precoloniale, arrivarono nelle mani di Sahagùn nel 1564 e furono da lui riordinati. Il Libro de los Coloquios
avrebbe dovuto essere pubblicato insieme alle altre opere di Sahagsin Doctrina Christiana e Psalmodia Christiana, come risulta dalle licenze
ecclesiastiche conservate nelle pagine preliminari di Psalmodia Christiana. Tuttavia solo quest'ultima opera fu pubblicata nel 1583. Del
Libro de los Coloquios non si ebbe più notizia, finché il francescano Pascual Saura, nel 1922, lo trovò casualmente nell'Archivio Segreto
Vaticano e un suo confratello, padre Pou y Martf, lo pubblicò nel 1924. La dottrina cristiana esposta nei « Colloqui » è l'insegnamento
comune della Chiesa prima del Concilio di Trento: si spiega così l'enfasi sulla sacra Scrittura come testo rivelato fondamentale, più che sulla
tradizione. L'esposizione, corrispondente alla predicazione iniziale dei missionari, parte dall'affermazione dell'esistenza di un unico Dio, di
cui si celebrano gli attributi e la manifestazione sul Monte Sinai e, dopo aver sottolineato che Gesù, giudice giusto e misericordioso, è il
fondatore della Chiesa, dalla quale i missionari sono inviati, paragona gli idoli degli indigeni ai demoni. Possiamo comprendere molto bene
l'atteggiamento dei primi missionari francescani: le immagini idolatriche azteche avevano fattezze mostruose. Progressivamente i missionari
insinuano negli indigeni l'idea che essi furono ingannati da questi falsi dèi-demoni, fino ad affermare che sono stati vinti dagli spagnoli perché il vero Dio ha assistito questi ultimi durante la conquista. Dio, così, sembra un signore guerriero e vendicatore. Tuttavia gli adoratori
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degli idoli non sono colpevoli: sono stati ingannati, e i missionari sono venuti ad aprire loro gli occhi e smascherare la menzogna del
diavolo, così da restituire loro la dignità umana illuminandola con la verità. I tlamatinime, pur essendo consci di essere i vinti, non
tralasciano di opporsi con coraggio a quelli che considerano attacchi ingiustificati alla loro maniera di pensare. Le ragioni che espongono ai
missionari procedono da un sapere organizzato circa la divinità e pongono in relazione il loro credo con l'insegnamento trasmesso di
generazione in generazione, e indicano in Ométeotl, signore della dualità, ciò che ha dato origine e regge il mondo. L'universo religioso
nahuatl era popolato di innumerevoli divinità, personificazioni delle forze e dei fenomeni cosmici: come abbiamo visto, non c'era ambito o
momento in cui non fosse presente il divino, rappresentato da dèi o dee che proteggevano, orientavano, influenzavano la vita e le attività
degli uomini. Si può percepire, al di là delle singole divinità, una presenza sacra, un Dio presente in ogni luogo, dal sapore vagamente
panteista, un Essere indeterminato, non personale, di cui le varie divinità sarebbero manifestazione. Il concetto giudeo-cristiano di un Dio
personale sembra assente dalla mentalità indigena. E possibile parlare di un Dio supremo, impersonale, ma nello stesso tempo vicino agli
uomini come afferma anche Garibay: già presente nella cultura della Valle di Messico, questa visione era stata assunta dagli aztechi e formulata dai loro saggi. La drammatica risposta dei tlamatinime rivela il loro stato d'animo: non rimane loro che morire, visto che - come si sta
dicendo loro e come la realtà dei fatti sembra confermare - i loro dèi sono morti. Con tono accorato si domandano come sia possibile
abbandonare l'antica «regola di vita». I missionari fondano la loro argomentazione sulla parola scritta, la Scrittura, mentre i saggi aztechi si
appellano alla tradizione degli antenati più che a un colloquio, si ha, quindi, l'impressione di assistere ad un monologo culturale dei dodici
missionari. Solo nel simbolo tangibile di santa Maria di Guadalupe, annunciato da un indio convertito, quei due mondi fin allora sconosciuti
l'uno all'altro e addirittura nemici, nonostante tutte le premesse di odio o fatalismo per la sconfitta da parte degli indios e di disprezzo e
sfruttamento da parte dei conquistatori, giungeranno a incontrarsi. Si arriverà, così, a un'inculturazione del fatto cristiano nel mondo culturale
indio.
2.
L’EVENTO DI GUADALUPE
Le fonti ci parlano della situazione drammatica al principio della storia dell'evangelizzazione in America: frustrazione degli indios, che si
sentono abbandonati dai loro dèi, da una parte, e, dall'altra, una certa incapacità di trasmettere una vera esperienza cristiana da parte dei
missionari provenienti dal vecchio mondo. La maggior parte della popolazione nutre diffidenza nei confronti della nuova religione: il numero
dei battezzati è inferiore alle aspettative. Tuttavia proprio in tale contesto accade qualcosa d'imprevisto: uno di quegli « interventi della grazia
divina nel tempo », di cui parla la teologia, che cambiano il corso della storia. Un affresco nell'antico convento di Ozumba (Estado de
México) rappresenta l'inizio della storia cristiana in Messico: l'arrivo dei primi dodici missionari francescani nel 1524, i tre indios adolescenti
che diedero la vita per testimoniare la loro fede, e le apparizioni di santa Maria di Guadalupe, ai piedi della quale sta Juan Diego con l'aureola
della santità. Maria sarà precisamente l'anello che unirà i due mondi lì rappresentati. Prima di ripercorrere il racconto dell'evento guadalupano è però necessario soffermarsi ad analizzare la tradizione guadalupana dal punto di vista critico.
1. Il problema critico
La prima difficoltà che incontriamo esaminando l'evento guadalupano è la mancanza di dichiarazioni ufficiali - sia da parte del veggente sia
da parte del vescovo di México, Juan de Zumarraga - in cui si parli espressamente dell'apparizione della Vergine e di un messaggio ricevuto
da lei. Esistono tuttavia alcuni codici che attestano una tradizione scritta e orale. Le fonti storiche comprovanti l'apparizione della Vergine
Maria nel secolo XVI sono numerose (circa una ventina) e d'indubbio valore. Alcuni originali sono andati irrimediabilmente perduti o,
quanto meno, se ne sono perse le tracce. Lodevole il lavoro del Centro di Studi Guadalupani (C.E.G.) di Città di Messico, con la pubblicazione dei Monumenta Historica Guadalupanensia, I, Il, III, la promozione degli Incontri Nazionali Guadalupani, a partire dal 1976, e della
rivista Historica, organo ufficiale del Centro, fondata nel 1977. Esistono ormai edizioni critiche delle opere guadalupane fondamentali ed è
riconosciuta l'esistenza di documenti provenienti sia dall'ambiente indigeno sia da quello spagnolo in cui si fa riferimento all'apparizione
mariana come a un fatto avvenuto in un tempo determinato. Occorre comunque distinguere tra culto e apparizione. Riguardo al culto, esiste
una fondata tradizione. Gli scrittori « apparizionisti » - quelli cioè che ritengono l'apparizione un evento storicamente fondato, diversamente
da altri di parere contrario e perciò detti « antiapparizionisti » - hanno provato in modo soddisfacente l'esistenza storica del culto già molto
diffuso nel secolo XVI. Possiamo rifarci a ricevute di pagamento, testamenti, cantares, ex voto a testimonianza dei pellegrinaggi, documenti
dell'autorità ecclesiastica oltre alla controversia Montufar-Bustamante, il documento più ampio e importante circa il culto mariano del
Tepeyac nel secolo XVI, in quanto ci permette di notare che la cappella sul luogo dell'apparizione era ormai un vero e proprio santuario
mariano. Per quanto riguarda l'apparizione, il documento piu importante, dopo l'immagine stessa, è senz'altro il Nican Mopohua (dalle prime
due parole: Aqui se narra, « Qui si racconta »), codice originale su amate, scritto in nahuatl da un nobile e colto indio allievo del Collegio di
Santa Cruz di Tlatelolco, probabilmente Antonio Valeriano, uno degli informatori di fra Bernardino de Sahagun, persona stimata non solo da
quelli della sua razza, ma anche dalle più alte autorità spagnole civili e religiose, e quindi uomo di un'autorità morale al di sopra di ogni
sospetto. Il documento originale è andato perso. Tuttavia la mancanza dell'originale non toglie autenticità al contenuto, che dagli studiosi più
eminenti è ritenuto degno di fede. Il raacconto delle apparizioni deve essere stato scritto verso la metà del secolo XVI, a giudicare da una
copia esistente che risale a questo periodo. E’ probabile che successivamente siano state redatte altre copie. Esiste per lo meno un'altra copia
della fine dello stesso secolo. Il testo del Nican Mopohua fu dato alle stampe per la prima volta nel 1649 da Luis Lasso de la Vega, in
un'opera che va sotto il titolo generale di Huey Tlamahuizoltica e che si compone di cinque parti. Sempre a metà del secolo XVI venne
stampata la versione spagnola del racconto delle apparizioni della Vergine di Guadalupe seguendo il testo di Valeriano, che per la sua
autorità s'impose sulle altre relazioni che senza dubbio circolavano, come attesta una copia del secolo XVI conosciuta con il nome di Inin
Huey Tlamahuizolizin. Né Luis Lasso de la Vega né Miguel Sanchez fornirono il nome dell'autore del Nican Mopohua: a loro bastava che il
racconto fosse avallato dalla tradizione orale e scritta. La prima luce sull'argomento fu fatta da Luis Becerra Tanco, che nella dichiarazione
rilasciata al processo delle Informaciones de 1666 delle quali si parlerà più avanti, affermò d'aver udito dire a Gaspar de Praves, conoscitore
del nahuatl e suo zio materno, che l'autore della narrazione fu «Juan Valeriano», un alunno nobile del Collegio di Santiago de Tlatelolco. A
partire da questa affermazione, Becerra Tanco ritenne, nonostante l'errore del nome, che Valeriano potrebbe essere stato l'autore del testo
delle apparizioni, ma senza riuscire a provarlo. Nella seconda metà del secolo XVII si chiarisce l'autenticità del Nican Mopohua grazie a
Carlos de Sigùenza y Gongora, uno dei più illustri conoscitori della cultura messicana di allora, che dichiara con giuramento solenne che
Antonio Valeriano non solo è il vero autore del Nican Mopohua, ma altresì che egli stesso, Sigùenza y Gongora, possiede l'originale scritto di
suo pugno da Valeriano. Quest'affermazione di Sigùenza y Gongora è ritenuta giustamente la «pietra angolare» dell'autenticità del racconto
delle apparizioni. Perciò, benché a tutt'oggi si ignori la fine del manoscritto originale di Valeriano, alla critica storica basta la constatazione
9
che il documento, riconosciuto come tale, appartenne a uno dei migliori conoscitori dell'antichità messicana, quale fu Sigùenza y
Gongora. Recentemente è stato scoperto dal Centro de Estudios Guadalupanos un codice che porta il nome di «1548 », in cui compare la
firma e il glifo di Antonio Valeriano, nonché la firma di Bernardino de Sahagùn. Due volte appare il nome della Vergine e due quello di Juan
Diego. Si può distinguere chiaramente il paesaggio del Tepeyac. In esso si allude all'apparizione e alla morte di Juan Diego, avvenuta
appunto nel 1548. Anche se attendiamo ancora il giudizio definitivo della critica storica, la scoperta conferma Valeriano come autore del
Nican Mopohua. Padre Angel Maria Garibay ha avanzato l'ipotesi che Valeriano sia stato solo un componente dell'équipe di informatori che
collaborarono con Sahagun nella composizione della sua Historia generai de las cosas de la Nueva Espana. Garibay fonda la sua
affermazione sull'identità di stile tra i dati storici di Sahagùn e il Nican Mopohua, ritenendo quindi anche quest'ultimo frutto di un lavoro di
équipe, come la Historia. In realtà gli informatori fornirono a Sahagùn i dati necessari a compilare la sua monumentale ricerca, ma la stesura
finale fu opera dell'insigne etnologo. Per questo l'ipotesi di Garibay non è condivisa dalla maggior parte degli studiosi.
2. Racconto delle apparizioni
Protagonista della singolare vicenda è un indio di circa cinquantasette anni, Juan Diego (1474-1548), già vedovo e senza figli, che vive con
uno zio anziano, Juan Bernardino, a Tulpetlac ed è originario di Cuauhtitlan. Apparteneva alla classe sociale dei macehuales e il lavoro dei
campi era molto probabilmente la sua attività principale. Il suo nome indigeno era Cuauhtlatoa (= « Aquila che parla »). Si pensa che abbia
ricevuto il battesimo dalle mani di fra Toribio de Benavente, detto il Motolinia. Del Nican Mopohua si conoscono varie traduzioni in castigliano. Noi ci rifaremo alla più recente (1978) di padre Mario Rojas Sanchez, che si differenzia profondamente dalle precedenti: infatti
interpreta le parole della Vergine in un'ottica che pone Dio al centro, conforme ai principi cristiani. Gli autori precedenti, invece, si limitano a
presentare una relazione che s'incentra sull'immagine guadalupana. All'alba di sabato 9 dicembre 1531, Juan Diego sale sul colle del
Tepeyac, posto in periferia a nord di MéxicoTenochtitlan: si sta dirigendo a Tlatelolco per la consueta lezione di catechismo. Attira la sua
attenzione un canto soavissimo: percepisce la presenza di qualcosa di soprannaturale e si sente subito trasportato in un'altra dimensione,
nell'eden di cui parlavano gli antenati. Volge allora lo sguardo verso la cima della collina, a oriente, da dove giunge il canto, cessato il quale
ode una voce che lo chiama per nome con accenti di tenerezza. Juan Diego sale in direzione della voce per nulla turbato, anzi con un moto di
gioia interiore. Si trova davanti una Signora, in piedi, che lo invita ad avvicinarsi (prima apparizione). L'abito in cui è avvolta è raggiante di
luce, così come la pietra su cui poggia i piedi, mentre la terra risplende, nella nebbia, con i colori dell'arcobaleno. Prostratosi, sente la Signora
rivolgersi a lui maternamente: l'apparizione rivela d'essere la sempre Vergine santa Maria, madre del vero Dio, e chiede che in quel luogo
venga eretto un tempio nel quale possa manifestare suo Figlio a tutte le genti che vivono in quella terra. Lo invia quindi dal vescovo invitandolo a raccontare quanto ha visto e udito. Juan Diego obbedisce prontamente, ma la sua prima visita in vescovado si rivela un
fallimento. Torna allora dalla Signora (seconda apparizione) per dirle di trovarsi un altro ambasciatore, degno di maggior rispetto. Invano:
deve essere proprio lui a eseguire il compito, e Juan Diego si piega docilmente al desiderio della Vergine. Il giorno seguente, domenica 10
dicembre, dopo il catechismo, il veggente torna dal vescovo, il quale lo ascolta con maggior attenzione, ma pure con crescente scetticismo, e
gli rivolge molte domande. Alla fine il prelato gli chiede un segno della volontà della Vergine, e, una volta che quello è partito, lo fa seguire
da due dei suoi frati, che però ben presto lo perdono di vista. La Vergine, comunque, incontra Juan Diego (terza apparizione) e gli promette
il segno richiesto per il giorno seguente. Il lunedì, però, Juan Diego non si reca all'appuntamento. Tornato a casa, la domenica, ha trovato lo
zio molto malato. Il medico non fa altro che constatare la gravità del suo stato e l'infermo chiede di essere visitato da un sacerdote. Per
questo, alle prime luci dell'alba di martedi 12 dicembre, Juan Diego esce per andare a Tlatelolco, ma decide di evitare il colle del Tepeyac
per non essere trattenuto dalla Signora. Ella però gli si fa incontro sul cammino (quarta apparizione). L'indio confida allora la sua pena alla
Signora, che lo invita ad aver fiducia in lei: « Non ci sono qui io che sono tua madre? Perché ti angosci? Non sei forse sotto il mio sguardo?...
», e gli annuncia la guarigione dello zio. Quindi lo manda sulla cima del colle a cogliere i fiori che vi troverà. Lei stessa li prende, poi, tra le
mani e glieli accomoda nel mantello, ordinandogli di mostrarli solo al vescovo. Rincuorato dalle parole della Vergine, Juan Diego va dritto al
vescovado, dove, però, deve attendere a lungo, importunato da quelli che vorrebbero vedere ciò che stringe nel manto. Quando il veggente lo
schiude appena, qualcuno tenta di toccare i fiori. Invano! Essi appaiono come ricamati (o dipinti o cuciti) sulla tilma. Lo strano fatto viene
riferito al vescovo, che decide di ricevere Juan Diego. Finalmente l'indio può aprire il mantello e mostrare al vescovo il segno richiesto: le
rose e gli altri fiori profumati cadono a terra e sulla tilma compare improvvisamente, sfolgorante, l'immagine della Vergine che si offre alla
venerazione dei presenti, caduti nel frattempo in ginocchio. Quando Juan Diego tornerà a casa, dopo essere rimasto qualche giorno ospite del
vescovo, troverà effettivamente lo zio ristabilito. Ma anche a Juan Bernardino è apparsa la Vergine, presentandosi con il nome di Guadalupe
(quinta apparizione). Appena si sparse nella capitale la notizia del prodigio, il palazzo vescovile divenne meta di pellegrinaggi da parte di chi
voleva vedere la santa immagine, tanto che il vescovo Juan de Zumarraga fu costretto ad esporla nella chiesa principale della città, mentre
terminavano i lavori della cappella ordinata dalla Madonna (quella che si chiamò la prima ermita). Qui, il 26 dicembre, venne trasferita nel
corso di una solenne processione, alla quale intervennero le principali autorità spagnole insieme alla nobiltà india. L'immagine fu portata dai
missionari francescani sotto un elegante baldacchino, in mezzo alle manifestazioni di giubilo degli indigeni. Il culto guadalupano si diffuse
rapidamente in tutto il paese, come abbiamo già potuto osservare accennando alle fonti, nonostante la forte opposizione di molti missionari.
Probabilmente a causa di questa renitenza ad ammettere l'ortodossia del culto, Zumarraga non ha lasciato nessun documento ufficiale,
preferendo mantenere il silenzio e lasciare al tempo il compito di chiarire i fatti.
3. Lettura teocentrica del messaggio delia Vergine
L'apparizione mariana avvenuta sul colle del Tepeyac è stata giustamente definita «messaggio di salvezza ». La Vergine parla a Juan Diego,
ma, attraverso lui, vuole manifestarsi a tutta la sua gente che vive in una situazione di oppressione e di frustrazione. In Maria è Dio stesso che
raggiunge il popolo, gli parla e gli rivolge parole di speranza. Benché le divinità azteche siano morte, Dio, « il vero Dio per cui si vive », non
li ha abbandonati, anzi affida le loro pene e le loro aspirazioni a sua madre. Maria è infatti nostra madre, nostra «piadosa madre »: sul
Tepeyac risplende luminoso il mistero della maternità divina e spirituale di Maria e, si sa, il mistero della maternità divina è il mistero della
centralità di Cristo. In questo senso si può vedere nella manifestazione mariana del Tepeyac un'eco della manifestazi6ne di Dio a Mosè nel
roveto ardente. Il lamento degli indios è giunto al cuore di Dio che, attraverso Maria, annuncia e opera la prossima liberazione. S'instaura
così un rapporto autenticamente evangelico tra la fede cristiana e un nuovo popolo, quello mestizo, cioè meticcio: è un nuovo inizio, un
fondamento di vita simile a quello che Dio aveva stipulato per mezzo di un patto di alleanza con Israele, facendo di varie tribù un popolo.
Come l'esodo degli ebrei dall'Egitto aveva dato inizio a una nuova coscienza di popolo, così le apparizioni della Vergine sul Tepeyac
contengono in germe l'inizio di una nuova cultura: Maria convoca un popolo e lo rende Chiesa. L'intervento di Maria fa spontaneamente
pensare alla visitazione (Luca 1,39-56). La visita di Maria a Elisabetta fu un annuncio di Gesù: in essa si realizzò una comunicazione di
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grazia e si sperimentò una profonda comunione tra le persone, specie nel bisogno. Ora Maria visita, attraverso un suo rappresentante, tutto
un popolo, e il suo compito sarà quello di condurre l'uomo alla piena realizzazione di sé come persona e di rivelargli il suo destino
trascendente. Compito della madre sarà quello d'indicare agli indigeni il vero Dio, abbandonando l'idolatria ma senza rinnegare la sostanza
della religiosità indigena, che viene così riorientata. Il Dio annunciato porta nomi ben conosciuti dagli aztechi: la Vergine richiama non i
nomi delle singole divinità, ma quelli che formavano il sustrato teologico del credo del popolo. Santa Maria di Guadalupe dice di essere: - la
madre del Dio di verità - la madre del datore della vita - la madre del creatore degli uomini - la madre del Signore della vicinanza e dell'unità
- la madre del Signore del cielo e della terra. Si riferisce perciò all'essenza di Dio nella sua relazione con il mondo e con l'uomo. In questo
modo il fatto guadalupano ricupera parte dell'immensa ricchezza della concezione religiosa nahuatl dandole pienezza e universalità. Anche
Juan Diego è pienamente accolto da Maria nella sua realtà india, è da lei amato e promosso: proprio lui è stato scelto per compiere una
missione. E inviato a portare la liberazione da odi e rancori verso i conquistatori per costruire un popolo nuovo, all'insegna dell'unità, dimenticando le tragedie passate e guardando al futuro che nascerà dall'incontro delle due razze: è un evento, questo, da vivere non con fatidica
rassegnazione o passivo risentimento, ma con coraggiosa e dinamica speranza. La Vergine del Tepeyac è modello per tutti quelli che non
accettano passivamente le circostanze avverse della vita personale e sociale, ma proclamano con lei che « Dio innalza gli umili » e « rovescia
i potenti dai troni ». Come madre, la Vergine esprime il desiderio di essere presente tra i suoi figli in modo permanente, di stabilire un
dialogo, una comunione, e di vedere realizzata l'unità dei credenti. Per questo chiede che in quel luogo venga costruito un tempio, una casa
che sia punto di riferimento a cui accorrere per invocare l'unico vero Dio da lei annunciato. Lì vuole essere amata e invocata, lì vuole che i
suoi figli imparino a confidare in lei. Maria desidera mostrare quanto Dio si fa vicino all'uomo, alla sua esistenza concreta: va incontro a Juan
Diego lungo il cammino, si interessa di quello che fa, viene a consolare le sue pene, sta accanto a chi non ha più speranza. La guarigione che
Dio ha progettato per il suo popolo riguarda infatti tutto l'uomo: a questo allude la guarigione dello zio di Juan Diego, cioè Juan Bernardino.
La malattia è una delle tante schiavitù che incatenano l'uomo. Il fatto miracoloso ci ricorda inoltre che il dono della Vergine varca ogni
confine e che alla base della salvezza ci sarà sempre la fede. Sollecita del bene dei figli, che vuole crescere nella fede, Maria chiede al suo
messaggero di recarsi dal vescovo perché questi autorizzi la costruzione del tempio richiesto. Ne riconosce quindi l'autorità nell'ambito
ecclesiale e la funzione di guida spirituale del popolo di Dio, che deve imparare a vivere la fede nella comunità dei fratelli, figli di uno stesso
Padre. Alla fine del Nican Mopobua siamo già di fronte a una comunità riunita dalla presenza di Maria.
4. Spunti teologici
Se prendiamo in considerazione il fatto guadalupano dal punto di vista strettamente teologico, possiamo definirlo un esempio di
evangelizzazione attraverso parole, simboli, miracoli, sull'esempio di quella che operava Gesù. E come per Gesù, al centro c'è sempre Dio.
Sono molte le reminiscenze bibliche. Fin dall'iniziale annotazione relativa al luogo e all'ora delle apparizioni, siamo introdotti in un ambiente
impregnato di soprannaturale e di divino: « Era sabato, molto presto... Vicino alla collina già albeggiava... ». E sintomatico che la manifestazione soprannaturale avvenga su un monte - sia pure di modestissima altitudine - poiché la cima dei monti è stata sempre ntenuta un
punto di contatto con la divinità. L'ora ha un valore simbolico nella mentalità preispanica: allude all'« inizio », alla nascita di qualcosa di
nuovo e di grande. Attratto dal canto celestiale, Juan Diego alza lo sguardo verso la cima del colle e sente una voce che lo chiama, ripetendo
il suo nome, come spesso avviene nelle manifestazioni divine narrate nella Bibbia. All'udire segue il vedere. Il veggente, per niente
intimorito, anzi rallegrato dalla presenza di segni soprannaturali, osa salire in direzione della voce per incontrarsi faccia a faccia con chi lo
chiama: una Signora che gli appare in una cornice splendente di luce, tipica delle manifestazioni divine della Bibbia. Il colle, luogo desolato
in cui spuntavano solo cactus, ora è luogo di vita. A questo punto entrano in scena le parole: la figura splendente si presenta come la sempre
Vergine santa Maria. Fin dalle origini, la Chiesa ha proclamato la verginità di Maria fondandosi sui vangeli di Matteo e di Luca; Maria è
inoltre la piena di grazia e, per questo, partecipa in modo singolare della santità di Dio: « Santa per la sua unione col Verbo incarnato, in
forma tanto esclusiva e personale, come madre sua, santa per i privilegi, i doni di grazia con i quali Dio la colmò fin dalla sua immacolata
concezione, santa per la risposta che dà conservando la grazia e praticando perfettamente le virtù ». Tutti i doni, i privilegi e la grandezza
della Vergine Maria hanno la loro radice nel fatto di essere la madre di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo. La Vergine non nomina
direttamente Gesù: parla piuttosto il linguaggio semplice della fede, come si esprime nella seconda parte dell'Ave Maria: «Santa Maria,
madre di Dio, prega per noi peccatori...». Per Juan Diego, comunque, è chiaro che si tratta della « madre del salvatore nostro Gesù Cristo »,
perché già conosceva il catechismo nelle sue linee essenziali. Il messaggio guadalupano tocca il cuore del mistero rivelato: Maria di
Guadalupe è la Vergine madre di Dio. Già abbiamo menzionato la familiarità che gli indigeni avevano con gli attributi divini menzionati
dalla Vergine: è qui indispensabile sottolineare che, mentre nell'antica religione l'espressione « madre di Dio » o « nostra madre » indicava
l'aspetto femminile della realtà, ora la Vergine vuole specificare che il suo essere creatura ha come primo compito quello di far conoscere,
glorificare, manifestare Dio alle genti. E lo farà attraverso la vocazione che le è propria: quella di madre tenerissima che guarda misericordiosa verso i suoi figli, non solo quelli del Messico, ma tutti quelli a lei devoti. Il messaggio guadalupano è tutto un cantico alla maternità
spirituale di Maria intonato da lei stessa, come soprattutto si può notare nella quarta apparizione: « Non ci sono qui io che sono tua madre?...
». Quello che porta in seno - secondo il simbolismo di alcuni pittogrammi e decorazioni presenti nella tunica della Vergine - è il Figlio di
Dio, ma nello stesso tempo è il popolo mestizo, meticcio. Fin dal primo momento, inoltre, la Vergine chiede che sul colle del Tepeyac venga
innalzato un tempio. Ora, l'idea della casa-tempio risponde alle esigenze religiose più profonde dell'uomo: ogni gruppo umano ha sentito la
necessità di scegliere uno spazio e consacrarlo alla divinità, perché abiti in esso. Proprio per rispondere a quest'intima esigenza di incontrare
Dio, la Madonna chiede un tempio, in cui dispensare i suoi favori. In questo contesto di intercessione per tutto il popolo, prende rilievo anche
la figura di Juan Diego, il veggente. Egli è l'inviato di cui la Vergine si serve: « Gli dirai [al vescovo] che io ti mando... ». Come un vero
profeta, egli è un servo pronto a obbedire, fedele al mandato ricevuto anche di fronte all'iniziale fallimento. E’ stato scelto lui: non sarà
sostituito da qualcuno più conosciuto, rispettato o onorato. E’ per la sua fatica che si realizza il volere della Vergine; da uomo di fede, Juan
Diego non solo si rende disponibile, ma non cerca di approfittare del potere della Madonna per chiedere ciò che ormai era umanamente
impossibile: sarà la Vergine a operare da parte sua un miracolo apparendo allo zio e guarendolo. Juan Bernardino diverrà l'altro testimone
dell'evento: a lui, infatti, Maria rivelerà il suo titolo: Guadalupe. Consolato dalla buona notizia, Juan Diego non dubita nemmeno per un momento e corre di nuovo dal vescovo con il segno richiesto. Dobbiamo qui soffermarci sull'importanza dei segni nell'evento guadalupano. Il
primo è quello dei fiori che la Vergine stessa prende tra le mani, dopo aver ordinato a Juan Diego di coglierli. Sono rose e altre specie
diverse, profumate e roride di rugiada, spuntate prima del tempo e in modo straordinario in un luogo in cui normalmente abbondavano rocce,
cardi, spine e cactus. L'altro segno è quello dell'immagine impressa sulla tilma di Juan Diego e venerata con il nome rivelato a Juan
Bernardino: « La perfetta Vergine santa Maria di Guadalupe », il cui significato è stato ampiamente indagato dagli studiosi. Quando la
Madonna apparve a Juan Diego, il termine Guadalupe aveva già una lunga storia dietro di sé. Guadalupe era il nome di una località spagnola
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situata presso Caceres, in Estremadura, regione dalla quale proveniva la maggior parte dei conquistatori e lo stesso vescovo Juan
de Zumàrraga. Assai celebre al tempo della conquista dell'America, era sede di un santuario dedicato precisamente a Nostra Signora di
Guadalupe. Guadalupe è parola castigliana d'origine araba, ma di significato oscuro. Alcuni pensano che significhi «fiume di luce» o « fiume
di amore ». Altri autori hanno cercato d'interpretare la parola Guadalupe con la filologia nahyatl, ma forzando inutilmente il suo valore
originale. E’ significativo invece che la Vergine abbia scelto di presentarsi con questo nome caro agli spagnoli, perché riconoscessero
attraverso questo segno la Vergine Maria della tradizione cristiana. Per Juan Diego l'immagine - descritta in un'altra parte dell'Huey
Tlamahuizoltica - è stata una conferma della sua fede; per il vescovo un segno perché credesse; per gli indigeni un codice, amoxtli, sul quale
un tlacuilo («pittore») celeste aveva lasciato messaggi che passavano inavvertiti per gli spagnoli. Infatti, mentre la nostra cultura privilegia la
parola, la cultura nahuatl valorizza l'immagine. Per noi l'immagine è piuttosto un ritratto, una riproduzione della realtà, e solo
secondariamente è comunicazione. Gli indios, preparando i loro amoxtli, non pretendevano di riprodurre la realtà, ma piuttosto di comunicare
convinzioni in modo pittografico. L'immagine, quindi, unita al racconto di un fratello della stessa razza, in lingua nahuatl, con una
simbologia precisa, provocò la conversione in massa degli indigeni alla Regina del cielo.
5. Contenuto antropologico
La Vergine sceglie come suo interlocutore un « povero indio ». L'indio nell'evento guadalupano è un personaggio di spicco rispetto agli altri:
la Vergine infatti prima si manifesta a lui, e solo in seguito al vescovo. Anche il momento scelto è significativo: al versetto i del Nican
Mopohua si legge: «Dieci anni dopo la caduta di Città di Messico furono deposte le frecce e gli scudi». Abbiamo già visto che, per gli
aztechi, la guerra era espressione della loro cultura: dopo aver vissuto come nomadi, divennero un popolo proprio combattendo. Per loro la
guerra aveva dimensioni sociali (guerra sociale) e religiose guerra florida in primavera: aveva il valore di guerra sacra, di mandato divino).
Per questo la fine della guerra aveva un grave significato: implicava che giungeva alla fine la « nostra società, la nostra nazione ». Il Nican
Mopohua insiste più avanti, di nuovo, sul fatto che Juan Diego era « un povero indio »: il senso dell'affermazione risulta chiaro se si tien
conto di un dato grammaticale, cioè che per gli aztechi le realtà più importanti si esprimono con due parole (« difrasismo ») oppure con una
parola ripetuta. A lui, all'indio, è dato di cogliere la verità, di cogliere l'evento divino come « vero » attraverso il canto e i fiori. La dignità
dell'indio è sottolineata dal nome con cui la Vergine lo chiama: « Juantzin », « Juandiegotzin », parole normalmente tradotte con Juanito,
Juandieguito. Però in nahuatl la desinenza -tzin è anche indice di riverenza e di rispetto. La Vergine si rivolge al povero indio come a una
persona, a un uomo: per questo gli si mostra in piedi. I nobili dominatori, sia aztechi sia maya sia spagnoli, ricevevano gli inferiori seduti.
Quindi la nobiltà che Juan Diego vede nella Signora non ha un carattere dominatore. L'indio riconosce in lei una certa superiorità, però la
esprime in un modo estremamente familiare e dolce, chiamandola: « Nina mia » In un clima di rispetto e di gentilezza si svolge il colloquio
tra il « più piccolo dei suoi figli » - espressione che pure allude alla condizione di emarginazione in cui si trova l'indigeno - e la Vergine: vale
a dire con la cordialità tipica della lingua nahuatl. Il povero è dunque il testimone dell'evento guadalupano, ne è il mediatore: la Vergine
chiede l'appoggio di Juan Diego. Dopo il fallimento del primo tentativo, Juan Diego s'inginocchia ai piedi del vescovo e piangendo gli ripete
il messaggio della Madonna. Nonostante tutto, il povero indio spera contro ogni speranza, nel corso di questo dialogo reso difficile
dall'incredulità di Zumàrraga. Nel momento cruciale della missione di Juan Diego - quando avrebbe dovuto chiedere alla Vergine un segno –
s’innesta la malattia dello zio: è un avvenimento decisivo per la comprensione dell'evento. Per gli aztechi e i mesoamericani in genere, lo zio
aveva un ruolo sociale d'importanza capitale: «zio » era la massima espressione di rispetto che si potesse rivolgere ad un adulto. Era la chiave
per comprendere la contrada e il popolo. La gravità della malattia dello zio è il simbolo di qualcosa di distruttivo all'interno
dell'organizzazione sociale. La malattia infettiva di cui sta morendo lo zio è stata importata dagli spagnoli ed è sconosciuta ai nahua:
riassume quindi in sé tutte le calamità e le afflizioni che pesano sul popolo oppresso. Proprio sulla malattia dello zio agirà santa Maria di
Guadalupe, attenta alle necessità del povero, di cui è madre: lo tiene « sotto la sua ombra ». La guarigione dello zio è riscatto del popolo dalla
morte. Con la salute ritrovata da parte di Juan Bernardino, si giunge all'apice dell'evento guadalupano che aveva avuto inizio con il canto: ora
con i fiori la verità promessa dalla Vergine diventa un fatto. Anche in questo caso la Vergine richiede la partecipazione di Juan Diego: lui
deve coglierli e farne un mazzo, lassù sulla cima del colle fino a quel momento arido, e poi portarli a lei. Sul Tepeyac - che è un altro mondo
- domina ora la verità, che l'indio riesce a intendere. Nei fiori - e solo in seguito sulla tilma - rimarrà per sempre il simbolo dell'evento
guadalupano: questo rivela la Vergine a Juan Diego, suo ambasciatore degno di fiducia. L'indio raccoglie felice i fiori nella tilma, sicuro di
riuscire questa volta nell'intento di convincere il vescovo: se accetta i fiori, accetterà la verità guadalupana. Questa verità è gia parte di Juan
Diego, nessuno potrà separarla da lui: per questo i servi del vescovo non potranno impadronirsi di un solo fiore. Sarà proprio di fronte ai fiori
- prima ancora di vederli - che il vescovo si deciderà ad appoggiare il progetto sollecitato dal povero indio e gli darà credito, dopo aver visto
l'immagine stampata sulla tilma, e vorrà che lui, l'indio, gli indichi il luogo dove la Madonna chiede che si edifichi il tempio. Ora tutti rispettano l'indio. Ci sembra opportuno concludere con le considerazioni fatte recentemente dai vescovi messicani a proposito del contenuto
antropologico dell'evento guadalupano: « L'indio è indotto a uno sforzo di superamento: a non lasciar ''passare'' la storia, ma ad approfittare
del presente e a pensare al domani; a non vivere aspettando tutto dagli altri, ma a sforzarsi per ottenerlo con le sue forze; a non
autoemarginarsi lasciando agli altri il lavoro e le responsabilità, ma ad essere l'artefice del proprio destino; a mettere da parte le vendette per
impegnarsi, facendo leva sulla verità e sul diritto, a raggiungere il suo obiettivo ».
6. Il simbolismo dell'immagine
A un popolo abituato a comunicare attraverso segni pittografici, santa Maria di Guadalupe manda un'immagine tanto chiara per gli indigeni,
nella sua simbologia, quanto comprensibile per i missionari. La tela sulla quale l'immagine è rimasta impressa misura centimetri 170 per 104.
E’ formata da due parti unite da una cucitura verticale effettuata con filo all'apparenza dello stesso materiale. Le sue dimensioni
corrispondono a una tilma, o mantello, adatta a una persona di media statura di circa metri 1,70 di altezza, tessuta con fibre di maguey, come
ancora oggi si usa in Messico. L'ayate, ossia la tilma indigena, era strettamente vincolato alla persona stessa, anzi la rappresentava. Non ci
sono segni di rotture o riparazioni. E’ straordinario che sia potuta conservarsi fino ad oggi (normalmente ha una durata di trentaquarant'anni).
Nel secolo XIX si sparse accidentalmente sopra l'estremo superiore destro dell'ayate una soluzione concentrata di acido nitrico, mentre alcuni
operai stavano pulendo la cornice d'argento. La tela non andò distrutta e le macchie che ne risultarono stanno progressivamente
scomparendo. Nel 1923 un terrorista fece esplodere una bomba di fronte all'altare, a pochi metri dall'immagine: i candelabri di metallo situati
vicino alla cornice si deformarono, ma la tilma non subì alcun danno. In sé l'immagine rappresenta la Vergine Immacolata o Assunta. Padre
Miguel Sanchez, che fu il primo a descriverla, vede in essa la « donna » di cui si parla nell'Apocalisse: incinta, coronata di stelle. Sta in piedi
sopra quella che appare una mezza luna, ma è in realtà una cometa, simbolo di Quetzalcoatl. Tiene la testa devotamente inclinata verso
destra, con le mani giunte all'altezza della cintura. Ha un volto bellissimo, grave e nobile, un poco moreno. L'immagine è tutta illuminata dai
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raggi del sole. La Madonna indossa una tunica talare di color rosato con disegni in oro - soprattutto motivi floreali e in particolare fiori
aztechi - che risaltano sopra il colore. Porta al collo, a mo' di spilla, una giada, simbolo della vita presso gli aztechi, al centro della quale
compare una croce cristiana, ma può essere anche il quicunce, simbolo di Quetzalcoatl. Sotto la tunica colorata se ne nota una bianca. Il
manto è celeste: le copre tutta la testa senza nascondere il volto, scendendo fino ai piedi. E’ tutto rifilato in oro ed è seminato di stelle. Tutta
la figura è come sorretta da un angelo, che « sembra molto contento di condurre sulle sue ali la Regina del cielo ». L'immagine non
corrisponde allo stile della pittura europea del secolo XVI e, in essa, si possono identificare numerosi elementi che ricordano i codici
indigeni. Uno studioso osserva che sicuramente la Signora viene dal cielo: i raggi del sole la circondano attraversando le nubi, le stelle
adornano il suo manto e i suoi piedi poggiano su una cometa. Viene da oriente e pone in ordine il cosmo: diversamente non sarebbe possibile
che gli astri appaiano uniti. Viene a porre termine alla lotta astrale immaginaria: la Vergine può mantenerli in perfetto equilibrio. I corpi
celesti non sono dèi, ma creature sottomesse a un ordine superiore. Non muore il Quinto Sole azteco, ma la Vergine di Guadalupe annuncia
un nuovo Sole di giustizia e santità: Cristo. Dalla posizione delle mani e dal capo inclinato, possiamo dedurre che la Vergine riverisce
Qualcuno più grande di lei. Il manto, simbolo del cielo e del potere, la copre completamente ed è dello stesso colore di quello che portavano i
re aztechi (tlatoani). D'altra parte la Signora appartiene alla terra, come indica il colore della tunica: rosato come l'aurora nella Valle di
Messico. L'abito è disseminato di fiori aztechi. Il Tepeyac, infatti, è ormai un luogo trasformato da arido e roccioso in verdeggiante e fiorito,
grazie a un benefico influsso che viene dal cielo, rappresentato dal manto. La Vergine e madre, Regina del cielo e della terra, porta rispetto a
un Essere superiore, al suo stesso Creatore, come ci è indicato dalla posizione delle mani e dal capo inclinato. Intorno alla famosissima
immagine sono stati compiuti studi scientifici approfonditi, tra qui quello del Premio Nobel per la Chimica 1938, Richard Kuhn, che nel
1936, prendendo in esame alcuni fili del tessuto, analizzò la sua proprietà di essere resistente alla polvere: giunse alla conclusione che i colori
dell'immagine non appartengono né al regno animale né a quello vegetale né a quello minerale. Dobbiamo comunque tener presente che
alcuni elementi dell'immagine sono stati aggiunti o ritoccati, a partire dal secolo XVII. Anche scienziati della NASA si sono occupati
dell'immagine utilizzando la fotografia a raggi infrarossi, molto utile per individuare eventuali ritocchi, e hanno formulato le loro ipotesi: 1.
La figura originale comprende la tunica rosa, il manto azzurro, le mani, il volto e il piede destro. Di queste parti rimane inspiegabile il tipo di
pigmenti cromatici utilizzati, così come il persistere della luminosità dei colori a più di 450 anni di distanza, tenuto conto anche delle
condizioni in cui fu conservata l'immagine per più di un secolo, esposta all'umidità dell'angusta cappella, al fumo delle candele, nonché alla
devozione dei fedeli, che potevano avvicinarsi, toccarla e baciarla. 2. La figura originale non accenna a scolorirsi né presenta screpolature in
nessuna parte dell'ayate che, mancando di preparazione, dovrebbe essersi deteriorato da almeno cent'anni. Il fatto che l'ayate non sia stato
trattato in alcun modo prima dell'uso, rende inspiegabile, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, che i coloranti si fissino e si
conservino in una trama tanto inadeguata. Non s'incontrano tracce d'abbozzo: l'immagine risulta sconosciuta nella storia della pittura. E
insolita, incomprensibile e irripetibile. 3. In seguito, forse già nel secolo XVI, mani umane apportarono le prime modifiche. Nel secolo XVII,
dopo l'inondazione del 1629, l'immagine fu trasferita nella cattedrale di Città di Messico e si rese probabilmente necessario un restauro della
parte inferiore della tilma per coprire la parte danneggiata dall'acqua o comunque annerita dall'accumularsi della polvere o dal fumo delle
candele. Recentemente uno studioso, Rodrigo Franyutti, ha affermato, dopo aver esaminato alcune fotografie, che il volto è stato
vistosamente ritoccato, reso più scuro e più duro nei lineamenti, tra il 1926 e il 1930. Non mancano comunque voci che si sono levate per affermare che l'immagine non ha subito alcuna modifica, come si legge in uno studio del 1945, in cui si ribadisce che la tecnica pittorica della
Guadalupana non è comparabile a quella dei più grandi capolavori.
3.
IL VEGGENTE JUAN DIEGO
Le apparizioni, per essere riconosciute tali, richiedono un esame della persona che le ricevette, del modo in cui si verificarono, degli effetti
che produssero. Se la persona protagonista delle apparizioni fu di grande virtù; se tutto quello che accadde mira al culto di Dio e non ci fu
nulla di contrario; se dopo le apparizioni la persona così favorita da Dio crebbe in umiltà e nelle altre virtù cristiane, non si potrà dubitare in
nessun modo della qualità soprannaturale e divina delle apparizioni. Padre E. Anticoli sj prova, nella sua Historia de la Aparicion, che nelle
apparizioni guadalupane si compirono le tre condizioni richieste dal tribunale della Congregazione dei Riti. Infatti Juan Diego, benché fosse
l'unico testimone del fatto soprannaturale, fu di tali costumi che gli si può dare credito e godeva fama di santità già prima delle apparizioni;
dalle domande che gli furono rivolte dal vescovo Zumarraga si poté provare che ci furono segnali di un'autentica e soprannaturale
apparizione: quanto agli effetti visibili, il fatto che Juan Diego abbia lasciato la sua casa e le sue terre per dedicarsi al servizio della Vergine a
tempo pieno, vivendo in penitenza e orazione, conferma la sua fama di santità, al punto che fu dipinto accanto alla Madonna nell'antico
oratorio di Cuauhtitlan. La Chiesa ritiene che i criteri d'autenticità delle apparizioni siano la conformità alla morale e la veridicità delle
affermazioni del veggente, che deve risultare persona equilibrata, trasparente, umile. Riguardo ai segni, si dà più importanza alle guarigioni
che ai segni spettacolari e gratuiti (fenomeni luminosi, profumi, cambiamenti di colori, ecc.). Il segno principale di autenticità rimangono
comunque i frutti. Alla luce di queste indicazioni vogliamo analizzare la figura del beato Juan Diego, protagonista dell'evento guadalupano,
servendoci dei documenti.
1. Gli studi su Juan Diego
Solo in epoca recente Juan Diego è stato fatto oggetto di studi, nella prospettiva dell'apertura della causa di beatificazione (1984), culminata
con il decreto Exaltavit humiles (6 maggio 1990), in cui viene concessa la memoria liturgica il 9 dicembre (data della prima apparizione) per
Juan Diego Cuauhtlotatzin. Tale prospettiva spiega l'importanza data alla definizione dell'autenticità del santo piuttosto che alla storicità del
personaggio. Lo studio che maggiormente ha cercato di offrire una base documentale solida sulla storicità di Juan Diego è forse quello di
Lauro Lépez Beltràn, presentato nel 1977 nel corso del Secondo Incontro Nazionale Guadalupano. L'autore sostiene che fino a quel momento
ci si era preoccupati più della storicità dell'apparizione che di quella di Juan Diego, permettendo agli antiapparizionisti di affermare che la
Madonna di Guadalupe era «un mito». Alla supposta mancanza di dati storici sufficienti per la canonizzazione, Lopez Beltràn risponde
indicando le fonti, che suddivide in provenienti dal contesto indigeno e da quello spagnolo, nonché dirette e indirette (che cioè alludono
all'evento guadalupano e di conseguenza all'esistenza di Juan Diego). Tra i documenti indigeni diretti del secolo XVI, oltre al Nican
Mopobua e il Nican Motecpana, spicca il Testamento di Juana Martin (1559), in nahuatl, che ci fornisce alcune notizie biografiche di una
certa importanza, data la mancanza, in quel momento, di registri di nascita e di matrimonio; un manoscritto in nahuatl chiamato Ixtlamatque
Tlgxcaltecatl, in cui si annota come data di morte di Juan Diego il 1548; e il Testamento de Juan Diego, trovato da don Lorenzo Boturini
Benaduci e attualmente irreperibile, ma nominato nell'inventario delle carte confiscate allo storico italiano appassionato di antichità
novoispaniche. Per quanto riguarda le fonti spagnole, Lopez Beltran segnala come dirette le Informaciones de 1666, che attestano, attraverso
13
la deposizione di indigeni e spagnoli, la vita e le virtù, la fama di santità e il culto del veggente. Successivamente tratteggia la
biografia di Juan Diego, che chiama « il nostro candidato agli altari ». Nella bibliografia generale dal secolo XVI al XX, infine, lo studioso
indica solo gli autori principali che si sono occupati dell'evento guadalupano, come Miguel Sanchez, Luis Becerrra Tanco, Francisco de
Florencia e Carlos de Sigùenza y Gongora. L'intervento si chiude con l'auspicio che il veggente possa essere presto elevato agli onori degli
altari, giacché « la sua canonizzazione è possibile ». Qualche anno dopo lo studio apparve in un volume con varie appendici: la raccolta dei
miracoli che si attribuiscono a Juan Diego, una dissertazione intorno ai vari luoghi che ospitarono i resti mortali del veggente e infine alcune
indicazioni per la formazione di una commissione storica per la causa di beatificazione. Se prendiamo ora in considerazione lo studio
presentato da Manuel Rangel Camacho nel 1981 e successivamente ampliato, già dalla tesi possiamo notare l'intenzione dell autore: provare
che la fama di santità di Juan Diego è esistita fin dalla seconda metà del secolo XVI. L'autore passa in rassegna testi e omelie che si
riferiscono al veggente, a partire dai più antichi: si disegna così un tipo ideale provvisto di ogni virtù e degno d'essere avvicinato ai piu grandi
protagonisti della storia biblica. Dal Sanchez, che lo definisce « nuovo Adamo », superiore al primo, poi si srotolano sotto i nostri occhi i
paralleli più arditi con Giacobbe, Mosè e Tobia, che ci appaiono oggi alquanto cervellotici. Molti sono i sermoni riportati, nei quali gli
oratori moltiplicano gli elogi del veggente, come quando nel secondo centenario dell'apparizione fu definito « il simbolo della grandezza
umana degli indios ». Il volume Juan Diego, el vidente del Tepeyac raccoglie ciò che i vari autori, soprattutto gli storici, hanno scritto intorno
a Juan Diego. Vengono dapprima presentati i dati biografici del veggente, dando largo spazio alle virtù del messaggero della Vergine di
Guadalupe, offrendo la base agli storici che, in seguito, deporranno al processo. Segue una breve antologia di studi, fra i quali alcuni sono di
un certo interesse storico, come quelli di Ramén San'chez Flores, in cui si tenta di collocare il veggente all'interno di un orizzonte più ampio,
e come l'articolo di Alberto Fragoso Castanares, cronista di Cuauhtitlàn, il paese natale di Juan Diego, apparso nella rivista che è organo
ufficiale del Centro di Studi Guadalupani. Un altro articolo di un certo interesse è di Alfonso Alcalà Alvarado, che intende delineare la
fisionomia spirituale del veggente a partire dalle tre fonti considerate fondamentali: il Nican Mopobua, il Nican Motecpana e le Informaciones de 1666. Su queste ultime ha compiuto uno studio dettagliato Ana Maria Sada Lambreton evidenziando i dati che emergono
intorno alla vita, alle virtù, alla fama di santità e al culto di Juan Diego.
2. Cenni biografici
Varie fonti ci tramandano i dati biografici del veggente del Tepeyac. Certo è il luogo di nascita: la contrada di Tlatacàc nel paese di
Cuauhtitlan, oggi nell'Estado de México, alle porte della capitale. Quanto all'anno in cui venne alla luce, mentre alcuni testi parlano
vagamente degli anni prima dell'arrivo degli spagnoli, altri, come gli scritti storici di Fernando de Alva e Luis Becerra Tanco, sono più
precisi e indicano il 1474. La famiglia d'origine era sicuramente modesta. Il veggente apparteneva all'etnìa chichimeca e alla classe dei
macehuales, il popolo che lavorava la terra, e porta naturalmente un nome azteco: Cuauhtlotatzin, cioè « colui che parla come aquila ». Della
sua infanzia, del nome dei suoi genitori e degli anni giovanili non si sa nulla. La principale fonte di sostentamento di Juan Diego deve essere
stato il lavoro dei campi, accanto a qualche attività di tipo artigianale. La signorìa di Cuauhtitlàn era composta da vari calpullis (« casa
grande ») o barrios (« contrade ») nei quali abitava gente appartenente alla stessa famiglia, secondo un'organizzazione piramidale. Le
testimonianze indigene riferiscono che Juan Diego possedeva un fazzoletto di terra e una casa propria, ereditata dal padre. La notizia
riguardante la presenza in casa dello zio, Juan Bernardino, ci è riferita sia dal Nican Mopobua sia dagli informatori indigeni che
contribuirono a stilare quelle che sono conosciute come Informaciones de 1666: sapendo che presso gli aztechi l'autorità dello zio aveva lo
stesso valore di quella paterna, non stupiscono le cure e le attenzioni di cui era fatto oggetto dal nipote. Certamente Juan Diego poteva
contare su altri parenti, appartenenti alla sua contrada di origine. Ormai in età matura si unisce in matrimonio con Malitzin, una giovane
originaria di Tulpetlac - un paesino a qualche chilometro di distanza da Cuauhtitlan - dove gli sposi si trasferiscono insieme allo zio. Fu qui
che avvenne la quinta apparizione della Vergine santissima. La zona fu una delle prime ad essere evangelizzate, pochi anni dopo l'arrivo
degli spagnoli, dai primi missionari, fra cui Pedro de Gante, giunto nel 1523 e stabilitosi a Texcoco, capitale chichimeca. Nel 1524 giunse il
gruppo dei dodici missionari francescani. Cuauhtlotatzin fu tra i primi a ricevere il battesimo, con il quale gli fu imposto il nuovo nome
cristiano di Juan Diego, insieme alla moglie, che verrà chiamata Maria Lucia. Probabilmente fu lo stesso fra Toribio de Benavente ad
amministrargli il sacramento con il quale divenne figlio di Dio. Il neoconvertito si distingueva tra i cristiani per la sua sollecitudine nel
frequentare la catechesi e i sacramenti, senza badare ai sacrifici che questo richiedeva: si poneva in cammino fin dalle prime ore del giorno
per raggiungere Santiago di Tiatelolco, dove i francescani radunavano gli indigeni per catechizzarli. Conduce una vita esemplare che edifica
molti. La morte prematura di Maria Lucia, avvenuta secondo le testimonianze nel 1529, lascia vedovo Juan Diego a cinquant'anni. La sua
vita si orienta allora ancor più decisamente a Dio e la sua testimonianza di fede semina tra i suoi concittadini la speranza di un riscatto dalla
triste condizione di oppressione. L'esperienza straordinaria che Juan Diego vive sul Tepeyac - testimoniata dai testi del 1666 - s'inserisce in
un esistenza già trasformata dalla grazia del battesimo e lo spingerà a lasciare casa e terra per trasferirsi in una casetta che il vescovo
Zumàrraga gli aveva fatto costruire a fianco della cappella eretta in onore della Vergine di Guadalupe. Qui Juan Diego vive per ben
diciassette anni in penitenza e orazione, assoggettandosi agli umili lavori di sagrestano, senza mai mancare al suo impegno e testimoniando
con la sua umiltà e purezza di cuore quanto Maria ha fatto per lui e vuol fare per tutti quelli che con affetto di figli a lei vorranno rivolgersi.
La fama di santità che si era già diffusa a suo riguardo, aumenta in questi anni in cui vive ritirato nella casetta ai piedi del Tepeyac,
edificando quelli - primi tra tutti i suoi concittadini - che si recavano al luogo dell'apparizione, molti dei quali gli chiedevano di intercedere
presso la Vergine per le loro necessità spirituali e materiali. La morte sopraggiunse nel 1548 a quattro anni di distanza da quella dello zio,
vittima della peste, e a pochi mesi da quella del vescovo Zumarraga, quando Juan Diego aveva ormal settantaquattro anni. Le sue spoglie
furono deposte nella cappella della Madonna, accanto a quelle dello zio. Successivamente i suoi resti furono trasferiti di volta in volta nei
luoghi in cui era posta l'immagine.
3. Devoto guadalupano
La biografia del veggente ci mostra come l'esperienza straordinaria del Tepeyac si sia inserita in una vita già intessuta di valori cristiani e
forse di pietà mariana: i francescani se n'erano fatti sapienti diffusori, tanto che si pensa che avessero gia introdotto la memoria di « santa
Maria in sabato ». All'alba del 9 dicembre 1531, con tutta probabilità il veggente si stava dirigendo a Tlatelolco proprio per onorare la
Vergine. Ci piace pensare che Juan Diego avesse già ricevuto e andasse alimentando una formazione mariana all'interno di quella cristiana e
che questo sia stato per lui una preparazione alla manifestazione soprannaturale sul Tepeyac. Al neoconvertito il Tepeyac apparirà come un
mondo trasformato, un mondo nuovo: lì ascolta il suo nome pronunciato con amore e rispetto, li riceve la missione che accetta con umiltà,
disponibilità e fede, lì sarà allietato dal segno dei fiori, annuncio dell'incipiente primavera della salvezza. Juan Diego aveva già compreso che
il culto a Maria non può limitarsi alla preghiera e all'invocazione, ma deve sfociare nell'imitazione. Nostra Signora di Guadalupe, che appare
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a Juan Diego in piedi, vestita di sole, non solo gli annuncia che è nostra madre spirituale, ma lo invita ad aprire il cuore all'opera
salvifica di Cristo. Juan Diego accetta l'incarico di ambasciatore con senso di responsabilità e gratitudine, con umiltà e disponibilità,
mostrandosi nelle sue scelte uomo libero e cosciente. Prima di tutto si pone al servizio degli altri: non solo dello zio, ma anche di tanti poveri
indigeni, soprattutto negli anni in cui si stabilì definitivamente nei pressi della cappella. La sua vita povera, intessuta di umiltà, di silenzio
interiore, di raccoglimento alimentato dalla purezza di cuore e da uno spirito nuovo, fu la migliore catechesi del primo devoto guadalupano.
Come Maria si abbandona con tutta la sua fede al Signore che la chiama e s'impegna coerentemente, allo stesso modo Juan Diego rende gli
altri partecipi della sua fede, alimentata attraverso i sacramenti della penitenza e dell'eucaristia. Maria vuole che ci uniamo alle sue intenzioni
in modo da amare meglio suo Figlio nei nostri fratelli. Ci chiede di servirlo, con infinito rispetto, presente nel prossimo e, come lei, vederlo
sempre presente in ogni uomo. Juan Diego seppe coniugare fede e vita, un tenero amore a Maria e gesti concreti di solidarietà, mostrando di
aver accettato Maria come madre sua e di tutti i credenti. Assumendo gli atteggiamenti di Maria, che vive la sua maternità non come un
privilegio ma come un servizio, Juan Diego esprime la sua devozione mariana con la bontà e la disponibilità verso i suoi connazionali
attraverso il dono permanente della vita. Sulle orme di Maria, Juan Diego si mette in cammino per offrire un servizio di evangelizzazione a
tutti. Il veggente c'insegna a compiere la volontà di Maria che con amore materno si prende cura dei fratelli di suo Figlio. Accetta come lei di
camminare nell'oscurità della fede e di scoprire, momento per momento, il passo successivo da compiere. Compie l'ascesi che deve assumere
ogni cristiano di salire al monte, ossia di abbandonare l'uomo vecchio per rivestirsi del nuovo (Colossesi 3,9-10). La presenza di Maria,
fattasi permanente nell'immagine stampata sulla tilma e nel tempio, esprime l'intercessione per i credenti perché si sviluppi in loro il
cammino della grazia. Nella presenza di Maria il cammino di Dio s'incontra con quello dell'uomo: in Cristo è la pienezza di tutta la
creazione, e Maria la riconduce a lui: « Ad Jesum per Mariam ».
4. Una santità di vita
L'esperienza del Tepeyac diventa per Juan Diego una scelta di vita. Per comprendere come fu da lui attuata è necessario soffermarsi più
diffusamente sulle virtù praticate dal beato, che ebbe fama di santità soprattutto dopo le apparizioni. Le principali fonti storiche sono, come
abbiamo già accennato: - il Nican Mopobua, il già ricordato racconto delle apparizioni di santa Maria di Guadalupe a Juan Diego; - il Nican
Motecpana, relazione dei primi miracoli, scritto forse da Fernando de Alva Ixtlilxochitl, pubblicato con il Nican Mopobua, in nahuatl. - le
Infoimaciones de 1666, insieme di testimonianze raccolte per ottenere e confermare il patronato guadalupano, raccolgono la costante
tradizione insegnata dai padri e dai familiari piu vicini, che conobbero personalmente Juan Diego. Consideriamo dapprima le virtù teologali.
Fede e abbandono filiale emergono dal racconto delle apparizioni. Juan Diego crede immediatamente alla guarigione dello zio; sale sulla
cima del colle per raccogliere i fiori, nonostante che il luogo e la stagione fossero i meno indicati, certo che la Vergine compirà la sua parola.
E’ importante anche sottolineare che, dopo la conversione, Juan Diego non mostrò nessuna incertezza riguardo alle verità della fede cattolica.
Di fronte all'incredulità del vescovo ripone tutta la sua speranza nella Vergine, conscio della sua povertà e pochezza. Nella fiduciosa attesa
della protezione della Signora del cielo, sopporta fatiche e umiliazioni perseverando nel fedele servizio alla madre di Dio fino alla morte.
Dopo le apparizioni non ha altra preoccupazione che la salvezza eterna, e l'orazione è la forza della sua speranza e l'espressione del suo
desiderio di comunione piena con il Signore. Proprio nel realizzare il totale distacco da sé nel nascondimento, Juan Diego unisce l'amore per
Dio a quello verso il prossimo, noncurante dei sacrifici che questo comporta. L'amore del prossimo è testimoniato dalle premure con cui
attende alle necessità dello zio infermo e dallo zelo con cui, negli anni di permanenza ai piedi del Tepeyac, dopo aver rinunciato a quanto
possedeva per vivere volontariamente la povertà evangelica, intercede per i suoi fratelli. Soprattutto fu modello di vita già prima delle apparizioni: uomo integro, pacifico, onesto, timorato di Dio, mortificato, sereno in ogni circostanza, amico di quelli che camminano sulla via retta.
Fu modello ai suoi, è il primo apostolo del Nuovo Mondo: quelli che lo conoscevano erano spinti dal suo esempio a lodare Dio.
Unanimemente i testimoni interrogati nel 1666 lo definiscono un santo, sottolineano che si sottometteva a digiuni e penitenze anche
corporali, evidenziano la sua eminente pietà eucaristica: con il permesso del vescovo poteva ricevere la comunione tre volte la settimana,
cosa davvero eccezionale per quei tempi e prova irrefutabile della sua purezza di cuore. Di lui ricordano ancora l'umiltà, la fede, l'ardore
apostolico e l'attaccamento alla preghiera: spesso si ritirava in solitudine a pregare e a meditare sui benefici ricevuti. Anche la fedeltà agli
impegni della catechesi tenuta dai frati viene ricordata come degna di nota; per questo Juan Diego percorreva lunghi tratti di cammino senza
badare alla fatica e ai sacrifici, chiaro segno dell'opzione fondamentale per il Signore e della gioia di appartenere alla Chiesa, nonostante la
conversione fosse recente. Grande era in lui l'interesse per il contenuto del credo cristiano. L'umiltà è la virtù maggiormente messa in
evidenza dai suoi contemporanei. Juan Diego ebbe un basso concetto di sé: pur avendo ricevuto doni straordinari, non montò in superbia, ma
riferì ogni cosa a Dio. La sua umiltà è provata, tra gli altri, da un episodio riferito da Francisco de Florencia: essendo giunto in ritardo alla
dottrina e alla messa dopo la prima visita al palazzo vescovile, si sottomise senza scusarsi alla penitenza (la fustigazione) che era d'uso, come
conferma anche padre Chauvet, superiore provinciale dei francescani. In seguito, negli anni di servizio presso il piccolo santuario del
Tepeyac, sottostava agli ordini del cappellano e ai lavori più umili e pesanti, come scopare e caricare pesi. Umilmente chiedeva e rispettava il
consiglio dei ministri del Signore. Juan Diego è, infine, l'uomo dell'obbedienza: conserva nel cuore i precetti del Signore e corre sulla via dei
comandamenti, attento ai richiami di Dio, offrendogli il sacrificio di una coscienza pura e di un'anima totalmente disponibile all' ascolto della
parola.
5. «Exaltavit humiles »
La fama di santità di Juan Diego è stata costante dalla prima metà del secolo XVI. Prima del decreto di papa Urbano VIII. Juan Diego era
oggetto della venerazione del popolo, tanto che a Cuauhtitlan fu dipinto con l'aureola, come testimoniano quanti contribuirono a stilare le
Informaciones de 1666; allo stesso modo venne ritratto, in un'epoca di grande zelo religioso, nei quadri raffiguranti l'apparizione di
Guadalupe presenti nelle chiese, così come nei codici fu rappresentato con le caratteristiche riservate dagli indigeni alla categoria del sacro.
Nel Lienzo de Cuauhquechollan la vita di Juan Diego e il riferimento alle apparizioni sono illustrate in quattro cerchi: nel primo si
rappresenta il paese di Tulpetlac; nel secondo il veggente al lavoro con la moglie; nel terzo il momento in cui Juan Diego mostra la tilma - su
cui si stampa l'immagine della Vergine di Guadalupe - al vescovo Juan de Zumarraga che si prostra in ginocchio; il quarto, infine,
doppiamente delineato - rappresentazione pittografica indigena per collocare gli dèi - mostra Juan Diego glorificato, mentre parla con Maria
Lucia della sua esperienza sul Tepeyac (a lato del cerchio è rappresentata santa Maria di Guadalupe). Un altro codice mostra Juan Diego
avvolto in un alone di luce, che indica appunto la santità per le apparizioni. Un ulteriore elemento che ci permette di supporre che Juan Diego
ricevesse un culto dopo la morte è dato dal ritrovamento di una cappella tra i resti della casa del veggente a Tulpetlac. Juan Diego era dunque
ritenuto un uomo santo dai suoi contemporanei, secondo la tradizione costante. In ottemperanza al decreto di papa Urbano VIII, i resti
mortali di Juan Diego furono nascosti per sopprimere la venerazione popolare, che tuttavia non poté essere sradicata. Recentemente, il 6
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maggio 1990, Giovanni Paolo Il ha concesso di celebrare la memoria del beato Juan Diego al 9 dicembre, giorno della prima apparizione,
ristabilendone così il culto. Per comprovare la fama di santità di Juan Diego, nel 1987 si pose mano all'elaborazione della Positio orientata a
comprovare il culto da tempo immemorabile, senza tralasciare, comunque, di mostrare le virtù del servo di Dio e di illustrarne la vita, ma
separatamente il più possibile dal fatto guadalupano. Attraverso una solida base documentale si volle dimostrare che Juan Diego, per i suoi
soli meriti di cristiano, era degno di assurgere agli onori degli altari. Per quanto riguarda, appunto, i documenti raccolti nella Positio,
possiamo notare alcune novità rispetto allo studio di Lopez Beltran gia citato e a cui, in parte, abbiamo già fatto riferimento. Ad esempio, la
narrazione denominata Tres Conquistadores y Pobiadores de la Nueva Espana cita il fatto guadalupano, indicandone i protagonisti e la data,
e definisce Juan Diego « indio del paese di San Juanito », confermando un altro dato proveniente dalla tradizione orale: che al momento delle
apparizioni Juan Diego veniva da Tulpetlac, contiguo a San Juanito. Precisa inoltre che tale paese apparteneva alla giurisdizione religiosa di
Tlatelolco, al quale Juan Diego si recava al momento delle apparizioni. Tra i documenti di provenienza spagnola si segnala un'apologia della
verginità di Juan Diego scritta da don Lorenzo Boturini Benaduci. Joel Romero Salinas, teste al processo diocesano, trovo nell'Archivio
Generale delle Indie di Siviglia (Spagna) un inventario di don Lorenzo in cui si legge: ... Una difesa che feci della verginità di Juan Diego,
perché non fosse privato di una gloria tanto singolare, e si potessero confutare quegli indios che pretendono esibire prove di parentela in linea
diretta discendente con il veggente ». Questo documento fa senza dubbio riferimento al Testamento de fuana Martin (1559), in cui si afferma
che Juan Diego morì vergine. Per comprovare il nome indigeno del veggente si presenta la Tira de Teoechpan (1596), in nahuatl, dove si
vede un'aquila dal cui becco esce una voluta color turchese. Siccome l'azzurro era usato dagli indigeni per rappresentare tutto ciò che è
relativo alla divinità, si potrebbe intendere come « l'aquila che dice cose eccelse ». Più in basso si possono notare persone partecipanti a una
processione, in quanto si distinguono una croce, stendardi e un uomo con la mitra, il che farebbe presumere che si alluda alla processione con
cui il 26 dicembre 1531 si trasportò l'immagine alla cappella fatta costruire dal vescovo Juan de Zumarraga. Si citano inoltre le Informaciones Guadalupanas (1798-99) promosse da una concittadina di Juan Diego per costruire una cappella nel luogo in cui visse il veggente a
Cuauhtitlan. Consegnata nel 1990 alla Congregazione delle Cause dei Santi, la Positio superò dapprima l'esame degli esperti che ritennero
valido il fondamento storico su cui dichiarare la fama di santità, il culto da tempo immemorabile e l'esercizio eroico delle virtù, e poi quello
dei teologi, per cui il papa Giovanni Paolo Il riconobbe la validità della tradizione guadalupana. La cerimonia di beatificazione si svolse nella
cornice della nuova basilica di Guadalupe il 6 maggio 1990. Nell'omelia il Santo Padre proclamò Juan Diego « avvocato e protettore degli
indigeni » e lo propose come esempio dei laici: « Il riconoscimento del culto che da secoli è stato tributato a Juan Diego, riveste
un'importanza particolare. E’ una chiamata a tutti i fedeli laici di questa nazione ad assumere le proprie responsabilità nella trasmissione del
messaggio evangelico e nella testimonianza di una fede viva e operante nell'ambito della società messicana».
4.
LA CONTINUITA’ DELLA TRADIZIONE RIGUARDANTE GUADALUPE
La Madonna di Guadalupe favorì grandemente l'impiantarsi della Chiesa nel mondo indigeno. Non è difficile supporre la ragione di queste
conversioni: nel Nican Mopobua si legge che gli indios venivano a riconoscere il carattere divino (letteralmente: «la venuta di Dio ») dell'immagine stampata sulla tilma di uno di loro. Il messaggio guadalupano è rivolto principalmente - anche se non esclusivamente - ai poveri:
incarna la fede in un mondo di poveri che ne diventeranno così anche soggetti, oltre che destinatari. Lo dimostra bene l'esperienza di Juan
Diego. Maria è l'evangelizzatrice che porta Cristo, annuncio di un'epoca nuova, di un nuovo stile di vita: gli uomini saranno fratelli,
parteciperanno della vita che Cristo ci dona, formando così una comunità, un popolo nuovo, riconciliato. La presenza di santa Maria di
Guadalupe è un abbraccio amoroso a tutti i suoi devoti, ma anche, nello stesso tempo, una chiara opzione preferenziale per i più poveri ed
emarginati. Di fatto il suo dialogo inizia con un indigeno di umili condizioni e il suo centro d'irradiazione sarà il Tepeyac, alla periferia della
città, tra la gente semplice, il « popolino », tra gli ultimi, gli abbandonati. Non dobbiamo dimenticare che per le tribù disperse e disorientate
Maria si presentava come vincolo di unità religiosa e nazionale: attraverso l'azione evangelizzatrice di Maria, Dio vuol ridare dignità a tutto
un popolo. Possiamo così considerare l'esperienza di Juan Diego come paradigmatica dell'azione evangelizzatrice di Maria, che splende luminosa all'inizio della storia ecc lesiale del popolo latino americano. Ci resta ora da esaminare la continuità della tradizione guadalupana,
riferendoci in particolare al secolo XVI, pur senza tralasciare un accenno alla devozione guadalupana odierna; resta pure da presentare il
punto di vista di coloro che sono contrari a Guadalupe, da Bustamante a O'Gorman, dei quali non tutto è da rifiutare, anche se la loro è una
lettura parziale dei fatti e si fonda spesso su un'ipotesi prefabbricata appositamente per giustificare la loro posizione.
1. Tre prospettive di lettura
La tradizione orale e scritta dell'evento guadalupano si basa su fonti spagnole e indigene, la cui veridicità storica è in parte molto discussa, il
che ha portato a continue controversie, specialmente tra apparizionisti e antiapparizionisti, cioè tra coloro che ritengono l'apparizione della
Vergine Maria sul Tepeyac come un evento storicamente fondato, e altri, invece, che la negano. Gli scrittori apparizionisti hanno dimostrato
con successo l'esistenza storica del culto alla Vergine del Tepeyac prima della pubblicazione delle opere di Miguel Sanchez (1648) e di Luis
Lasso de la Vega (1649). Fonti come la controversia Montùfar-Bustamante non lasciano dubbi sull'esistenza del culto sin dalla metà del
secolo XVI, un culto ancor oggi molto radicato in ogni regione del paese. Lo stesso si potrebbe dire per la registrazione dei miracoli che la
Vergine operò tra gli indigeni e gli spagnoli. Ora, culto e testimonianze sui miracoli sono stati registrati in documenti propriamente storici,
ma che non possono dimostrare la storicità delle apparizioni. In essi, infatti, non troviamo riferimenti ai protagonisti delle apparizioni. La
ricerca delle prove dell'autenticità storica delle apparizioni iniziò probabilmente nello stesso secolo XVI, con magri risultati per quelli che
pensavano di trovare una testimonianza del primo vescovo di Messico, nella quale si potesse ravvisare qualche dettaglio intorno alla sua
partecipazione nei fatti accaduti tra il 9 e il 12 dicembre o sulla processione del 26 dello stesso mese dalla chiesa principale della città alla
cappella del Tepeyac. Grazie alle ricerche degli studiosi, comunque, sono venuti alla luce interessanti collezioni di documenti, come la
Coleccion Boturini (1746), i Monumentos Guadalupanos di José Fernando Ramirez e il Tesoro Guadalupano di Fortino Hipolito Vera. Altre
fonti, provenienti soprattutto dal contesto indigeno, furono salvate o copiate per i riferimenti specifici alla Vergine di Guadalupe. Se
prendiamo inoltre in considerazione tutto il corpus di documenti disponibili, provenienti sia dal contesto indigeno sia da quello spagnolo,
possiamo suddividerli in diretti e indiretti: solo un numero limitato di essi, infatti, fu redatto con l'intenzione precipua di dare notizie sulla
Vergine e sul santuario di Guadalupe, oppure non se ne fa menzione perché non lo si ritiene necessario. Due eminenti scrittori, Juan Bautista
Munoz (1794) e Joaquin Garcia Icazbalceta (1883), negarono il valore storico delle tradizioni guadalupane. Al contrario, gli apparizionisti
accettano le tradizioni, compresa quella che riguarda la miracolosa impressione dell'immagine sulla tilma di Juan Diego. In questo modo
l'immagine guadalupana appare essa stessa una prova storica. Secondo gli scrittori apparizionisti, la tradizione orale può essere accettata
come fatto storico se « antica, costante, ampia e non soggetta a controversie ». Tuttavia gli argomenti decisivi degli apparizionisti riguardano:
16
il contenuto del messaggio, rivelazione privata che non contraddice la rivelazione biblica, la santità di vita del veggente, i frutti di conversione, la fede nella Vergine e i miracoli avvenuti per sua intercessione. La pietà popolare si mantiene viva, benché Guadalupe non sia un
dogma. La storicità deriva quindi dall'accettazione del racconto attraverso la fede. Fin dalla metà del secolo XVI il superiore provinciale dei
francescani fra Francisco de Bustamante definì la devozione guadalupana « priva di fondamento », oltre che pericolosa, tanto che riteneva
necessario punire con la fustigazione quanti affermavano che poteva fare miracoli un'immagine dipinta dall'indio Marcos Cipac. Non
dobbiamo infatti dimenticare che la maggior parte dei missionari non approvavano il culto del Tepeyac, che contraddiceva i loro principi e
metodi: i francescani, in particolare, avvertivano negli indigeni una radicata tendenza all'idolatria, per cui avevano adottato come norma
pratica di non fomentare il culto di nessuna immagine e tanto meno di un santuario in particolare. Gli storici e gli scrittori dell'ordine, sia
quelli che parlano del culto guadalupano sia quelli che lo passano sotto silenzio, lo considerano ambiguo e vi vedono un pericoloso
sincretismo o una sorta d'idolatria sotto l'apparenza del culto cristiano. Tuttavia la negazione esplicita dell'apparizione del 1531 è un fatto
relativamente recente. Praticamente, sino alla fine del secolo XVIII, la tradizione guadalupana nel suo complesso non fu messa in
discussione da nessuno, né in Messico né all'estero. La dissertazione dello storico spagnolo Juan Bautista Munoz che, letta per la prima volta
nel 1794, era passata inosservata, e che fu pubblicata solo nel 1817, cadde quindi come un fulmine a ciel sereno. L'argomentazione principale
- per non dire l'unica - del Munoz è il cosiddetto «argomento del silenzio » degli storici, che per lui significa che prima del 1648 non esiste il
benché minimo accenno alle apparizioni, che risultano quindi un'invenzione del Sanchez. Le testimonianze indigene sono guardate con
disprezzo, così come non viene dato peso alla solenne dichiarazione di Sigùenza y Gongora e alle Informaciones de 1666, anche se non può
negare l'antichità del culto né della tradizione narrativa. Nel 1888 fu pubblicata in Spagna l'Informacion che l'arcivescovo Montùfar volle che
si raccogliesse intorno all'omelia di Bustamante nel 1556, e che era stata successivamente sospesa e conservata negli Archivi della Curia. E’
preceduta da una nota degli editori, il cui intento nel portare alla luce il documento è dimostrare che l'argomento in questione non è
l'apparizione del 1531: né i due predicatori né i testimoni ne fanno menzione, ma si limitano a parlare di una cappella dedicata alla Madonna.
Altra tappa importante dell'«antiguadalupanismo» storico è la pubblicazione nel 1896, peraltro senza il consenso dell'autore che l'aveva
scritta in forma privata all'arcivescovo di Città di Messico nel 1883, della Carta sobre el origen de la imagen de Guadalupe, nella quale il
famoso scrittore cattolico messicano Joaquin Garcia Jcazbalceta vede nell'omelia di Bustamante la chiara negazione della pretesa origine
soprannaturale dell'immagine, ponendosi quindi sulla stessa linea degli editori dell'Informacion de 1556 e sottolineando ancora una volta
l'argomento del silenzio, già evidenziato da Munoz. La lettera di Icazbalceta divenne l'argomento antiapparizionista più importante dal punto
di vista storiografico, a causa della serietà con cui fu trattato il tema e della solida reputazione dell'autore. Per Icazbalceta, il problema
principale per lo storico non era la mancanza di fede per credere nelle apparizioni di santa Maria di Guadalupe, ma la mancanza di
testimonianze storiche contemporanee al fatto. L'inesistenza di riferimenti storici su Juan Diego, Juan Bernardino e le apparizioni del
Tepeyac prima della pubblicazione dei libri di Miguel Sanchez e di Lasso de la Vega si trasformò nel dictum per gli storici che in seguito si
interessarono dell'argomento. Nel nostro secolo il discorso è stato ripreso da Francisco de la Maza, che, in un libro pubblicato per la prima
volta nel 1933, negata l'apparizione, spiega l'origine dell'immagine con la collocazione di una riproduzione della Madonna di Guadalupe di
Estremadura, sostituita in seguito con l'attuale. L'ipotesi sarà ribadita successivamente da Jacques Lafaye, che, dopo aver definito « molto
deboli » le testimonianze dal 1531 al 1648 se confrontate con « la forza e la chiarezza » delle negazioni, si riferisce all'apparizione del
Tepeyac come a un « gran mito messicano », frutto della feconda fantasia del popolo. Secondo Lafaye, il « mito guadalupano » fa parte di
quei momenti importanti che furono fondamentali per la formazione della coscienza nazionale. Secondo la sua visione, si può vedere
l'origine di tale mito nell'opera del Sanchez. Per Lafaye, sia il libro del Sanchez, apparso nel 1648, sia quello di Lasso de la Vega (1649)
avrebbero avuto in Messico una grande risonanza e sarebbero stati i primi passi per il riconoscimento di Guadalupe come simbolo nazionale
del Messico. Infine ricordiamo Edmundo O'Gorman, recentemente scomparso, secondo il quale nelle parole di Montufar si è voluto vedere
quello che non c'è stato, ovvero un'affermazione « velata, implicita o indiretta » intorno alla verità delle apparizioni e all'origine
soprannaturale dell'immagine, ragion per cui misconosce ogni validità di processo all'Informacion de 1556, che avrebbe quindi solo un
carattere privato. Una terza posizione, per così dire intermedia, caratterizza gli studi più recenti, come quelli di Xavier Noguez e Richard
Nebel, e ci sembra la più accettabile, dato che non nega le apparizioni, ma afferma che, più che una documentazione di. tipo storico, esiste
una tradizione continua, prima orale e poi scritta. Con l'apparizione del libro del Sanchez (1648), la pubblicazione del testo in nahuatl ad
opera di Lasso de la Vega (1649) e la diffusione della tradizione attraverso le opere di Luis Becerra Tanco (1666) e Francisco de Florencia
(1688) si cristallizza la cosiddetta «tradizione ufficiale» dell'evento guadalupano: termina la fase iniziale della storia dell'informazione
guadalupana, caratterizzata principalmente dalla creazione di tradizioni basate originariamente su fonti scritte e orali di provenienza locale.
L'informazione guadalupana, secondo il Noguez, proviene da tradizioni indigene che furono rilette in chiave cristiana, non da documenti
elaborati dai protagonisti dell'evento. Anche Nebel è d'accordo che esiste una tradizione guadalupana di provenienza sia spagnola che
indigena. Qualunque sia la posizione che si voglia assumere in relazione alla storicità delle apparizioni guadalupane, una cosa è certa: con la
tradizione del cosiddetto evento guadalupano ebbe inizio una storia effettiva di tale « avvenimento », che dalla metà del secolo XVII doveva
interessare in modo straordinario quasi tutti gli ambiti della società e della cultura del paese.
2. Novità nelle ricerche
Se il Noguez poteva affermare, solo pochi anni fa, che « fino ad oggi non è stato trovato un documento contemporaneo al tempo ufficiale
delle apparizioni che resista all'esame della critica storiografica e che possa essere considerato come una prova della storicità dell'evento »,
oggi ci troviamo di fronte a una scoperta che può risultare di fondamentale importanza nello sviluppo delle ricerche. Si tratta di un codice
chiamato « 1548 », rinvenuto recentemente in una collezione privata, nel quale si trovano elementi grafici e dati scritti di grande interesse. Il
motivo principale è Juan Diego inginocchiato ai piedi di nostra Signora di Guadalupe avvolta in un manto di stelle, tra le nubi, mentre il sole
fa capolino in mezzo ai monti alle sue spalle. Il codice reca varie iscrizioni tra cui spicca una data, 1548, che appare nella parte superiore, al
centro, sopra i monti. Sotto la data si legge, tra l'altro, in nahuatl: « Anche nel... 1531... Cuauctlactoatzin... si fece vedere l'amata madre
nostra Guadalupe... México ». Nella parte inferiore sinistra si riesce a vedere, sotto il disegno di Juan Diego, una scritta che dice: « mori
dignitosamente Cuauctlactoatzin ». Ci sono comunque anche altre iscrizioni che finora non si sono potute decifrare. Il documento si riferisce,
quindi, al beato Juan Diego, chiamato con il nome azteco, e alla circostanza della sua morte, avvenuta appunto nel 1548, il che spiegherebbe
perché appare questa data nel codice. Nella parte superiore destra viene rappresentato un piccolo Juan Diego, in piedi, molto simile a quello
di un'altra incisione a cui allude padre Mariano Cuevas nel suo Album Histérico Guadalupano, definendolo il ritratto più antico di Juan
Diego. Nella parte inferiore destra, sotto il glifo corrispondente ad Antonio Valeriano, legge: «Juez anton vareliano »(sic), che sicuramente
significa: « Giudice Antonio Valeriano ». Nella parte inferiore del codice si distingue chiaramente la firma di Bernardino de Sahagùn. Se
questo codice risulterà veramente del secolo XVI, come sembra e come potrebbe garantire la firma di Sahagùn, saremmo a una svolta
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d'enorme importanza per la storia guadalupana, essendo anteriore al libro di Miguel Sanchez. Inoltre confermerebbe il nome azteco di
Juan Diego, che cominciò a menzionare già Sigùenza y Gongora dal secolo XVIII, senza però indicare le ragioni di tale affermazione. Da
questo codice derivano due incisioni posteriori. Una è quella pubblicata in La felicidad de México di Luis Becerra Tanco. Entrambe le
incisioni, quella originale e quella derivata, si somigliano nello stile, ma il « 1548 » sembra piu antico, sia per le linee sia per il materiale
impiegato. Hanno in comune una grande quantità di dettagli: un Juan Diego grande e uno piccolo, l'immagine della Vergine di Guadalupe, il
paesaggio, la vegetazione e il sole. Padre Cuevas cita vari esperti i quali assicurano che l'incisione di cui sopra presenta una conformazione
convenzionale tipica del secolo XVI, conservata nel secolo seguente, ma già assente nel 1700. Se tutto questo è stato detto dell'incisione
contenuta in La felicidad de México, il Codice « 1548 » - dal quale l'altra ebbe origine - è sicuramente anteriore, per cui quello che si dice
dell'incisione a maggior ragione si può applicare al codice recentemente scoperto. Ad ogni modo occorre proseguire nelle ricerche per determinare l'origine e l'informazione completa contenuta nel codice e non è possibile pronunciarsi ora in maniera definitiva.
3. L'evento uadalupano nella sua struttura letteraria
Quando Luis Lasso de la Vega pubblicò la sua opera, nel 1649, affermò di aver scritto per ispirazione divina sia il Nican Mopohua che il
Nican Motecpana. Quest'affermazione è stata confutata dagli studiosi fin dal secolo XVII. Essi sostengono che Lasso ebbe tra le mani
l'originale o una copia del manoscritto redatto in nahuatl, dato che il racconto delle apparizioni e dei miracoli della Vergine di Guadalupe
rivelano una visione del mondo degli aztechi che Lasso non avrebbe potuto imitare. Si sa che Luis Lasso de la Vega pubblicò il testo del Nican Mopohua - senza traduzione spagnola - nella prima parte della sua opera, senza però indicare le fonti utilizzate, cosa che avrebbe potuto
chiarire la questione dell'autore e del destino dell'originale. Secondo il nuovo studio del Nebel, citato sopra, tra le diverse narrazioni della
tradizione guadalupana, il Nican Mopobua è il più importante perché ha il pregio di unire una credenza a un avvenimento storico. Nel Nican
Mopohua s'intrecciano aspetti del mondo cristiano europeo con quello tolteco-azteco. Il contenuto cristiano è trasmesso in nahual, la lingua
autoctona più importante della Nuova Spagna. La forma e il contenuto si compenetrano tra loro: « Il cristiano si fa messicano e il messicano
cristiano ». Confrontando il Nican Mopohua con altre espressioni della letteratura mesoamericana, per esempio con i cantares, Nebel ha
scoperto sorprendenti somiglianze, per cui può affermare che il nostro testo è strettamente collegato con altre opere scritte in nahuatl. Senza
dubbio il redattore Luis Lasso de la Vega conosceva a fondo la letteratura nahuatl. Fornì il suo Huey Tlamahuizoltica di una dedica, come si
usava a quei tempi, perché la sua opera fosse apprezzata come quelle di altri scrittori contemporanei. Nella sua opera, Lasso de la Vega
ritiene le tradizioni dei suoi predecessori insufficienti per lo scopo che si propone, che è quello di offrire una relazione ordinata e oggettiva,
senza nessuna omissione, e narrare « tutto » dal principio e « con ordine». Vuole presentare un opera completa e, nello stesso tempo, pretende risolvere per la prima volta il problema della presentazione dei racconti dell'apparizione e della miracolosa impressione dell'immagine di
Maria sulla tilma in modo oggettivo, come fondamento unico degno di fede dell'evento guadalupano, in modo che questo giustifichi la
venerazione della Vergine di Guadalupe da parte dei messicani, suoi figli. Per questo il Nican Mopobua è stato concepito e sviluppato
letterariamente per dare fondamento alla credenza guadalupana: già nel prologo Lasso de la Vega avverte di non avere ambizioni letterarie,
ma di voler essere fedele alla tradizione. Occorre però tener presente che gli storici di quell'epoca davano più importanza alla verità
contenuta nei fatti, ossia al significato degli avvenimenti narrati, che alla loro oggettività. Per questo Lasso, o piuttosto l'autore del racconto
delle apparizioni - poiché egli si limitò a pubblicarlo -, narra i « fatti » conformemente al senso che crede di scoprire nella tradizione
guadalupana. Pur sforzandosi di collocare l'avvenimento in un contesto storico, basa la certezza storica nella certezza della fede: è sua
intenzione unire indissolubilmente il vangelo all'evento guadalupano e svilupparlo letterariamente e storicamente come fondamento
messicano della fede cristiana. L'autore racconta una verità per lui esistenzialmente certa e che è importante trasmettere alla società coloniale.
Di conseguenza, il problema non è quando e come ebbero luogo le apparizioni, bensì: qual è il nuovo ordine del mondo affidato agli abitanti
della Nuova Spagna? A quale scopo furono « soggetto » delle apparizioni e che senso ha l'apparizione per la vita dei nahua? Nebel conclude
dicendo che in un certo modo il Nican Mopohua contiene una storia dell'incarnazione: appunto la storia della nascita « sociale » degli indios
nella Nuova Spagna, i quali, grazie all'intervento di Guadalupe, sperimentano relazioni socioculturali nutrite di rispetto e nello stesso tempo
entrano nell'orizzonte della storia del cristianesimo, un processo che si può dire non ancora terminato. L'autore non si dichiara a favore delle
apparizioni, ma nemmeno le nega, facendo piuttosto una lettura storico-sociale e culturale dell'evento guadalupano. Lo studio del Nebel,
condotto con serietà e oggettività scientifica, apporta alle ricerche un significativo contributo sia nell'ambito teologico che in quello
sociologico, storico e culturale, anche se manca una lettura di fede.
4. Le « Informacioneì » del 1666 e del 1723
Occorre a questo punto dare maggiori ragguagli intorno alle lnformaciones de 1666, tante volte citate. Sono considerate di fondamentale
importanza tanto per la prova della tradizione guadalupana, quanto per suffragare la vita, le virtù, la fama di santità e il culto del beato Juan
Diego, come risulta dalle conclusioni di uno studio recentemente pubblicato. Si tratta di accertamenti condotti con tutto il rigore giuridico del
caso da un tribunale ecclesiastico e civile di Città di Messico negli anni 1665 e 1666 allo scopo di ottenere dalla Congregazione dei Riti la
concessione della festa e dell'ufficio proprio per la celebrazione della festa di nostra Signora di Guadalupe. Le Informaciones sono il
resoconto di questo processo, chiesto dalla Santa Sede durante il pontificato di Alessandro VII: documentano il fatto delle apparizioni della
Vergine di Guadalupe. Sono un documento autentico, pubblico e giuridico, la cui storicità è irrefutabile e il cui valore è grande. La prima
richiesta di culto fu inoltrata dal canonico don Francisco Siles, che nel 1663 propose il progetto al vescovo di Puebla e al viceré della Nuova
Spagna, così come al capitolo della cattedrale di Città di Messico. L'iniziativa fu accolta con soddisfazione. Siles procurò le copie autentiche
dei documenti e varie carte che furono aggiunte alla petizione; Roma rispose che a tempo debito sarebbe stato inviato un «rescripto
remisorial» con l'elenco delle domande per esaminare i testimoni, al fine di fare piena luce sul fatto guadalupano. Alla fine del 1665 non era
ancora arrivato nulla da Roma. Il canonico Siles ritenne che la risposta non potesse tardare molto e, per timore che i testimoni indigeni di
Cuauhtitlàn morissero, data l'età avanzata, volle fare qualche passo previo: sollecitò formalmente il capitolo perché avviasse un'informazione
giuridica con dichiarazioni dei testimoni circa le apparizioni. Il capitolo metropolitano nominò i giudici che condussero l'interrogatorio servendosi di nove domande intorno ai punti di fondamentale importanza della tradizione guadalupana. Tra febbraio e marzo del 1666, a
distanza di centotrentacinqueanni dal fatto, deposero a Città di Messico dodici spagnoli: dieci ecclesiastici e due secolari. Nell'aprile dello
stesso anno furono interrogati, alla presenza di un interprete, otto testimoni indigeni, originari di Cuauhtitlan, dagli ottanta ai centoquindici
anni. Tutte le deposizioni, rilasciate sotto giuramento, confermano la tradizione orale e scritta tanto delle apparizioni che della vita del beato
Juan Diego. Coloro che fornirono le informazioni testimoniarono sulle parole di quelli che avevano conosciuto il veggente e udito da Juan
Diego e o dichiarato precedentemente, dopo essere stato riletto dal testimone. dai suoi contemporanei la narrazione delle apparizioni. La
distanza di centotrentacinque anni è sicuramente notevole, ma va ricordato che, per la loro longevità, questi testimoni avevano conosciuto
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direttamente persone vissute al tempo delle apparizioni. Concordemente i testimoni, interrogati separatamente, riferirono che
Juan Diego era da tutti ritenuto un santo e presentato come modello di vita a cui ispirarsi. Luis Becerra Tanco partecipò alle Informaciones
con una dichiarazione scritta nella quale affermava che aveva notizia certa, riferitagli da persone anziane a cui si poteva dar credito, che Juan
Diego aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita come custode della cappella primitiva ed era morto in odore di santità. Le Informaciones
assursero al rango di processo apostolico nel 1894, anno in cui fu concesso e approvato il nuovo ufficio della Vergine di Guadalupe, a motivo
della coronazione pontificia che sarebbe avvenuta nell'ottobre del - 1895. Nel 1721, infatti, il ritrovamento delle copie del documento del
1666 aveva ravvivato nel sacerdote José de Lizardi, allora tesoriere del santuario di nostra Signora di Guadalupe, il desiderio di portare
avanti la petizione: egli, pertanto, propose al vescovo di Città di Messico, José Pérez de Lanciego Aguilar, le informazioni, tenuto conto che
la Santa Sede non aveva addotto ragioni contrarie alla concessione e anzi aveva mostrato di voler incrementare la devozione guadalupana.
Lizardi ottenne l'appoggio del vescovo, che incaricò il provisor, cioè il giudice ecclesiastico diocesano, Carlos Bermùdez de Castro, di
avviare un nuovo procedimento. Furono nominati un commissario e alcuni periti che potessero esaminare l'immagine: due medici e tre
pittori. L'interrogatorio era più esteso di quello del 1666 e comprendeva diciotto domande. Il primo testimone chiamato a deporre nel maggio
del 1723 fu una persona di eccezionali qualità religiose, il francescano fra Antonio Margil de Jesus, di sessantasei anni, che, come
infaticabile predicatore missionario, era un testimone qualificato dell'estensione del culto guadalupano. Nel giugno del 1723 fu ascoltato il
secondo testimone: decano della chiesa metropolitana di Città di Messico, avente l'età di sessantacinque anni, dichiarò che le persone
interrogate nel 1666 erano tutte degne di fede. Tuttavia il cammino s'interruppe di nuovo. Finalmente nel 1754 il papa Benedetto XIV per
mezzo della Congregazione dei Riti approvava l'ufficio e la messa propria, con il breve Non est quidem confermava il patronato della
Vergine di Guadalupe sulla Nuova Spagna e ordinava che fosse solennizzata la festa del 12 dicembre. Le Informaciones del 1666 e del 1723,
rese da persone di diversa provenienza ed estrazione sociale, costituiscono una testimonianza che non è possibile ignorare.
5. Guadalupe negli altri scritti del secolo XVII
Gli scritti e i sermoni dei sacerdoti del secolo XVII, specialmente dei gesuiti, dovevano avere grande importanza per fare di Guadalupe la
profezia di un « nuovo ordine ». Nel 1648 uscì l'opera Imagen de ta Virgen Maria Madre de Dios de Guadalupe..., di Miguel Sanchez
(1606?-1677), una narrazione emotiva, ricca di belle metafore, che probabilmente affascinò gli indios, creoli e mestizos, certi di avere nella
Signora di Guadalupe una madre. In questo libro, la conquista della Nuova Spagna si giustifica solo per aver reso possibile alla Vergine
Maria di manifestarsi sulla terra da lei scelta e fondare in Messico un nuovo paradiso. Come infatti Israele era stato scelto per accogliere
Gesù Cristo, così il Messico è stato scelto per accogliere Maria di Guadalupe, che condurrà i suoi figli alla terra promessa. In questa
prospettiva, il Messico coloniale diventa il deserto del Sinai e il Messico indipendente l'immagine della terra «in cui scorrono latte e miele».
L'intenzione dell'autore è quella di mostrare nell'immagine della Vergine di Guadalupe il compimento della profezia del capitolo 12
dell'Apocalisse. L'interpretazione del Sànchez dà al brano biblico un significato mariologico ed ecclesiologico: Maria è la donna che apparve
nel cielo come un gran segno, rendendo evidenti le caratteristiche della Chiesa, « madre » dei credenti. Da questa prospettiva marianoecclesiologica il Sanchez scopre il carattere profetico del capitolo 12 dell'Apocalisse in relazione con l'evento guadalupano e la storia del
Messico. Questa profezia dell'Apocalisse, secondo il suo giudizio, si realizzò per il Messico sotto due aspetti: da una parte, la visione della
donna incinta che appare nel cielo, come un gran segno, vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle, è
la promessa profetica della Vergine di Guadalupe che apparve a Juan Diego sul Tepeyac e che rimase impressa nella tilma in modo prodigioso: apparve a Juan Diego, un secondo Giovanni evangelista, e al vescovo Juan de Zumàrraga, un terzo Giovanni. Per un altro verso, la
donna vestita di sole, che con il figlio è inseguita dal dragone, a sua volta gia vinto da san Michele (ovvero Hernan Cortés) e gettato sulla
terra, è la profezia della storia del popolo messicano, il quale, attaccato dall'idolatria della cultura indigena, fu salvato dall'intervento
vittorioso della « conquista evangelizzatrice ». Una volta sconfitti i demoni dell'idolatria, fiorisce la Chiesa nel nuovo popolo della Nuova
Spagna. Con questo procedimento metodologico, il Sanchez, oltre a dimostrare il valore profetico dei testi biblici, intende creare un
fondamento biblico e teologico all'immagine e alla storia delle apparizioni. E’ convinto che le apparizioni della Vergine Maria sul Tepeyac e
l'immagine prodigiosamente « apparsa» sulla tilma di Juan Diego devono essere considerate come fatti storici. L'autenticità delle apparizioni
e la sua immagine, secondo lui, sono un segno che « questa miracolosa Signora e creola santa» si fece messicana e che, nel suo complesso, la
storia del Messico è preannunciata nella Bibbia. Luis Becerra Tanco (1603-1672) è considerato il « terzo evangelista guadalupano », dopo
Miguel Sanchez e Lasso de la Vega. Uomo di grande cultura, teologo ed erudito, poiché mancavano documenti autentici che potessero avallare l'apparizione della Vergine sul Tepeyac, si sentì in dovere di scrivere ciò che sapeva della tradizione, ciò che aveva letto in gioventù
negli scritti degli indigeni e che ricordava a memoria. Egli vuole convertire la tradizione in storia, vuole rivelare ciò che è veridico e giungere
così a fondare scientificamente la tradizione guadalupana « per il decoro della patria, di cui i figli devono farsi carico », presentando la verità
così com'è: non vuole scadere nell'aneddotico né fare appello alla teologia, ma lavorare come un uomo di scienza. Secondo Becerra Tanco,
un'analisi scientifica dei dettagli permetterebbe di dimostrare la realtà delle apparizioni guadalupane senza nessuna contraddizione e senza
dar adito ad equivoci. In questo senso l'autore, riferendosi a quanto scritto nel 1666, assicura: «Questa è tutta la tradizione, semplice e senza
tanti fronzoli; ed è tanto certa che qualunque cosa le si aggiunga risulterebbe, se non falsa, apocrifa». Francisco de Florencia (1620?-1695),
gesuita, professore di filosofia e teologia, è l'autore del «quarto vangelo guadalupano» con il suo libro La Estrella del Norte de México,
aparecida al rayar el dia de la luz evangélica en este nuevo mundo, in cui mette la sua arte linguistica, la sua formazione umanistica e
teologica al servizio della devozione guadalupana, perché possa diventare effettiva nell'ambito catechetico e pastorale. Questa intenzione è
evidente sia nell'argomentazione teologica, utile per comprendere il significato dell'evento guadalupano, sia nell'uso della poesia e della
retorica, che contribuiscono a stimolare la devozione dei lettori. Florencia si dirige ai dotti nella fede, presentando i contenuti della teologia
dogmatica e morale della Chiesa, del suo insegnamento biblico, della storia della Chiesa e delle sue relazioni con l'evento guadalupano e il
suo significato per la Chiesa e la teologia in Messico. Nello stesso tempo, però, si rivolge al popolino, perché si senta rinfrancato nella pietà e
devozione, così come nel suo sensus fidei. Nel prologo Florencia dice di sentirsi obbligato a completare la storia di Guadalupe che ci è stata
trasmessa dalla tradizione « per amore alla santa immagine » e « per amore alla patria messicana ». Il libro propriamente detto comincia con
una lunga digressione sulla leggenda della fondazione di Messico-Tenochtitlàn, luogo dell'apparizione della Vergine. Nella notte oscura
dell'idolatria sorse la luce della fede nel Nuovo Mondo grazie all'apparizione della Vergine di Guadalupe. Di conseguenza, per Florencia la
cristianizzazione del Messico è fondata nell'azione di Dio e non nell'azione della conquista da parte della Spagna. Florencia - non Benedetto
XIV - è il primo ad applicare al Messico quel passaggio della Scrittura ove si dice: «Non fecit taliter omni nationi: (Il Signore) non ha fatto
altrettanto a nessun altro popolo » (Salmo 147,20), uno slogan che doveva convertirsi nell'idea guida dei guadalupani e nella verità
fondamentale dell'evento guadalupano: la Vergine Maria non concesse un privilegio simile a nessun altro popolo. Convinto della continuità
della tradizione, riconosce un valore storico definitivo alle Informaciones de 1666, dalle quali attinge gli elementi per la sua biografia di Juan
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Diego, presentato come figura esemplarmente cristiana. Secondo Florencia, l'immagine e i numerosi favori manifestati al Messico,
così come la devozione di spagnoli, creoli e mestizos, provano la grandezza del Messico, che è unico al mondo in virtù dell' apparizione di
Guadalupe. Con la pubblicazione delle opere di Sànchez, Lasso de la Vega, Becerra Tanco e Florencia, definiti i « quattro evangelisti
guadalupani », ebbe origine un autentico entusiasmo popolare, che conferì grandezza e valore a ciò che è messicano e favorì l'unione tra le
varie classi sociali: a partire dal secolo XVII, le apparizioni sono presentate come un avvenimento di risonanza nazionale. Una grande
quantità di documenti e monumenti dei più svariati tipi si occupano dell'evento guadalupano e lo prendono come base. Nel secolo XIX la
guerra d'indipendenza incarnò la realizzazione definitiva della promessa dell'Apocalisse, che gli scrittori dei secoli XVII e XVIII avevano
applicato all' avvenimento guadalupano: la promessa di vita offerta dalla madre celeste si trasformò nella promessa di un Messico
indipendente. Il guadalupanismo, dopo un inizio timido nel secolo XVI, raggiunse il suo apice dai secoli XVII e XIX e, trasformato, si è
conservato fino ai nostri giorni. Oggi il santuario di Nostra Signora di Guadalupe è il più frequentato del mondo. Varie sono le espressioni
della pietà filiale: i doni, le promesse, le preghiere. Momento privilegiato delle celebrazioni è naturalmente il 12 dicembre, equivalente al
compleanno o all'onomastico della mamma, raduno di famiglia a cui nessuno può mancare. Alla madre si fa un'offerta generosa, le
composizioni floreali sono splendide e fantasiose. Diversi gruppi indigeni improvvisano vivacissime danze sul sagrato della basilica, in onore
della madre. Vengono anche messe in scena suggestive sacre rappresentazioni del tempo precortesiano, cioè precedente l'arrivo degli
spagnoli. Un'altra tipica espressione della devozione mariana sono le promesse a base di orazioni e penitenze: per esempio, gli ultimi tratti
del viale che porta alla basilica di Guadalupe vengono percorsi in ginocchio da molti pellegrini. Benché ci siano delle esagerazioni, non si
può negare, soprattutto nella gente semplice, la presenza di una fede profonda. Per quanto riguarda la preghiera, si usano orazioni tradizionali
- tra cui spicca il rosario - spesso recitate con solennità, per sottolineare la dimensione della grandezza e autorità della Vergine. E’ innegabile
che il culto alla Vergine di Guadalupe sia al centro della religiosità popolare messicana. I vescovi messicani in una lettera pastorale del 1978
hanno riconosciuto che l'apparizione della Vergine Maria sul Tepeyac è stata veicolo della fede cristiana, ha modellato la religiosità popolare
e ha immesso valori evangelici nella cultura autoctona.
CONCLUSIONE
Abbiamo ripercorso le tappe salienti di un evento che ha lasciato un solco profondo nella religiosità e nella cultura messicana: la Signora del
cielo si rivolge al povero indio parlando la sua stessa lingua, non usa segni che possano incutere terrore, ma rivela tutta la sua delicatezza
rivestendosi dei simboli culturali propri del mondo azteco e si mostra madre premurosa. E’ l'inizio di un'epoca nuova: esiste una sola madre
di Dio che, da sapiente evangelizzatrice, vuole l'unità dei suoi figli e che in Cristo ama tutta l'umanità. Lei ci dona l'Autore della vita. Se
Cristo con l'incarnazione abbraccia la totalità, santa Maria di Guadalupe abbraccia i popoli divisi e li unisce in una sola Chiesa credente. Il
processo di fusione da cui è derivato il popolo mestizo sarebbe stato lento e doloroso, ma nel cielo degli aztechi si era acceso un nuovo sole,
che non sarebbe mai più tramontato; nei loro cuori cominciò a crescere la speranza alimentata da quella parola che da secoli stava infondendo
conforto e coraggio a moltitudini di credenti che erano passati per le medesime prove: « Nessuno ti chiamèrà più "Abbandonata", né la tua
terra sarà più detta "Devastata", ma tu sarai chiamata "Mio compiacimento" e la tua terra "Sposata", perché il Signore si compiacerà di te e la
tua terra avrà uno sposo » (Isaia 62,4). Nel nuovo popolo mestizo che intraprende un cammino di fede si rende manifesto come il fatto
cristiano diventi significativo per lo spagnolo come per l'indio. Dio dispose misteriosamente l'evento guadalupano come conferma della
metodologia essenziale dell'annuncio cristiano e impulso effettivo dello stesso in quei drammatici inizi. Ciò dimostra che il cristianesimo è
un fenomeno capace di dialogo con tutto ciò che è umano, al punto che non esiste un fatto altrettanto capace di subire tali trasformazioni e di
essere accolto da persone in situazioni tanto diverse. L'evento guadalupano aiuta a generare così, in America Latina, l'incontro fra il mondo
culturale indigeno e il cristianesimo, pur attraverso la necessaria purificazione. Che significato ha oggi l'evento Guadalupano, soprattutto
all'interno della pastorale dell'evangelizzazione? Siamo di fronte a un messaggio cristologico: santa Maria di Guadalupe vuol condurre i figli
di questa terra a trovare l'unità nella fede verso lo stesso Padre e nell'esempio luminoso di suo Figlio. E’ Gesù che Maria vuol far conoscere,
è lui che vuole sia adorato e lodato nel tempio. A lui Maria apre la strada; a lui, fonte di speranza e di unità, conduce i figli dispersi.
Ripensare oggi l'evento guadalupano significa, dunque, mettersi alla scuola di Maria, maestra di umanità e di fede, annunciatrice e serva
della Parola, che deve rifulgere in tutto il suo splendore, come l'immagine celeste sulla tilma di Juan Diego. Accettare l'azione
evangelizzatrice di Maria significa incrementare la devozione mariana e trasformarla in motivo ispiratore dell'impegno evangelizzatore.
Un'autentica devozione mariana imita la fede e la disponibilità di Maria e vive le virtù cristiane, senza per questo trascurare le pratiche
tradizionali, ma purificandole da ogni limite e deviazione. Il messaggio guadalupano ricorda che il popolo ha bisogno di radunarsi nella
Chiesa per poter camminare insieme verso la comunione con Cristo, che non nasconde ai fedeli le esigenze di conversione e di autenticità.
Per questo il popolo dev'essere istruito più profondamente nei suoi impegni cristiani, evitando di abbandonarsi eccessivamente a pratiche
esteriori quando non corrispondono a un cambiamento di mentalità in senso cristiano. Spesso, infatti, la religiosità popolare, nonostante i valori di cui è portatrice, non conduce all'adesione personale a Cristo morto e risorto. I cristiani hanno la grande responsabilità di penetrare la
società del messaggio evangelico, guardando alla Vergine di Guadalupe, modello di evangelizzazione inculturata e annuncio di una nuova
visione della vita che si innesta su quella a cui si rivolge, trasformando, simbolicamente, il colle arido in un paradiso. Si tratta di dar
testimonianza del vero Dio e dell'unico - Signore, in modo che in lui e nella sua parola possiamo trovare la via, la verità e la vita; in modo
che attraverso la fede sappiamo distinguere tra i criteri di Gesù e i criteri umani e cerchiamo la risposta ai nostri nuovi problemi, la forza per
superare le difficoltà, l'ispirazione per fare dei valori cristiani un elemento di progresso. « Attraverso l'inculturazione la Chiesa incarna il vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella comunità ecclesiale, trasmette alle stesse i suoi
propri valori, assumendo ciò che c'è di buono in esse e rinnovandole dall'interno » (Redemptoris missio, n. 52). L'evangelizzazione autentica
ha caratteristiche sue proprie: porta il segno della reale novità, apre il cuore alla gioia, fa crescere la speranza, risponde alle esigenze di ogni
uomo, impegna a una risposta che trasforma chi l'accoglie. Nessun vangelo come quello dato da Maria con la sua vita risponde così
esattamente a queste caratteristiche. Maria, nella sua pienezza di grazia, è la stella che illumina il vangelo, colei che evangelizza, la Chiesa
evangelizzante: e proprio perché è l'Immacolata, con la sua santità dimostra la verità e l'efficacia della parola nella sua vita, insegna a
credere, ad accogliere, a rispondere umilmente, generosamente, in pienezza.
APPENDICI
I
I PRIMI RACCONTI DELLE APPARIZIONI
ININ HUEY TLAMAHUIZOLTZIN
(« Questa è la grande meraviglia »)
20
di Juan Gonzdlez
Questa è la grande meraviglia che nostro Signore Dio ha compiuto per mezzo della sempre Vergine santa Maria. Eccola. Ascolterete in quale
miracolosa maniera ella volle che le si edificasse un tempio, che avrebbero chiamato Santa Maria Regina nel Tepeyac. Accadde dunque così.
Un uomo povero del popolo, un macehual vero uomo di Dio, un contadino del campo (povera cosa, povero mecapa?), mentre stava salendo
sulla vetta del Tepeyac alla ricerca di qualche radice per sfamarsi, vide l'amata Madre di Dio che lo chiamò e gli disse: «Mio povero figlio
amatissimo, recati nella grande città di México, di' al vescovo, che guida spiritualmente il popolo, che io desidero ardentemente che qui nel
Tepeyac mi venga costruita una casa, mi venga innalzato un tempio in cui vengano a pregarmi i fedeli cristiani. Qui mi farò loro avvocata
quando mi invocheranno». Andò, dunque, quel povero piccolo uomo a presentarsi al vescovo e gli disse: « Signore, non vorrei essere
inopportuno, ma è qui che mi ha inviato la Signora del cielo. Mi ha detto di venirti a esprimere i suoi desideri: ella vuole che nel Tepeyac si
eriga per lei un tempio in cui la supplichino i cristiani. Mi ha detto anche che lì desidera mostrare tutto il suo amore e che verrà in aiuto a
quanti la invocheranno ». Ma il vescovo non gli dette credito e immediatamente gli disse: «Che dici, figlio mio? Forse te lo sei sognato o
forse sei ubriaco? Se quello che dici è vero, riferisci a questa signora che io ti ho richiesto un qualche segno perché credere quello che dici
possiamo credere a quello che dici». Ritornò, dunque, triste il nostro uomo e gli apparve di nuovo la Regina. E quando la vide le disse: « mia
Signora, sono andato dove mi hai inviato, ma il vescovo non mi ha creduto; mi ha detto che forse avevo sognato o forse ero ubriaco; mi ha
detto anche che, per credere, tu devi darmi un segno da portargli ». E la Signora Regina, l'amata Madre di Dio, gli disse: « Non essere triste,
figlio mio, va' a raccogliere alcuni fiori la' dove sono nati ». Quei fiori solo per un miracolo erano nati lì, perché in quella stagione la terra
era molto secca. Quando il nostro uomo tagliò i fiori, li ripose dentro la tilma. Poi andò a México per dire al vescovo: « Signore, ti porto i
fiori che mi ha dato la celeste Signora perché tu creda che è vero quanto lei desidera ed è certo quanto ella mi ha detto ». E quando dispiegò
la sua tilma, per mostrare i fiori al vescovo, sulla stoffa si impresse in forma prodigiosa l'immagine della Signora Regina, affinché finalmente
il vescovo credesse. Alla vista di ciò si inginocchiarono e la ammirarono. E in verità l'immagine della Regina solo per miracolo si dipinse
sulla tilma del povero uomo così come oggi è visibile a tutti. Qui vengono a supplicarla i suoi devoti ed ella, col suo affetto materno, li aiuta
e dà loro quanto chiedono. E in verità se qualcuno la riconosce come sua avvocata e totalmente le si dona, l'amata Madre di Dio ben presto
intercederà per lui. In effetti verso tutti coloro che si mettono sotto la sua ombra, sotto la sua protezione, ella è prodiga di aiuti.
HUEY TLAMAHUIZOLTICA
(« Apparve meravigliosamente »)
di Luis Lasso de la Vega
Luis Lasso de la Vega scrisse nel 1649 una storia di Guadalupe in nahuatl, raccogliendo vari documenti per impedirne la perdita o la
distruzione e aggiungendovi anche qualcosa di suo. Essa, conosciuta come Huey Tlamahuizoltica, si compone di cinque parti: 1. Ilhuicac
Tlatoca Cihuapille («O grande Regina del cielo »): prologo scritto dallo stesso Lasso de la Vega; 2. Nican Mopohua (« Qui si racconta»):
storia delle apparizioni, scritta dall'indio Antonio Valeriano fra il 1548 e il 1555; 3. In Tilmatzintli (« La tilma »): descrizione dell'immagine
impressa sulla tilma di Juan Diego, dovuta anch'essa, con ogni probabilità, allo stesso Valeriano; 4. Nican Motecpana (« Qui si riferiscono
»): storia dei primi miracoli operati dalla Vergine di Guadalupe e piccola biografia dell'indio Juan Diego, scritta da Fernando de Alva
Ixtlilxochitl; 5. Nican Tlantica (« Qui si conclude »): conclusione di Lasso de la Vega, che contiene anche un'antica orazione alla Vergine.
Tralasciamo l'introduzione e la conclusione e proponiamo la traduzione - secondo Mario Rojas - dei tre documenti fondamentali (nn. 2, 3, 4)
che costituiscono l'Huey Tlamahuizoitica.
NICAN MOPOHUA
(« Qui si Mopohua racconta »
di Antonio Valeriano
Qui si racconta con ordine come poco tempo fa apparve miracolosamente la perfetta Vergine santa Maria Madre di Dio, nostra Regina, sul
colle Tepeyac, in seguito chiamato Guadalupe. Dapprima si fece vedere da un indio che aveva nome Juan Diego; poi apparve con la preziosa
immagine dinanzi a don fra Juan de Zumarraga, da poco nominato vescovo. 'Dieci anni dopo lo scontro avvenuto a Città di Messico - quando
ormai era cessata la guerra e in ogni villaggio regnava la pace - la fede, come i fiori, cominciava a sbocciare, a rinverdire, e già la conoscenza
del vero Dio, cioè di colui che è l'autore della vita, metteva le prime radici. In quel tempo - era l'anno 1531 - nei primi giorni di dicembre,
accadde che un indio, un uomo povero del popolo, il cui nome, secondo la tradizione, era Juan Diego, abitante di Cuauhtitlàn, ma nelle cose
di Dio dipendente in tutto da Tlatelolco, di mattina assai presto - era un SABATO - stava recandosi appunto là per la preghiera e la catechesi.
Quando giunse nei pressi del colle chiamato Tepeyac già albeggiava. Udì allora sul colle un canto melodioso, come se fosse il canto di uno
stormo di uccelli rari; quando cessavano le loro voci, sembrava che il colle rispondesse ripetendone l'eco. Il loro canto, oltremodo soave e delizioso, superava quello del coyoltototl, del tzinitzcan e quello di tutti gli altri uccelli canori. Juan Diego si fermò per vedere,. Si disse: «Sono
forse una persona degna e meritevole di quanto odo? Sto forse sognando o sono nel dormiveglia? Dove mi trovo? Forse sono stato trasferito
nel luogo di cui ci hanno parlato i nostri antenati, i nostri nonni, cioè nella terra dei fiori, del mais, della nostra carne e del nostro
sostentamento? Sono forse nel paradiso terrestre? ». Intanto guardava sulla cima del colle, rivolto verso dove sorge il sole, nella direzione da
cui proveniva il celestiale canto.
Prima apparizione
All'improvviso il canto s'interruppe e si fece un profondo silenzio. Allora sentì che dalla sommità del colle una voce lo chiamava per nome,
con dolcezza: « Juanito, Juan Dieguito! ». Senza esitazione si diresse, perciò, verso il luogo da cui proveniva la voce. Non provava nessun
turbamento né alcuna cosa gli procurava timore. Anzi si sentiva allegro e il suo cuore era ricolmo di gioia. Cominciò così a salire la collina
per vedere chi fosse a chiamarlo. Appena giunto sulla sommità, vide una giovane Signora che stava lì in piedi e lo invitava ad avvicinarsi.
Quando fu di fronte a lei, restò molto colpito dal suo affascinante aspetto che superava ogni immaginazione: il suo vestito risplendeva come
il sole, come se riverberasse; la pietra su cui posava i piedi era come se sprigionasse raggi luminosi; il suo splendore sembrava quello di un
bracciale in cui sono incastonate pietre preziose; la terra che le stava intorno riluceva come i bagliori dell'arcobaleno nella nebbia; i mezquites
e i nopales e le altre erbe che lì crescono di solito sembravano smeraldi; le foglie assomigliavano a turchesi; i ramoscelli, le spine, gli aghi
brillavano come oro. Egli si prostrò alla sua presenza e ascoltò la sua parola, che era estremamente delicata, sommamente affabile, attraente e
accattivante. Gli disse: « Ascolta, Juanito, mio povero figlio amatissimo, dove sei diretto? ». Egli rispose: « Mia amabilissima Signora e
Regina, voglio raggiungere la tua piccola casa di Messico Tlatelolco per seguire l'istruzione religiosa che lì ci viene impartita dai nostri
sacerdoti, che sono l'immagine vivente di nostro Signore». Dopo questo breve dialogo, la Signora gli rivela subito la sua preziosa volontà.
Gli dice: « Sappi, mio povero figlio amatissimo, che io sono ta perfetta sempre Vergine santa Maria, la Madre del verissimo e unico Dio, di
21
colui che è l'autore delta vita, del creatore degli uomini, di colui nel quale tutte le cose sussistono, del Signore del cielo, del padrone
delta terra. Desidero ardentemente che in questo luogo venga costruita la mia piccola casa sacra, mi venga eretto un tempio, in cui io voglio
mostrarlo, renderlo manifesto, darlo alle genti attraverso il mio amore, la mia compassione, il mio aiuto, la mia protezione, perché, in
verità, io sono la vostra Madre misericordiosa: tua, di tutti coloro che abitano questa terra e di tutti quegli uomini che mi amano, mi
invocano, mi cercano e ripongono in me tutta ta loro fiducia. Qui ascolterò il vostro pianto e i vostri lamenti. Mi prenderò a cuore e curerò
tutte le vostre numerose pene, le vostre miserie, i vostri dolori per porvi rimedio. E perché si possa realizzare quanto il mio amore
misericordioso desidera, recati al palazzo del vescovo a Città di Messico e digli che io ti mando per rivelargli quanto desidero, e cioè che mi
provveda qui una casa, erigendomi un tempio ai piedi di questo colle. Gli racconterai tutto ciò che hai visto e ammirato e ciò che hai udito.
Stai sicuro che te ne sarò molto grata e ti ricompenserò; per questo ti arricchirò e ti glorificherò. La tua fatica e il servizio che mi fai
andando a sollecitare ta mia petizione saranno degnamente ricompensati. Ora che hai ascoltato, mio povero figlio amatissimo, la mia
parota, va' e porta a termine la missione!». Juan Diego si prostrò alla sua presenza e le rispose: « Mia Signora, corro subito a eseguire la tua
parola, a realizzare il tuo volere, e così per ora il tuo povero indio si separerà da te». Quindi discese frettolosamente dal colle e imboccò la
strada che viene direttamente a Città di Messico. Entrato in città, si diresse subito al palazzo del vescovo, che da poco tempo era giunto nel
paese. Il suo nome era Juan de Zumarraga ed era francescano. Appena giunto, pregò i servi di dire al vescovo che chiedeva di vederlo subito.
Dopo una lunga anticamera, allorché il vescovo comandò che entrasse, essi vennero a chiamarlo. Entrato, s'inginocchiò davanti a lui e si
prostrò. Poi gli rivelò, gli raccontò la preziosa parola della Regina del cielo, il suo messaggio, narrandogli anche tutto ciò che aveva
ammirato, visto e udito. Il vescovo lo lasciò parlare e ascoltò il messaggio, ma non gli dette molto credito. Congedandolo gli disse: « Figlio
mio, torna un'altra volta e ti ascolterò con più calma. Rifletterò bene sulla ragione per cui sei venuto e su quanto mi hai riferito ».
Seconda apparizione
Juan Diego uscì e camminava triste perché non si era compiuto subito l'incarico per cui era stato mandato. Lo stesso giorno tornò indietro e
puntò decisamente verso la sommità della collina del Tepeyac. Qui ebbe la felice sorpresa d'incontrare la Regina del cielo, che lo stava
aspettando proprio nel luogo in cui gli era apparsa la prima volta. Appena la vide, si prostrò davanti a lei, si gettò a terra e le disse: « Mia
Signora e Regina, mia povera Figlia amatissima, sono stato dove mi hai mandato per portare a termine la tua amorevole missione. Sebbene
con molte difficoltà, sono riuscito a incontrare il vescovo e gli ho comunicato il messaggio che mi avevi affidato. Mi ha ricevuto
amabilmente e ha ascoltato tutto con attenzione, però mi sono reso conto, da quanto mi ha risposto, che non ha prestato fede alle mie parole.
Mi ha detto: "Torna un'altra volta e ti ascolterò con più calma. Rifletterò bene sulla ragione per cui sei venuto e su quanto mi hai riferito".
Dalla sua risposta ho capito che egli pensa che la richiesta di edificarti un tempio in questo luogo non proviene da te, ma sia frutto della mia
fantasia. Pertanto ti supplico, mia amabilissima Signora e Regina, di affidare l'incarico di portare il tuo messaggio a qualche persona
importante, che sia stimata, conosciuta, rispettata e onorata, affinché le diano credito. Io in verità sono un uomo dei campi, sono mecapal,
sono cacaxtli, sono coda, sono ala; io stesso ho bisogno di essere condotto, portato in spalla. Il luogo dove tu mi invii, o Vergine mia, mia
povera Figlia amatissima, non è adatto a me e mi è estraneo. Per favore, dispensami! Anche se so che, chiedendoti questo, ti reco dispiacere e
ti disgusto, o mia dolcissima Signora, meritando così il tuo sdegno ». La perfetta Vergine, degna di onore e di venerazione, gli replicò: «
Ascolta, mio povero figlio amatissimo. Non sono pochi i miei servi fedeli a cui potrei affidare l'incarico di portare il mio messaggio. Ma è
molto necessario che vada proprio tu e nessun altro e che attraverso la tua mediazione si realizzi il mio desiderio e si porti a compimento il
mio volere. Perciò ti prego vivamente, mio piccolo figlio amatissimo, anzi ti ordino di presentarti nuovamente domani al vescovo. Gli farai
sapere ancora una volta ciò che desidero, affinché mi costruisca il tempio che gli chiedo, e ripetigli che sono personalmente io, la sempre
Vergine santa Maria, la Madre di Dio, a mandarti ». Juan Diego, da parte sua, le rispose: « Mia amabilissima Signora e Regina, io non
voglio rattristare il tuo volto e contristare il tuo cuore. Di buon grado mi impegnerò a eseguire la tua parola; in nessun modo voglio esonerarmi dal farlo né mi lascerò spaventare dalle difficoltà del viaggio. Andrò a mettere in opera la tua volontà, ma forse non sarò ascoltato; e
anche se lo fossi, probabilmente non mi crederanno. Domani sera, al tramonto del sole, tornerò per riferirti ciò che il vescovo mi avrà risposto. Per ora mi congedo rispettosamente da te, mia povera Figlia amatissima. Tu intanto riposati un po' ». E tornò subito a casa sua e andò a
dormire. Il giorno seguente era DOMENICA. Di buon mattino, mentre era ancora buio, uscì di casa e si diresse immediatamente verso
Tlatelolco per partecipare alla catechesi e rispondere all'appello. Quindi si sarebbe recato a vedere il signor vescovo. Verso le dieci era già
pronto: aveva partecipato alla messa e all'istruzione religiosa; aveva risposto all'appello e la gente si era ormai dispersa. Juan Diego si diresse
allora verso il palazzo del vescovo. Giuntovi, insistette per poterlo vedere e dopo non poche difficoltà riuscì finalmente a incontrarlo.
S'inginocchiò ai suoi piedi e scoppiò a piangere. Tra i singhiozzi gli riferì nuovamente il messaggio della Regina del cielo, pregandolo di
prestare fede alle sue parole, che esprimevano la volontà della perfetta Vergine, e invitandolo a erigerle il tempio nel luogo da lei indicato. Il
vescovo, per verificare l'attendibilità di quanto aveva ascoltato, pose molte domande a Juan Diego, interrogandolo soprattutto sul luogo in cui
aveva visto la Signora e sull'aspetto che ella aveva. Egli raccontò dettagliatamente tutto al signor vescovo. E nel riferire puntualmente ogni
cosa, disse anche che evidentemente si trattava della perfetta Vergine, l'amabile e meravigliosa Madre di nostro Signore Gesù Cristo.
Neppure questa volta il vescovo prestò fede alle sue parole. Il vescovo disse che non avrebbe realizzato quanto egli chiedeva solamente sulla
base della sua parola, ma che era indispensabile, perché fosse creduto come inviato della Regina del cielo in persona, un qualche preciso
segno. Dopo averlo ascoltato, Juan Diego replicò: « Signor vescovo, indica quale tipo di segno chiedi, affinché io possa riferirlo alla Regina
del cielo che mi ha mandato ». Il vescovo, però, visto che Juan Diego confermava tutto e in nulla vacillava o dubitava, lo congedò senza
rispondergli. Anzi, appena fu uscito, comandò subito ad alcuni suoi servi di fiducia che lo pedinassero e osservassero bene dove si dirigeva,
chi vedeva e con chi parlava. E così fu fatto. Juan Diego imboccò direttamente la strada che portava fuori della città. Quelli che lo seguivano,
all'altezza del burrone che si trova vicino al Tepeyac, sul ponte di legno, lo persero di vista. E benché cercassero in ogni direzione, non
riuscirono a rintracciarlo. Così tornarono indietro. Erano molto irritati, non solo perché il fatto li aveva imbarazzati, ma anche perché non
avevano potuto raggiungere il loro scopo. Si presentarono al signor vescovo e cercarono di convincerlo a non farsi ingannare da costui. Gli
dissero che senz'altro questi raccontava bugie e che era un visionario o un sognatore. Conclusero dicendo che, se fosse tornato un'altra volta,
lo avrebbero preso e duramente castigato affinché non tornasse più a dire bugie e a burlarsi di loro.
Terza apparizione
Nel frattempo Juan Diego s'incontrava con la santissima Vergine e le comunicava la risposta ricevuta dal signor vescovo. La Signora, dopo
averlo ascoltato, gli disse: «Bene, figlio mio, torna qui domani mattina e porterai al vescovo il segno che ti ha chiesto. In tal modo ti crederà!
Non dubiterà più né sospetterà ancora di te.E sappi, figlio mio, che io ricompenserò la preoccupazione, il tavoro e la fatica che per me stai
sopportando. Adesso va', perché domani ti aspetto qui ». Ma il giorno seguente, LUNEDÌ, quando cioè Juan Diego avrebbe dovuto ricevere
il segno da portare al vescovo per essere creduto, non tornò. Infatti, appena giunto a casa, aveva trovato un suo zio, di nome Juan Bernardino,
gravemente ammalato. Corse subito a chiamare un medico. Questi gli recò un po' di sollievo, ma ormai era troppo tardi in quanto era molto
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grave. Durante la notte lo zio pregò Juan Diego che, appena fosse spuntata l'alba, si recasse a Tiatelolco a chiamare un sacerdote che lo
confessasse e lo preparasse a una buona morte. Era infatti sicuro di essere in fin di vita e che non sarebbe più guarito.
Quarta apparizione
Il MARTEDÌ, mentre era ancora buio, Juan Diego uscì di corsa e si mise in cammino verso Tlatelolco per chiamare un sacerdote. Giunto
proprio al viottolo che fiancheggia il Tepeyac, verso ponente, strada che percorreva di solito quando si recava in città, disse tra sé: « Se vado
avanti per questa via probabilmente incontrerò di nuovo la Signora, la quale sicuramente mi tratterrà, perché io porti il segno al vescovo,
come mi ha ordinato. È necessario invece che per il momento ci lasci risolvere il nostro problema. Bisogna che per prima cosa io chiami in
fretta un sacerdote, poiché mio zio lo aspetta con ansia». Aggirò perciò la collina, la risalì e passò sul fianco opposto, sul lato orientale, in
modo da raggiungere rapidamente Tlatelolco senza essere trattenuto dalla Regina del cielo. Pensava ingenuamente che facendo quel giro non
avrebbe potuto scorgerlo colei che invece vede perfettamente in ogni parte. Infatti, come prese a scendere dal colle, la vide. Ella lo stava
guardando. Gli venne incontro sul fianco del colle, tagliandogli la strada, e gli disse: « Che cosa è accaduto, mio povero figlio amatissimo?
Dove sei diretto?». Egli si sentì smarrito o forse si vergognò, si spaventò e si fece timoroso. Si prostrò alla sua presenza e la salutò dicendole:
« Mia amabilissima Signora, spero che ti vada tutto bene. Come ti sei svegliata? Hai riposato bene? Sto per darti un dispiacere. Ti faccio
sapere, o mia Signora, che un povero tuo servitore, cioè mio zio, è molto malato. Una grave infermità lo ha colpito e certamente presto
morirà. Io mi sto recando in gran fretta presso la tua casa a Tlatelolco per chiamare qualcuno degli amati da nostro Signore, uno dei nostri
sacerdoti, perché venga al suo capezzale per confessarlo e prepararlo a una buona morte. E in verità siamo nati per questo, noi che viviamo
aspettando il travaglio della nostra morte. Ma appena compiuto quest'incarico, tornerò subito qui un'altra volta per portare, o mia Signora, il
tuo messaggio. Ti prego di perdonarmi. Abbi con me ancora un po' di pazienza, perché così facendo non voglio ingannarti, mia povera Figlia
amatissima. Domani senz’altro verrò qui in tutta fretta». Dopo aver ascoltato le ragioni di Juan Diego, la pietosa perfetta Vergine gli rispose:
« Ascolta, figlio mio, riponilo nel tuo cuore. Non temere e non affliggerti. Non si turbi il tuo cuore e non preoccuparti né di questa né di
qualsiasi altra infermità. Non sto forse qui io, che sono tua Madre? Non stai forse sotto la mia protezione? Non sono forse io ta fonte della
tua gioia? Non sei forse nel cavo del mio manto, nella croce delle mie braccia? Cosa vuoi di più? Niente deve affliggerti e turbarti. Non
angustiarti per l'infermità di tuo zio, perché per ora non morirà. Sappi anzi con certezza che è già perfettamente guarito». (Nello stesso
istante, come si poté constatare in seguito, suo zio guarì). Appena Juan Diego ebbe udite le amorevoli parole della Regina del cielo, provò un
grande sollievo e si sentì confortato. La supplicò allora che lo mandasse immediatamente dal vescovo per portargli il segno che lo avrebbe
indotto a credere al messaggio. La celeste Signora lo invitò quindi a salire sulla sommità del colle, dove gli era apparsa precedentemente. Gli
disse: « Sali, mio povero figlio amatissimo, slla cima del colle, dove mi hai vista e dove ti ho affidato ta missione. Lì troverai una grande
varietà di fiori. Tagliali e raccoglili, facendone dei mazzetti. Poi scendi e portali alla mia presenza ». Juan Diego salì subito sul colle, e
quando giunse in cima si stupì per la gran quantità di fiori di Castiglia appena sbocciati, graziosi e belli, che vi aveva trovato nonostante si
fosse fuori stagione; si era infatti nel periodo invernale. I fiori diffondevano un odore soavissimo; sembravano gioielli preziosi imperlati di
rugiada notturna. Cominciò dunque a tagliarli, ne fece dei mazzetti e li avvolse nella sua tilma. E certo che la sommità del colle non era il
luogo adatto perché vi nascessero fiori; vi abbondano solo pietraie, cardi, spini, cactus e mezquites, e se per caso fosse stato possibile che vi
nascesse qualche erba, non era certo quello il tempo. Si era infatti nel mese di dicembre, la stagione in cui il gelo la fa da padrone e distrugge
ogni vegetazione. Juan Diego scese quindi di corsa e portò alla celeste Signora i diversi fiori che aveva raccolto. Quando li vide, lei li prese
nelle sue mani venerabili; poi li ripose tutti insieme nell'ayate di Juan Diego dicendogli: « Mio povero figlio amatissimo, questi diversi fiori
costituiscono ta prova, il segno, che tu devi portare al vescovo. Da parte mia gli dirai che essi sono la prova che il mio messaggio è
l'espressione delta mia volontà, che egli deve eseguire. Sono anche la prova che tu sei il mio messaggero e sei meritevole della massima
fiducia. Ti comando tuttavia con molto rigore di aprire il tuo ayate unicamente alla presenza del vescovo, solo a lui mostrerai ciò che porti.
Gli racconterai tutto puntualmente. Gli dirai che ti ho ordinato di salire sulla sommità del colle per tagliare fiori e gli riferirai tutto ciò che
hai visto e ammirato. In modo che tu possa convincere il vescovo e lui si decida a edificare il tempio che gli ho chiesto, in conformità alta
mia volontà ». Appena la celeste Signora ebbe finito di parlare, Juan Diego si mise in cammino sulla strada che porta a Città di Messico.
Procedeva contento. Camminava con il cuore pieno di gioia perché era sicuro che questa volta ogni cosa sarebbe andata bene e tutto sarebbe
stato portato a termine perfettamente. Faceva molta attenzione a ciò che portava nel cavo del suo mantello perché nulla andasse perduto, e si
deliziava della fragranza dei diversi preziosi fiori. Quando raggiunse il palazzo del vescovo, gli andarono incontro il maggiordomo e gli altri
servitori. Li supplicò d'introdurlo alla presenza del vescovo, ma nessuno se ne diede pensiero. Facevano finta di non capirlo, o perché era
ancora molto presto perché ormai già lo conoscevano e lo ritenevano un importuno. I compagni che in precedenza lo avevano pedinato,
avevano infatti raccontato loro come lo avevano misteriosamente perso di vista. Egli dovette attendere molto a lungo prima di avere una
risposta. Nonostante fosse già trascorso molto tempo, continuava a rimanere lì, con la testa bassa, senza far nulla, aspettando di essere
chiamato. I servi, essendosi accorti che portava qualcosa nella sua tilma, gli si avvicinarono per vedere di che si trattasse e soddisfare la loro
curiosità. Quando Juan Diego si rese conto che in nessun modo poteva nascondere loro ciò che portava e temendo che potessero spintonarlo e
malmenarlo, mostrò loro, aprendo leggermente la tilma, che erano fiori. I servi videro che si trattava di fiori preziosi, variegati, fioriti in una
stagione insolita, e li ammirarono molto soprattutto per la loro freschezza, per la loro bellezza e per il loro profumo. Tentarono perciò di
portargliene via qualcuno. Per ben tre volte cercarono di prenderli, ma non ci riuscivano in nessun modo. Infatti, ogni volta che provavano, i
fiori si sottraevano, apparendo come ricamati o dipinti o cuciti sulla tilma. Allora corsero immediatamente dal vescovo e gli raccontarono ciò
che avevano visto. Gli dissero che l'indio, che già altre volte era venuto e che ora già da tanto tempo attendeva di essere ricevuto, desiderava
vederlo. Il vescovo, udito ciò, ritenne che quella fosse la prova per convincerlo a mettere in atto quanto quel piccolo uomo sollecitava, e
subito dette ordine che fosse introdotto. Entrato, Juan Diego si prostrò alla sua presenza, come già aveva fatto le altre volte. Di nuovo
raccontò quanto aveva visto, udito e ammirato. Gli disse: « Mio signore, ho eseguito quanto mi hai ordinato. Sono andato a dire alla celeste
Signora, alla mia Padrona, santa Maria, l'amata Madre di Dio, che chiedevi una prova per potermi credere e dare il via alla costruzione della
sua santa casa nel luogo da lei indicato. E le ho detto anche, come tu mi hai incaricato, che ti avevo dato la mia parola di venirti a portare un
qualche segno concreto della sua volontà. Ella ha accolto benevolmente il tuo desiderio e la tua richiesta, purché sia rispettata e realizzata
anche la sua amata volontà. E oggi, di buon mattino, mi ha nuovamente inviato presso di te. Poiché aveva promesso di fornirmi il segno che
le avevo chiesto, subito mi ha accontentato. Mi ha mandato sulla cima del colle, dove io l'avevo vista precedentemente, affinché vi
raccogliessi diverse rose di Castiglia. E io le ho tagliate e gliele ho portate. Lei le ha prese con le sue sante mani e le ha avvolte nuovamente
nel mio ayate perché venissi a portartele e le consegnassi unicamente a te solo. Ben sapendo che la sommità del colle non era un luogo adatto
alla crescita dei fiori, in quanto c'è solo abbondanza di pietre, cardi, huizaches, cactus, mezquites, tuttavia non per questo ho dubitato.
Arrivato infatti sulla cima del colle, ho potuto ammirare un paesaggio paradisiaco. C'era una gran quantità di diversi fiori pregiati, pieni di
rugiada, luminosi. Io li ho tagliati. Ella mi disse che li portassi da parte sua. Quella era la prova, il segno che le chiedevi per realizzare la sua
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amabile volontà. Così sarebbe apparsa chiara anche la verità del mio messaggio. Ecco ora qui i fiori. Fammi il favore di accettarli».
L'immagine
Quindi aprì il suo bianco ayate, in cui erano deposti i fiori raccolti, e appena questi si sparsero per terra, subito sul mantello si disegnò e si
manifestò alla vista di tutti l'amata immagine della perfetta Vergine santa Maria, Madre di Dio, nella forma e figura in cui la vediamo oggi,
così come è conservata nella sua amata casa, nel tempio eretto ai piedi del Tepeyac e che invochiamo con il titolo di Guadalupe. Visto ciò, il
vescovo e tutti coloro che erano presenti caddero in ginocchio profondamente stupiti e ammirati. Poi si alzarono per vederla meglio e il loro
volto si riempì di tristezza e di afflizione. La guardavano non con curiosità, ma con cuore sincero. Il vescovo con le lacrime agli occhi,
rattristato, la pregò e le chiese perdono per non essere stato sollecito ad accogliere il suo messaggio e a eseguire la sua volontà. Rimanendo in
piedi, si accostò a Juan Diego, ne sfilò dal collo la tilma, su cui si era impressa l'immagine della celeste Signora, e andò subito a collocarla
nella sua cappella. Juan Diego trascorse ancora una giornata nella casa del vescovo, trattenuto come ospite. All'indomani il vescovo gli
disse: « Andiamo a vedere il luogo in cui la celeste Signora desidera che le sia costruito un tempio ». Intanto si cominciò immediatamente a
reperire gente che lo erigesse. Juan Diego, dopo aver indicato il luogo in cui la Regina del cielo voleva che le si innalzasse il tempio, chiese il
permesso di potersene andare. Voleva far ritorno alla sua casa per vedere lo zio Juan Bernardino, che era assai grave quando lo aveva lasciato
per andare a chiamare un sacerdote a Tlatelolco perché lo confessasse e lo preparasse a una buona morte. La celeste Signora, però, lo aveva
già assicurato che lo zio era ormai guarito. Ma non lo lasciarono andare a casa da solo. Alcuni vollero accompagnarlo. Arrivati a casa,
trovarono lo zio perfettamente guarito e in buona salute. Questi, da parte sua, si meravigliò molto al vedere il nipote accompagnato da tante
persone e gli chiese per quale motivo era oggetto di tanto onore. Juan Diego, allora, gli raccontò che quando era uscito di casa per andargli a
chiamare un sacerdote, gli era apparsa, presso il Tepeyac, la celeste Signora. Ella lo aveva mandato a Città di Messico per incontrare il
vescovo e invitarlo a costruirle un tempio sul Tepeyac. Gli aveva detto anche che non si affliggesse per la salute dello zio, perché già era
guarito. E ciò lo aveva molto consolato.
Quinta apparizione
Juan Bernardino confermò che la celeste Signora lo aveva guarito in quel preciso momento e rivelò, anzi, che lui stesso l'aveva vista
esattamente nella stessa forma in cui era apparsa a suo nipote. Aggiunse che anche lui aveva ricevuto il compito di andare dal vescovo a Città
di Messico e che, appena avesse avuto l'opportunità di recarvisi, gli raccontasse tutto ciò che aveva visto e la maniera miracolosa in cui era
stato guarito. Disse infine che la celeste Signora gli aveva fatto conoscere il titolo con cui si sarebbe dovuto invocare la venerata immagine: «
La perfetta Vergine santa Madre di Guadalupe ». Condussero allora Juan Bernardino alla presenza del vescovo perché lo mettesse al
corrente di tutto ciò che gli era successo e portasse la sua testimonianza. Entrambi, zio e nipote, rimasero ospiti per vari giorni nella casa dél
vescovo, fino a quando non fu eretto il tempio alla Regina del cielo sul Tepeyac, nel luogo stesso in cui era stata vista da Juan Diego. Il
vescovo, nel frattempo, trasportò nella cattedrale l'amata immagine della celeste Signora. La tolse allora dalla sua cappella privata, in cui si
trovava, per dar modo a tutto il popolo di poterla ammirare e venerare. Assolutamente tutti in città si commossero allorché si recarono ad
ammirare e pregare la preziosa immagine. Ne riconoscevano la provenienza soprannaturale. Le presentavano le loro suppliche. Erano stupiti
per il modo miracoloso con cui ella era comparsa sul mantello di Juan Diego: infatti la preziosa immagine non è stata dipinta da nessun uomo
sulla terra.
IN TILMATZINTLI
(« La tilma »)
di Antonio Valeriano
La tilma su cui apparve miracolosamente l'immagine della Signora del cielo era il mantello di Juan Diego: un ayate un po' ruvido e ben
tessuto. Di ayate erano, infatti, gli abiti di tutti i poveri indios; solamente i nobili, le personalità e i guerrieri valorosi indossavano mantelli
bianchi di cotone. L'ayate, come si sa, è fatto con ichtli, che deriva dal maguey. Questo prezioso ayate sul quale apparve la sempre Vergine
nostra Regina è costituito da due pezzi, uniti e cuciti con un filo sottile. E’ così alta l'immagine benedetta che, cominciando dalla pianta del
piede fino alla piccola corona, misura sei palmi d'uomo più uno di donna. Il suo bel volto è molto serio e nobile, un poco scuro. Il suo busto
prezioso appare umile: le sue mani sono unite sopra il petto, all'incirca dove comincia la cintura. E’ viola la sua cintura. Solo il piede destro
lascia un poco scoperta la punta del calzare color cenere. La sua tunica, per quanto si vede dal di fuori, è di colore rosato, che nelle ombre
appare vermiglio; ed è ricamata con diversi fiori tutti in boccio e dai contorni dorati. Appesa al collo ha una spilla rotonda dorata, con tratti
neri tutt'intorno e nel mezzo una croce. S'intravede al di sotto anche un'altra veste bianca e morbida, che fascia bene i polsi e ha le estremità
lavorate. Il suo manto, esternamente, è azzurro celeste; cade bene sulla sua testa; in nessun punto le copre il volto; e scende sino ai piedi,
restringendosi verso la metà: il suo bordo è tutto dorato e abbastanza largo, con stelle dorate sparse un po' dovunque in numero di quarantasei. Il suo capo è inclinato verso destra; e in alto, sopra il velo, è disposta una corona d'oro, con figure affusolate verso l'alto e larghe in
basso. Ai suoi piedi sta la luna, le cui punte sono rivolte verso l'alto. [L'immagine] si erge esattamente in mezzo ad esse e al sole, i cui raggi
la seguono e la circondano da tutte le parti. Sono cento i bagliori dorati, alcuni molto lunghi, altri piccoli e simili a fiamme: dodici
circondano il volto e il capo, e sono in tutto cinquanta che spuntano da ciascun lato. All'estremità di essi, una nube bianca frastagliata segue il
contorno delle vesti. Questa preziosa immagine, con tutto il resto, si muove sostenuta da un angelo, la cui figura termina praticamente alla
cintura; e niente di lui si vede fino ai piedi, come fosse inserito nella nube. Le estremità della veste e del manto della Signora del cielo, che le
cadono bene ai piedi, le afferra con le mani l'angelo, che ha la veste color vermiglio, con il collo dorato. Le sue ali spiegate sono di ricche
piume lunghe, verdi e di altri colori diversi. Le mani dell'angelo, che, a quanto pare, è molto contento di condurre così la Regina del cielo,
portano e sostengono la Vergine.
NICAN MOTECPANA
(« Qui si riferiscono »)
di Fernando de Alva Ixtlilxochitl
Qui si rsferiscono ordinatamente tutti i miracoli che ha compiuto ta Signora del cielo, la nostra benedetta Madre di Guadalupe. Quando per
la prima volta portarono l'immagine di nostra Signora di Guadalupe al Tepeyac, dopo che si finì di costruire il suo tempio, si verificò il primo
di tutti i miracoli che ella ha fatto. Ci fu allora una grande processione, in cui [l'immagine] fu accompagnata da tutti gli ecclesiastici che
c'erano, nessuno escluso, e da vari spagnoli sotto il cui potere stava la città, come pure da tutti i signori e nobili messicani e da altra gente
arrivata da ogni parte. Si ordinò e si adornò ogni cosa lungo il viale che da México conduce al Tepeyac, dove era stato eretto il tempio della
Signora del cielo. Tutti andarono in processione con grandissimo giubilo. La via traboccava di gente; e nel lago, che era molto profondo,
andavano non pochi nativi in canoe, alcuni facendo scaramucce. Uno degli arcieri, abbigliato secondo l'usanza chichimeca, tese un poco il
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suo arco e, inavvertitamente, fece partire all'improvviso la freccia e ferì uno delle scaramucce, trapassandogli la gola. Questi cadde.
Vedendolo ormai morto, lo condussero e lo distesero davanti alla sempre Vergine nostra Regina, che i parenti invocarono perché volesse
risuscitarlo. Dopo che gli ebbero estratto la freccia, non solamente ella lo risuscitò, ma guarì anche la ferita: gli rimasero solo i segni dove la
freccia era entrata e uscita. Allora egli si alzò: la Signora del cielo lo fece camminare, infondendogli allegria. Tutta la gente si meravigliò
molto e lodò l'Immacolata Signora del cielo, santa Maria di Guadalupe, che in questo modo realizzava già la promessa fatta a Juan Diego di
soccorrere sempre e difendere i nativi e coloro che la invocavano. A quanto si dice, questo povero indio rimase da allora nella benedetta casa
della santa Signora del cielo, dedicandosi a spazzare il cortile, il tempio, la sua entrata. Nell'anno 1544 scoppiò la peste e molto si spopolò la
grande città. Giornalmente, e senza alcun dubbio, erano più di cento le persone che venivano seppellite. E vedendo i reverendi frati
francescani che [la peste] non si placava e che non v'era rimedio, che avanzava da tutte le parti e che nostro Signore, datore della vita,
distruggeva la terra, provvidero a che si facesse una processione e che tutti andassero al Tepeyac. I reverendi padri radunarono moltissimi
bambini, femmine e maschi, che appena passavano i sei, sette anni; essi parteciparono assai composti alla processione che uscì dal tempio di
Tlatelolco; e per tutto il cammino andarono invocando nostro Signore, perché avesse pietà del suo popolo, cessasse la sua ira e mostrasse
compassione proprio per amore della sua preziosa Madre, la nostra purissima Regina, santa Maria di Guadalupe del Tepeyac. Così giunsero
al tempio, dove i religiosi levarono al cielo molte preghiere. E volle Dio, autore della vita, che per l'intercessione e le preghiere della sua pietosa e beata Madre subito si placasse l'epidemia: già il giorno dopo si seppellì assai meno gente; in ultimo, forse due o tre persone, finché
l'epidemia cessò. All'inizio, da poco giunta la fede in questa terra che oggi si chiama Nuova Spagna, la Signora del cielo, la purissima santa
Maria, moltissimo amò questi nativi e venne in loro aiuto perché si arrendessero alla fede, riprovando l'idolatria con cui andavano errando
per il mondo, nell'oscura notte in cui erano tenuti schiavi dal demonio. E perché la invocassero e confidassero nel suo potere, apparve a due
di loro. Il primo che meritò la preziosa immagine della nostra purissima Regina, e che sta qui vicino alla Città di México, fu Juan Diego nel
Tepeyac di Guadalupe; poi, l'immagine che si chiama « de los Remedios » apparve a don Juan in Totoltépec. La vide mentre se ne stava tra i
maguey, sulla cima di un piccolo colle, dove è ora il suo tempio; la portò a casa sua, dove la custodì alcuni anni; quindi, per custodirla, le
preparò un piccolo tempio di fronte a casa sua. Quando l'immagine era lì da qualche tempo, don Juan prese la peste. Sentendo che stava
molto male, e accorgendosi che non poteva più scamparne né alzarsi, supplicò i suoi figli, nativi di Totoltépec, che lo portassero al Tepeyac,
dove sta la nostra purissima e preziosa Madre di Guadalupe, che dista forse più di due leghe da Totoltépec; egli, infatti, sapeva che la Signora
del cielo aveva guarito Juan Bernardino, lo zio di Juan Diego, originario di Cuauhtitlàn, che ugualmente aveva preso la peste; e conosceva
tutti i miracoli che aveva fatto. Subito lo adagiarono su un letto di tavole e lo portarono al Tepeyac: dopo che l'ebbero deposto alla presenza
della Signora del cielo, la nostra benedetta Madre di Guadalupe, egli la pregò con lacrime, si umiliò davanti a lei e le chiese che gli facesse la
grazia di curare il suo corpo; forse poteva concedergli altri giorni in questo mondo, per servire lei e il suo amato Figlio. Ella accolse con
benevolenza la sua preghiera, molto si rallegrò e sorrise nel vederlo, e gli manifestò amore quando gli parlò: « Alzati, perché sei già guarito,
e torna a casa tua. Ti ordino che sulla cima del colle, dove sono i maguey e dove hai visto la mia immagine, tu eriga il tempio in cui essa deve
restare ». E gli comandò che facesse altre cose. All'istante egli guarì. Quindi, dopo aver pregato e averle reso grazie per il suo beneficio,
tornò a casa con i suoi piedi: non lo portarono più a braccia. Una volta arrivato, mise mano all'opera di erigere il tempio alla preziosa
immagine della Signora del cielo, che si chiama « de los Remedios», dove è ora. Terminato il suo tempio, ella entrò e da se stessa si collocò
sull'altare, come si trova oggi e come è dipinta in tutti i suoi miracoli. Un nobile spagnolo di questa Città di México, chiamato don Antonio
Carbajal, andava a Tollantzinco in compagnia di un giovane, suo parente. Passando per il Tepeyac, entrarono un momento nel tempio della
nostra purissima e preziosa Madre di Guadalupe; e lì, di fretta, pregarono e salutarono la Regina del cielo perché li soccorresse e li
difendesse, facendoli giungere felicemente a destinazione. Dopo essere usciti, ormai già in marcia sulla via, andavano discutendo della
Vergine: di come era apparsa la sua preziosa immagine, dell'evento prodigioso e dei vari miracoli che ella aveva compiuto per favorire
coloro che la invocavano. Mentre erano in cammino, il cavallo su cui stava il giovane a un certo punto cadde, perché si era imbizzarrito o
forse qualcosa lo aveva spaventato; poi 1' animale scattò repentinamente correndo per dirupi scoscesi, mentre quello tirava invano la briglia
con tutte le sue forze senza poterlo trattenere; circa mezza lega lo fece camminare, mentre i suoi compagni cercavano inutilmente di
arrestarne la corsa. Ma non ci fu modo di riuscirvi; andava come portato dal vento. Alla fine lo persero di vista e pensarono che avrebbero
trovato il giovane ridotto a pezzi, perché il luogo verso il quale si dirigeva correndo era molto pericoloso, pieno di dirupi scoscesi. Ma nostro
Signore e la sua pietosissima e beata Madre vollero salvarlo. Quando riuscirono a trovarlo, il cavallo era fermo con la testa bassa e le zampe
piegate: non poteva più muoversi. Il giovane pendeva per un piede, attaccato alla staffa. Vedendolo, si meravigliarono molto di trovarlo vivo
e che niente gli fosse successo né si fosse fatto male in alcun punto. Subito lo presero in braccio e gli liberarono il piede. Quando fu in piedi,
gli chiesero come si era salvato, poiché non gli era successo nulla; ed egli disse loro: « Avete ben visto che, uscendo da México, passammo
in fretta per la casa della Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di Guadalupe, da dove ripartimmo, ammirati della sua benedetta
immagine, che eravamo stati a pregare. Quindi, lungo la via venimmo discorrendo di tutti i miracoli che ella ha fatto e di come la sua santa
immagine sia apparsa per prodigio. Tutto ho conservato molto bene nella mia memoria. Così, quando mi sono accorto d'essermi messo in
grave pericolo, che in nessun modo potevo salvarmi, che in ogni caso andavo a perdermi o a morire e che mancavo di ogni aiuto, allora con
tutto il mio cuore ho invocato la purissima Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di Guadalupe, perché avesse pietà di me e mi soccorresse; e immediatamente vidi che essa stessa, così come appare nella preziosa immagine della nostra Regina di Guadalupe, mi soccorse e
mi salvò: prese la briglia del cavallo, che subito si fermò, le obbedì e s'inchinò, sembrando che dinanzi a lei piegasse le ginocchia, così come
si trovava quando siete arrivati». Lodarono dunque fervorosamente la Signora del cielo; poi proseguirono il loro cammino. Una volta ci fu
uno spagnolo che stava pregando in ginocchio davanti alla Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di Guadalupe. E avvenne che si spezzò
la corda con cui era appesa, di fronte a lui, una grande lampada, molto pesante, che cadde proprio sul suo capo. Tutti i presenti pensarono che
costui dovesse essere morto e si fosse rotta la testa, o che si fosse ferito gravemente, perché la lampada era caduta da grande altezza. Però
non solo non gli successe nulla, né si fece alcun male, ma nemmeno la lampada si danneggiò; il cristallo non si ruppe; non si sparse l'olio che
conteneva e non si spense la fiamma che vi ardeva. Tutti i presenti ammirarono molto il miracolo che in quell'occasione fece la Signora del
cielo. Il dottor Juan Vasquez de Acuna la ebbe sotto la sua custodia, essendo vicario per molti anni. Una volta accadde che, proprio mentre si
stava per dire messa presso l'altare maggiore, si spensero tutte le candele. Il sacrestano corse per primo ad accenderle; ma tardò un poco.
Allora il sacerdote, mentre stava aspettando che si riaccendessero le candele, vide uscire dai raggi della Signora del cielo due specie di
fiamme o lampi, che vennero ad accendere le candele di entrambi i lati. Molto si meravigliarono di questo miracolo tutti coloro che stavano
nel tempio. Poco dopo che la Signora del cielo si era mostrata a Juan Diego e assai prodigiosamente era apparsa la sua preziosa immagine,
essa fece molti miracoli. A quanto si dice, proprio allora sgorgò anche la piccola fonte che sta dietro il tempio della Signora del cielo, verso
oriente, nel punto dove ella scese incontro a Juan Diego, allorché questi non voleva farsi vedere dalla Signora del cielo, volendo andare
prima a chiamare il sacerdote perché confessasse e preparasse suo zio Juan Bernardino che era molto grave; nel punto stesso dove ella gli
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tagliò il cammino e lo mandò a cogliere fiori sulla cima del colle; dove anche gli mostrò il piano su cui si doveva erigere il tempio; e
dove, infine, lo inviò al signor vescovo, perché le si erigesse un tempio: tutte cose già dette brevemente. L'acqua che sgorga da lì, pur
sollevandosi, perché gorgoglia, non per questo trabocca: e non scorre molto, ma pochissimo: è limpida e odorosa, ma non gradevole; è un
poco acida e adatta a tutte le infermità di coloro che la bevono di buon grado e con essa si bagnano. Per questo sono innumerevoli i miracoli
che con essa ha fatto la purissima Signora del cielo, la nostra preziosa Madre santa Maria di Guadalupe. A una spagnola, abitante di questa
Città di México, cominciò a gonfiarsi il ventre, come a un'idropica, e sembrava che stesse per scoppiarle. I medici spagnoli fecero degli
esperimenti applicandole diverse medicine; niente le fece bene né migliorò la sua salute; anzi il ventre le andava sempre crescendo. Erano
ormai dieci mesi che portava quell'infermità ed era certa di dover morire, se non la guariva la Signora del cielo, la purissima santa Maria di
Guadalupe. Ordinò allora che la trasportassero in barella al Tepeyac, alla casa della Signora del cielo; di mattina l'alzarono, la portarono al
tempio e l'adagiarono alla sua presenza; ella la pregò dunque con tutto il suo cuore che avesse pietà di lei e le desse la salute; dinanzi a lei si
umiliò e pianse. Domandò che le dessero un poco d' acqua della fonte per bere; e come la bevve, si calmò e cominciò a dormire. Passato il
mezzogiorno, quando stava per suonare l'una, coloro che la portavano uscirono fuori un istante per ammirare le molte cose intorno e la
lasciarono sola, mentre dormiva e si riposava il suo corpo. Uno dei nativi che, per voto, stava spazzando il tempio, vide che da sotto la donna
spuntava una vipera terrificante, lunga un braccio e una spanna e assai grossa; si spaventò molto e strillò alla spagnola inferma; ella subito si
svegliò, si erse spaventatissima e gridò per invocare aiuto. La vipera fu uccisa e subito guarì e le si sgonfiò il ventre. Ancora quattro giorni
rimase lì, pregando ogni giorno la Signora del cielo che le aveva fatto la grazia di guarirla; e quando ritornò a casa, non la portarono più a
braccia, ma tornò con i suoi piedi, assai contenta di non sentire alcun male. A un nobile spagnolo, abitante in questa Città di México,
dolevano così fortemente la testa e le orecchie che sembrava gli stessero per scoppiare; niente gli faceva bene e ormai non poteva più
resistere. Comandò che lo portassero alla benedetta casa della Vergine, la nostra preziosa Madre di Guadalupe. Una volta giunto alla sua presenza, la pregò con tutto il cuore che lo favorisse e lo guarisse; e fece il voto di offrirle, se lo avesse guarito, una testa d'argento. Era appena
arrivato, quando guarì. Quasi nove giorni rimase nella casa della Signora del cielo. Poi tornò a casa sua contento; più niente gli doleva. Una
giovane, chiamata Catalina, era idropica. Vedendo che non le faceva bene niente, che era assai grave e i medici dicevano che non si doveva
più alzare altrimenti sarebbe morta, supplicò che la portassero al tempio della Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di Guadalupe. Non
appena l'ebbero portata, la pregò con tutto il cuore che le desse la salute; poi andarono a prenderla e la rimossero due uomini; ella mise tutto
il suo impegno per giungere fino alla fonte; fiduciosa, bevve l'acqua che lì scaturisce, e subito fu guarita. Appena ebbe bevuto, sembrava che
l'aria le uscisse da tutte le parti, specie dalla bocca. Era ormai sera, non le doleva nulla, quando visitò il tempio della Signora. Un frate scalzo
di san Francesco, chiamato fra Pedro de Valderrama, aveva molto male al dito di un piede: niente poteva più costituire rimedio, se non
l'amputazione, poiché aveva un cancro pestifero. Lo portarono d'urgenza alla casa benedetta della celestiale Signora di Guadalupe. Come
giunse alla sua presenza, sciolse lo straccio con cui era fasciato il dito del suo piede, che mostrò alla Signora del cielo, pregandola con tutto il
cuore che lo guarisse. All'istante guarì e a piedi se ne tornò felice a Pachuca. Anche un nobile spagnolo, chiamato don Luis de Castilla, aveva
un piede molto gonfio. Stava assai male perché imputridiva e ormai i medici non gli applicavano più nulla per curarlo. Era certo di morire. A
quanto si dice, il religioso di cui si è parlato sopra gli riferì d'essere stato guarito dalla Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di
Guadalupe. Ordinò quindi che gli argentieri gli costruissero un piede d'argento, grande come il suo, e lo mandò al tempio perché lo
appendessero dinanzi a lei. E alla Vergine si raccomandò con tutto il cuore perché lo guarisse. Quando partì il messaggero incaricato di
portare il piede d'argento, l'infermo era così grave che desiderava morire: ma quando tornò, il messaggero lo trovò in salute: la Signora del
cielo l'aveva già guarito. Un sagrestano, chiamato Juan Pavon, incaricato del tempio della Signora del cielo, la nostra amata Madre di Guadalupe, aveva un figlio cui si gonfiò il collo ed era molto grave: egli voleva morire, non potendo trovare sollievo. Lo portò alla presenza di
lei e lo unse con l'olio della lampada che stava ardendo. All'istante guarì: la Signora del cielo gli fece la grazia. Fin da subito, quando apparve
la preziosa immagine della nostra purissima Madre di Guadalupe, gli abitanti di qui, signori e nobili, la invocavano molto perché li difendesse e li soccorresse nelle loro necessità; e nell'ora della morte si affidavano completamente nelle sue mani. Fra questi v'era don Francisco
Quetzalmamalitzin, signore di Teotihuacan, quando il villaggio fu distrutto rimanendo senza difesa, perché tutti si opposero ad essere privati
dei frati di san Francesco. Il signor viceré, don Luis de Velasco, voleva che fossero presi in carico dai frati di sant'Agostino: la qual cosa gli
abitanti stimarono di grande molestia. Don Francisco, il signore, e i suoi cortigiani non potevano più nemmeno nascondersi, perché li
cercavano dappertutto. Venne infine ad Azcapotzalco e pregava in segreto la celestiale Signora di Guadalupe di ispirare il suo amato figlio, il
viceré, e i signori della Audiencia Real affinché gli abitanti fossero perdonati, potessero tornare alle loro case e fossero loro ridati i frati di
san Francesco. Accadde esattamente così: gli abitanti, il signore e i cortigiani furono perdonati e vennero ridati loro i frati di san Francesco,
che stessero a loro carico; e tutti tornarono alle loro case, senza più essere per questo molestati. Questo successe nell'anno 1558. E ancora,
nell'ora della sua morte, don Francisco si raccomandò alla Signora del cielo, la nostra preziosa Madre di Guadalupe, perché favorisse la sua
anima; e fece un lascito alla sua presenza, come risulta dalle prime righe del suo testamento, fatto il 2 marzo dell'anno 1563. Stando già nella
sua santa casa la purissima e celestiale Signora di Guadalupe, sono innumerevoli i miracoli che ha fatto, per beneficare questi nativi e gli
spagnoli e, insomma, tutte le genti che l'hanno invocata e seguita. Juan Diego, essendosi donato completamente alla sua padrona, la Signora
del cielo, era molto dispiaciuto che la sua casa e il suo villaggio fossero troppo distanti per servirla quotidianamente e spazzare [il tempio];
supplicò perciò il signor vescovo di potersene stare in una qualsiasi parte, vicino alle mura del tempio e servirla. Il signor vescovo accettò la
sua richiesta e gli dette una piccola casa accanto al tempio della Signora del cielo; infatti gli voleva molto bene. Subito quello si trasferì e
abbandonò il suo villaggio: partì, lasciando allo zio Juan Bernardino la sua casa e la sua terra. Ogni giorno si occupava delle cose spirituali e
puliva il tempio. Si prostrava davanti alla Signora del cielo; la invocava con fervore; frequentemente si confessava, si comunicava,
digiunava, faceva penitenza, si disciplinava, si col cilicio a rete si ascondeva al cingeva buio per potersi dedicare in solitudine alla preghiera e
rimanere a invocare la Signora del cielo. Era vedovo: due anni prima che gli apparisse l'Immacolata, era morta sua moglie, che si chiamava
Maria Lucia. Entrambi vissero castamente: sua moglie morì vergine; anch'egli visse vergine; non conobbe mai donna. Un giorno, infatti,
avevano ascoltato la predica di fra Toribio Motolinia, uno dei dodici frati di san Francesco che da poco erano giunti; egli aveva detto che la
castità era molto gradita a Dio e alla sua santissima Madre; che tutto veniva concesso a chi pregava la Signora del cielo; e i casti, che a lei si
raccomandavano, ottenevano quanto era nel loro desiderio, nel loro pianto e nella loro afflizione. Suo zio Juan Bernardino, vedendo che egli
serviva molto bene nostro Signore e la sua preziosa Madre, voleva seguirlo per restare unito a lui, ma Juan Diego non volle. Gli disse che era
più opportuno che restasse nella sua casa, per custodire le abitazioni e le terre che i loro padri e nonni avevano lasciato; perché così aveva
disposto la Signora del cielo, che solo lui rimanesse. Nell'anno 1544 scoppiò la peste e colpì Juan Bernardino: quando fu grave, vide in sogno
la Signora del cielo, che gli disse che era ormai tempo di morire; che si consolasse e non si turbasse il suo cuore, perché ella lo avrebbe
difeso nel momento della morte e lo avrebbe condotto al suo palazzo celeste, essendosi sempre consacrato a lei e avendola sempre invocata.
Morì il 15 maggio di quell'anno e fu trasportato al Tepeyac, per essere sepolto dentro il tempio della Signora del cielo; tutto fu fatto su ordine
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del vescovo. Quando morì, aveva ottantasei anni. Dopo sedici anni di servizio al tempio della Regina del cielo, Juan Diego morì nell'anno
1548, quasi contemporaneamente al signor vescovo. Nel momento del trapasso, molto lo consolò la Signora del cielo, la quale gli apparve e
gli disse che era ormai tempo che andasse a conseguire e godere in cielo quanto gli aveva promesso. Anch'egli fu sepolto nel tempio. Andava
per i settantaquattro anni, quando morì. La Purissima, col suo amato Figlio, portò la sua anima laddove gode della gloria celeste. Che anche
noi possiamo servirla così e che ci distacchiamo da tutte le cose ingannatrici di questo mondo, affinché possiamo raggiungere le eterne gioie
del cielo. Amen.
IL CODICE «1548»
In precedenza avevo potuto semplicemente annunciare
l'interessante scoperta del Codice « 1548 » in una collezione
privata. A qualche distanza di tempo dalla stesura di quelle
pagine, mi è ora possibile riferire brevemente i risultati delle
indagini condotte da esperti. Nell'Appendice, apparsa
recentemente, ai quattro volumi dell'Enciclopedia
Guadalupana sono stati pubblicati gli studi degli esperti che
permettono di determinare il tempo in cui fu scritto quel
codice e la sua autenticità. Vale la pena ricordare che si
tratta di un documento rettangolare (cm 20 x 13,3) dal
colore naturale della pelle, ricoperto da una patina
giallognola, con le grinze dovute ovviamente all'usura del
tempo. Le linee sono tracciate in color seppia e nero. Oltre
alla data, 1548, sono rappresentate due apparizioni della
Madonna di Guadalupe (la quarta, alle falde della collina,
più grande, e la prima, sulla cima del colle, più piccola), in
cui si distingue con sufficiente chiarezza l'immagine di Juan
Diego, mentre il profilo della Vergine è più sfumato.
Appaiono il glifo di Antonio Valeriano e la firma di fra
Bernardino de Sahagun. Si distinguono inoltre varie
iscrizioni in nahuatl con lettere latine, secondo lo stile degli
allievi indigeni del Collegio di Santa Cruz di Tlatelolco,
educati appunto da Sahagùn. Nel maggio del 1995 venne
formata una commissione incaricata di coordinare gli studi
destinati a comprovare scientificamente l'autenticità del codice. Alcuni esperti in codicologia indicarono le linee principali della ricerca nella
firma di Bernardino de Sahagùn, nella materia, nelle tinte e nel contenuto del manoscritto. Per quanto riguarda la firma dell'insigne
francescano, ci si rivolse al dottor Charles E. Dibble, cattedratico dell'Università dell'Utah, a Salt Lake City, USA, il quale ha dedicato gran
parte della sua vita allo studio dell'opera di Sahagùn e possiede una delle collezioni più complete delle sue firme in date diverse. In una
lettera del 12 giugno 1996, il dottor Dibble concluse che la firma che appare nel Codice « 1548 » è quella di fra Bernardino, a motivo di
alcune caratteristiche tipiche: le tre croci, il modo di scrivere « fray » e le lettere « d » e « b ». Il dottor Dibble ritenne che la data probabile
della firma deve situarsi tra il 1550 e il 1560. Si ricorse successivamente ai periti appartenenti all'Ufficio di Documentoscopia e Fotografia
della Banca di Messico, la cui conclusione, datata 18 settembre 1996, fu che « la firma in questione, attribuita a fra Bernardino di Sahagun,
che appare nel Codice « 1548», è di suo pugno e quindi autentica ». La coincidenza tra gli studiosi fece ritenere concluse le ricerche sulla
firma di Sahagun. Per la datazione del codice ci si rivolse all'Istituto di Fisica dell'U.N.A.M. (Università Nazionale Autonoma di Città di
Messico), il quale presentò la sua proposta di ricerca il 30 gennaio 1996. La commissione l'accettò a patto che non si sottomettesse il codice a
prove che potessero in qualche modo danneggiarlo. Si analizzarono le due facce della pelle al microscopio ottico e si osservò che le linee
sono assorbite dalla pelle, tranne nei punti in cui è più spessa, dove si formarono agglomerati di tinta. Per quanto riguarda la colorazione, si
notò che in corrispondenza di una grande concentrazione di tinta le linee risultano nere con punti azzurri e che ai punti di minore
concentrazione di tinta corrisponde un color seppia con tonalità ocra in alcune zone e rosso vivo in altre. La data, 1548, si distingue per la sua
finezza, presentando un tono rossiccio. Tutta l'area del documento è ricoperta da una patina giallognola, per cui sarebbe impossibile
modificare i disegni, le lettere e i numeri senza lasciare un'impronta visibile al microscopio. La conclusione è che nessuna parte del
documento è stata alterata. Il documento è stato fotografato nell'Istituto di Fisica dell'U.N.A.M. con pellicole a colori e in bianco e nero
normali e sensibili ai raggi infrarossi, con filtro e senza filtro. Attraverso gli ingrandimenti a colori si poté individuare nella data, fra il 4 e l'8,
una lineetta e una macchia. « La fotografia a raggi infrarossi non mostra assolutamente tracce non visibili a occhio nudo: questo ci fa
supporre che non si tratti di pigmenti metallici » fu la conclusione di Ana Catalina Izquierdo. La supposizione venne confermata più tardi
dall'Istituto di Fisica dell'U.N.A.M. Per quanto riguarda il contenuto del codice, nella parte centrale superiore si legge 154-8 in color
rossiccio. Sotto la data ci sono quattro righe scritte in nahuatl da una mano indigena con una calligrafia piuttosto irregolare e appena
leggibili, che secondo la traduzione di Rafael Tena significano: « Sempre nel 1531 apparve a Cuauhtlactoatzrn la nostra amata madre la
Signora di Guadalupe in Mesico. Il disegno che nella parte centrale sinistra richiama l'attenzione è un indigeno inginocchiato con il classico
ayate annodato sulla spalla destra, quasi di profilo e con lo sguardo rivolto verso destra. Da questa parte si può notare un'immagine della
Guadalupana in mezzo alle nubi, senza corona né raggi né angeli. L'insieme rappresenta senza dubbio l'ultima delle apparizioni della Vergine
a Juan Diego, alle falde della collina del Tepeyac. Nella parte superiore destra del documento fa capolino tra le cime dei monti il sole. Nel
lato opposto si osserva una piccola figura di indigeno pure con ayate e un'immagine della Madonna quasi del tutto cancellata. Nel lato destro
del documento, sotto il sole, si nota una costruzione piuttosto insolita, che non è stata identificata in modo soddisfacente, sotto la quale c'è un
indigeno seduto che guarda verso sinistra con il bastone del comando in mano e che ha sopra di sé una testa di uccello e un torrente
impetuoso. Tale disegno rappresenta senza dubbio il glifo di Antonio Valeriano. Sotto la figura si legge: «Juez anton vareliano ». Tale glifo è
simile a quello del Codice Aubin, a parte (1573), anche se lì la figura guarda verso destra. Joaquin Galarza, nei suoi Estudios de escritura
tradicional Azteca-Ndhuatl, afferma che il glifo di un nome cristiano è il tentativo di riproduzione fonetica del castigliano: ciò spiega la
presenza della testa dell'uccello e la corrente dell'acqua, che sarebbe la riproduzione fonetica del nome Antonio, atì-tototì (acqua-uccello).
Secondo Becerra Tanco, gli antichi abitanti del Messico erano soliti dipingere il gufo corrispondente al signore che governava negli anni in
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cui accadeva il fatto che veniva illustrato, per cui possiamo dedurre che in quel momento governava. quel giudice. Non si sa la data di
nascita di Valeriano, mentre è certo che morì nel 1605, secondo quanto afferma Juan de Torquemada, il quale nel capitolo X del libro V della
sua opera Monarchia indiana (1613) conferma che fu maestro nel Collegio di Santa Cruz di Tiatelolco e fu governatore di Città di Messico
per quarant'anni. Nel Codice Aubin, che è del 1573, oltre al glifo si dice: « Venne il giudice Antonio Valeriano... », alludendo al fatto che già
governava intorno al 1570. Mariano Cuevas ipotizza come data di nascita di Antonio Valeriano il 1516, per cui nel 1548 avrebbe avuto
trentadue anni. Quanto si è detto indica che Valeriano poteva essere giudice quando fu elaborato il Codice «1548». Nella parte centrale
inferiore del documento si distingue la firma che oggi si può attribuire a fra Bernardino di Sahagtin. In calce a sinistra si legge in nahuatl:
«Omomoquili Cuauhtlactoatzin », « morì degnamente Cuauhtlactoatzin ». Una delle sfide maggiori per gli studiosi consisté nelle tinte
utilizzate. L'Istituto di Fisica dell'U.N.A.M. propose un'analisi mediante la spettroscopia all'infrarosso e la spettroscopia «Pixe» (Participle
Induced X-Ray Emission). Si ottennero sedici spettri di altrettante parti del codice e ci si poté assicurare che non esistono nel documento né
resine né polimeri sintetici, per cui le tinte adoperate, che sono diverse, sono di origine naturale. Le sopresenti in quantità relativamente alte
sono calcio stanze zolfo e cloro. La mancanza di tracce di ferro e alluminio permette di affermare che le tinte usate sono di origine organica,
animale o vegetale, come potrebbero essere la seppia, mollusco marino simile al calamaro, o piuttosto piante come il Palo di Campeche o
Brasil o la cosiddetta Erba della Tinta che è la Coiytaria thimffolia. Tutto questo coincide con i risultati ottenuti attraverso la spettroscopia all'infrarosso. La conclusione dell'Istituto di Fisica dell'U.N.A.M. è categorica: « In base agli studi precedenti, esistono elementi sufficienti per
affermare l'autenticità del Codice “'1548” come documento elaborato nel secolo XVI ». Ora, una volta che gli esperti hanno determinato che
il documento in generale e in particolare la firma sono autentici, possiamo dar credito alla data che appare nello stesso, cioè 1548.
Nell'Appendice dell'Enciclopedia Guadalupana si tenta anche di ricostruire una probabile storia del codice. Gli alunni del Collegio di Santa
Cruz di Tlatelolco conoscevano Juan Diego e spesso si intrattenevano con lui per ascoltarne dalla viva voce il racconto delle apparizioni: uno
di essi riuscì a raccogliere tutto in un testo organico, il Nican Mopohua. E’ probabile che, alla morte del veggente, abbiano pensato di
scrivere un documento per commemorarlo. Forse lo stesso Valeriano partecipò alla stesura del codice insieme a ex compagni di studio. Alla
fine fu chiesto a Bernardino de Sahagùn di apporre la sua autorevole firma. Il primo a ereditare questo documento - insieme a molti altri,
come il Nican Mopohua - fu Fernando de Alva Ixtlilxochitl, il quale l'avrebbe prestato a Luis Becerra Tanco e poi l'avrebbe lasciato in
eredità al proprio figlio Juan, che lo cedette a Carlos de Sigùenza y Gongora. Tutto questo si può dedurre dalla dichiarazione di Becerra
Tanco, secondo cui Fernando de Alva gli prestò una relazione in nahuatl delle apparizioni, che egli tradusse. Tale racconto fu incluso nel suo
libro pubblicato postumo La felicidad de México. Becerra Tanco specifica che gli antichi conservavano la memoria degli eventi accaduti
mediante dipinti su pelle di cervo, o di altri animali, debitamente lavorata in modo da risultare come una pergamena. Inoltre erano soliti porre
la figura dei governanti e dei signori durante il cui regno avvenivano detti avvenimenti. Tra i fatti rappresentati ci fu anche.l'apparizione del
Tepeyac. In particolare Becerra Tanco afferma d'aver visto nelle mani di Fernando de Alva molte carte geografiche e cronache di
avvenimenti, tra cui la raffigurazione della miracolosa apparizione di nostra Signora di Guadalupe nonché l'immagine di Juan Diego
inginocchiato. Sembra proprio che stia descrivendo il Codice «1548». Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che all'inizio dell'opera postuma
La felicidad de México fu pubblicata una stampa che somiglia a tal punto al Codice «1548 » che pare impossibile trattarsi solo di una
coincidenza. Tale stampa, che apparteneva a Becerra Tanco, deriva da un'incisione in legno o metallo che produceva fedelmente numerose
copie. L'incisione originale, però, è senza dubbio precedente al 1675, anno di pubblicazione de La felicidad de México, e più esattamente
risale al 1590 circa. La culla di quest'incisione non fu il Messico, ma la Spagna: Juan Diego è stato disegnato da qualcuno che non vide mai
un indio da vicino, perciò i suoi lineamenti sono tipicamente iberici. Anche la laguna che raggiunge le falde del colle denota nell'autore
scarse conoscenze geografiche dei luoghi dell'apparizione, mentre è esatto il nodo sulla spalla destra con cui gli indigeni usavano allacciare
l'ayate. In calce c'è una legenda che presenta caratteristiche tipiche del secolo XVI, come il modo di scrivere la « a » e la « p», e recita così: «
Nostra Signora di Guadalupe apparsa in Messico ». Questa incisione, nota come la Seviltana, non è l'unica che derivi dal Codice « 1548».
Esiste un'altra incisione di Antonio de Castro che pure s'ispira nei dettagli al codice che stiamo esaminando e che lo storico Mariano Cuevas
definisce come «il ritratto più antico di Juan Diego »: ha il pregio di evidenziare alcuni tratti ora quasi cancellati, come l'immagine della
Madonna nella prima apparizione sulla collina, che appena si riesce a indovinare nel nostro codice, e la figura di Juan Diego, giuntaci più
chiara. È probabile che Antonio de Castro abbia conosciuto il Codice «1548» attraverso Becerra Tanco. Quando questi, nel 1666, pubblicò
Origen mitagroso del Santuario de Nuestra Senora de Guadalupe, ossia la prima versione de La felicidad de México, scelse appunto
quest'immagine guadalupana, firmata da Antonio de Castro. Per quanto riguarda, poi, la supposizione che Sigùenza y Gongora abbia
posseduto il Codice «1548», la si deduce dal fatto che egli conservò tutti i documenti già appartenuti a Fernando de Alva Ixtlilxochitl e
ricevuti da suo figlio Juan de Alva. Non dimentichiamo che Sigùenza y Gongora fu l'unico che affermò con assoluta certezza che il nome
nahuatl di Juan Diego era Cuauhtlactoatzin, pur senza indicare la fonte ditale informazione. Ora, con la scoperta del Codice «1548», siamo
di fronte all'unico documento anteriore a quello di Siguenza e quindi alta probabile fonte delta sua informazione, dato che nel codice per ben
due volte si menziona il nome di Cuauhtlactoatzin. Quanto siamo andati dicendo autorizza a pensare che don Carlos de Sigùenza y Gongora
abbia avuto tra le mani il Codice «1548». Infine, nel 1931, fu pubblicata una modesta opera dal titolo México y ta Guadalupana, che ebbe fra
gli autori il direttore dell'Archivio Generale della Nazione, Francisco Fernandez del Castillo, e che riproduce illustrazioni definite dagli autori
«inedite o poco conosciute». In calce alla pagina 25 si può notare un glifo che sembra proprio copiato dal Codice «1548», nel quale viene
rappresentato Valeriano e inoltre con lo stesso errore: « Vareliano » invece di «Valeriano ». In conclusione, sapendo che il codice in
questione porta la firma di Sahagun, morto nel 1590, si può essere certi che esso è del secolo XVI e che da esso derivano le illustrazioni e
incisioni, di cui si è detto, pubblicate per la prima volta le prime tre nel secolo XVII e la rimanente nel XX secolo. Tra le obiezioni al Codice
«1548» ci sono quelle di coloro che dubitano dell'autenticità della firma di Bernardino di Sahagun, in base a quanto il grande missionario
scrisse anni dopo nella sua Historia general de las cosas de ta Nueva Espana, dove affermò - in linea d'altronde con la Chiesa che non si era
ancora pronunciata - che non si sapeva «nulla di certo» intorno alla fondazione di un tempio dedicato a nostra Signora di Guadalupe sulla
collina ove precedentemente ne esisteva uno dedicato alla dea Tonantzin. E’ probabile che temesse un ritorno all'idolatria, al quale vedeva
propensi gli indigeni; tuttavia non siamo per questo autorizzati a credere che Sahagun volesse negare le apparizioni. Il Codice «1548» viene
dunque a smentire il silenzio precedente al libro di Miguel Sanchez, scritto nel 1648, fatto che induceva alcuni a dubitare della storicità delle
apparizioni. Le conclusioni presentate dall'Appendice dell'Enciclopedia Guadalupana costituiscono un pronunciamento definitivo che
permette di affermare che siamo ora di fronte a un documento contemporaneo al tempo delle apparizioni che resiste all'esame della critica
storiografica e che può essere considerato come una prova della storicità dell'evento.
12 dicembre 1997
Queretaro, Qro., Mèxico.