Accordi - Colti sbagli

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Accordi - Colti sbagli
Matteo Pelliti
Accordi
Blog-racconti d'occasione
La cintura di Fibbionacci*
Io, che di mestiere faccio i buchi nelle cinture per i pantaloni e che di nome faccio Fibbionacci
Leonardo, conservo tutti gli scarti delle mie perforazioni in un grande settimanale cubico, al centro
del laboratorio. Dietro a un vetro che mi fa da vetrina, seduto su un panchetto con le gambe segate,
passo le mie giornate: buco le cinghie, calcolo gli spazi con esattezza, tra un foro e l’altro, ora
ravvicinando la scelta ora allontanandola, a seconda delle richieste del girovita dei clienti. Le
cinture, a guardarle controluce, sembrano rivelare un codice numerico perforato che ti chiedi dentro
quale macchinario si potrebbe mai ricavarne la rispondente traduzione.
La prima fila di cassetti l’ho riempita dopo poco più d’un anno di lavoro. Ma poi fui preso da una
fastidiosa insoddisfazione verso me medesimo ed il mio stesso sistema di conservazione di quelle
migliaia di tondini di cuoio, coriandoli spessi che segnano, a centinaia, lo scorrere uguale del tempo
della mia vita e del mio lavoro, che poi è lo stesso. Così ho pensato di disporli in modo più
ordinato: svuotata tutta la prima fila di cassetti, ho iniziato a ridistribuire i tondini. Uno solo nel
primo cassetto, ed uno solo anche nel secondo. E mentre guardavo la particella di cuoio sul fondo
del primo e del secondo cassettino, che mi parevano proprio la faccia di un dado, mi venne in mente
una specie di filastrocca: “Uno è uno ed è uguale ad uno, e pure l’eleate ce lo sa, mentre nega
dualità”. Chiusi i due cassetti contemporaneamente con entrambe le mani, la filastrocca sparì di
colpo, come quando, una volta, si sollevava la puntina dal microsolco. Ecco, come se in testa avessi
un solco di filastrocca a cui la faccia del dado dava voce.
Nel terzo cassetto, invece, misi due tondini; li disposi uno vicino all’altro, che a guardarli dall’alto il
fondo del cassettino pareva proprio la faccia d’un dado. E riaprendo anche i primi due cassetti,
anche quelli sembravano le facce di un dado. Aprivo e chiudevo i cassetti molto lentamente, per non
spostare i tondini dal fondo del cassetto. Nel quarto cassetto appoggiai tre tondini, ben disposti in
diagonale. Non avevo ancora appoggiato il terzo frammento che fui preso da una cantilena, che mi
rimbalzava in testa e che mi costrinse a riaprire, lentamente il cassettino coi due tondini:
“Due sta per “tue” o per “bue” - o sta per due, a tombola e cinquina, se invece amba allora sta
per “gamba”, e le gambe vanno per due, o a multipli di due- a 4 a 6 -. Due chiacchiere, due punti,
due parole per far due passi, due uova sode, due sassi, due anime gemelle, due frittelle, due occhi,
due reni e due polmoni, due antichi zebedei, due remi sulla barca, due bestie in cima all’Arca, due
pesi e due misure, due scarpe e due calzini, due coppie di bambini - Abele e il suo Caino, o Remo e
Romolino?- due denti del giudizio, due sposi e due anelli, due porte e due portieri, due orecchie per
ascoltare più che parlare perché Due sta per “tue” o per bue…..”
Ma chiudendo il cassetto con lentezza anche questa seconda cantilena che mi rigirava in testa se ne
andò, stavolta lentamente, a sfumare. Poggiato il terzo tondino nel quarto cassetto, aspettavo ormai
di sentire la nuova litania che il numero m’avrebbe dettato. Niente. Silenzio. Sposto i tre tondini,
col mignolo, sul fondo del cassetto: niente. Ma proprio quando sto per chiuderlo ecco che:
“Tre sono i Magi, tre le figlie del dottore, tre le civette sul comò, tre le spade moschettiere, tre i
colori fondamentali, tre son le sillabe delle “vocali”, tre sono gli angoli triangolari, tre le virtù
teologali e le arti liberali, tre le parti del mistero trinitario, tre l’anagramma del treno quasi in
orario…”.
Il fondo di ogni cassetto che prendeva forma di faccia di dado generava una sua cantilena; almeno,
così pensavo io, mentre finivo di sistemare i quattro tondini di cuoio nel quinto cassetto. E così,
tanto per anticipare quella fantasia vocale che mi aspettavo nella testa da un istante all’altro, inizia a
pronunciarne una, ad alta voce: “Quattro cantoni, quattro gattoni, quattro evangelici scrittori,
* Racconto "dadista" per il movimento "Dadista" ispirato da Zop, (http://zop.splinder.com )
quattro stagioni per –armadi- quattro stagioni per amanti quattro stagioni, quattro ruote motrici,
quattro nuore fattrici, quattro i triangoli equilateri per sei stuzzicadenti einsteiniani, quattro i
cavalieri, quattro le virtù cardinali, quattro le arti liberali…..”.
Pronunciavo questa sequenza del quattro ma la sentivo nella testa solo in virtù della mia voce:
fissavo i quattro tondini ma non sentivo niente, niente di automatico, niente d’involontario. Chiusi il
cassetto del quattro, in silenzio, a testa sgombra. Nel sesto cassetto, al contrario, non feci in tempo a
posare sul centro del fondo il quinto tondino che subito iniziai a sentire la sequela del cinque, come
cantata sul ritmo sghembo di un cinquequarti: “Cinque sono i sensi, cinque i sacri libri, cinque le
righe musicali, cinque le punte della stella, cinque le dita della mano, cinque le………..
Arrivato a disporre sulla faccia del dado/fondo di cassettino i sei frammenti di cuoio mi misi in
attesa della canzoncina sul sei. Ma anche stavolta, niente da fare. Non provai neppure a cantarmela
da me. E questo silenzio si ripeté anche col sette. Disponevo ormai i frammenti di cuoio con una
certa rapidità, dedicandoci poco tempo, tra una cintura e l’altra da preparare o rifinire - e se la mia
storia ve la raccontasse un altro o altra contastorie vi saprebbe inondare, forse, con profumi di cuoio
e di vernice, sfumature tattili, sinestesie eccentriche e magie magiche del sud o del nord…. –
Nel nono cassettino disposi otto tondini di cuoio, e con l’otto la filastrocca si manifestò di nuovo,
come una specie di formula magica (e ci sono cascato anch’io..): “Otto biscotto, vola aquilotto
sopra il leprotto, basso il bassotto fatto d’ottone, ottovolante senza catene, ottogenario ottocentesco
studia il tedesco, otto ottomani, su un’ottomana, giocano a scacchi: otto le righe per otto caselle,
otto pedoni, numero magico di nucleoni…otto biscotto, vola aquilotto…..”
Insomma, io non ho studiato poi tanto e faccio buchi sulle cinture, tutto qui, ma capivo pure che
c’era qualcosa di strano nella mia testa; o nella cassettiera, non so. Fatto sta che riaprii tutti e nove i
cassetti per guardare quel dado spalmato sul loro fondo di legno, quadrato. Ed è così che mi accorsi
della sequenza che mi faceva scattare in testa, in sequenza, le filastrocche. Capii che se volevo
continuare a sentire quelle cantilene dovevo seguire una certa numerazione, riempire i cassetti con
un numero preciso di scarti di cuoio. Ma volevo davvero continuare a sentire quelle cantilene?
Dopo alcuni giorni, l’attività di sistemare l’esatto numero di tondini di cuoio nel cassetto
corrispondente era diventata la mia occupazione principale: foravo le cinture non più per i clienti,
ma solo per avere a disposizione un numero sufficiente di scarti tale da raggiungere i numeri
richiesti dalla sequenza: 13, 21, 34, 55, 89, 144 e fin qui tutto bene. Ma riempire il cassetto con 144,
233, 377, 610, 897 tondini di cuoio non fu immediato. Davanti a me la sequenza iniziava a
presentarsi nella sua totale impraticabilità pratica: le filastrocche non le sentivo nemmeno più né me
ne venivano in mente. Mi occorrevano 1597, 2584, 4181, 6765 tondini per riempire i cassetti della
seconda fila e non li avevo. Iniziai allora a rovinare cinture già pronte e da consegnare ai clienti pur
di raggiungere i numeri che mi occorrevano. La vetrina la tenevo chiusa, con una spessa tenda
grigia, la porta sbarrata: seguivo solo i numeri della sequenza. Dormivo poche ore per notte, e
continuavo a forare cinture, fori su fori, meccanicamente, come un automa, mentre tutto intorno a
me si ammonticchiavano gli scarti lisci e precisi di migliaia di tondini di cuoio.
Proprio in questo momento, mentre vi sto scrivendo, ho il pensiero di completare il prossimo
cassetto che ne dovrebbe contenere ben 28657. Ma non so se il cassetto potrà mai contenerne tanti
e, in più, ho quasi finito tutte le cinture e tutto il cuoio per fare cinture che avevo in negozio. Vi
chiedo soltanto, a voi che avete letto fino a qui la mia strana storia, di aiutarmi: fate un buco in più
alle vostre cinture e speditemi lo scarto. Ma non fermatevi a fissarlo nel palmo della vostra mano,
perché potrebbe sembrarvi la faccia di un dado. Io canterò per voi una filastrocca.
Gonzalo a Berceto
Quella riva del torrente Manubiola sulla quale s’apre, a destra, una piccola valle, nell’Appennino
parmense, ancora oggi osserva, dal basso, il piccolo e antico paese di Berceto. E’ qui che avvenne
un incontro, la cui memoria ha viaggiato nei secoli dentro ai proverbi del luogo, mescolando, o
confondendo, narrazione storica e burla, aneddoto, colore locale e filologia medievale. Il compito di
raccontare come andò la cosa è da sempre ritenuto territorio di confine e quindi terra di nessuno:
particella insignificante, per gli storici e per i letterati; granello di sapienza paesana e, quindi, troppo
familiare, per gli indigeni. Eppure, l’incontro tra un chierico vagante spagnolo ed un contadino
arguto, avvenuto in una sera di circa otto secoli fa alle porte di Berceto, è storia che forse vale
ancora la pena di riportare, e d’ascoltare, per misurare le misteriose distanze che il Caso, i linguaggi
e i destini sanno mettere in scena nel mondo. Questo è, dunque, quanto possiamo sapere noi oggi di
quella vicenda, stando alle fonti storiche, alle biografie ed alla tradizione orale raccolta in quei
luoghi.
In una sera di primavera di un anno imprecisato corrente più o meno intorno alle metà degli anni
trenta del secolo Tredicesimo, diciamo tra il 1234 e il 1237, un monaco spagnolo camminava
lentamente, al tramonto, verso Berceto. Scendeva, da Nord a Sud, lungo la Francigena, l’antica via
dei pellegrini, tracciata a guidarli da Canterbury a Roma, in devozione alla tomba dell’apostolo
Pietro. Camminava col passo del camminatore devoto e con una stanchezza piena di pensieri e
preghiere e poesia, scandendo i passi al ritmo della metrica dei versi che, nella sua mente, formava a
gruppi, a grappoli. Li ricordava, esercitando ad un tempo memoria e fantasia:
”Amigos e vassallos de Dios omnipotent,
si vos me escuchássedes por vuestro consiment,
querríavos contar un buen aveniment:
terrédeslo en cabo por bueno verament.
Yo maestro Gonçalvo de Berçeo nomnado,
yendo en romería caeçí en un prado,
verde e bien sençido, de flores bien poblado,
logar cobdiçiaduero pora omne cansado….”
Gonzalo de Berceo era il nome di quel chierico, e in quella sera primaverile la sua stanchezza e la
sua poesia lo stavano portando alle porte di Berceto. Un pensiero al suo paese lontano, in una
spagna castigliana, Berceo, deve averlo attraversato all’incontro con un toponimo tanto simile,
familiare, accogliente. Le mani giunte a tenere, sulla spalla destra, una bisaccia piena, lo sguardo sui
calzari impolverati, le labbra a sussurrare il rosario di un poema infinito, Gonzalo si dirigeva allora
verso l’ultima tappa utile, per fede e riposo, prima del valico appenninico: il Duomo di San
Moderanno. Gonzalo voleva visitare quella sacra stazione, riposare un poco, osservare da vicino
una preziosa formella d’antica arte longobarda che, si diceva, raffigurasse due pavoni ai lati della
croce. Era una sosta davvero obbligata per lui, e pensava di ripartire entro un paio di giorni. Al
contrario di quel Moderanno, anche lui di passaggio in quel di Berceto, anche lui viaggiatore lungo
la Francigena, e poi fermatosi per sempre in quei luoghi. Gonzalo conosceva la leggenda di San
Moderanno e, senza poterlo rivelare a nessuno, un po’ ne aveva sorriso in cuor suo e ne sorrideva
pure in quella sera in cui si ritrovò proprio nei pressi di Berceto. Il sant’uomo, Moderanno, infatti,
s’era fermato a Berceto - così racconta Radoino, un monaco che resse la comunità di Berceto prima
dell’anno Mille - mentre trasportava a Roma le reliquie di San Remigio. Legati i preziosi reperti ad
un ramo di un albero, per non farseli rubare, non aveva poi potuto più recuperarli perché i sacri resti
avevano iniziato ad arrampicarsi sempre più in alto. Il segno miracoloso convinse Moderanno a
stabilirsi nel luogo dell’evento e a fondare lì un monastero.
Gonzalo, scrittore e poeta raffinato, non aspirava a tanto: gli bastava solo riposare un poco le gambe
e i piedi, quella sera, e pregare. A pochi chilometri di distanza da Berceto, Gonzalo vede avvicinarsi
una figura tozza e scura, tanto che, in lontananza, non capisce bene se quel fagotto bruno che
sembra venirgli incontro lentamente lungo la strada sia un animale, un cinghiale o che altro. Si
ferma. Posa la bisaccia, prende fiato, si protegge gli occhi dall’ultimo sole della sera e aspetta che i
contorni sfumati dell’essere indistinto gli si facciano più vicini. A un centinaio di metri, il fagotto
scuro inizia a somigliare ad un bipede, a sessanta metri ad un cristiano, a trenta ad uno straccione, a
venti ad un mendicante, a dieci ad un contadino. A cinque metri Gonzalo vede distintamente l’uomo
che gli sta per passare accanto, ma a questo punto quell’uomo è davvero più somigliante a qualcosa
di selvatico che di cristiano: scalzo, coperto di fango fino alle caviglie, con stracci maleodoranti e
arrangiati alla meglio per coprirlo, una specie di arnese per scavare la terra dietro alle spalle. Gli
occhi piccoli, infossati, da faina, il cranio largo e con pochi radi peli dietro alle orecchie, il naso
largo e taurino. Sulle prime Gonzalo pensò di abbassare lo sguardo e proseguire il cammino, ormai
giunto alla sua destinazione. Ma, per un momento, incrociò lo sguardo umano e disumano insieme
del contadino e, probabilmente, pensò che anche quell’impasto di fatica, sudore e fango fosse pure
lui, in fondo, creatura e figlio del Creatore. Così, aspettò d’essere abbastanza vicino da rivolgergli la
parola, e lo saluto, prima con un cenno del capo, poi con una parola più simile ad un suono di
saluto. Non ricevendo riposta dal contadino, Gonzalo sollevò la testa, si schiarì la voce e recitò una
sua quartina:
“Semeja esti prado egual de Paraíso,
en qui Dios tan grand graçia, tan grand bendiçión miso;
él que crió tal cosa maestro fue anviso:
omne que y morasse nunqua perdrié el viso…"
Il contadino, allora, si fermò: le rughe del viso colmate dal fango si allargarono in un sorriso, come
se la musica del verso lo avesse riportato di colpo da uno stato ferino ad una dolcezza infantile e
umanissima. A Gonzalo si allargò il cuore, e fece un sospiro profondo, ringraziando il Signore per il
dono di averlo fatto tramite di parole tanto potenti. Si avvicinò all’orco recuperato e pensò di
chiedergli informazioni sul tragitto e sulla sua destinazione. In un misto di latino e spagnolo volgare
castigliano, e con molti gesti di condimento, chiese se stava percorrendo il sentiero giusto verso la
Chiesa di San Moderanno, dentro Berceto. Il contadino tornò per un attimo allo stato primordiale
del suo aspetto, facendosi scuro. Non capiva. Gonzalo riprovò a gesti e parole; iniziò pure a
mischiare qualche sillaba presa dagli idiomi del luogo, che aveva ascoltato e assorbito lungo il
tragitto, con spezzoni di frasi latine e spagnole. Niente. Ritentò ancora, per non mandare sprecato
quella specie di sortilegio miracoloso che la musica interna al metro della sua poesia gli era parso
suscitare nel volto infangato del contadino: ”Yo maestro Gonçalvo de Berçeo nomando! Yo
maestro Gonçalvo de Berçeo. Gonçalvo de Berçeo! Yo maestro de Berçeo!! De Berçeo!!!!”
Sulla parola “Berceo” il contadino annuì timidamente e, dopo una lunghissima pausa, sottovoce, col
sole già tramontato, lungo la Francigena proprio poco fuori Berceto, davanti al primo poeta di
lingua spagnola della storia, stremato dalla fatica del lavoro nei campi e con poche sillabe proprie
del suo dialetto eppure così prossime al latino dei dotti, disse: ”A m’è devis…”.
Gonzalò intuì la frase, perché quelle sillabe dialettali erano proprio un timido “Mi sembra”, dritte
dritte da un “mihi visus est”, e capì che troppo, troppo simili erano i nomi di Berceto e Berceo, il
suo paese d’origine, perché il contadino potesse mai capire chi lui fosse e cosa mai chiedesse.
Ancora oggi, in paese, ai turisti che fermandosi chiedono indicazioni, notizie o la via del Duomo,
non è raro che qualche vecchio, sorridendo risponda così: ”A m’è devis…”. Almeno, così mi
sembra.
(dedico questo racconto a Demetrio, in omaggio alle nostre fruttuose corrispondenze via mail)
Il sogno del batterio
C'era una volta, in un paese lontano, freddo d'estate e caldo d'inverno, una ragazza che passava le
notti a studiare i batteri. Un notte, vinta dal sonno, poggiò la testa su una grossa pila di appunti,
messi accanto al microscopio come un cuscino, e si addormentò. Sognava. Sognava i batteri, che la
salutavano, le sorridevano, la prendevano per mano come in una danza, un girotondo, una
coreografia da vetrino, ghirlanda colorata e mutevole. Poi, nel sogno, i batteri, stanchi, si
addormentavano insieme alla ragazza. E sognavano. I batteri sognavano una ragazza, di un paese
lontano, freddo d'estate e caldo d'inverno, che passava le notti a studiare i batteri. Così, quando la
ragazza si svegliò, non sapeva più se avesse dovuto e potuto continuare a studiare i batteri o se lei
stessa non fosse solo il sogno di uno dei batteri che stava studiando.
(Libera reinterpretazione del "Vecchio e la farfalla": "Una volta Chuang-Tzu sognò d'essere una
farfalla: era una farfalla perfettamente felice, che si dilettava di seguire il proprio capriccio. Non
sapeva d'essere Tzu. Improvvisamente si destò e allora fu Tzu, gravato dalla forma. Non sapeva se
era Tzu che aveva sognato d'essere una farfalla o una farfalla che sognava d'essere Tzu. Eppure
tra Tzu e una farfalla c'è necessariamente una distinzione: così è la trasformazione degli esseri.
" (dal Libro I cap. II - § 18, di Chuang-Tzu )
Piccola narrazione ispirata a Roxana e a lei dedicata.
Lo storico gemellaggio tra Roccasola ed Erfinden.
Un mattina il sindaco del paese di Roccasola, leggendo la cronaca del quotidiano locale, si accorse
che il suo Comune era l’unico, dell’intera provincia, a non aver stipulato un gemellaggio con una
cittadina straniera. Di lì a pochi giorni era previsto un incontro regionale tra tutte le amministrazioni
comunali gemellate e le rispettive delegazioni straniere, ed il sindaco non voleva certo mancare
all’appuntamento, rendendo così manifesta la scarsa attitudine all’europeismo ed agli scambi
culturali della sua amministrazione. Bisognava correre ai ripari, e rapidamente.
Meglio non parlarne in Consiglio comunale, che poi l’opposizione ci monta su una storia
(l’opposizione, nelle realtà locali, attiva la virulenza e l’efficacia del proprio ruolo in maniera
inversamente proporzionale all’esiguità concettuale e morale del problema). Bisognava agire
segretamente, coinvolgendo pochi funzionari fidati, l’intera giunta (tre assessori), le associazioni
cultural-sportivo-ricreative del paese (una sola, di cui presidente era, tra l’altro, l’assessore alla
cultura, l’associazione “Viva Roccasola”).
Riunione segreta nella sede sociale dell’associazione, un salone dietro al bar :
“Signori, la situazione è grave e dobbiamo trovare una soluzione in tempi davvero brevi; la
prossima settimana c’è l’incontro di tutti i comuni gemellati, ed io non posso permettermi di non
partecipare”, esordì il sindaco seccamente. “Come facciamo a trovare una città straniera che non sia
già gemellata, o che sia interessata a gemellarsi con noi?”, chiese il capo della polizia municipale
(webmaster del sito comunale e addetto alle relazioni esterne); “E poi, guarda, che non ci sono soldi
in bilancio, per attivare a questo punto dell’anno un gemellaggio. Tu non hai idea di cosa costino
queste cose, tra viaggi, gagliardetti, regali per le delegazioni, le targhe, le majorettes, e metti le
bandiere, ospita i cugini delle mogli e così via…”, intervenne sconsolato l’assessore al bilancio (uno
tra i notabili del paese, una farmacia ben avviata, diversi affitti da riscuotere, un fondo di proprietà
adibito a edicola/barbiere).
“Non possiamo mica inventarcelo su due piedi un paese da gemellare!”, disse il sindaco spazientito
dalle osservazioni che andava ascoltando. “Eppure, forse, si potrebbe” intervenne l’assessore alla
cultura (capo-bibliotecario del paese ed ex maestro di scuola), “potremmo inventarci un paese, che
so, della bassa Carinzia, o della Provenza, o dei Paesi bassi, o della Spagna. Facciamo un bel
gonfalone, due costumi tipici e siamo a posto: andiamo all’incontro e nessuno se ne accorgerà”. Il
silenzio che seguì la proposta dell’assessore funzionò come un farmaco per le ansie del sindaco, più
durava il silenzio più a tutti sembrava geniale e risolutiva la proposta dell’invenzione. “Facciamo
così – disse il sindaco riprendendo fiato – tu trovi il nome della città inventata, tu scegli i figuranti
da portare in Regione, tu disegni e fai cucire il gonfalone straniero e gli abiti tradizionali”.
E così andò: nell’arco di una settimana la delegazione di Erfinden, ridente paesino della Carinzia,
era bella e pronta a presentarsi perfettamente gemellata con Roccasola, con tanto di vestiti similtirolesi e baffi ossigenati. Raccontano, però, che all’incontro regionale molti delle delegazioni
straniere, inspiegabilmente mute, si riconoscevano tra loro e che a stento riuscirono a frenare un
secolare campanilismo che le avrebbe portate, volentieri, a sbugiardarsi a vicenda.
Viva Roccasola e viva Erfinden.
L'orchestra russa
Alla Royal Albert Hall ci sono stato. Stavo a Londra da tre mesi e lavoravo lì, al teatro, nella
biglietteria. Così finiva che di concerti ne sentivo parecchi, ma di musica sinfonica non ho mai
capito molto. Ricordo che una volta hanno anche sparato in sala, e poi lo sparatore è volato giù dal
parapetto di un palco laterale. Più o meno quattro anni fa arrivò lì un’orchestra russa, ma non
tiravan su neanche un penny: troppa concorrenza, troppi concerti in città. Gli hanno negato le sale
più grandi, poi quelle di medie dimensioni e, alla fine, quando c’erano non più di dieci spettatori in
sala, anche quelle piccole. Per mettere insieme la colazione con la cena, l’orchestra russa iniziò ad
esibirsi per strada. In piccoli gruppi, quartetto d’archi, ottetto d fiati, archi da camera, ensemble, si
auguravano buona fortuna al mattino presto prima di dividersi nelle strade della City.
Il compenso stava nei cuori, nelle mani, nelle tasche dei passanti frettolosi, degli astanti musicofili,
dei turisti sorpresi. Ne scrissero anche i giornali, anche fuori dall’Inghilterra. Una sera, nella
biglietteria dorata della Royal Albert Hall, dietro ad una pagina di giornale, scrissi questa piccola
poesia, in memoria e ad onore dell’orchestra russa:
L’orchestra russa,
corpo diviso
come per anatomia,
suona sparsa
a gruppi in Londra
e spera negli spiccioli:
La minore tredicesima,
è possibile
elemosina,
di strada.
Non obliar d'obliterar
Chi volesse ricostruire, tra gli studiosi di qualche secolo in avanti, la storia della civiltà
contemporanea visitando un deposito di vecchi autobus abbandonati, lasciati a perder la vernice e a
farsi attraversare dal vento tra le porte spalancate e i vetri rotti, e provasse per questo a sedersi in un
posto in testa o in coda di una carcassa vuota, dopo aver spolverato la seduta di finto velluto a coste
in mezzo alla struttura di plastica arancione con una poderosa manata, e da lì guardasse con molta
attenzione la forma ed il colore della macchinetta obliteratrice, ebbene quello non riuscirebbe a
valutare con esattezza, dai dati sensibili in suo possesso, l’anno in cui la vettura avesse compiuto
l’ultimo suo servizio.
Pensavo queste cose stamattina, nel momento in cui timbravo il mio abbonamento personale urbano
del mese di novembre. Da qualche tempo, infatti sono compresenti sui diversi autobus urbani
differenti macchinette per timbrare i biglietti, di epoche e forme differenti. La più antica, ancora
piuttosto diffusa, pare imparentata con quelle delle stazioni, gialle e tozze. Si presenta in due
varianti, con o senza display indicatore del servizio. Quelle senza display hanno una lucettina verde,
se in regolare funzione. Quelle con display si dividono, a seconda dell’età, in quelle con visori
dettagliati (ora, mese, giorno) e quelle con visori generici (in funzione/ non attiva). L’evoluzione di
queste macchinette è stata un tipo analogo per servizi ma differente nello stile: non più gialla, ma
blu, più arrotondata, con visore generico ma, soprattutto, non più anonima: sotto la consueta fessura
che attende il biglietto, un nome in caratteri gialli e tondeggianti, OBLY. Il terzo tipo di macchina
che si può trovare sui bus urbani, infine, ha abbandonato le proporzioni tipiche delle precedenti
scatolette obliteratrici, poco più alte della loro profondità, per slanciarsi lungo il paletto di supporto
e presentarsi come una scatola piatta, meno profonda di un biglietto, bicolore gialla e blu,
misteriosamente dotata di due feritoie sovrapposte e priva di qualsiasi finestrella informativa.
Chi ha a che fare quotidianamente con questi apparecchi, vale a dire chi non affida ad un
abbonamento mensile o annuale il risparmio sull’uso intensivo dei mezzi pubblici consumando,
castamente, il rapporto simbolico tra macchina e biglietto solo una volta al mese - o una volta
l’anno - nel giorno di prima ed unica timbratura del talloncino, sa che la vera differenza tra le varie
macchine non sta tanto nella forma, nel colore o nelle funzioni. Certo, i sistemi di timbratura
possono differire notevolmente e mettere capo a molte categorie, imprimendo sul biglietto tante e
tali informazioni da farne una prova inconfutabile d’innocenza o colpevolezza: una serie di quattro
cifre, poi giorno-mese-anno, poi ora e minuti esatti, numero di punti impiegati per comporre numeri
e lettere, colore e intensità dell’inchiostro, errori, sbavature, imperfezioni, perforazioni e
menomazioni della carta, timbri in rilievo. Biglietti, carnet di biglietti, biglietti a corse multiple,
biglietti orari, urbani ed extraurbani, tessere d’abbonamento, mensili, annuali, ridotto, ridotto
studenti, anziani, lavoratori: un universo testuale che andrebbe analizzato con la cura e lo stile che
solitamente si dedicano a testi più impegnativi, romanzi, opere d’arte, saggi filosofici. Ma non è
questo frastagliato apparato testuale, contraltare, sposo, amante e infine impronta digitale delle
macchinette obliteratrici a farle diverse l’una dall’altra. Chi volesse ricostruire la storia della civiltà
contemporanea stando seduto, tra qualche secolo, dentro all’autobus che prendo ogni mattina per
andare al lavoro insieme al maresciallo in pensione, alla studentessa, allo scrittore, all’assessore,
non potrebbe sentire quello che posso ascoltare io e che sentono tutti quelli che timbrano il biglietto:
la voce dell’obliteratrice, il suo timbro sonoro. Occorre quindi ricominciare da capo la
catalogazione, secondo un’altra dimensione, quella dell’onomatopea.
Le macchinette più vecchie, inchiostro sbavato, giorno sovrapposto all’ora, fanno un rumore tipo:
CTOC. Quelle squadrate, ma con display informativo, inchiostro più chiaro, caratteri puntiformi,
niente sbavature, ora ben leggibile, fanno: TRRRRTIC. Quelle piatte, a doppia misteriosa fessura,
scrittura puntiforme ben leggibile e senza sbavature, fanno un suono molto più nasale, c’è dentro
qualche S, qualche Z, qualche GN. Mi sembra che dicano qualcosa tipo: SGNIIISZ. E’ buffo perché
il suono, così come accade talvolta il contrario con l’aspetto delle persone nelle quali al volto o al
fisico non corrisponda minimamente il tono di voce, pare adattarsi proprio alla fisionomia della
macchinetta filiforme, aristocratica, disinteressata al fatto che si timbri o meno il titolo di viaggio.
Sgniiisz, fa la macchinetta; e un po’, lo confesso, mi dispiace, di poter produrre quel suono così
tecnologicamente efficiente, pulito, soltanto una volta al mese.
“Non obliar d’obliterar”*, per sentire il suono di una modernità passata nella civiltà moderna e
quotidiana, urbana e circolare.
*(“Non obliar d’obliterar”, è un 'espressione tratta da Fosforo di Alessandra Berardi, in
“Oplepliana. Dizionario di Letteratura Potenziale”, a cura di Raffaele Aragona, Zanichelli Editore,
Bologna 2002)
All'asta dei numeri primi
Una volta, a Londra, si è tenuta un'asta davvero singolare: si batteva l'aggiudicazione di un numero,
un numero primo composto da milioni di cifre; il suo valore è elevatissimo, in tutti i sensi:
applicazioni in campo di sicurezza informatica, dicono, forse qualche sistema di crittografia
militare, pare sia formato da più di sei milioni di cifre, ma non è certo, non si hanno conferme dalla
casa d’aste. I convenuti per contendersi a caro prezzo il raro articolo erano divisi in varie categorie:
nelle ultime file della sala stavano i curiosi squattrinati, mano a mano che ci si avvicinava al pulpito
del banditore, invece, le possibilità d’acquisto al rialzo crescevano proporzionalmente, ed in milioni
di euro per ogni fila di sedie. La prestigiosa casa d'asta aveva posto un’unica clausola per
l’ammissibilità delle offerte: queste dovevano essere espresse solo attraverso numeri primi. Il
numero primo più alto proposto avrebbe aggiudicato il numero primo bandito.
Ai più era parsa una stravaganza inutile della gara; in più, tale richiesta aveva imposto alle spalle
del banditore un enorme calcolatore a forma d’armadio: un enorme scatolone grigio scuro, semplice
pannello di controllo del calcolatore vero e proprio che occupava due sale intere della casa d’aste,
tutta stucchi e legni antichi. L’ingombrante macchinario serviva a valutare la validità delle cifre
proposte. Su un lungo tavolo alla destra del pulpito stava, inclinato da una serie di leggii, un quadro
impacchettato e sigillato con della ceralacca rossa: il quadro conteneva, un numero dietro l’altro per
più di sei milioni di volte, la faccia dell’enorme primo all’asta.
Ben presto molti contendenti finirono i numeri primi a loro disposizione. Solo i gruppi di ricerca più
organizzati, Fondazioni, Università consorziate, grandi magnati dell’informatica, nelle prime file
continuavano la folle gara al rialzo. Certo, un rialzo lento, dettato dai tempi di risposta dei rispettivi
centri di calcolo sparsi in mezzo mondo, e collegati via rete, e dal tempo di verifica dell’offerta da
parte dell’armadio della casa d’aste. Proprio il lungo tempo di verifica in sala consentiva ai
competitori di formulare il rilancio. Tutto questo per molti giorni, e molti mesi. Fino ad un giorno in
cui…fino a che non ci si accorse che…nella rincorsa all’acquisto del raro articolo, l’enorme numero
primo da più di sei milioni di cifre, si rischiava di raggiungere con l’offerta proprio il numero che si
voleva acquisire. E poi chi garantiva loro che il numero aveva davvero sei milioni di cifre e non
meno? E se l’offerta fosse stata costituita da un numero primo superiore a quello messo all’asta? Il
numero dell’offerta milionaria avrebbe avuto, in sé, un valore monetario superiore a quello del
numero offerto all’asta. Accadde così che si fermarono tutti: l’ultima offerta aveva proprio superato
i sei milioni di cifre che, stampate, davano forma ad un bel quadro compatto e scuro, dalle
dimensioni simili proprio a quello sigillato sul tavolo, vicino al pulpito del banditore.
Un raccontino coperto da Copyleft (citate fonte e autore -io-, please, se lo riutilizzate). L'immagine
qui sopra, invece, è di Matthew Harvey©2003
Benvenuti nella macchina
Il signor Cosimo Benvenuti ha 36 anni ma ne dimostra 51. E’ single ed oltremodo stempiato. (E’
oltremodo stempiato e, quindi, single). Abita al quarto piano d i un palazzotto ottocentesco, nel
centro città. Sul suo campanello, accanto al portone, sta scritto “Dr. C. Benvenuti”, su una
strisciolina adesiva, una tempo bianca, accanto a tutte le altre targhette, griffate sull’ottone. Tutte le
mattine esce di casa molto presto, toglie il telo protettivo dalla sua Panda 45 bianca del 1984, lo
ripiega con cura nel bagagliaio. E’ il primo agosto e non piove da un mese. Siede compostamente al
volante, pulisce le lenti con la fodera in seta della sua cravatta, allarga d’un foro la stretta della
cintura (per poter respirare sblusando la pancia), mette in moto. Benvenuti nella macchina.
Il primo chilometro lo passa auscultando il motore, accelerando appena. Gira intorno al palazzo,
quasi un giro di prova intorno all’isolato per prendere la “spinta gravitazionale” capace di lanciarlo,
d’incoraggiarlo ad affrontare il traffico verso l’ufficio. Imboccato il corso principale, è ancora alle
prese con la sintonia della radio. Smanetta, sbuffa, suda, un occhio alla strada ed uno al cruscotto.
Al semaforo, saluta un lavavetri, gli allunga un euro: quello finge d’immergere la spugna nel
secchio semivuoto, peggiora con decisione la visibilità del parabrezza. Benvenuti riparte, apre i
finestrini: i finestrini totalmente abbassati generano due vortici tropicali intorno alla sua nuca, e
sollevano dei fogli sul divanetto posteriore, inclinato come una culla. Un foglio vola fuori dal
finestrino. Il lavavetri raccoglie il foglio, lo piega e lo mette in tasca.
Benvenuti arriva in un parcheggio coperto, sotto agli uffici dove lavora. Si asciuga il sudore sempre
con la fodera della cravatta di seta. Si aggiusta i pochi capelli rimasti, cerca di riordinare i fogli. In
ufficio, in un corridoio alcuni colleghi lo salutano. Una ragazza gli fa un cenno di buongiorno, poi,
quando Cosimo si è allontanato, scoppia in una risata cattiva. Benvenuti consegna i fogli. Il suo
principale li scorre rapidamente: ne manca uno. Lascia cadere i fogli sulla scrivania, fissa Benvenuti
(che, sudato e agitato, tortura la punta della cravatta). Si chiude, sbattendo, la porta del principale
dietro alle spalle di Benvenuti. Ripercorre a testa bassa il corridoio. Scende nel parcheggio. Siede
nella sua macchina e si mette a piangere sul volante. Poi solleva lo sguardo: nello specchietto
retrovisore del parabrezza vede il vetro posteriore. E’ perfettamente pulito e sotto il tergicristallo c’è
un foglio. Cosimo Benvenuti inizia a suonare il clacson, per la prima volta nella sua vita felice,
nella sua macchina. Benvenuti nella macchina
(Aspirante cortometraggio muto in concorso al BlogRodeo Multimedial)
Alla bocciofila di Chiavari*
Viaggiando in treno, da sud verso nord in direzione Genova, di necessità dovrete passare dalla
stazione di Chiavari. Qui avete due sole possibilità: o state andando a proprio a Chiavari, e quindi vi
conviene cominciare a salutare, senza troppa cerimoniosa poesia, i vostri occasionali compagni di
scompartimento; oppure non dovete scendere a Chiavari, ma da qualche altra parte più a nord. Nel
primo caso non potrete fermarvi ad osservare con attenzione, fuori del finestrino, l’avvicinarsi della
stazione. Se, invece, non dovete scendere potreste ascoltare questa breve storia che, ne sono certo,
tornerete a ricordare ogni volta che vi capiterà di passare davanti alla stazione di Chiavari.
Bene, stiamo per entrare in stazione, il treno rallenta: alla vostra sinistra, palazzi, case,
sottopassaggi stradali, semafori, anche uno spicchio di mare, ma giusto un’intuizione di mare. Poi,
improvvisamente, una specie di villetta affacciata sul binario. E’ una casa, rosa tenue, su tre piani: il
primo scivola giù nel grigio del sottopasso per le auto; il secondo apre l’ingresso davanti ad una
ringhiera in cima ad una scaletta ripida, di cemento; la ringhiera, che corre parallela alla strada e sta
a perpendicolo con la ferrovia, si affaccia proprio sul primo binario, quello che va a nord, il “senso
legale di marcia” del treno; il terzo piano per metà fa una grande terrazza coperta alla meglio, con
l’ondulato di plastica verde trasparente che non si usa più. La casa ha una sua ordinata compattezza
e, se non fosse per quella scritta blu sopra l’ingresso, sopra la ringhiera che guarda la strada, ti
chiederesti com’è che l’hanno fatta costruire così a ridosso del primo binario.
Il treno va abbastanza piano da farvi leggere compiutamente la scritta blu, che poi sul rosa tenue ci
sta pure bene: Dopolavoro ferroviario. Le lettere sono alte e strette, tutte uguali. A destra, un paio
d’insegne, marche di caffè. O forse è lo stesso caffè, perché la pubblicità cambia e gli hanno portato
l’insegna nuova. Sopra, nella terrazza coperta, c’è tutto un groviglio d’antenne: si riconosce la
parabola bianca per vederci le partite il sabato sera.
Sul retro del Dopolavoro c’è una specie di veranda: la potete vedere comodamente se non dovete
scendere, oppure se, scendendo a Chiavari, siete ancora davanti ad un finestrino lato mare, o
affacciati alla finestrella dello sportello sulla piattaforma. La veranda somiglia alla terrazza, ma
somiglia anche ad un giardino coperto, ad una pista da ballo, ad una pista da corsa. Riparata dal
sole, tra il verde, le fa da sfondo un bel muro bianco, sul quale sta scritto, a caratteri cubitali rossi:
Bocciofila Dlf; sì, è un campo da bocce, perché dirla “bocciodromo” sarebbe eccessivo e, forse,
inesatto. Se avrete la pazienza di seguire ancora questa storia, perché è lì che si è svolta, sul campo
da bocce, vi capiterà di immaginarvi il protagonista anche quando, come adesso che ci passiamo
accanto, rivedrete la bocciofila deserta. Scusi, ma lei non doveva scendere qui? Ah, vuole sapere
cosa è successo? Allora, guardi, glielo racconto in due parole.
Eravamo rimasti a leggere la scritta della bocciofila; devono averla rifatta da poco, perché il bianco
del muro è proprio bianco, ed il rosso è ancora bello brillante. Ora, chi potrà mai voler giocare a
bocce praticamente quasi dentro ad un binario ferroviario, con la confusione degli arrivi e delle
partenze, e col frastuono dei treni che non si fermano nemmeno, coi freni, col fischio, con l’odore di
ferro al sole che vien su dalle traversine? Sicuro: ferrovieri ed ex-ferrovieri. Sono loro che ci
passano i pomeriggi, interi pomeriggi e, d’estate, anche la sera, che ci fa pure un bel fresco sotto la
veranda del campo da bocce. Il più forte giocatore della Bocciofila Dlf Chiavari era - così vuole la
leggenda - un ex macchinista: Luigi Tredici; Luigino, per gli amici dopolavoristi. O meglio, Luisito,
per i compagni di bocciofila. L’avevano soprannominato così per via di una certa somiglianza col
calciatore argentino Luisito Suarez e, in particolare, perché Luigino prestava una cura estrema nel
tingersi i capelli e nel pettinarli, come Suarez, con una brillantina profumata. Luigino-Luisito era
così: un signore settantenne, magro e piccoletto, non più di un metro e sessantotto, un gilet di
cotone verde scuro anche in agosto. Avete presente Suarez? Ecco, così. Il più abile giocatore di
bocce di Chiavari.
*Pubblicato su Sacripante n. 4 http://www.sacripante.it/004/contrappunti/12.asp
Dovete sapere che, di solito, a bocce si gioca a squadre, e che la squadra ideale deve avere almeno
uno stratega, uno che sappia colpire dalla distanza le bocce avversarie e uno che sappia accostarsi al
boccino. Luisito era unico in tutti e tre i ruoli; averlo in squadra era già una mezza vittoria. Astuto
come pochi, gentile con i compagni di squadra e con gli avversari, simpatico, pronto allo scherzo,
un pozzo d’aneddoti di una vita passata sui treni. Raccontano che in partita, tra un colpo e l’altro,
sapesse riconoscere provenienza e destinazione d’ogni treno che gli passava accanto.
Un pomeriggio di maggio, la prima giornata veramente calda a Chiavari da settimane, con i primi
turisti stranieri in calzoni corti e gli alberghi già quasi pronti alla stagione, alla Bocciofila del primo
binario si giocava un torneo intercomunale. Da Rapallo, da Sestri, da Moneglia, da Santa
Margherita, le squadre delle rispettive bocciofile dopolavoristiche si sfidavano lì, sul primo binario.
Alle sei di sera, la pista è già ombreggiata. Sta a Luisito tirare, e la boccia è davvero scomoda; deve
decidere se accostarsi di precisione nel traffico dei punti degli avversari o se lanciare lungo, a
sparigliare le posizioni guadagnate dall’altra squadra, togliendole punti. E’ nervoso, temporeggia.
Guarda l’orologio. Sa che deve fare in fretta, perché più o meno alle 18.20, minuto più minuto
meno, passa l’intercity 538, e quello non ferma a Chiavari, anzi, fa un baccano che non hai idea, se
non ti trovi lì a due metri dalle traversine. Luisito è in vera difficoltà; si avvicina per vedere meglio
la posizione di gioco, studia la posizione del boccino, annusa nell’aria l’arrivo del treno, l’elettricità
che si avvicina, l’aria che si sposta, il fruscio che viene dai binari. Torna nel cerchio di lancio,
all’inizio della pista. Coraggio, Luisito!
Decide di accostare, non se la sente di fare un lancio lungo; teme che l’arrivo del treno, improvviso,
gli sposti tutta la traiettoria in aria. Accosta. Il movimento del lanciare la boccia lungo la pista per
accostare il boccino ha una dolcezza unica: il rotolamento sembra una carezza silenziosa al suolo, il
rumore che ne esce sembra una specie di suono che vince l’attrito. Forse c’è troppo attrito, forse c’è
un granello di troppo, ma il tiro sembra corto. Il tiro è corto e arriva il treno. La boccia arretra
mentre l’aria calda spinta dall’Intercity entra nel binario. La boccia rallenta sempre di più, tanto che
puoi vedere la trama a granito nera e bordò frammento per frammento. Il treno fischia per avvisare
che non si fermerà, perché non si deve fermare. La boccia lanciata da Luisito è quasi ferma, le
rimane una piccola porzione di movimento, ma resta lontana dal quartiere delle bocce che stanno a
punto. Luisito si mette una mano sulla fronte. A questo punto, così almeno me l’hanno raccontato, il
muso del locomotore dell’intercity 538 sta quasi per affiancare la pista: il macchinista riconosce
Luisito di spalle, è lui che gli ha insegnato il mestiere. Allora, per salutarlo, dà un colpetto di freno,
leggero, e fischia di nuovo; magari Luisito si gira e lo saluto, pensa. E, infatti, tutti si girano: perché
un intercity che frena e fischia a due metri da te fa un gran baccano, che non lo immagini neppure
se non ti ci trovi a due metri. Luisito si gira e saluta l’allievo. I due si sorridono, mentre la boccia di
graniglia nera e bordò riprende a muoversi: si rianima. La frenata leggera, le vibrazioni di quelle
tonnellate in movimento sono arrivate a cedere un po’ di spinta alla boccia di Luisito, che va ad
appoggiarsi proprio contro il boccino.
Sono cose che succedono, ma solo ogni tanto. Se vi capitasse di passare dalla stazione di Chiavari,
magari, date un occhiata anche voi; e se vedete un ometto che somiglia a Suarez che gioca a bocce
vicino al primo binario, salutatelo per me, dal finestrino.
Accordi*
Mi Bemolle.
Forse è stato un bene che la natura mi abbia fornito di un certo grado di deformità; no, non
moltissimo, ma quanto basta per risultare sgradevole alla vista, quel tanto da far indugiare lo
sguardo dei passanti e poi farlo voltare di scatto, imbarazzati e attratti dalla bruttezza, dal lato
meraviglioso del mostruoso.
La settima diesis nona.
Sono così fin dalla nascita, un orecchio quasi inesistente, una virgola di cartilagine, e l’altro
spropositato; un occhio semichiuso, l’altro troppo aperto.
La bemolle sesta.
Gli animali si accorgevano subito che io stavo per passare; dicono che c’è un riconoscersi primitivo
tra chi ha sensi ipersviluppati. E io ho sensi ipertelici, inumani. Certo, non tutti. Sembra ridicolo a
dirsi, dato il mio padiglione auricolare floscio come un ombrello rotto, ma io ho un orecchio
assoluto. Ma no, non so suonare, no; io sento le tonalità. Sento chi consuona.
Mi bemolle/sol - Fa diesis
Quante possibilità ci vengono date alla nascita! Tu nasci, e sei un bel Mi bemolle maggiore: puoi
andare dove vuoi, puoi fare quel che vuoi. Certo, dipende anche dalle persone che ti stanno intorno,
da quelle che incontrerai strada facendo. Dipende da quali accordi consuoneranno quelli che
troverai sulla tua strada
Si bemolle settima - Fa
Mia madre, ad esempio. Quando la vedevo passare, ed ero ancora nella culla, io non capivo quella
sensazione che provavo: solo molti anni dopo gli avrei dato il suo nome: Si bemolle settima. Mia
madre era un accordo di Si bemolle, e quando mi vedeva, anche nella mia deformità, io sentivo che
lei diventava per me un bellissimo Si bemolle settima.
Mi.
Mio padre era un Mi naturale. Fermo, muto, impassibile. Io lo studiavo, e sapevo che aveva paura di
me; aveva paura di me e lo disgustavo; quasi non riusciva a toccarmi: gli facevo impressione. Lo
paralizzavo nel suo Mi naturale, senza nessuna possibilità di alterazione. Non diventò un Mi minore
o, che so, un Mi con la quinta diminuita neppure prima di morire; restò un Mi, per sempre.
Fa minore.
L’amore. Sì, l’amore spesso si nascondeva dentro i Fa minori. Cioè, io le vedevo, mi innamoravo di
certe ragazze, e sapevo che non le avrei mai potute avere; ma che dico avere, non avrei mai potuto
ricevere nemmeno uno sguardo umano da loro. Allora sentivo subito che erano tutte dei brutti Fa
minore.
Se lo guardi bene, il Fa minore, soprattutto verso sera, d’inverno, quando fa buio presto, è facile che
ti venga pure da piangere.
Sol minore settima.
Le amicizie sono un treno che ti porta lontano; le amicizie ti portano dove vogliono loro, ti ci puoi
perdere dentro. Sono un passaggio necessario; dicono: accordi di passaggio. Io ho sempre sentito il
sol minore settima nelle amicizie: c’è la promessa, c’è l’attesa; chissà cosa capiterà dopo, chissà
cosa faremo e dove andremo dopo.
* Pubblicato su Sacripante n. 3 http://www.sacripante.it/003/contrappunti/13.asp
La bemolle sesta – La minore settima/quinta bemolle
C’è qualcosa di primitivo nel sesso. Io l’ho solo immaginato, intravisto da lontano, annusato nelle
corse degli altri. Il La minore settima contiene tutto il mistero ancestrale del sesso. Se ascolti bene,
per strada, tra i passanti, uomini, donne, ti puoi accorgere se stanno pensando a quella cosa lì: il La
minore settima li avvolge come un profumo, come una nuvola di feromoni, come una tentazione
primordiale: l’Eden è stato perduto al suono d’un La minore settima.
Fa minore settima
Ci sono anche strade obbligate, errori, passi falsi, vicoli ciechi. Io giro la mia testona asimmetrica,
cerco di captare con l’ombrello floscio del mio orecchio destro tutti gli accordi possibili che mi
passano accanto, ma ogni tanto sento che anche il destino vuole giocare la sua parte, per portarmi
dove vuole lui, e non volevo io. Ecco, è in quei momenti che arriva come un vento freddo il fa
minore settima, e contro il fa minore settima non c’è riparo, non c’è portone che tenga
Si bemolle – Si bemolle settima
Casa, tornare a casa, scappare a casa: quante volte ho desiderato starmene lì, dentro il Si bemolle
settima di mia madre, che poi era il sorriso e il suo abbraccio. Ricominciare tutto da capo, viaggiare,
perdersi, costruire progetti e false prospettive, racconti e fantasie: questa è l’armonia. Ma poi vuoi
tornare dentro il Si bemolle che ti ha generato. E riposare. In silenzio.
Casinò Municipal*
(A. Bergonzoni) Forse uno dei giochi più grandi che siano mai esistiti. E' obbligatorio giocare in
due ma si può essere anche in dieci. Si danno novanta carte ciascuno poi ci si lamenta perché non
si riescono a tenere in mano, cadono... Allora alcuni se ne vanno, otto per la precisione, così si
resta in due e si può cominciare a giocare; se se ne vanno in sette si può stare lì anche degli anni.
Il primo che fa scopa spazza il piatto ma il piatto piange perché gli è arrivata della saggina negli
occhi e questo è regolare; l'altro dice cip e gli uccellini bussano. Chi apre per primo vede, chi
chiude gioca al buio, allora l'altro torna a bussare incattivito soprattutto se ha il cavallo di bastoni
perché non sa dove metterlo! Mai avrebbe pensato che per una partita a carte ci volesse una stalla!
Allora la prima mano finisce in mezzo alla porta di chi ha chiuso per primo, regolare, finché un
giocatore, di nascosto, si butta sotto al tavolo e comincia a fare: blef, blef, blef, blef, blef, blef.
L'altro si accorge che sta bluffando e si accorge che è rimasto con una carta solo in mano: infatti
vince chi resta con la carta in mano. E, secondo me, chi resta con la carta n mano vuol dire sì che
è andato in bagno, ma non ha concluso. Ma c'è un ma.....
Infatti, gli otto che se n'erano andati possono, consorziandosi in apposita Spa, aprire una
municipalizzata che gestisca sia lo smaltimento rifiuti (esclusi i due di picche) sia un piccolo casinò
cittadino. Tutti i tavoli del casinò sono truccati: il sindaco ha sempre il poker servito, mentre gli
aperitivi deve andarseli a prendere da solo e pagarli di tasca sua, che è già molto il vantaggio che gli
danno. Alle diciotto il Casinò chiude, e sul retro apre una bisca clandestina. Ma onesta, qui chi ha
avuto ha avuto e ha dato ha dato, e non si guarda in faccia a nessuno, nemmeno alla moglie del
sindaco. La bisca è gestita dalle mogli degli otto che hanno abbandonato il tavolo perchè non
riuscivano a tenere le novanta carte e che hanno aperto la municipalizzata per questo. La bisca è
gemellata con un dopolavoro ferroviario di scambisti scambisti. Si gioca a carte scoperte, ci si
consiglia col vicino, si socializza. Alle ventuno e quindici la bisca chiude, perchè le mogli degli otto
della municipalizzata devono tornare a casa, a scaldare la cena.
* Pubblicato nel progetto "Sedani" di Alice Avallone http://www.sedani.splinder.com/post/7560972