Da Facebook a faceback ritorno al buon vicinato

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Da Facebook a faceback ritorno al buon vicinato
uomo
oggi
social street
Da Facebook a faceback
ritorno al buon vicinato
di G i u l i a C a n a n z i
Le strade sociali
o social street
sono nate in
via Fondazza a
Bologna, grazie a
una buona idea e
ai social media.
Oggi la comunità
virtuale è
diventata reale
e la sua gioia
di vivere sta
contagiando
l’Italia e alcuni
Paesi del mondo.
Messaggero
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di
sant
U
na serie di ritratti fissati a un filo con le
pinze da bucato, lungo un muro di mattoni rossi.
Facce come panni stesi al sole. Volti di anziani, di giovani
e bambini. Occhi chiari e visi
rugosi; aperti sorrisi e sguardi enigmatici; espressioni fiere e berretti di lana indossati
come corone. Chi fosse passato per via Fondazza, strada nel centro storico di Bologna famosa per essere stata
la via del pittore Giorgio Morandi, i primi giorni del febbraio scorso, non poteva fare
a meno di domandarsi come
mai illustri sconosciuti fossero immortalati come star del
cinema. Il titolo della mostra,
«I volti di via Fondazza», non
lasciava dubbi: gli abitanti di
’Antonio
aprile 2014
quella via, una come tante a
Bologna, con i portici e i palazzi colorati, rivendicavano
la loro appartenenza. Con un
orgoglio inusitato.
Via Fondazza è la prima social street (strada sociale)
d’Italia e forse del Pianeta e
i suoi abitanti, ribattezzati
«fondazziani», come fossero
esseri d’altri mondi, rappresentano «uno dei più interessanti laboratori d’innovazione
sociale del momento». A parlare è Luigi Nardacchione, 64
anni, manager di ricerca e sviluppo del settore farmaceutico ora in pensione, amministratore della social street via
Fondazza. È metà marzo, e ci
siamo dati appuntamento giusto al centro della strada, al
civico 43, in corrispondenza
del fruttivendolo Masood, pakistano d’origine, fondazziano entusiasta. Gran parte di
quelle foto, appese in strada
appena un mese prima, sono
state scattate proprio di fronte al suo negozio. Un set fotografico in piena regola proprio
accanto alle sue arance. «La
social street – continua Luigi
– non è un club, non è un’associazione, non è un partito,
è un gruppo di persone che
vivono nello stesso posto e
che hanno scelto di socializzare, di scambiarsi informazioni, favori e competenze, e
di fare delle cose insieme». Il
buon vicinato, insomma, che
risorge a dispetto dell’anonimato delle città moderne. Incredibile e normale al tempo
stesso.
tatti». Da quel momento via
Fondazza esce dalla cronaca
di Bologna, rimbalza sui media prima italiani e poi stranieri. Ed esplode il fenomeno
social street: 40 a Bologna, altrettante a Milano, poi Roma e
poi una pletora di nuove esperienze diffuse su tutto il territorio nazionale. «A oggi le
social street italiane sono 199
e 10 mila le persone coinvolte – afferma Saverio Cuoghi,
consulente d’azienda, promosso sul campo amministratore
della rete nazionale –. Crescono al ritmo di due nuove esperienze al giorno». Da qualche
settimana fioccano richieste
anche dall’estero, tanto che
Federico, per forza di cose, si
sta un po’ specializzando: «In
due settimane sono nate quattro social street a Lisbona, una
a Santiago del Cile, una a Fiume, in Croazia, un’altra vicino a Nelson, in Nuova Zelanda. Non è facile seguire tutto, perché ognuno di noi ha
un lavoro, impegni familiari
e siamo tutti volontari. Ci è
capitata una cosa eccezionale e non ci tiriamo indietro».
Cézaro De Luca
Nel vicino parchetto La Vigna Fontana, cuore verde di
via Fondazza, stiamo per incontrare gli altri. Federico Bastiani, 36 anni, giornalista, è il
fondatore di questa esperienza, nata quasi per caso. «Era
settembre dell’anno scorso –
racconta –. Vivevo a Bologna
da poco, avevo un figlio di due
anni e non conoscevo nessuno, neppure nel mio palazzo. Mi sono chiesto semplicemente come potevo contattare altre famiglie per far giocare insieme i bambini. Ho creato un gruppo chiuso in Facebook: “Residenti in via Fondazza” e appeso i volantini in
zone strategiche per avvisare
dell’iniziativa. Credevo che
mi rispondessero in 3 o 4, mi
è arrivato un diluvio di con-
Gratis
è social
In una social street, chiunque
abbia bisogno di un’informazione o abbia qualcosa da mettere in comune scrive nella bacheca virtuale: «Sono qui da
poco qualcuno mi sa indicare
un medico? Sto per andare in
vacanza e ho verdura fresca in
frigo: qualcuno la vuole? Sono uno studente e ho bisogno
di un letto, chi mi può aiutare? Attenzione: ci sono truffatori che si presentano come
impiegati dell’Enel». Ebbene
quei messaggi lanciati via rete
non restano mai senza risposta: «Anzi, – testimonia Luigi
– appena scrivi ti contattano
almeno in tre, quasi in tempo reale. Pian piano senti che
sei dentro una comunità, che
è sempre meno virtuale e sem-
pre più reale. A un certo punto, per regalare la sedia o per
prestare il trapano, sei costretto a scendere in strada e a incontrare il vicino. Dopo un po’
scopri che vivi accanto a persone interessanti e che è davvero bello andare a prendere
un caffè insieme e magari invitarsi a cena la sera». Facebook fa da apripista, smorza
la diffidenza, abbassa le difese, il resto lo fa la conoscenza diretta. Insomma, con un
gioco di parole, potremmo dire: da Facebook a «faceback»,
cioè al ritorno del «face to face», il faccia a faccia. Quei volti in mostra non sono solo un
esercizio di buon vicinato, sono il ritorno alla socialità, alla
solidarietà, alla gratuità. Partendo dalla rete. «Dal virtuale al reale, dal reale al virtuoso» chiosa Luigi mal celando
la soddisfazione.
«Questa esperienza è eccezionale da più punti di vista
– spiega Marina Artusa, sociologa e giornalista argentina che su Via Fondazza e sulle Social street italiane sta facendo un dottorato di ricerca –. A differenza degli altri
esperimenti di aggregazione dal basso, qui il motore
dell’esperienza non è un interesse comune o un problema da risolvere, ma il desiderio di socialità, di fare comunità senza alcuno scopo. L’altra eccezionalità riguarda il
mezzo: Facebook qui è usato al rovescio. Normalmente
serve a mettere in contatto i
lontani, qui invece fa entrare
in relazione i vicini. Non ha
più senso quindi nascondersi dietro altre identità, ci devi mettere la
faccia».
Mentre parliamo seduti sulla panchina
del parco, tra le grida dei bambini e le
corse dei cani, la
gente passa e saluta. Si conoscono
tutti. Qualcuno si
Felici
di esserci
Una foto che ricorda
la mostra «I volti di via
Fondazza», allestita
lungo la strada nel
febbraio scorso.
Sotto, Federico Bastiani,
fondatore di Via
Fondazza Social Street.
Messaggero
aprile 2014
Cézaro De Luca
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social street
tricase – centro storico social street
Le meraviglie di Manuela
Tricase (LE), 20 mila
abitanti, un borgo antico
e caratteristico, nel lembo
estremo del Salento, nel
Capo di Leuca. Qui è nata,
nell’ottobre scorso, una
delle prime social street del
Sud Italia, per iniziativa di
Manuela Baglivo, tenace e
creativa 36enne, esperta di
comunicazione nel lavoro e, a
quanto pare, anche nella vita.
Msa. Perché, Manuela, hai
iniziato questa esperienza?
Baglivo. A volte le scelte
sono frutto della propria
storia. Io tornavo a Tricase
dopo 13 anni di studio e
di lavoro, vissuti tra Roma,
Bologna e Torino. Tornavo a
casa ma mi sentivo spaesata,
non conoscevo più nessuno.
I miei coetanei erano in
maggioranza fuori e il clima
sociale era cambiato. Nei primi
tre anni avevo frequentato
sempre le stesse persone,
sentivo che dovevo fare
qualcosa. Poi, per caso, lessi
un articolo su Via Fondazza:
mi sembrò un regalo. Qualche
ora dopo avevo aperto il
gruppo Facebook «Centro
storico Tricase» e appeso un
volantino sul portone di casa,
proprio nel cuore del Paese.
Convinzione comune è
che al Sud ogni via sia
una social street, che
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sia normale per la gente
socializzare e aiutarsi. E
invece?
E invece no. Ci si saluta
magari, ma poi ognuno si
rinchiude nella propria casa.
Credo sia colpa della crisi,
perché nella mia infanzia
ricordo lunghi pomeriggi di
gruppo passati dalla vicina
di mia nonna: noi bambine
giocavamo, mentre le
donne passavano il tempo
a ricamare, a pregare, a
scambiarsi confidenze.
È stato facile rompere il
ghiaccio?
No, affatto. A novembre e
dicembre ancora stentavamo
a partire, tanto che mi
domandavo se continuare
o meno. La diffidenza era
grande. La gente mi chiedeva:
«Ma tu cosa ci guadagni?».
E io continuavo a ripetere:
«Niente». Io, però, sono
tenace: oggi siamo in 120,
la mia casa è un porto di
mare e nel centro storico c’è
molto fermento. Sento felicità
nell’aria.
Secondo te perché è
successo?
La socialità era stata messa da
parte, ma in realtà mancava
a tutti. Oggi non solo ci si
saluta, ma ognuno di noi sa
che può contare sui vicini.
Dagli incontri al caffè nascono
idee e progetti. Per esempio,
domenica riprenderemo
in mano le scope, come
facevamo un tempo, e
puliremo il pezzo di strada
davanti alle nostre case.
Pianteremo fiori nei vasi e il
nostro centro storico sarà più
bello. La bellezza è energia,
non permette a nessuno di
abbattersi. Poi, da cosa nasce
cosa, e così ultimamente due
insegnanti in pensione danno
ripetizioni di latino e inglese
gratuitamente a un gruppo
di ragazzi, due o tre volte alla
settimana. Oggi gli anziani
vanno su Facebook grazie
ai figli o ai nipoti, tutti sono
informati di ogni iniziativa.
Che cosa ti ha stupito di
più?
Molti che collaborano ai
gruppi sono laureati: il loro
attivismo, importantissimo
per la nostra comune causa,
mi fa pensare che, però, c’è
poco lavoro. D’altro canto
ho incontrato tanti giovani
laureati che sono ritornati
nella loro terra e oggi hanno
mille idee. Alcune le hanno
pure realizzate: c’è chi ha
aperto botteghe particolari,
chi fa l’interior designer, chi
ha fondato una cooperativa
agricola.
Qual è il tuo sogno nel
cassetto rispetto a questa
esperienza?
Vorrei che tutte queste
social street entrassero
in collegamento reale e
insieme trovassero le idee
per cambiare il modo di
stare insieme, per riattivare
qualcosa che non c’è più.
Mi piacerebbe che la Puglia
andasse in Emilia Romagna,
un po’ come fanno i grandi
con i congressi, solo che noi
lo faremmo per i cittadini. E
che magari un poco alla volta
riuscissimo a cambiare anche
la politica.
ferma. Social street e social intervista. Ci sta. A prima vista,
questa socialità sembra la riscoperta dell’acqua calda, il ritorno al piccolo mondo antico dei nostri nonni. «Ma non
è così – irrompe Luigi –, l’abbiamo capito da poco. Un tempo era normale salutarsi, socializzare, scambiarsi aiuto,
oggi è come se fossimo tornati indietro ma su una spirale
ascendente: siamo arrivati allo stesso punto ma su un livello superiore. La socialità oggi
non è scontata, la devi volere,
te la devi guadagnare, perché
tutto rema contro». La fretta,
la solitudine, la diffidenza, i
legami spezzati, le case come
dormitori, il tempo che è diventato denaro e la convinzione che «se qualcosa è gratis è
una fregatura» conclude Marina. Come criceti in una ruota. Quasi seguendo il filo dei
pensieri Luigi continua: «Inizio a credere che questa sia
una rivoluzione. Se ci facciamo caso, ognuno di noi vive
solo all’interno del lato economico della vita, come se al
di fuori non esistesse altro. La
social street rompe questa logica, libera dagli schemi tutte
le relazioni».
Ma non c’è il rischio che sia
un fuoco di paglia, il classico
sogno che svanisce all’alba?
Saverio, dall’alto delle quasi
200 social street italiane, non
nasconde le difficoltà: «È importante che ci siano amministratori di social street attivi,
responsabili, capaci di sacrificarsi. Meglio se sono un gruppo, come noi. Qualcuno deve
tenere le fila, altrimenti l’esperienza si blocca». L’altra cosa
importante è «non perdere
l’anima»: «Bisogna mantenere la barra dritta sull’obiettivo,
che è la socialità – spiega Federico –, altrimenti il rischio
è di essere strumentalizzati o
di riproporre in modo diverso lo schema economico dominante». Non è importante
neppure che tutti partecipino
Cézaro De Luca
immediatamente: «La situazione è così sclerotizzata –
spiega Luigi – che per invertire la rotta ci vogliono tempo
e pazienza. In via Fondazza ci
sono 850 iscritti, ma solo una
cinquantina di essi si mette
pienamente in gioco. Eppure,
giorno per giorno, man mano che la comunità si crea, la
curva degli attivi aumenta».
Un laboratorio
a cielo aperto
L’economia non è l’obiettivo, ma non è bandita. «C’è
un’economia di ricaduta che
è accettabile e auspicabile –
continua Luigi –. Per esempio,
tornare ai piccoli negozi della
via nei quali, mentre ti affettano la mortadella, puoi scambiare due chiacchiere. Magari
si compra poco e spesso, perché la merce è un po’ più cara, ma si evitano gli sprechi
e ci si guadagna in socialità.
Quella che ci piace è l’economia del ciabattino sotto casa,
che è gentile con tutti ma fa
gli sconti solo al vecchio che
conosce da sempre, perché
sa che con 500 euro al mese
è duro vivere». «Potrebbe anche essere – aggiunge Saverio
– che nel tempo, da un’esperienza così, possano nascere occasioni di lavoro: penso
per esempio al fatto che solo
gli abitanti di un quartiere conoscono così bene il territorio da essere in grado di gestirlo al meglio o di coglierne
le potenzialità». Ma tutte queste sono ricadute, frutti maturi di una comunità che cresce.
L’esperienza delle social street è ricca di spunti, ma anche
di lati ancora poco chiari. Può
bastare l’appartenenza a una
strada per creare comunità?
«E chi lo sa? – ammette candidamente Luigi – . Nelle social street prima viviamo e dopo, se è il caso, teorizziamo.
Ripeto, siamo un laboratorio,
possiamo anche finire domani. Tuttavia credo che per creare comunità bisogna puntare su ciò che unisce. Per esempio, abbiamo cercato di dare a
tutti “la maglia di via Fondazza” nella speranza che tra di
noi ognuno dismetta tutte le
maglie che possono dividere:
quelle di destra e di sinistra,
di povero o di ricco, di giovane o di vecchio, di extracomunitario o di locale. In alcune strade d’Italia i ragazzi insegnano agli anziani a usare
Facebook, mentre quelli come
Masood, il nostro fruttivendolo pakistanfondazziano avvisa delle iniziative tutti quelli
che Facebook non ce l’hanno».
Che creare una social street non sia un gioco da ragazzi ora è assolutamente chia-
ro. Eppure il contachilometri delle nuove social street in
Italia e nel mondo continua a
girare. Ora chiamano anche
dal Brasile e dalla Francia,
per capire che cos’è questa
novità dei «pittoreschi italiani». Come mai tanto entusiasmo? È l’inconsapevolezza
dell’impegno o il bisogno di
un orizzonte nuovo?
«Io credo – afferma Marina –
che la crisi abbia messo in luce una vulnerabilità collettiva dovuta all’incertezza, alla
precarietà. Vulnerabilità che
può anche tradursi in stanchezza per un sistema, in pesantezza della solitudine, in
bisogno di riconoscersi parte di un tutto e di avere relazioni significative. Il sociologo Bauman nel suo Voglia di
comunità afferma che l’identità è un surrogato della comunità, viene dopo. Il bello
di quest’esperienza è che io
sto vedendo applicate spontaneamente teorie sociologiche correnti, secondo le quali
in questa società dei consumi
e della globalizzazione l’unica speranza è riscoprire il capitale sociale e investire sul
legame di fiducia e solidarietà. Quando tempo fa leggevo
queste tesi, pensavo: “sì, magari!” Figuratevi ora che ne
ho un esempio vivente giusto
di fronte agli occhi».
n
La rivoluzione
dei vicini
Foto di gruppo per
alcuni membri di Via
Fondazza Social Street.
Pagina accanto,
Manuela Baglivo,
fondatrice di Tricase Centro storico
Social Street.
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