Per il compleanno di Antonia Pozzi
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Per il compleanno di Antonia Pozzi
Per il compleanno di Antonia Pozzi 13 febbraio 2012 Teatro Franco Parenti di Roberta De Monticelli Questa è una piccola lettera per te, una lettera per la festa dei tuoi cent’anni, Antonia. Voglio cominciarla coi primi versi di una tua poesia – una delle più belle: Le montagne Occupano come immense donne la sera: sul petto raccolte le mani di pietra fissan sbocchi di strade, tacendo l’infinita speranza di un ritorno. Mute in grembo maturano figli all’assente [……] Ora a un franare di passi sulle ghiaie grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo batte in un sussulto le sue ciglia bianche. Madri. E s’erigon nella fronte, scostano Dai vasti occhi rami delle stelle: se all’orlo estremo dell’attesa nasca un’aurora e al brullo ventre fiorisca rosai. Ecco. Se penso a te, così mi appari. Una delle mie montagne – le immense donne che tacciono una speranza infinita. Una delle madri che ho avuto, splendide, alte abbastanza da scostarsi dalla fronte i rami delle stelle – per vedere se all’orlo estremo dell’attesa nasca un’aurora…. Come lo riconosco bene, quel franare di passi sulle ghiaie. So come si cammina sui ghiaioni – gli stessi, credo, che il tuo piede ha calcato. Le stesse montagne, lo stesso mare, le stesse stelle abbiamo amato. Le cose che restano ferme, quello sono ancora lì, come le hai viste e fotografate tu. Del resto, è cambiato tutto. Eppure noi abbiamo camminato sulle stesse vie, perfino qui - lungo gli stessi marciapiedi di questa città. Ricordo una passeggiata che feci, lunga, risalendo il corso di un fiume, un povero piccolo fiume strozzato quasi alla fonte dalle condotte forzate di una grande diga – lo conoscevi bene anche tu, quel povero fiume strozzato. Volli risalire fino alla vera sorgente, che non è facile trovare, oltre l’invaso. Antonia cara, da principio mi sei apparsa così, materna e immensa come una montagna – eppure non ho mai smesso di rivolgermi a te come a una coetanea, anche se man mano che passavano gli anni tu mi parevi sempre più giovane e nuova, quanto migliori e più adatte all’ascesa le tue lunghe gambe delle mie, su per quei ghiaioni…. Nella mente mi battevano povere parole che ti avrei mandato in una lettera, quel giorno che improvvisamnentre mi sei apparsa non madre, ma sorella. Ecco: si partiva dalle bocche dell’Adda dietro l’Albergo Vecchio dove è l’imbocco delle prime estati. Salgono a balze e prati fino alle bocche dell’acqua confusa di polle solforose e di ghiacciaio. Ora sempre nascente, acqua sorella confusa vita, promessa ventura parola che resisti, impura - dove per condotta forzata grazia stravolta in furia chiami profonda ancora tibi laetitiam. A questo nata e sviata a servire dove - sorella, vita, acqua, parola sorgi tenue, segreta. Da Boscopiano vedi la centrale selva d’alta tensione. Dov’era il fiume un rivolo lucente, acqua di neve che non toglie la sete. Dove rinasce non lo vedi ancora: guardavo in alto e mi tornò alla mente l’onesto Nicodemo. E vidi fra due abeti l’invisibile, altissimo filo di ragno luccicare al sole. Di lì sale la strada militare ai laghi di Cancano. Come nell’alto il largo scintilla la sua vita arginata alla fonte Dal basso appare prima della diga un riso che dilaga e non discende - una quiete di smalto. Non ha corso né storia oltre l’invaso ma l’alto si fa largo liquido prato in lei si sciacqua contenta fra gli spalti. No, non pare soffrire. Pare una vasta domenica d’acqua. Ma in questi anni, se il pensiero si volge a quell’età in cui anch’io potevo ancora chiamarti sorella, un’altra montagna mi si para davanti. Nera, fangosa, morta, enorme e informe. Io sono nata sull’altro versante della montagna di male e di morte, fascismo o indifferenza - che ha sepolto la tua giovinezza. Oltre le ultime balze, dove già da un pezzo era rifiorita la primavera e poi l’estate, e pareva che nessuno ricordasse neppure più che era esistita una Pasturo come la tua – con l’atroce miseria e anche la poverissima bellezza dell’anteguerra. Nascevo a una tarda, lentissima, svagata consapevolezza, lungo le strade italiane del boom, mentre la speranza vera già dava le sue dimissioni, nel rapido crescere di asfalti, ingordigie e facili fortune che chiama- rono “miracolo italiano”, e rendeva questa Lombardia sempre più somigliante allo stato gaddiano del Serruchon, la Brianza de La cognizione del dolore…Passarono gli anni sessanta e settanta, sembravano non aver lasciato traccia. Franco Fortini, che era un vecchio ragazzo dei tuoi tempi e abitava dietro casa mia, a noi trentenni ci chiamava “i fratelli angelici”, intendendo forse prendersela a modo suo, un po’ sarcastico, col nostro supposto intimismo, fatto ormai di disimpegno civile e di prolungata cameraderie, ma senza più nemmeno le rotture e i drammi esistenziali, la sperimentazione e le sregolatezze degli anni che furono i tuoi, almeno dove ancora non era arrivata la massa di piombo e infamia dei fascismi. Lui ci rimproverava questa sonnolenta gentilezza: ma non aveva voluto vedere quanto il male si fosse fatto meschino, anche nelle nostre beneducate coscienze. Il male s’era fattobanale. Ma sotto quella coltre di piombo e di infamia cosa facevano, Antonia, i tuoi maestri? Mah, a volte li chiamano ancora “i neo-illuministi lombardi”. Ma cosa illuminavano? Mi pare di provare ancora tutto lo sconcerto e l’angoscia che sentivo io, di fronte ai tuoi compagni poi diventati piccoli maestri, ma maestri di cosa? Già tu ti sconcertavi di questo cocktail di Dostoevskij, storicismo e filosofia tragica che così a lungo avrebbe imperversato anche dopo, oh molto dopo, come se la lezione non bastasse mai. Ecco le tue parole sconcertate: “….una visione filosofica come quella di Banfi applicata alla vita di un giovane porta a spaventose conseguenze pratiche . Comprendere tutto, tutto giustificare. L’assassino, l’idiota, il santo. Ma allora anche noi possiamo farci assassini, pur di non rifiutare nessuna esperienza?” E pensare che Banfi era molto più quadrato, morale e razionale, in filosofia, dei suoi discepoli! E quelli? Basterebbe pensare alla sicumera con cui alcuni di loro sventolavano allora i loro piatti sofismi del nulla, permettendosi per di più di accusare di “disordine” te, e tu che gli davi retta, e giustificavi, pur perplessa, i loro stupidi giudizi. Tu, che nei tuoi versi fai splendere una mente limpidissima e nitida, ben più di quella dei tuoi compagni esperta di meraviglia ed esattezza nella restituzione del visibile al pensiero. Formula che qui propongo come una possibile definizione di fenomenologia. Questa resa limpida anche quando visionaria, questa esattezza nelle cose della natura e dell’anima è un esercizio, oserei dire, di attenzione pura – l’esatto contrario, stando a una delle maggiori tue coetanee che furono per me madri-montagne, Simone Weil, di quegli esercizi muscolari della volontà che Remo Cantoni consigliava alla “disordinata” Antonia. Il che fa un po’ sorridere, se si pensa alla fama di farfallone amoroso che Cantoni conservò a lungo fra le innumerevoli studentesse sfiorate dalla sua attenzione più o meno pura, non sappiamo se anche dalla sua ordinata volontà. Ma – a proposito di alcuni fra i nostri maestri - ce ne è uno che fece eccezione quanto a egolatrica volontà e sicumera nei giudizi, e anche fece eccezione quanto alla misura di scetticismo pratico, di anti-illuminismo filosofico, di Weltanschauung tragico-danzante, che imperversava in quegli anni in quell’ambiente, e di cui forse un po’ finisti per morire. E’ lo schivo e onesto Dino Formaggio, l’amico che ricevette l’ultimo dono e gli ultimi messaggi…. Nel 1971 entravo all’Università. Il primo corso e forse l’ultimo che seguii…. Poi fuggii via da milano – fu sugli scritti politici di Kant. Era Dal Pra che leggeva, quello stesso Dal Pra che aveva vissuto e scritto della Resistenza, e che così cercava di riannodare il suo passato azionista a Kant, tenendo insieme il pensiero, l’azione, l’etica – e la storia. Si poneva la questione cruciale : come rimettere nella nostra coscienza e nelle nostre mani il dovere di fare di questa terra, cioè del mondo sociale, anche un mondo morale. Quella, era la fede razionale, non quella dei dostoevskiani di allora, cara Antonia. Ma io non ne sapevo nulla, e così avrei continuato a ignorare il piccolo e sacrosanto Regno dei Fini di questo nostro bellissimo e disgraziato paese, forse per trent’anni ancora…. Tu hai fermato la tua vita intera in una sola giornata. Questa che ora leggo è la poesia tua che forse amo di più – per la sua splendida parabola – luminosa e infine quieta nella sconfitta che tutti ci attende. Alti orli ghiacciati si disfecero al mondo. Solcava enta e lieve la barca laghi d’oro, andando così noi nel sole abbracciati. Gracili reti bionde imprigionavano l’ora. E nacquero brividi; crebbero voci tristi; fischiò a sponda il dilacerarsi delle canne. Belve chiare Guardarono dal folto A lungo Il tramonto nell’acqua, andando così verso l’ombra io libera e sola per sempre. E allora a me non resta che chiudere questa lettera già troppo lunga e risalire con te dall’ombra, augurandoti buon compleanno: con il colore più forte di tutte le tue canzoni, Antonia, checché ne dicano. Il colore dell’evidenza, del candore e del rigore, della filosofia. Il colore incolore, oltre il colore: la fonte dei colori, la loro condizione. Il sole. Lettera ad Antonia Pozzi Tonia, bambina mia, per vie di luce passano gli immortali angeli vele venti chiari pensieri, bianchi bastimenti solcando lo splendore. E’ piena estate. Così stanno i viventi in riva al mare stupefatti, un istante e sono belli come ragazzi al sole. Poi vanno via. Tonia, bambina mia, ma tu rimani anni di sole mentre tu guardi passano: e tutto venne ciò per cui pregammo anime nuove e figli e bianchi panni stesi nel sole nuove città, e pensieri grandi e lontani come i bastimenti. La sera è ancora chiara all’ancora la nave, stesi i panni sul prato ad asciugare. Ma tu rimani lì con gli immortali tuoi poveri, affamati anni di sole Tonia, bambina mia, ventisei anni. L’epoca dell’ ingratitudine di Andrea Tagliapietra L’ingratitudine è la bancarotta dell’economia del dono. Con una differenza, tuttavia, rispetto a quanto accade nella partita finanziaria dei debiti e crediti, che già Rousseau rimarcava: «la riconoscenza è sì un dovere a cui bisogna adempiere, ma non un diritto che si possa esigere». Anche per quanto concerne l’ingratitudine, cioè, emerge l’impossibilità di ridurre il fenomeno della donazione al mero fatto economico e alla simmetria del dare e dell’avere, ossia si palesa la difficile miscela di libertà e di obbligo che il dono contempla. Se sono libero di donare, parimenti dovrei esser libero di ringraziare e di manifestare gratitudine. Ma le cose non sono così semplici. Perché, mentre il benefattore sta all’inizio della catena del dono e può scegliere, in certa misura senza incorrere nelle accuse di insensibilità o di avarizia, se donare o no, il beneficiato non può che subirne le conseguenze. Quand’anche fosse libero di respingere il dono, non può evitare l’imbarazzo, né il rischio che il suo rifiuto venga interpretato come un atto ostile. Inol-