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Il 12 aprile 2016 una maggioranza stentata, raffazzonata, espressione di un Parlamento
eletto con una legge maggioritaria dichiarata incostituzionale (sentenza n.1/2014 Corte
Cost.), ha approvato, sotto dettatura del Governo, la più ponderosa modifica della
Costituzione della storia repubblicana.
Un Governo, che gode della fiducia di un Parlamento siffatto, prova a cambiare, in un solo
colpo, 45 articoli della Costituzione. Una Costituzione scritta da un’Assemblea Costituente i
cui deputati erano stati eletti con sistema proporzionale - e che, pertanto, rappresentavano
tutte le realtà politiche, sociali e culturali del Popolo italiano - con il compito di costruire,
sulle fondamenta della Resistenza, la casa comune che avrebbe consentito al Popolo italiano
di diventare una comunità politica unita da un comune destino.
Durante la discussione del progetto della Costituzione, in Assemblea Costituente, i banchi
del Governo restavano vuoti, perchè il Governo, come aveva ammonito Piero Calamandrei,
non doveva interferire. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto in Parlamento l’11
aprile, durante la discussione finale sulla legge di “revisione” costituzionale: i banchi del
Parlamento erano vuoti, quello del Governo era gremito.
La Costituzione è un bene comune. E’ “di tutti”. E’ il “patto di tutto il popolo italiano”
(come recitavano, nel 2006, gli slogans dei DS contro la legge di modifica berlusconiana
PwPt 1). Una sua modifica non può che avere origine da una nuova Assemblea Costituente,
o da parlamentari eletti con sistema proporzionale, dovendo essa essere il frutto della più
ampia condivisione tra le forze politiche e, quindi, espressione piena della sovranità
popolare.
Per comprendere perchè sia di vitale importanza dire NO a questo furto di sovranità, dire
NO ai “ladri di Costituzione”, occorre capire che non si tratta di un caso sporadico, ma che
esso rappresenta l’apice, il momento terminale, di un enorme saccheggio di sovranità
popolare progettato sin dai primi anni di vita della Repubblica e brutalmente accelerato
nell’ultimo trentennio. Se prevarrà il si al referendum di ottobre, gli articoli della riforma
costituzionale Renzi-Boschi saranno i chiodi piantati sulla bara nella quale, sin dalla fine
degli anni ’70, è stata man mano deposta la Costituzione repubblicana del 1948, che verrà
funzionalmente abolita.
Giorno dopo giorno, a partire dai primi anni della Repubblica, le forze del finanzcapitalismo hanno infatti riscritto le regole del gioco; di quello che Giovanni Falcone
chiamava “il gioco grande” (del potere). Lo hanno fatto disattivando i principi fondamentali
della Costituzione, imponendo, di fatto, una nuova “costituzione materiale” e, di
conseguenza, un nuovo assetto sociale, un nuovo concetto di legalità non più in grado di
garantire diritti (principalmente i diritti sociali, lavoro in testa), ma che anzi li subordina alle
esigenze del “dio” mercato ed alla logica del profitto.
Le chiavi di lettura per comprendere il senso complessivo degli eventi, per decifrare le
sofisticate tattiche con le quali si stanno cambiando le regole del gioco e per individuare le
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possibili forme di resistenza, non si trovano esaminando la sola storia di questi ultimi anni,
ma ripercorrendo la storia secolare del paese.
E vanno ricercate anche a livello sovranazionale, perchè è lì che ormai si gioca la vera
partita.
L’Italia giunge alle soglie del XX secolo in condizioni di tardo feudalesimo, come una
società costruita (tranne poche realtà felici) sul rapporto tra servo e padrone. Il 10% della
popolazione deteneva il 90% circa della ricchezza nazionale. Quasi non esisteva il ceto
medio. L’80% della popolazione era analfabeta.
La diseguaglianza economica si traduceva in uno stato classista, in cui le caste dominanti
imponevano le loro regole.
Per questo motivo la legge e la giustizia non godevano di considerazione popolare. La
legge, scriveva Gaetano Salvemini, era percepita come la voce del padrone, che sanciva lo
sfruttamento della maggioranza della popolazione da parte di una ristretta casta di
privilegiati. Il popolo dava quindi per scontato che la giustizia fosse un apparato di
potere, forte con i deboli e debole con i forti.
La magistratura era subordinata al potere politico ed a questo si piegava, facendosi
carico della legalità “sostenibile”, cioè compatibile con i rapporti di forza esistenti. I
pochi magistrati non allineati venivano sottoposti a procedimenti disciplinari o trasferiti. Si
trattava quindi di una giustizia di classe.
Questo stato di cose, esasperato durante il ventennio fascista, si protraeva sino al XX secolo
inoltrato, quando finalmente, dopo la fine della 2a guerra mondiale, si creavano le
condizioni macropolitiche per la fondazione di uno Stato democratico di diritto.
Alla base di questo cambiamento - che Kelsen (in Democrazia e cultura, 1955) descrive
come passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico - non vi è soltanto, come
vedremo, il mutamento dei rapporti di forza tra i due principali soggetti collettivi della
storia del 900: le forze del padronato, del capitalismo industriale e agrario, da una parte, ed
il mondo del lavoro con le sue organizzazioni politiche, dall’altra. Vi sono, prima di tutto, i
sentimenti, i desideri, il pensiero dei protagonisti della Resistenza italiana, caratterizzata da
un peculiare desiderio di profondo rinnovamento rispetto al modello liberale che
aveva dominato l’Italia prefascista e dal preciso obiettivo di costruire una democraziamodello che rappresentasse la massima rottura con il passato e ne rendesse, al tempo
stesso, impossibile il ritorno.
E’ un moto - magistralmente descritto da Lelio Basso (straordinario intellettuale del ‘900,
compagno di resistenza e di partito di Sandro Pertini, autore del testo definitivo del 2°
comma dell’art. 3 Cost.) nel suo libro “Il principe senza scettro” (PwPt 2) e sintetizzabile
con la locuzione “Spirito della Resistenza” - che trova origine nella violenta rottura con il
precedente regime monarchico-liberale-liberista, elitario e classista, non tanto nella
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caduta della dittatura fascista (del quale essa rappresenta la semplice occasione). Trova
origine nella coscienza sociale e nella comune volontà politica del tempo di affermare
un modello sociale antitetico a quello dello Stato liberale basato sui principi generali di
libertà, di sovranità popolare (nel nuovo concetto di potere principalmente volto alla tutela
dei diritti fondamentali, specie quelli sociali), di giustizia sociale, di intervento economico
da parte dello Stato per assicurare la piena occupazione della forza lavoro e
l’eguaglianza sostanziale, per rendere cioè effettiva la democrazia.
Lo spirito della Resistenza è il mandato che i Resistenti affidarono alla Costituente italiana.
Ed è lo spirito della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ideologia accolta, in modo
irreversibile, nella nostra Carta Fondamentale.
Questa idea di una nuova Italia del domani come Stato sociale (e perciò democratico), in
netta contrapposizione allo Stato liberale prefascista, è il filo conduttore che lega lo spirito
dei resistenti ai principi fondamentali della Costituzione del 1948, chiarendone il
profondo significato.
Il nuovo patto sociale veniva sancito, nella Costituzione del 1948, dal comma 2° dell’art. 3,
giustamente ritenuta la norma più importante della nostra Carta fondamentale e conosciuta
come “principio di eguaglianza sostanziale” (PwPt 3).
Si trattava di un impegno solenne, di un dovere primario e irrinunciabile della
Repubblica (“è compito della Repubblica”, afferma inequivocabilmente la norma) di
attivarsi con tutte le sue istituzioni per trasformare la società nel senso di eliminare ogni
situazione di privilegio e di elevare la condizione delle categorie sottoprotette, rendendo
i loro appartenenti <<partecipi, attivi e consapevoli a tutti i settori dell’organizzazione del
paese>> (Mortati).
Il compito di attuare il nuovo Stato descritto in questa norma veniva poi assegnato, dai Padri
costituenti, al lavoro. Un diritto e al tempo stesso un dovere (art. 4), assunto a fondamento
della Repubblica democratica italiana (art.1), a prescindere dall’attività concretamente
svolta, purché svolta.
L’assoluta preminenza del lavoro, rispetto ad altri valori (in particolare la proprietà
privata), si spiega con il fatto che ad esso veniva ricollegato il valore sociale dell’uomo,
rapportato alle sue attitudini e capacità, non più ai privilegi di casta.
Il lavoro era il mezzo necessario per assicurare “il pieno sviluppo della persona umana” e
la sua partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato.
Fondare la nuova Italia sul lavoro voleva perciò significare due cose:
- escludere che altri valori, come ad esempio la proprietà privata dei beni produttivi,
ritenuti dominanti dalle costituzioni ottocentesche, potessero caratterizzare il modello
sociale del nuovo tipo di Stato;
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- individuare nella piena occupazione, e quindi negli interventi di natura pubblicistica
ad essa finalizzati, il mezzo per rendere effettiva l'uguaglianza (art. 3, comma II, Cost.)
e, con essa, la democrazia.
Il lavoro, in altre parole, era la democrazia e per questo il primo articolo della nuova
Costituzione lo elevava a fondamento della Repubblica democratica italiana,
caratterizzando il tipo di Stato a cui la stessa Costituzione, entrando in vigore, dava
vita.
Il nuovo ordine sociale basato sul lavoro si specificava poi in una serie di disposizioni
contenute nella c.d. “Costituzione economica” (Parte I, Titolo III, art.li da 35 a 47), una
parte organicamente connessa ai principi fondamentali, che specifica questi ultimi e che
propone un programma per realizzare una società che li renda effettivi.
La realizzazione degli obiettivi della piena occupazione e dell’eguaglianza sostanziale non
venivano affidati al mercato, ma ad un programma: l’attività economica doveva
soggiacere alla decisione politica, che si esprime nella legge.
La funzione sociale che l’art. 41 assegnava all’impresa (cioè quella di rendere effettivo il
diritto al lavoro) rimaneva strettamente connessa ad un razionale intervento pubblico
coordinativo dell’intera attività economica (PwPt 4).
La Costituzione del 48 diventava così la leva istituzionale ed il centro vitale del processo
di costruzione dello Stato democratico.
Proprio per questa sua straordinaria valenza la Costituzione, già nei primi anni dopo la sua
approvazione, viene individuata dalla componente più reazionaria della classe dirigente
come una camicia di forza che, blindando con il suo carattere rigido il nuovo patto sociale,
impedisce la restaurazione del vecchio ordine basato sulla diseguaglianza iniziale.
Tutta la vita della prima Repubblica è segnata dai tentativi di sabotare e depotenziare la
Costituzione, con metodi incruenti, ma anche violenti (ricordiamo, ad es., la strategia della
tensione) e di modificare la legge elettorale in senso maggioritario (pensiamo alla cd.
“legge Truffa” bocciata dagli elettori il 7 giugno 1953) per togliere forza alle opposizioni
(PCI e PSI).
Le forze del capitalismo oligarchico ed ultraliberista, riorganizzatesi e rigeneratesi a livello
sovranazionale, stavano infatti preparando la loro rivincita.
Lo confessa papale papale e con uno stucchevole senso di compiacimento, niente meno
che Giorgio Napolitano in una lettera scritta nel 2011 per il settimanale “Reset”, ove, tra
l’altro si legge:
(PwPt 5):
<<Interessante, e suggestiva, è l’interpretazione che in “Cinquant’anni di vita italiana” ci ha
lasciato Guido Carli: secondo il quale “la parte economica della Costituzione risultò sbilanciata
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a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista”, ma nello stesso tempo, tra il 1946 e
il 1947, “De Gasperi ed Einaudi avevano costruito in pochi mesi una sorta di Costituzione
economica che avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea
Costituente”. Si trattò di una strategia “nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo”, mirata
alla stabilizzazione, ancorata a una visione di “Stato minimo”, e aperta alle regole e alle
istituzioni monetarie internazionali.
In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente
la concezione cattolica e la concezione marxista fosse “il disconoscimento del mercato”, l’azione
di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell’autarchia,
di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione
europea>>.
Peraltro, i tentativi di sabotare la Costituzione erano già stati denunciati da Giorgio
Balladore-Pallieri nel 1954 sul Foro Padano, da Piero Calamandrei nel 1955, e da Lelio
Basso nel 1958 (nel suo libro “Il principe senza scettro”). Infastidiva il nesso che la Cost.
stabilisce tra libertà e giustizia sociale. Infastidiva che la Cost. sancisse i diritti sociali,
che si volevano invece confinati nella legislazione ordinaria, per liberarsene all’occorrenza.
Questi tentativi, tuttavia, inizialmente fallirono, grazie all’esistenza di sottostanti rapporti
di forza sociale che consentirono ai principi costituzionali di diventare ordinamento della
realtà, anche se faticosamente e con molti limiti.
Le componenti più reazionarie della classe dirigente dovettero infatti limitarsi, patteggiare,
riconoscere diritti di fronte alla realtà sociale e politica del più forte partito comunista
europeo ed alla realtà di una classe operaia che mirava ad assumere la direzione dello
Stato, anche alleandosi con parti del mondo cattolico e riformista.
Questo bilanciamento di forze (quelle del capitale e quelle del lavoro) aveva attribuito al
ceto medio - nato ed ampliatosi grazie agli effetti redistributivi del reddito nazionale
prodotti dall’imposta progressiva sul reddito (art. 53 Cost.) (PwPt 6) - una posizione
determinante, perchè lo scontento del ceto medio poteva tradursi in voto a sinistra e
capovolgere gli equilibri macropolitici con il temuto “sorpasso a sinistra”.
Tutto ciò dava vita ad un conflitto sociale a bassa intensità permanente che diventava il
motore dello Stato sociale, aprendo la stagione riformista della fondazione dei diritti,
sino alle grandi conquiste dello Statuto dei lavoratori e della riforma sanitaria.
E’ il ventennio ’60-’70, durante il quale lo Stato, per mezzo della legge e secondo la
Costituzione, programmò chi avrebbe prodotto determinati beni e servizi, cosa avrebbe
prodotto e venduto e cosa no, come avrebbe prodotto e venduto.
(PwPt 7):
Legiferando, lo Stato fissò prezzi equi per beni e servizi essenziali (equo canone); istituì monopoli
pubblici (poste, telefonia, energia elettrica, ferrovie); indirizzò lo sviluppo economico con il sistema delle
partecipazioni statali; impose dazi all’importazione o all’esportazione; sostenne l’edilizia economica e
popolare (qualcuno ricorderà il piano Fanfani di 300.000 case), per tassare le rendite e i grandi
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patrimoni, limitò o vietò la libera circolazione dei capitali, al fine di impedirne la fuga, in caso di aumento
dell’imposizione; dispose aiuti di Stato a tipi di industrie e attività reputate strategiche; vietò la produzione
e la commercializzazione nel territorio dello Stato di determinati beni; ignorò il principio della
concorrenza; condizionò l’esercizio di attività commerciali a licenze e autorizzazioni; previde minimi
tariffari e vietò la pubblicità nell’esercizio delle professioni; accettò una inflazione modesta, o
relativamente modesta, a tutela dell’occupazione e quindi dei salari; perseguì l’autosufficienza alimentare
della nazione e percò tutelò l’agricoltura; alfabetizzò il Paese (“Non è mai troppo tardi”).
E soprattutto sostenne la piena occupazione mediante la spesa pubblica. Sia direttamente (ad es. con i
lavori pubblici: costruì strade, autostrade, ospedali, tribunali, infrastrutture. E poi con gli aiuti di Stato), che
indirettamente, con il welfare di sostegno, pure esso previsto dalla Costituzione: art. 33, 34 commi 3 e 4, 35,
36, 38, 39, lo stesso art. 41.
L’intervento pubblico era percepito da tutti (compresi gli imprenditori) come un
indispensabile strumento di mediazione del conflitto sociale e di garanzia per un
crescente benessere per tutte le componenti sociali.
E i numeri ci dicono che il benessere diffuso, in quegli anni, fu davvero garantito.
L’enciclopedico studio statistico recentemente realizzato da Thomas Piketty (nel volume “Il
capitale nel 21° secolo”) ci segnala che, per la prima volta, nel secondo dopoguerra, la
curva della diseguaglianza, che sino ad allora aveva riservato in occidente l’accesso alla
proprietà soltanto al 10% più ricco della popolazione che deteneva il 90% del patrimonio
nazionale, comincia a decrescere.
Dal secondo dopoguerra sino al 1981 l’Italia registra una crescita media annua del PIL
pro-capite pari al 4-5%, superiore a quella di ogni altro paese europeo, diventa la prima al
mondo per lo sviluppo economico, la prima al mondo per mobilità sociale, diventa la
quinta potenza industriale del mondo. Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 4% ed il
6% sino alla grande crisi petrolifera (1973 e 1978). Nel 1963 raggiungiamo la piena
occupazione (quando il tasso di disoccupazione scende sotto il 4%).
Il tutto a costi accettabilissimi, come provano i dati macroeconomici ufficiali.
All’inizio degli anni ’80, purtroppo, questo equilibrio si sfascia.
Per quali ragioni? Fondamentalmente due. La prima consiste in ciò che avviene a livello
sovranazionale, la seconda in ciò che accade all’interno della nazione.
A livello sovranazionale viene propagandata l’ideologia dell’integrazione europea, che
sarebbe foriera di pace, crescita economica e benessere.
Una propaganda per i gonzi, una maschera idealista che dissimula 2 brutali fini: sul
piano pratico, la necessità di aprire spazi economici agli interessi monopolistici del
grande capitale. Quegli spazi che ad est erano mancati con la divisione tra il blocco
capitalista e quello socialista e a sud con la decolonizzazione. E, sul versante politico, la
restaurazione del sistema di potere capitalista, oligarchico ed ultraliberista dell’Italia
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prefascista, che si pensava definitivamente accantonato con l’avvento del
costituzionalismo democratico.
L’aveva perfettamente intuito il PCI, il cui giornale, L’Unità, il 28 luglio 1957, intitolava
“Che cosa significa la sigla MEC” (PwPt 8) e spiegava, con una straordinaria capacità di
comprensione del fenomeno, quali processi, devastanti per il popolo e per la democrazia, in
realtà si celassero dietro l’integrazione europea, fortemente voluta dal grande capitale e
sponsorizzata dagli USA, ai quali faceva comodo un’Europa modellata a loro immagine
somiglianza e contrapposta all’integrazione economica del blocco sovietico.
“Il MEC è la forma sovranazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”, “per
schiacciare le masse lavoratrici ed impedire o rendere più difficile uno sviluppo sociale democratico”,
avvertiva l’On. G. Berti alla Camera dei Deputati il 31 luglio1957 (PwPt 9).
Lo si poteva d’altra parte intuire dalle stesse finalità della CEE, individuate dal Trattato
di Roma del 1957 nelle quattro libertà “fondamentali” del liberismo economico: la
libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. I quattro principi
sacri, da sempre, del liberismo, che trovano immediato compendio nel programma della
UE, i cui valori supremi sono i classici valori del liberismo economico:
(PwPt 10):
- la stabilità dei prezzi (art. 3 TUE; art.li 119 co.2°, 120, 127 TFUE);
- l’istituzionalizzazione del mercato quale spazio aperto senza frontiere (art. 26 co.2° TFUE);
- la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (art. 26 co.2° TFUE);
- la concorrenza (art.li 101 ss. TFUE), con il suo corredo delle liberalizzazioni - mortali per il lavoro
autonomo - e del divieto di aiuti di stato, definiti “incompatibili con il mercato interno” dall’art. 107 TFUE;
- la demolizione del welfare;
- il lavoro come merce (art. 151 TFUE);
- le “riforme”, ovvero la precarizzazione del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione (entrambi
funzionali al principale obiettivo della stabilità dei prezzi);
- il divieto di ingerenza dello stato nell’economia (art.li 107, 119, 120, 121, 123-125 TFUE);
- l’indipendenza della banca centrale dal governo (art.li 127-133 TFUE);
- i vincoli di bilancio pubblico (3% del deficit: art. 126 TFUE e relativo protocollo; pareggio di bilancio:
Fiscal Compact + art. 81 Cost.).
L’obiettivo, peraltro dichiarato (art. 3 TUE), era dunque la “libertà per i monopolisti”,
ovvero la creazione di un mercato unico senza stati, fortemente concorrenziale (in cui
tornasse a prevalere la legge del più forte, l’egoismo individuale, il classismo, lo
sfruttamento del lavoro, l’insofferenza ad ogni limite etico) sotto la guida di apparati di
comando [Consiglio, Commissione Europea, BCE, braccio dei gruppi finanziari e delle
multinazionali economiche (i “monopolisti”) che utilizzano il paravento degli Stati per
legittimarsi nella UE] che operano, come ci ha candidamente spiegato Mario Monti
(Intervista sull’Italia in Europa, 40 e ss.), “al riparo dal processo elettorale” e che non
hanno dunque legittimazione democratica, sfuggendo al controllo popolare.
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A livello nazionale avviene invece ciò che ancora una volta ci spiega Giorgio Napolitano,
nella sua lettera a Reset:
(PwPt 11):
<<con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti
dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci,
persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate
come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei “Rapporti economici”
nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e
del diritto comunitario. Nell’accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via
via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista>>.
Si consuma cioè l’infame tradimento, da parte della sinistra politica, PCI e PSI, della
Costituzione e del modello sociale, antitetico a quello dell’economia di mercato, in essa
accolto. E’ il tradimento dello spirito della Resistenza e di tutto il popolo italiano,
deliberatamente consumato, con l’assunzione di un’enorme responsabilità storica, dai
dirigenti (Napolitano in testa) dei due grandi partiti di massa.
Nel momento in cui la sinistra cede ideologicamente, abbandonando gli interessi della
classe operaia (e, in generale, di quella meno abbiente), per diventare “socialdemocratica”,
ovvero per abbracciare le ragioni e gli interessi del capitalismo ultraliberista, vengono
meno i rapporti di forza che avevano imposto al sistema capitalistico, nel ventennio
glorioso, di accettare, per ragioni di realismo politico, i limiti al proprio libero sviluppo e la
redistribuzione della ricchezza (dal capitale al lavoro) imposti dalla camicia di forza della
democrazia costituzionale.
La base sociale della sinistra, abbandonata a se stessa e frastornata da una sinistra politica
che agisce da destra liberista, perde ogni potere di contrattazione ed il suo ruolo di
controbilanciamento sociale rispetto al potere del capitale.
Il ceto medio viene trascinato nella disfatta dalla sopravvenuta irrilevanza politica del
ceto meno abbiente, poichè il suo peso politico, come si è detto, derivava dall’essere l’ago
della bilancia tra le due forze contrapposte del lavoro e del capitale.
Con il passaggio del sistema elettorale dal proporzionale al maggioritario (che viola il
principio del “voto uguale” di cui all’art. 48) già si cambia la Costituzione.
(PwPt 12)
Le leggi elettorali proporzionali attribuiscono al voto di tutti i cittadini il medesimo valore. Concedono
ai perdenti e ai loro elettori di contare qualcosa tra un’elezione e l’altra (il che non è a tutti gradito, sicché
sono diventate una rarità).
Le leggi elettorali maggioritarie ribattezzano maggioranze le minoranze. Se consideriamo gli astenuti, i
governi sono il prodotto di 1/3 o di 1/4 degli elettori. Gli altri 3/4 non contano granché.
Cambiare legge elettorale abrogando il sistema proporzionale significa di per sé cambiare la
Costituzione (Prof. Raniero La Valle):
> Il voto dei cittadini non è più eguale (si viola l’art. 48 Cost.);
> Gli articoli della Costituzione che prevedono maggioranze qualificate per le decisioni cruciali [ad es.
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l’art. 138 (revisione)] perdono significato.
Si produce inoltre un bipolarismo di facciata con l’alternanza tra alleanze generaliste
(centro-destra e centro-sinistra) che non rappresentano un’alternativa al sistema, ma
un’alternanza al potere di oligarchie che accettano passivamente i dogmi del
neoliberismo e praticano una medesima linea politica conforme a tali dogmi. Il potere si
concentra così nell’esecutivo nazionale, verso il quale si sposta sempre di più la funzione
legislativa, con l’abuso dei decreti legge e delle leggi delega “in bianco”.
 Il prodotto di questi due fattori è devastante.
Le più importanti funzioni sovrane dello Stato (cioè il potere di assumere tutte le
decisioni riguardanti la politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio) vengono
definitivamente trasferite e cedute (senza alcuna discussione pubblica e con l’unanime
approvazione del Parlamento) agli apparati di comando dell’UE, i quali, essendo privi di
legittimazione democratica ed irresponsabili di fronte al popolo, ma estremamente
sensibili agli interessi della grande finanza speculativa e delle multinazionali
economiche (in primis la cd. “stabilità monetaria e dei prezzi”: art.li 3 TUE, 119, 120, 127
TFUE), attuano politiche economiche iperliberiste, esattamente contrapposte agli
obiettivi costituzionali della piena occupazione e dell’eguaglianza sostanziale.
In questo modo, il popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, monetario ed
economico che gli organi elettivi dovrebbero perseguire. Questi indirizzi fondamentali sono
predeterminati, senza alcuna partecipazione del popolo sovrano, qualunque sia l’esito delle
consultazioni elettorali. Svuotata di tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità
popolare. Essa non appartiene più al popolo, in palese violazione del principio
democratico sancito dall’art. 1 Cost. (poichè la dichiarazione di appartenenza della
sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo, come
contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico).
Viene istituita un’unione monetaria, adottando una moneta non nazionale, l’euro, emessa
e controllata (art. 127 e ss. TFUE) da un organismo sovranazionale, la BCE, che ha come
principale obiettivo quello di mantenere la stabilità dei prezzi (art. 127 TFUE). Obiettivo
che si persegue mantenendo alto il tasso di disoccupazione e precarizzando al massimo
il lavoro, fattori che costringono i lavoratori ad accettare riduzioni salariali (con la
conseguente riduzione del costo del lavoro) e progressive riduzioni delle tutele. Unione
monetaria che scarica sul lavoro il prezzo delle asimmetrie economiche che essa
produce, ovvero il prezzo della competitività perduta dai prodotti nazionali rispetto a quelli
dei Paesi egemoni. Non potendosi svalutare la moneta, è necessario svalutare il lavoro.
Ridurne cioè il costo, onde recuperare la competitività di prezzo (lo riconosce la stessa
Commissione Europea in un comunicato stampa del 21 gennaio 2014: PwPt. 13).
Si sottopongono gli Stati a vincoli insensati e deleteri di bilancio pubblico (il 3% del
deficit: art. 126 TFUE e relativo protocollo). Vincoli che erodono il risparmio privato
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(secondo una nota relazione di contabilità nazionale: PwPt 14), ostacolano gli investimenti
che da questo dipendono ed impediscono le politiche sociali che necessitano di spesa a
deficit e che la Costituzione imporrebbe alle istituzioni dello Stato al fine di realizzare
l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini e di garantire la piena occupazione.
Il supremo dogma della concorrenza, che informa di sé il diritto della UE, comporta il
divieto degli aiuti di Stato (art. 107 TFUE) (che, fra l’altro, significa anche bail-in), nonchè
il business delle privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali e la liberalizzazione delle
professioni intellettuali, di cui si avvantaggiano le grandi società di capitale.
Gli Stati, privati del controllo delle loro banche nazionali (art. 123 TFUE), per procurarsi
il fabbisogno annuo di denaro, sono costretti a rivolgersi ai “mercati” (sostanzialmente il
sistema bancario) e ad aumentare la tassazione, riducendo nel contempo la spesa
primaria (quella per i servizi), per essere in grado di pagare gli interessi (sui titoli del debito
pubblico) richiesti e fissati dagli stessi mercati. Lo Stato restituisce cioè al cittadino in
servizi meno di quanto gli preleva con la tassazione. La differenza, sotto forma di
interessi sul debito, va ai “mercati”. E’ un enorme quantitativo di denaro, di ricchezza
prodotta dal lavoro, che viene ridistribuita in direzione opposta a quella degli anni ’60-’70:
dalle tasche dei contribuenti, di chi lavora, a quelle dei mercati, ovvero della grande finanza
internazionale, detentrice in larga misura dei titoli di Stato.
Ci dice ancora Piketty, nel suo volume, che da un quarto di secolo si assiste ad una
progressiva polarizzazione della ricchezza verso l’alto. Si assottiglia la classe media.
Come avveniva all’inizio del 1900, la ricchezza torna a concentrarsi nelle mani del 10%
della popolazione. L’OCSE posiziona l’Italia tra quelli con maggior diseguaglianza dei
redditi.
In seguito alla modifica dell’art. 117 della Cost. (voluta ed introdotta dal centro-sinistra),
le norme dei trattati internazionali ai quali sia stata data attuazione ed, in particolare, le
norme di diritto comunitario, prevalgono su quelle contenute in leggi ordinarie, sia
anteriori che successive. Il diritto interno contrario al diritto della UE deve essere
disapplicato dai giudici nazionali, altrimenti la UE ci sanziona. Le norme emanate da
organi non rappresentativi prevalgono dunque su quelle emanate dai rappresentanti dei
popoli (un tempo) sovrani. E, di fatto, prevalgono anche sulle norme costituzionali che
disciplinano i rapporti economici.
L’unica legalità è quella “sostenibile”, che legittima la subordinazione della tutela dei
diritti costituzionali, quali ad es. il diritto alla vita ed alla salute, alle esigenze dell’economia.
Commissione e BCE dettano ai governi l’agenda politica delle riforme da attuare
come dimostra la lettera riservata del 5 agosto 2011 [(PwPt 15) a lungo celata alla
pubblica opinione], con la quale il presidente della BCE dettava le “riforme” al presidente
del Consiglio italiano, specificandone pure gli strumenti legislativi e le priorità: la piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, le privatizzazioni su
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larga scala, la riforma del sistema di contrattazione, la riforma delle norme che regolano
l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, la riduzione dei costi del pubblico impiego
(riducendo gli stipendi dei funzionari pubblici) ed, alla fine, anche una riforma
costituzionale che rendesse più stringenti le regole del bilancio.
Onde assicurare la piena attuazione di tali “riforme”, il governo in carica viene abbattuto
a colpi di spread. Mario Monti, pur non avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti
nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59 comma 2° Cost.), viene
nominato senatore a vita ed incaricato di formare il nuovo governo “tecnico”, che darà
corso alle “riforme” e (impoverendo sempre più gli Italiani) distruggerà la domanda
interna (parole di Monti) per sistemare l’ultradecennale crisi della bilancia dei pagamenti.
Per rendere “più stringenti” le regole di bilancio, con l’art. 1 della legge Costituzionale 20
aprile 2012 n.1 viene sostituito l’originario art. 81 della Costituzione, introducendo il c.d.
principio del pareggio di bilancio nella parte seconda della nostra Legge Fondamentale.
Un vero “corpo estraneo”, una norma palesemente incostituzionale nella Costituzione, che,
come si è visto sin dalle prime sentenze applicative, comporta che la tutela effettiva di un
diritto fondamentale (derivante da principi inderogabili) previsto dalla Costituzione
degradi a pretesa eventuale, in quanto soggetta alle esigenze di bilancio fissate dal
medesimo art. 81 riformato. Comporta inoltre che lo Stato non possa finanziare a deficit
politiche economiche espansive nelle fasi di crisi economica e che, per recuperare le
risorse necessarie al suo fabbisogno, esso tagli, anno dopo anno, quelle destinate al
welfare. Un vero cavallo di Troia finalizzato allo smantellamento dello Stato sociale viene
così inoculato nella Carta Fondamentale, senza alcuna discussione o dibattito pubblico.
Le cessioni di sovranità agli apparati di comando ademocratici (e antidemocratici) della UE
e le politiche iperliberiste da questi attuate, di fatto comportano la disattivazione dei primi
quattro articoli e di tutta la parte economica della Cost. Cioè la disattivazione dei
principi caratterizzanti il tipo di Stato voluto dal popolo italiano.
Un nuovo assetto di potere si va progressivamente consolidando, di fatto ed extraordinem.
Mortati definisce tale ipotesi come un atto eversivo, come una rivoluzione a tutti gli effetti.
Essa viene attuata senza violenza fisica, perchè il popolo italiano, non accorgendosi di nulla,
non oppone resistenza.
Il capitale consuma così la sua grande rivincita sulla democrazia, rispetto alla quale è
sempre stato insofferente. Friedrich August von Hayek (PwPt 16), uno dei più grandi
esponenti del neoliberalismo novecentesco, sulle cui idee filosofico-economiche è stata
interamente edificata l’UE, già negli anni ’70 criticava la democrazia, denunciando “la
tirannide del moderno parlamentarismo” e la “pericolosità dell’idea di giustizia sociale per
la sopravvivenza della nostra civiltà”. La giustizia sociale, secondo Hayek, “tende a
modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso
la tassazione) le persone meno agiate”. A queste andrebbe invece assicurato il minimo
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necessario alla sopravvivenza (un “reddito di cittadinanza”...), “nell’interesse di coloro che
devono essere protetti da eventuali atti di disperazione da parte dei bisognosi” (per queste
“perle” ad Hayek hanno pure assegnato il premio Nobel per l’economia nel 1974).
Coerentemente, il 1/10/2010 l’allora presidente della Commissione Europea, José Manuel
Barroso, dichiarava con orgoglio al The Telegraph (il più autorevole giornale politicoeconomico britannico) che la Ue è stata pensata apposta per essere “un antidoto ai
governi democratici” (PwPt 17).
Ma il capitale non si accontenta. E’ predatorio ed i predoni razziano tutto ciò possono.
C’è ancora molto da fare: cancellare ciò che rimane del welfare, smantellare il sistema
pensionistico, privatizzare tutti i servizi, dalla scuola alla sanità, sino alla giustizia,
predicando il mantra che il pubblico genera inefficienza facendo lievitare i costi, mentre il
privato li abbatte, rendendo servizi migliori (cosa che l’esperienza italiana ha prontamente
smentito), distruggere la PMI a favore della grande distribuzione. E c’è ancora tantissima
ricchezza, accumulata dagli Italiani con la loro propensione al risparmio (reso possibile
dalla spesa a deficit dello Stato) da razziare.
Gli Stati però hanno la “brutta abitudine” di recepire ed eseguire in ritardo le direttive
degli apparati di comando sovranazionali, dovendo rispettare, almeno formalmente, le
fastidiose procedure previste dalle democrazie costituzionali, che frenano l’azione di
governo e lo indeboliscono.
Vi sono poi le Corti costituzionali che si permettono pure di bocciare alcune misure
introdotte dai governi servili sotto dettatura della Commissione Europea, o della BCE, o
del FMI (la “troika”), come ad esempio quelle che in Portogallo rendevano più facili i
licenziamenti e riducevano i diritti dei lavoratori nel campo della contrattazione collettiva,
dichiarate incostituzionali dalla Corte Cost. Portoghese il 5/4/2013. O come quelle che, in
Italia, bloccavano l’adeguamento al costo della vita delle pensioni superiori a tre volte il
trattamento minimo INPS (legge Fornero), dichiarate incostituzionali dalla nostra Corte il
30/4/2015.
(PwPt 18)
Oppure che si permettono di ribadire che i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili
della persona (cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato
su una democrazia del lavoro) costituiscono un “limite all’ingresso [...] delle norme internazionali
generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo
comma della Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti
all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232
del 1989, n.168 del 1991, n.284 del 2007) [...] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi
ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale
(art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (ce lo ricorda la recente sentenza Corte Cost.
n.238 del 22 ottobre 2014).
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Ecco arrivare allora, il 28/5/2013, puntuale come la morte, un rapporto della J.P. Morgan
(PwPt 19) che individua nelle Costituzioni dei Paesi del sud-Europa - le quali “tendono
a mostrare una forte influenza socialista che riflette la forza politica che le sinistre
conquistarono dopo la sconfitta del fascismo” - l’intralcio alla crescita dei Paesi stessi.
La ricetta del grande capitale finanziario (J.P. Morgan è una delle principali protagoniste
della “finanza creativa” ed è stata denunciata nel 2012 dal governo federale americano
come responsabile della crisi dei subprime del 2008) per gli Stati dell’eurozona è dunque
quella di sbarazzarsi al più presto delle Costituzioni antifasciste, caratterizzate da
(testualmente):
“governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; il
diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo” (PwPt 20)
Conclude il rapporto (sempre testualmente):
“ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha
chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche”.
Si sta ovviamente parlando del Governo Letta.
Il rapporto era stato preceduto, di circa un anno (il 1° giugno 2012), da una cena
organizzata dalla stessa banca d’affari a Palazzo Corsini a Firenze. Ospiti del padrone
di casa, Jamie Dimon (A.D. della J.P. Morgan), erano l’allora Sindaco della città, Matteo
Renzi, e Tony Blair, da quattro anni consulente speciale della banca (PwPt 21).
Lo stesso rapporto viene riportato quasi alla lettera nel disegno di legge costituzionale
n.813 del 10/6/2013 del governo Letta, da poco entrato in carica (28 aprile 2013 / 22
febbraio 2014), ove si aggiunge che l’assetto istituzionale disegnato nella Parte seconda
della Cost. necessita di aggiornamento “per dare adeguata risposta alle diversificate
istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed
economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale”.
Ecco dunque esplicitato il nesso causale tra le esigenze del grande capitale finanziario e
la riforma costituzionale. Giusto per togliere ogni dubbio al riguardo, quasi un anno dopo,
Marzio Breda, accreditato quirinalista del Corriere della Sera, scrive un articolo di fondo in
cui afferma (testualmente):
“Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è
importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al
bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente
inazione del Parlamento», spiegando che «la stabilità (nota: art. 81 Cost., pareggio di bilancio) non è un
valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che il Senato, con identici poteri della
Camera, non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale.
A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove
indica nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento»
alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità
impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace”.
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Il 1° aprile 2014, presso l’ambasciatore italiano a Londra Pasquale Terracciano, Blair e
Renzi si ritrovano a cena e ridiscutono in privato. Il giorno successivo Blair rilascia
un’intervista a Repubblica in cui manifesta il suo pieno appoggio a Renzi sulla strada
delle riforme costituzionali e strutturali, aggiungendo che la crisi è un’opportunità per
compiere i cambiamenti necessari al Paese. Poco dopo, rilascia una seconda intervista,
questa volta al Times, in cui annuncia:
“il mutamento cruciale delle istituzioni politiche neanche è cominciato. Il test chiave sarà l’Italia. Il
governo ha l’opportunità concreta di incominciare riforme significative”.
Ricordo che non è più il leader dei laburisti inglesi che parla, ma una persona che riceve
uno stipendio milionario per fare da consulente alla seconda banca d’affari mondiale (la
prima è la Goldman Sachs, dalla quale provengono i vari Draghi, Monti, ecc.).
Scrive l’economista americano Joseph Stiglitz:
“Le banche d’affari si servono di consulenti... I consulenti oliano gli ingranaggi della politica, avvicinano i
politici che contano alle banche giuste e promuovono presso di loro politiche compiacenti a quelle indicate
dalle banche”.
Tutto chiaro?
Ed eccoli, in sintesi, nel volantino (a cura dell’avv. Giuseppe Palma) che vi è stato
distribuito, (PwPt 22) i cambiamenti introdotti dal governo Renzi sotto dettatura della di
J.P. Morgan, con la benedizione dei vertici UE e del nostro ex bi-presidente, vero padre
della riforma (come candidamente afferma la ministra Boschi).
In estrema sintesi possiamo dire, in totale accordo con Domenico Gallo, che
la riforma costituzionale, interagendo con la riforma elettorale (il c.d. “italicum”),
stravolge “il volto della democrazia costituzionale come prefigurato dai padri costituenti.
Da un sistema basato sulla rappresentanza e sulla centralità del Parlamento, si passa ad
un sistema basato sull’investitura del Capo politico e sulla centralità del governo; da un
sistema basato sulla distribuzione ed equilibrio dei poteri ad un sistema basato sulla
concentrazione dei poteri nelle mani del Capo politico e sull’indebolimento delle
istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e – per
conseguenza – indipendenza della magistratura)”.
Segnalo una norma, in particolare, che sanziona il predominio del Governo sul
Parlamento: è il sesto comma dell’art. 12 del disegno di legge costituzionale.
Modificando l’art. 72 della Costituzione, essa attribuisce al Governo il potere di
“chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge indicato come essenziale per
l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto a
votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta”.
E’ il cd. istituto del “voto a data certa”, ispirato da una cultura istituzionale simile a
quella sottesa all’art. 6 della Legge 24 dicembre 1925, n. 2263. Norma fascista che
condizionava gravemente l’autonomia del Parlamento, attribuendo al Capo del Governo
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il potere di determinare la formazione dell’ordine del giorno delle Camere.
Esattamente come avverrà se prevarrà il si al referendum di ottobre.
Il fine, come acutamente ci segnala Gaetano Bucci, è quello di “predisporre «un quadro di
comando verticale» svincolato dagli ostacoli della dialettica sociale e quindi dalle istanze
considerate incompatibili con le strategie dei «mercati finanziari» e delle «grandi agenzie
internazionali»”. In tal modo «l’attacco alla democrazia sociale trova […] il proprio
compimento, perché la sanzione del primato del governo sul parlamento nel processo di
elaborazione degli indirizzi politico-legislativi, aggiungendosi all’introduzione del
principio del pareggio di bilancio, determina la piena integrazione fra la“governabilità
istituzionale” e la “stabilità economica”».
Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno agevolato il passaggio da un
modello di Stato sociale antiliberista, scaturito dall’antifascismo, a quello voluto dalle
grandi banche internazionali e dalla UE.
Il risultato è ottenuto: con il combinato di riforma costituzionale e legge elettorale si dà
vita a una dittatura della maggioranza parlamentare (per lo più corrispondente a una
minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che risolve il
primo “punto critico” (quello dei “governi deboli” rispetto ai Parlamenti) e che rappresenta
l’altra faccia del saccheggio di sovranità. Con le cessioni delle principali funzioni si è
sottratto al popolo l’esercizio della sovranità; con le modifiche costituzionali (senato non
elettivo) e con l’Italicum (liste bloccate, premi di maggioranza) si attacca l’altro versante
della sovranità, cioè quello della trasmissione della volontà popolare agli organi deputati a
tradurla in legge e ad attuarla. Si realizza così la funzionale abolizione della Costituzione
del 1948, secondo i desideri della JP Morgan.
Intervenendo sul Titolo V, la riforma costituzionale ripristina poi il centralismo,
correggendo un altro “punto critico” rilevato da JP Morgan (“Stati centrali deboli
rispetto alle regioni”).
La compenetrazione organica fra lo stato-apparato e gli interessi economico-finanziari
su cui si incardinava lo stato liberale e lo stato fascista-corporativo è così ripristinata.
Votare NO al referendum è quindi un’esigenza vitale che va ben oltre la semplice risposta
ad un quesito referendario.
E’ un atto di RESISTENZA contro il tentativo di porre il nostro Paese, mediante una
monocrazia, sotto il definitivo controllo, politico ed economico, del capitale finanziario.
Significa opporsi ad un sistema di potere tecnocratico e sovranazionale, mediante il
quale una ristrettissima classe sociale impone il suo modello economico ed un sistema
politico conforme alle sue esigenze, infliggendo sofferenze e povertà al resto della
popolazione ed affossando la democrazia.
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Ed è un punto di partenza per rilanciare la Costituzione del 1948. Moltissimo lavoro
rimarrà da fare dopo il referendum. La Costituzione non è vecchia e non è nemmeno da
cambiare. E’ da applicare, perchè essa contiene tutte le ricette per uscire dalla crisi
politico-economica provocata dalle scorribande delle oligarchie ultraliberiste.
La parte migliore della nostra storia è quella che attraversa gli anni 60-70, ma che prende
linfa dalla Costituzione del 1948. E’ questa il lascito di umili eroi che sacrificarono la
loro vita affinchè un popolo di servi e di padroni divenisse una comunità di cittadini. Il
modo migliore per onorarli è ricordare le parole che a loro dedicò Piero Calamandrei nella
seduta della Costituente del 7 marzo 1947 e che vi leggo testualmente, concludendo il mio
intervento:
“Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di
un lavoro quotidiano da compiere. Il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia
libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella
di morire, di testimoniare con la Resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è
rimasto un compito 100 volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare e stabili il loro
sogno di una società più giusta e più umana. Una solidarietà di tutti gli uomini alleati a
debellare il dolore. Assai poco in verità chiedono i nostri morti. Non dobbiamo deluderli”.
Non dobbiamo deluderli: votate e fate votare NO a parenti, amici, conoscenti (PwPt 23).
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