palinsesto - Casa del Giovane

Transcript

palinsesto - Casa del Giovane
Infanzia
Giovinezza
Gli anni al Carmelo
Verso il sacerdozio
Primi passi come sacerdote
L’arrivo a Pavia
L’inizio dell’accoglienza
La prima casa
L’opera si ingrandisce
Lo stile delle comunità
La salute vacilla
Verso la santità
Infanzia
Enzo Boschetti nacque il 19 novembre 1929 a Costa de’ Nobili (Pavia), secondo dei tre figli di
Esterina e Silvio Boschetti. Cinque giorni dopo ricette il sacramento del Battesimo da don Luigi
Giorgi, figura di riferimento per la sua prima educazione religiosa.
L’infanzia e la prima giovinezza coincisero con un periodo di difficoltà economiche familiari e uno
scarso profitto scolastico. Il padre, che faceva l’autotrasportatore, era spesso assente e per alcuni
anni fu costretto a emigrare in Africa. La scuola, d’altro canto, non riusciva a catturare l’interesse
del piccolo Enzo che fu costretto a ripetere due anni alle elementari (la seconda e la terza) e uno alla
Scuola di Avviamento Commerciale.
Mentre, da un lato, la sua intelligenza pratica non favorì un buon rapporto con lo studio, dall’altro,
si distingueva dai coetanei per un carattere riservato e una naturale inclinazione ad aiutare il
prossimo. Inoltre, la madre e il parroco del paese, il sopra citato don Giorgi, furono per lui guide
insostituibili: fin da bambino, infatti, egli fu una presenza attiva nella parrocchia dedicando parte
del suo tempo libero ai poveri e all’assistenza ai malati. Da don Luigi Giorgi, che aveva conosciuto
personalmente don Giovanni Bosco, iniziò ad apprendere quella “pedagogia dell’azione” che
contraddistinse il suo operato.
Giovinezza
A diciassette anni Enzo Boschetti non aveva ancora deciso nulla per il suo futuro. I rapporti con
l’Azione Cattolica erano diventati sempre più stretti e, durante le vacanze di Natale del 1946, fu
invitato per la prima volta a partecipare a un corso di esercizi spirituali organizzato dai Padri Gesuiti
a Villa Sacro Cuore a Triuggio (Milano). Uno in particolare, quello predicato da padre Della
Vecchia, segnò l’inizio della sua conversione verso una vita interamente dedicata alla sequela del
Signore: «Lentamente i piaceri del mondo perdono senso e lo sguardo penetrante di padre Della
Vecchia mi fa crollare tutto il mondo illusorio in cui vivevo» (Autobiografia A, don Enzo
Boschetti). Ritornò altre volte a Triuggio per trovare pace e cercare di capire quale fosse la volontà
del Signore. Fu alla soglia dei vent’anni, dopo essere stato fatto idoneo allo svolgimento del
servizio di leva, che i turbamenti interiori divennero schiaccianti. Decise così, senza preavviso e
senza dare una precisa spiegazione alla famiglia, di lasciare la sua casa e di ritirarsi a Villa Sacro
Cuore per approfondire la riflessione sulla sua vita futura. Era il 17 gennaio 1949. La solitudine, la
preghiera e la vita accanto ai padri Gesuiti l’avrebbero aiutato a fare chiarezza.
Nonostante la profonda ammirazione per i padri della Compagnia di Gesù, avvertì che quella non
era la sua strada. Una lettura di quei tre mesi trascorsi a Triuggio, l’autobiografia di santa Teresa di
Lisieux, Storia di un’anima, lo colpì particolarmente. Dopo essersi informato, venne a sapere che a
Monza c’era il ramo maschile dei Carmelitani Scalzi. Mentre padre Prezzi, dei Gesuiti, lo
accompagnava al Carmelo, don Enzo vide un’immagine che confermò la sua scelta: un frate
questuante, che poi scoprì chiamarsi fra’ Giuseppe, dall’aspetto semplice e sereno. Sentì che i suoi
passi si stavano muovendo nella direzione giusta.
Gli anni al Carmelo
Venuti a conoscenza del desiderio di farsi frate, Silvio ed Esterina Boschetti, accompagnati dal
parroco, si recarono a Triuggio per tentare di dissuadere il figlio da una scelta così radicale. Ma la
decisione era ormai presa.
Così il pomeriggio di Pasqua del 1949 Enzo Boschetti fece il suo ingresso al Santuario della
Madonna della Maternità a Concesa di Trezzo sull’Adda (Milano) per svolgere il periodo di
noviziato. Tra quelle austere mura, provò una gioia profonda. Ma le scelte non erano ancora finite:
padre Vittorio, maestro dei novizi, avrebbe preferito che prendesse la strada del noviziato come
fratello converso, poiché le vocazioni erano sempre più rare. D’altro canto, c’era la possibilità di
fare il percorso come postulante corista, e quindi di diventare poi sacerdote.
Enzo Boschetti iniziò il suo nuovo percorso spirituale in convento come fratello converso anche
perché i superiori ritennero, dopo un periodo di prova, che non fosse adatto – per via del suo
carattere attivo e la salute cagionevole – a proseguire gli studi che l’avrebbero portato a diventare
sacerdote. Nonostante questa prima delusione, gli anni al Carmelo furono fondamentali per la sua
maturazione: si nutrì dell’insegnamento di maestri della preghiera contemplativa come santa Teresa
D’Avila e san Giovanni della Croce; conobbe, attraverso il libro Come loro, la spiritualità dei
Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld; svolse lavori umili come il cuoco, il contadino, il
guardarobiere, il sacrestano, il portinaio e fece anche il questuante che lo mise a contatto diretto con
ogni ceto sociale.
Trascorse i primi tre mesi di noviziato a Concesa, poi venne trasferito all’Oratorio de’ Rossi a
Parma dove rimase circa un anno e mezzo. Il convento dei Carmelitani era poverissimo: non c’era
riscaldamento, né acqua calda e le camerette dei frati erano simili alle celle di una prigione. Il
freddo che Enzo Boschetti patì quell’inverno fu indescrivibile ma la gioia e la consapevolezza di
vivere una vita davvero povera lo ripagò di ogni sacrificio.
Una delle persone il cui ricordo non lo abbandonerà per tutta la vita la conobbe proprio tra le mura
del convento di Parma: era frate Pellegrino Mantica, fratello converso, che fu per lui un grande
esempio per l’eccezionale tolleranza, la straordinaria carità verso il prossimo, la preghiera costante,
la grande serenità e la rigorosa osservanza della Regola.
Nel 1952 Enzo Boschetti fece ritorno a Concesa per l’anno canonico del noviziato. Qui padre
Damiano di santa Teresa divenne suo confessore e direttore spirituale, un uomo giovane e austero
che lo accompagnò nel cammino verso la professione semplice dei voti. Alla vestizione ricevette il
nome di fra’ Giuliano di Santa Maria. I superiori poi decisero la sua nuova destinazione al convento
di Monza e qui, come già a Parma e Concesa, nel tempo libero assisteva alcuni ammalati della città.
E, sempre qui, il 15 gennaio 1956 emise la professione solenne dei voti. Subito dopo fra’ Giuliano
si rese disponibile ad andare in missione: pensava che in questo modo avrebbe servito meglio il
Signore e l’Ordine.
Il 24 febbraio del 1956 salpò dal porto di Napoli per raggiungere una missione carmelitana in
Kuwait guidata dal Vescovo Teofano Stella. Fu accolto con molto affetto e, nonostante il clima
torrido non gli fosse d’aiuto, si prodigò facendo lavori umili. Ma qui, a contatto con la fervente
comunità cristiana e turbato dal forte contrasto tra l’assoluta povertà di tanta gente e l’incredibile
ricchezza del ceto medio-alto, ritornò pressante in lui la vocazione sacerdotale. Visse una profonda
lacerazione interiore poiché posto davanti a una scelta radicale: restare al Carmelo come frate
rinunciando per sempre al sacerdozio o lasciare l’Ordine per seguire la nuova “chiamata”? Inoltre, a
questo dolore si accompagnava la sofferenza per il giudizio e le critiche per il suo comportamento
all’apparenza capriccioso e indeciso. Per fortuna monsignor Stella, suo superiore e confessore, lo
ascoltò e incoraggiò.
Rientrato in Italia, fra’ Giuliano trascorse prima un periodo a Roma al Collegio Internazionale
dell’Ordine, poi si trasferì al convento di Parma. Il 10 dicembre 1956 ottenne la dispensa dai voti.
Furono giorni segnati da un profondo travaglio interiore.
Verso il sacerdozio
A Scandicci (Firenze), presso una delle comunità dell’Opera Capelli per vocazioni adulte (Villa
Grazia), iniziò gli studi teologici. Qui la presenza di altri giovani, come lui seriamente impegnati nel
raggiungimento dell’obiettivo sacerdotale, alleviò la sofferenza per aver abbandonato l’Ordine e gli
rese meno faticoso lo studio. Di questo periodo Enzo Boschetti ricorderà l’amicizia con don
Quintino Sicuro, eremita dalla vita austera ma dalla profonda carità, e il coraggio e l’amore per i
sacerdoti e la Chiesa di Antonietta Capelli, fondatrice di due famiglie religiose.
Tuttavia il suo percorso verso il sacerdozio non fu facile: ai ritmi spossanti si accompagnarono ben
presto alcuni problemi di salute: un forte esaurimento nervoso che, con alti e bassi, l’accompagnò
per tutta la vita. I superiori decisero così il suo trasferimento in un’altra comunità dell’Opera Capelli
a Roma. Superato l’esame di ammissione, studiò i primi due anni di Teologia presso la Pontificia
Università Lateranense e gli ultimi due presso il Seminario Lombardo, sempre a Roma.
In quegli anni le visite al carcere di Rebibbia furono di fondamentale importanza per i suoi passi
futuri: la miseria di quel luogo e la povertà umana lo fecero sentire a suo agio, nonostante – queste
furono poi le sue parole – «quello che facevo era ben poco».
Dopo aver preso gli Ordini Minori a Roma, don Enzo Boschetti raggiunse il tanto sofferto ma
agognato traguardo: venne ordinato sacerdote il 29 giugno 1962 nella Cattedrale di Pavia.
Primi passi come sacerdote
A un mese e mezzo dall’ordinazione, don Enzo Boschetti fu destinato come curato a Chignolo Po
(Pavia) presso la parrocchia guidata da monsignor Giuseppe Brambilla. Qui finalmente poté iniziare
ad attuare quanto da tanti anni desiderato: oltre a sostenere e motivare i ragazzi dell’oratorio, don
Enzo accettò la sfida di riuscire ad avvicinare alla Chiesa le persone più lontane per disinteresse,
vizio o ideologie politiche. In paese stupiva per la sua capacità di dialogare, discutere e coinvolgere
in momenti formativi e ricreativi sia bambini che adulti. Ma questo atteggiamento di apertura verso
tutti non andò a genio a qualcuno. Infatti, accanto alle lodi per l’operato del giovane prete,
cominciarono a levarsi alcune critiche. Queste furono solo le prime che don Boschetti subì nel
portare avanti il progetto di riscatto e conversione di tante povere anime.
L’arrivo a Pavia
Dopo due anni, il 19 agosto 1964, tra le contestazioni della gente di Chignolo Po, don Enzo
Boschetti ubbidì agli ordini dei superiori e accettò il nuovo incarico presso l’oratorio San Mauro
della parrocchia SS. Salvatore a Pavia.
Situata in una zona di transito e nei pressi della stazione ferroviaria, la Parrocchia era molto vivace
e nel tempo era diventata un punto di riferimento per gli adulti e i ragazzi del quartiere anche grazie
alle attività dell’Oratorio di cui l’8 dicembre del 1965 si festeggiò il cinquantesimo anniversario
della fondazione. In questa occasione emerse un problema: la zona oltre il ponte della ferrovia stava
conoscendo un momento di forte espansione edilizia e, conseguentemente, un notevole incremento
demografico. Nuovi palazzi, case, scuole, uffici andarono a riempire il quartiere fino alla riva destra
del fiume Ticino. Se, da un lato, questo rappresentava un’evoluzione positiva per la prosperità della
città, dall’altro, la distanza dalla chiesa non facilitava il coinvolgimento dei nuovi “parrocchiani”
nei riti religiosi e nelle altre proposte di vita cristiana. Inoltre, la zona era frequentata da immigrati,
senza fissa dimora e dai primi tossicodipendenti per i quali la vicina stazione era diventata un luogo
di ritrovo. Don Enzo Boschetti era profondamente turbato da questa emergenza manifestata dai suoi
superiori e già constatata personalmente.
Una prima risposta a questa necessità arrivò qualche mese dopo quando Giulia Del Vecchio diede la
possibilità di utilizzare come luogo di aggregazione un suo garage poco distante dalla Parrocchia
ma più vicino alla zona “a rischio”. Così don Enzo Boschetti, assieme al prevosto monsignor
Allorio, avviò l’apertura pomeridiana del nuovo piccolo Oratorio dove i bambini potevano
incontrarsi per giocare e seguire le lezioni di catechismo. Ogni pomeriggio si concludeva poi con la
recita del Santo Rosario a cui partecipavano anche i genitori.
In questo ritrovo di fortuna mancava però una statua della Madonna che conferisse un senso
religioso al luogo e ai loro incontri. I ragazzi, con l’aiuto di don Enzo, organizzarono una colletta e
acquistarono a Milano dagli Artigianelli una statua della Madonna di Lourdes. La gioia per questa
piccola, ma importante, conquista fu presto rovinata da una lettera dell’amministratore del
condominio in cui si trovava il garage: nonostante la lodevole iniziativa, si leggeva, la struttura
doveva presto essere riportata alla sua funzione originaria poiché il transito di autoveicoli costituiva
un rischio per l’incolumità dei bambini che frequentavano l’oratorio e, inoltre, i rumori e gli
schiamazzi disturbavano i condomini.
Per non vanificare gli sforzi fatti fino a quel momento, ben presto un’altra persona andò incontro
alle nuove esigenze della Parrocchia: un seminterrato, sempre nella stessa zona, fu offerto a don
Enzo Boschetti dal signor Dino Messina per un affitto modesto. Così le attività proseguirono in
questi nuovi locali: l’Oratorio divenne un punto di riferimento per i più piccoli e nel seminterrato si
tenevano regolarmente anche alcuni incontri di preghiera.
Emerse così l’esigenza di fondare una nuova chiesa. Si aprì un dibattito sull’opportunità che fosse
autonoma o legata al SS. Salvatore. Dopo varie vicissitudini, fu avallata la seconda ipotesi e,
nell’attesa che il nuovo luogo di culto fosse edificato, l’umile seminterrato sopperì a tale necessità:
ai momenti di preghiera si unirono le prime celebrazioni. Era l’embrione dell’attuale Cappella del
Sacro Cuore.
L’inizio dell’accoglienza
Il 28 febbraio 1968 il Vescovo chiese a don Enzo Boschetti di spostarsi anche come abitazione nel
seminterrato che ospitava il nuovo Oratorio e la cappella del Sacro Cuore. Don Enzo accettò di
buon grado anche perché in questo modo poteva non solo seguire di giorno i ragazzi del rione ma
ospitare in modo anonimo e clandestino i senza fissa dimora e i primi giovani che cominciavano a
far uso di sostanze stupefacenti. All’inizio si trattava di un’accoglienza poverissima: non c’erano
letti ma erano sufficienti un tetto, un piatto caldo, una coperta e un tavolo da ping pong su cui
adagiarsi per ridare calore e speranza. Le vicine suore del collegio San Giorgio e alcuni
parrocchiani furono di grande supporto a don Boschetti contribuendo con il loro servizio e alcuni
beni materiali. A queste attività, divenute ben presto di routine, don Enzo aggiungeva
l’insegnamento a scuola e l’assistenza ai nomadi che transitavano nella Diocesi di Pavia.
Questo suo modo di fare carità fu però attaccato da alcuni borghesi del quartiere poiché ritenevano
pericoloso che gente “poco raccomandabile” si aggirasse in prossimità delle loro abitazioni. Don
Enzo Boschetti non si lasciò scoraggiare e, nonostante continuamente gli si frapponessero ostacoli,
proseguì senza indugio l’opera di assistenza appena iniziata. Presto però sentì la parola e il concetto
di “assistenza” troppo stretti: era fermamente convinto che gli aiuti materiali non fossero sufficienti
a far riguadagnare autostima e dignità alle persone emarginate. La vera sfida si poneva a livello
educativo e attraverso l’inserimento lavorativo.
Padre Molin, gesuita della chiesa di San Rocco a Parma, che si occupava di giovani a rischio, gli
consigliò di prendere in affitto una casa per poter offrire un’accoglienza più sistematica alle persone
che accettavano un aiuto. Non avendo disponibilità economiche, don Enzo fu a lungo tormentato da
questa idea.
La prima casa
Una prima risposta a queste sue preghiere arrivò con l’affitto di una casa fatiscente in viale Libertà
49 a Pavia, a pochi passi dall’Oratorio. L’appartamento però non aveva le carte in regola per l’avvio
di un rigoroso piano educativo per ciascuno dei giovani accolti. Lo spazio ero esiguo e sempre più
numerose le persone in difficoltà. Diventò così stringente la necessità di trovare una struttura più
ampia e funzionale. Nel 1970 una signora pavese morì lasciando al Comune la sua grande casa di
via Folla di Sotto per la realizzazione di un’opera benefica per l’infanzia. Venutone a conoscenza,
don Enzo Boschetti chiese a due suore dell’Istituto San Giorgio di intercedere presso il marito, tal
colonnello Viani, per ottenere il mutamento delle intenzioni della defunta a favore di un’opera per
giovani bisognosi. L’anziano coniuge non mosse obiezioni e, superati altri ostacoli, don Enzo riuscì
a pagare le costosissime tasse di successione. Casa Madre, così venne battezzata, fu la prima vera
comunità fondata da don Enzo Boschetti. Era il 1971, anno in cui si costituì l’associazione Piccola
Opera San Giuseppe, avente come finalità il recupero sociale, morale e cristiano dei giovani in
situazioni di disagio. L’Associazione fu riconosciuta come Ente morale il 9 ottobre del 1978 dal
Presidente della Repubblica, acquistando così personalità giuridica.
L’Opera si ingrandisce
Negli anni che seguirono, al moltiplicarsi dei problemi si accompagnò un aumento costante del
numero dei volontari impegnati, tra cui molti anziani, che donarono se stessi nel servizio ai
bisognosi. Oltre all’aiuto concreto, fu di notevole supporto l’amore e la passione riversata sui
ragazzi accolti che potevano così contare su un rapporto di fiducia e stima reciproca. Nel 1975 don
Enzo Boschetti dettò la prima Regola di Vita per i volontari residenti definendone il carattere
spirituale e di servizio a tempo pieno e alla pari.
Sempre in assoluta povertà e provvisorietà furono aperte altre comunità: per esempio, a Biella, il
primo inverno si dormì senza porte; anche a Casa Nuova (Pavia) si soffrì il freddo a causa delle
pareti di legno e la comunità Cascina Giovane, a Samperone (Pavia), non ebbe inizi migliori per via
del caldo opprimente.
Lo stile di vita che la Comunità proponeva generò vere e proprie vocazioni concretizzando uno dei
sogni di don Enzo Boschetti: agli inizi degli Anni Ottanta alcuni giovani, sia uomini che donne, che
si erano avvicinati alla Casa del Giovane per svolgere un periodo di servizio anche come obiettori di
coscienza, sentirono la “chiamata”. Per alcuni la vita in Comunità non fu più semplicemente un
momento di passaggio ma si tradusse in una profonda scelta di vita. Si aprì quindi un orizzonte
nuovo, un progetto ardito e impegnativo, che portò don Enzo a istituire una casa per la formazione –
attraverso lo studio, la preghiera e il servizio – di queste emergenti vocazioni.
Lo stile delle comunità
Senza fissa dimora, extracomunitari, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati in regime di semilibertà,
minori in affido temporaneo, malati psichici, ex prostitute: don Enzo Boschetti cercò di offrire una
sistemazione a chiunque bussasse alla sua porta e a chiunque egli riuscisse, attraverso il dialogo e
tanta pazienza, a strappare dalla strada. Per tutta la sua vita continuò ad andare a cercare gli
“sbandati”, i senza tetto, coloro che non avevano il coraggio e la forza di chiedere aiuto.
Per restituire una vita equilibrata e dignitosa alle persone accolte, don Enzo Boschetti individuò
alcuni elementi imprescindibili: la vita in comune, il lavoro, la formazione, il tempo libero, lo studio
e, non ultimo, l’approfondimento della propria esperienza di fede.
In particolare, egli strutturò il lavoro dei ragazzi accolti destinandoli, sulla base delle competenze o
predisposizioni, presso i diversi laboratori che nel frattempo erano stati creati: centro stampa,
falegnameria, officina meccanica, carpenteria, edilizia, ecc. Ogni laboratorio era controllato da un
responsabile attento alle esigenze reali dei giovani, alla cura degli strumenti, dell’ordine, ai criteri
più validi per suscitare interesse e impegno. Anche all’interno delle singole case venivano svolte
alcune attività come il giardinaggio, l’allevamento di animali da cortile o la produzione di piccoli
oggetti artigianali.
Inoltre, per rispondere ai bisogni delle persone accolte, la Comunità man mano si arricchì di figure
professionali specializzate: accanto all’opera pregevole dei volontari, si affiancò così il supporto
indispensabile di educatori, insegnanti, psicologi e, all’occorrenza, di medici di base e specialisti in
malattie infettive, neurologia, psichiatria, chirurgia, ematologia e odontoiatria.
Nel 1986 le comunità erano ben diciassette, collocate tra Lombardia e Piemonte e con una struttura
ben organizzata e una costante tensione verso la sensibilizzazione della società con incontri,
spettacoli, presentazioni di libri e momenti di servizio e confronto.
La salute vacilla
L’infaticabile farsi carico dei problemi e delle preoccupazioni vive e concrete degli altri, la gestione
sempre più articolata e complessa delle case di accoglienza incise inevitabilmente sulla sua salute:
nel 1987 subì un intervento chirurgico allo stomaco. Fu l’inizio di un lungo periodo carico di
sofferenze fisiche e psicologiche con frequenti ricoveri per il vecchio esaurimento nervoso che
ancora lo tormentava e l’assillo per la crescita della Comunità e dei giovani.
Dedicò gli ultimi anni della sua vita al consolidamento dello stile educativo e alla cura delle
vocazioni poiché molti, attirati dal carisma discreto ma radicale che egli incarnava, trovarono in lui
una proposta vivente e attuale di Vangelo. Fu esigente soprattutto nella formazione di coloro ai
quali ritenne di lasciare la conduzione della Comunità. Nonostante l’acuirsi della malattia, non
trascurò neppure l’aspetto sociale attivando un “Osservatorio sul disagio” per la raccolta di dati
statistici nazionali, regionali, provinciali e comunali su lavoro e disoccupazione, droga, alcolismo,
handicap e invalidità, dati demografici generali.
L’11 febbraio del 1992, il vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Volta, approvò lo statuto
dell’Associazione privata di fedeli Casa del Giovane, riconoscendo l’autenticità delle vocazioni e
dello stile più che ventennale della Comunità. Questo fu per don Boschetti il coronamento e
l’attestazione di un impegno ormai consolidato.
A settembre del 1992 gli fu diagnosticato un tumore al pancreas. Si sottopose a un delicato
intervento chirurgico in un ospedale specializzato a Esine in Valcamonica ma il male era già
avanzato. Così nei mesi successivi subì frequenti ricoveri in ospedale per sottoporsi a cure
chemioterapiche e soggiornò in ambienti tranquilli e adatti ad accogliere la sua sofferenza. Intanto,
il 21 novembre dello stesso anno Franco Tassone e Massimo Mostioli, tra i primi obiettori di
coscienza presso la Casa del Giovane, furono ordinati sacerdoti e destinati all’assistenza spirituale
dell’Opera. Fu un evento che riempì don Enzo Boschetti di gioia.
Verso la santità
Nonostante avvertisse la fine della sua esistenza terrena, si astenne dal dare indicazioni sul futuro
della Comunità affidandosi completamente al Signore e al Vescovo suo rappresentante.
Don Enzo morì il 15 febbraio 1993. Il dolore per la sua morte colpì profondamente i membri e i
giovani delle sue comunità e tutti coloro che, direttamente o indirettamente, avevano conosciuto la
sua figura e la sua opera. Una processione dapprima modesta, poi sempre più numerosa,
accompagnò la salma fino al Duomo di Pavia dove furono celebrati i funerali. Nella cattedrale si
assieparono tantissime persone di ogni estrazione sociale e di varie appartenenze, tutti accomunati
dal desiderio di salutare per l’ultima volta un umile sacerdote che, nel nascondimento e nella carità
silenziosa, seppe fare molto per la Chiesa, la società e i poveri.
Il corpo fu tumulato, per sua volontà, nel piccolo cimitero del suo paese d’origine, Costa de’ Nobili.
Nel 2000 monsignor Volta incaricò i responsabili della Comunità di raccogliere le testimonianze
riguardanti la vita e le virtù di don Enzo, permettendo così di arricchire e preparare il materiale
necessario all’avvio della Causa di Beatificazione. Intenzione confermata poi ed espressa
ufficialmente il 14 dicembre 2005 da monsignor Giovanni Giudici, nuovo vescovo di Pavia.