O la va o la spacca

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O la va o la spacca
Enrico Brizzi
O la va o la spacca
Una commedia nera
Romanzo
O la va o la spacca
“Un ragazzo diventa uomo quando c’è bisogno di
un uomo. Ho conosciuto dei ragazzi di quarant’anni
perché non c’era nessun bisogno di uomini”.
John Steinbeck, La fuga
primo tempo
I due vecchi custodi aspettavano da un momento all’altro il
rientro della signora.
Lui era in giardino, intento a censire per l’ennesima
volta ami e galleggianti della sua vasta dotazione da pesca.
Carezzava l’idea di spingersi al Lago di Valle Romita, la
domenica a venire, e vide solo all’ultimo momento le due figure
vestite di nero che gli arrivavano incontro attraverso il giardino
della villa. Sembravano passeggiare con noncuranza, ma in
testa portavano due passamontagna.
«Fuori di qui!» gridò il custode. «Cosa volete?».
Quelli però non si fermavano, così urlò: «Clara! Chiama
la Polizia!» e, come dimentico dei suoi problemi all’anca, si affrettò verso l’interno della dépendance, alla ricerca della scacciacani che teneva nel cassetto del soggiorno.
Lei fece appena in tempo a rendersi conto che il marito si era
lasciato la porta aperta dietro le spalle. Si affrettò lungo il
corridoio, il cuore che le batteva in gola, e incrociò i due che
entravano in casa sventagliando le pistole. Quando vide che
gli intrusi la ignoravano per occuparsi del marito, d’istinto
li seguì verso il soggiorno. «Non lo picchiate!» gridò. «Ha il
diabete!»
«Silenciu!» intimò il più alto dei due, imperioso e gutturale,
mentre l’altro, minacciando il custode con una vecchia p38, lo
obbligava a sedersi.
Parlavano con un marcato accento dell’Est, e il più alto,
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che doveva essere il capo, spiegò ai custodi che, se fossero stati
buoni, nessuno avrebbe fatto loro del male.
Il suo complice legò l’uomo alla sedia con quattro fascette
in plastica, poi fece lo stesso con la moglie e, ansimando per la
fatica, li sistemò entrambi faccia al muro.
«Dove casafortu?» domandò allora il capo, mostrando la
canna brunita della sua Beretta a quindici colpi. «Casafortu
di giuielli!»
Temendo il peggio, il custode rivelò senz’altro che la cassaforte si trovava dietro il quadro coi cagnolini nella camera
della signora. «Noi, però, non conosciamo la combinazione»
aggiunse, la voce che tremava come una fiamma nel vento.
«Nonvero! Divi dire kumbinasciò!» insistette il secondo
bandito. «Divi dire, o masso tua molie».
«Sette quattro sette otto!» sputò il rospo l’uomo.
«Sette quattro sette otto!» confermò la donna. «Lo giuro
davanti all’Altissimo!»
«Dobro!» approvò il capo. «Voi è intelijent!», dopodiché i
custodi furono imbavagliati e chiusi nel ripostiglio della dépendance.
Adesso i banditi avevano mano libera all’interno di Villa
Ester.
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1.
«Rilassati, cucciolo» sibilò la donna e, presa la
mano di Umberto, lo guidò ancheggiando verso la
camera da letto. «Ci sono io, adesso, a prendermi
cura di te».
Era nuda ad eccezione delle pedaline viola decorate di piume e, in testa, portava la parrucca bianca
da dama del Settecento che a lui piaceva tanto.
Umberto si lasciò condurre verso il cuore dell’appartamentino da cinquanta metri, e provò un brivido
d’orgoglio nel notare che, sul copriletto di raso fucsia, troneggiava la pantera in peluche, il suo primo
regalo per Vanessa.
«Ci dormi insieme?» domandò. Voleva essere un
commento spiritoso, invece la voce gli uscì indecisa,
come quella di un ragazzino.
«Solo con lei» garantì Vanessa. «Mi ricorda di
quanto possiamo stare bene insieme».
Avevano trascorso un finesettimana ad Abano
Terme, il mese prima, e lui, per la prima volta, aveva dormito insieme a una donna dopo averci fatto
l’amore.
Quella stessa donna di quarantadue anni improvvisò un ruggito mentre sfilava la giacca di lui,
un modello in panno di taglio giovanilista e marinaresco, corredato da ricercati bottoni color senape .
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Umberto l’aveva ritirata il giorno prima dai Fratelli
Villalta, sotto i portici di Piazza Grande; la firma
d’uno stilista emergente e il vezzo dei bottoni colorati facevano lievitare il prezzo oltre i 700 euro, e i
Villalta gli avevano assicurato che nessun altro, in città, poteva pavoneggiarsi fasciato da una meraviglia
del genere. Così lo colse un brivido di turbamento,
quando Vanessa lasciò cadere la giacca sul finto parquet ai loro piedi. Aveva udito distintamente l’urto
dell’iPhone aziendale sul pavimento e, per un attimo,
gli suonò in testa come un cattivo presagio la voce
chioccia e altisonante di sua madre che lo rimproverava per avere scheggiato il telefono. La vecchia ci
andava a nozze, con queste cose. Défaillance, le chiamava. Le défaillance del mio Bubi.
«Qualcosa non va, cucciolo?» domandò Vanessa.
Era stata cantante e ballerina, in gioventù, e continuava a pensare a se stessa come a una performer,
una pedina sulla scacchiera dell’industria dell’intrattenimento: il suo compito era ancora quello di distrarre
gli uomini, e far loro dimenticare i propri demoni.
Umberto si limitò a mormorare uno: «Scusa»
qualsiasi, per chinarsi a raccogliere l’iPhone dalla
giacca. Sembrava intatto: il guscio di gomma tempestato di teschi, acquistato il mese prima all’aeroporto
di Francoforte, aveva fatto il suo lavoro. «Lo metto
in modalità aereo» annunciò, per giustificarsi. «Così
dalla ditta non rompono».
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Vanessa, sorridendogli come faceva a tanti altri,
sussurrò: «Non ci pensare, amorino». Accennando
una piccola danza lasciva, lo spinse spalle al muro,
per inginocchiarsi di fronte a lui e liberare dall’intralcio della cintura i calzoni gialli con inserti scamosciati
da 250 euro, in teoria ispirati al mondo del golf.
Molti peluche li osservavano dalle scansie economiche allineate sulla parete opposta: c’erano Snoopy
e il gatto Garfield, ma anche animali generici, fra i
quali Umberto riconobbe una foca, un tenero koala e
una specie di Bambi. Provò a dimenticare chi poteva
averli regalati a Vanessa.
La pantera, in ogni caso, era di gran lunga il pezzo
più grande e maestoso della collezione. Rassicurato
da questa evidenza, chiuse gli occhi, affondò le dita
nel crine sintetico della parrucca, e lasciò che Vanessa
prendesse in bocca il suo incerto desiderio.
Federica, la sua fidanzata ai tempi dell’università,
non aveva mai voluto fare l’amore. Per lei, cresciuta all’oratorio della Cattedrale, era una questione di
principio: agli aperitivi fra amici al Baltimora sosteneva apertamente che nessun uomo, neanche il proprio
fidanzato, poteva sperare di godere dei suoi favori
prima del matrimonio.
La signora Ester Casagrande in Ripamonti, madre
di Umberto, la chiamava con malcelata ironia “Maria
Goretti”, e aveva cercato in tutti i modi di svilire la
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ragazza agli occhi del figlio. «Quella santerellina non
la racconta giusta, Bubi» era stato uno dei suoi ritornelli preferiti. «Fa tanto la verginella, ma mira alla
borsa».
Era la sua prima ragazza, e spesso Umberto le
giurava che avrebbe preferito morire piuttosto che
vedere la fine della propria storia. In suo onore, era
riuscito persino a contenere le obiezioni e tollerare i
dispetti di mamma. Federica era diventata pian piano
una presenza tollerata nel sacro recinto di Villa Ester,
dove ormai da anni risiedevano solo lui, la madre e
l’anziana coppia dei custodi.
Era ammesso che in agosto, quando la ditta era
chiusa, partissero insieme per un paio di settimane
e sulla sabbia bianca delle Isole Maurizio lui si era
inginocchiato e l’aveva chiesta in sposa. Il fatto che
lei avesse risposto di sì aveva mandato su tutte le furie la signora Ester, che considerava quel monosillabo una esplicita dichiarazione di guerra. «Se mi fai la
défaillance di sposarla, Bubi, mi tocca congelare le
tue quote» era arrivata a minacciare. «Non consentirò
che tutto quel che il tuo povero padre ha messo su
dal niente, finisca nelle mani di quella donna».
Per Umberto, non ottenere l’assenso della madre significava condannarsi a una vita di ristrettezze: niente più viaggi, cene o dividendi da spartire a
Natale. Tutto l’oro in cui navigava era intestato alla
ditta, e sua madre era in grado di chiudere i rubinetti
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con una semplice disposizione controfirmata dal ragionier Bianchi, il fedelissimo direttore commerciale
della Rigorex. Altroché sposarsi! Se la vecchia gli avesse voltato le spalle, all’invidiato Umberto Ripamonti
sarebbe toccato restituire la Golf cabrio, cercarsi un
lavoro e, nel mentre, non avrebbe avuto nemmeno
un posto dove vivere.
«Servirà tempo, ma l’avrò vinta» aveva annunciato alla ragazza, che invece cominciava a indispettirsi:
avrebbe voluto stabilire una data, lei, e si figurava già
tutti i particolari della cerimonia e del ricevimento.
Erano entrati in crisi e, il giorno in cui lei aveva
pronunciato per la prima volta le parole “Ti lascio”,
lui invano aveva pianto e implorato in ginocchio sul
selciato di Piazza Grande. Poiché era finito per rotolarsi con la bava alla bocca, le unghie affondate nelle
guance, ai soccorsi spontanei offerti dai villici, scesi
a Borgo per il passeggio del sabato pomeriggio, si
era sommato l’intervento dei vigili urbani. Dopo aver
dato spettacolo a quel modo, Umberto era corso a
Villa Ester, determinato a togliersi la vita, ma gliene
era mancato il coraggio, così si era limitato a cadere
in un grave stato di prostrazione. Per una settimana era rimasto tappato a Villa Ester, in pigiama dalla
mattina alla sera a contemplare sul monitor del computer le foto delle vacanze con Federica. Il Lexotan
che sua madre gli propinava di nascosto con la colazione lo manteneva stordito a sufficienza perché
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non commettesse spropositi, ma gli impediva anche
di studiare.
Era uno straccio, quando la ragazza lo riammise al
privilegio di considerarsi il suo fidanzato, ma ormai
avevano poco da dirsi: lui perdeva spesso il filo del
discorso, e lei ormai non ci credeva più.
Anche le loro effusioni, per quanto limitate, avevano lasciato del tutto il campo alle visite al nuovo
parco commerciale “Il Ducato”. Così Umberto si
era convinto, forte dell’occasionale frequentazione
di alcune passeggiatrici, che la sua fidanzata avesse un blocco psicologico, e si riproponeva di individuare uno strizzacervelli esperto nelle terapie di
coppia.
Era stato un brutto colpo, rendersi conto senza possibilità d’errore che l’embargo di Federica sul
sesso prematrimoniale non valeva per tutti: a un bel
punto, era apparso su internet un video nel quale
l’aspirante signora Ripamonti, lanciando le più oscene grida, soggiaceva agli assalti combinati di due uomini. Umberto, il volto rigato di lacrime, non aveva
potuto fare a meno di riconoscere alle spalle della
fidanzata il cinquantenne Omar Pignattaro detto il
Baffo, pizzaiolo e istruttore di tango. Il nero, invece,
nessuno in città sapeva dire chi fosse; in ogni caso,
Federica sembrava divertirsi un mondo a stargli cavalcioni.
Interpellata in via diretta, la ragazza sostenne di es18
sere stata drogata, ma qualcosa suggeriva a Umberto
di non crederle.
Le sequenze avevano fatto rapidamente il giro
di Borgo, con le sue ottantamila anime il quarto comune della Provincia, provocando scandalo, ilarità
ed eccitazione. Dopo gli ipocriti articoli del Nuovo
Corriere sulla “studentessa-pornostar”, c’erano state
le dure parole di Monsignor Galvani dal pulpito, e la
vergogna per la famiglia di Federica si era trasformata in allarme con l’afflusso di maniaci dalle contrade
circostanti, interessati a rintracciare in un modo o
nell’altro la protagonista del video.
«Che imperdonabile défaillance, Bubi!» l’aveva incalzato la madre. «Adesso, per colpa di quella puttana, le mie amiche mi rideranno dietro! »
Umberto, stordito dal dolore, sembrava incapace
di qualsiasi iniziativa, così era stata la madre a dettargli la lettera con la quale annunciava alla ragazza la
fine ufficiale del loro rapporto.
Federica si era dovuta trasferire da una zia a
Milano, dove non la conosceva nessuno, ma la reputazione di Umberto Ripamonti in città si era appannata senza rimedio.
Gli eloquenti sorrisetti che, a ventisette anni, lo
accoglievano al Baltimora erano solo il preludio della sua personale Via Crucis. Nel giro di poco erano
arrivate le scritte a bomboletta “Ripamonti cornuto”
vergate per il centro storico dagli ultrà della Vigor,
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le pernacchie lanciate dagli sconosciuti attraverso i
finestrini delle auto in corsa, e le crisi d’ilarità delle
ragazzine delle medie che se l’indicavano, incredule
e rosse in volto, mentre stazionava davanti al Gran
Bar Impero.
Si diceva che nell’antico locale, due o trecento
anni prima, si fosse fermato anche Napoleone, per
bere un cordiale mentre passava da quelle parti, di
gran carriera fra una battaglia e l’altra. In tempi più
recenti, poteva valutare Umberto, quel caffè era stato illuminato dalla frequentazione del cavalier Folco
Ripamonti, padre suo e della Rigorex, una delle più
insigni ditte della Nazione nel campo dei serramenti
in alluminio. Di loro, c’era da scommetterci, nessuno
aveva osato ridere a quella maniera. Lui, invece, era
diventato lo zimbello di quella città di merda.
Gli serviva aria nuova, ma non si poteva spostare
la ditta, così si era semplicemente trasferito da Villa
Ester a un bilocale di via Garibaldi, sperando che gli
stravizi fra amici aiutassero le ferite a rimarginarsi.
Da allora, Umberto Ripamonti aveva frequentato
solo prostitute; quando gli capitava di bere, nel corso
delle cene coi fornitori esteri alle fiere di settore, poteva vantarsi di aver fatto l’amore con più di cinquecento donne, al solito omettendo di averle pagate in
contanti una ad una.
Poi, sul finire dell’ultima estate, grazie a un annuncio sul giornale che pubblicizzava un nuovo centro20
massaggi, aveva conosciuto Vanessa. L’aveva capito
subito, che lei non era come le altre: intanto i massaggi li sapeva fare sul serio, e poi era gentile, dolce, e lo
ascoltava come nessuno si prendeva la briga di fare.
Umberto, un poco alla volta, le aveva raccontato dei
suoi trentanove anni di vita sottomessa, e lei, consapevole delle possibilità dell’erede Rigorex, aveva preso a riceverlo a casa come una buona amica, all’onesto ritmo di cento euro all’ora, trecento per la mezza
giornata e mille per tutto il weekend. Fare l’amore
era solo un dettaglio: il più era, come al solito, starlo
ad ascoltare. Vanessa era una donna paziente, e lui si
era innamorato in fretta: negli ultimi mesi, per ben
figurare, si era iscritto in palestra, aveva rinnovato il
guardaroba e si era regalato una Spider rossa dell’Alfa Romeo.
Ormai Umberto Ripamonti aveva dimenticato i
suoi demoni.
Vanessa succhiava di buona lena, concentrata sul
piacere di lui, quando avvertì una fitta alla base del
cranio. La maledetta tornava a farsi sentire.
«Vieni, amore» mascherò la vampa di dolore che
la spingeva a sdraiarsi. «Prendimi».
Si adagiò supina sul letto, le gambe ripiegate con
le ginocchia all’aria e i piedi aggrappati al bordo, in
modo che lui potesse vedere il solco del suo sesso. «Ti
prego, cucciolo» mormorò, mentre una parte muta e
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distante di lei tentava di sedare l’ennesimo attacco di
cervicale. «Fai godere la tua Vanessa».
Lui sembrava pronto, ma qualcosa ancora lo tratteneva, così Vanessa finse di darsi piacere con le dita.
«Dài, amore, vieni qui» mugolò, mentre la fase più
acuta del dolore lasciava spazio a una consapevolezza
nuova: aveva quarantatré anni, un mutuo da pagare,
e l’agenda del finesettimana era vuota in maniera desolante.
Umberto finalmente si chinò, entrò dentro di lei
e, senza emettere altro che vaghi lamenti, iniziò a
muoversi con un ritmo sempre più convinto.
Nonostante la forza di gravità e le prime smagliature ne minacciassero le grazie, Vanessa ci sapeva fare. Aveva altri clienti che si erano invaghiti al
punto di portarla fuori a cena e in albergo, nomi di
spicco nella rubrica del cellulare, ma passarli in rassegna in quel momento le faceva tornare mal di testa:
il vecchio Fortuna sapeva estenuarla di chiacchiere,
e con il Riccio della Digos saltavano sempre fuori
dei casini. L’Ingegnere dell’anas, poi, l’ultima volta
le aveva fatto un discorso che non le piaceva. Così,
piuttosto che delegare il finesettimana alla lotteria dei
clienti occasionali o, peggio, trascorrerlo insieme a
una squadra di operai stradali per secondare le smanie dell’Ingegnere, Vanessa si disse che era preferibile coinvolgere Umberto. Con lui ci si poteva sempre
regalare un buon weekend fuori città.
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«Forza, amore» lo incoraggiò. «Fammi sentire che
godi».
«Godo» replicò lui, con un filo di voce. «Oh, mamma! Godo forte» e, nello slancio dell’ultimo affondo,
i suoi occhi si specchiarono in quelli, gialli e sbarrati,
della pantera.
Lei gli lasciò appena il tempo di rifiatare. Lo sentiva ancora dentro di sé, quando sospirò: «Mi piaci
da impazzire, cucciolo. Io e te dovremmo regalarci
qualche giornata tranquilla, lontani da qui».
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