Marocco - TOAssociati

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Marocco - TOAssociati
Attrazione Essaouira
di Aldo Pavan - da d donna, 17 maggio 2003
Lungo le vie di Essaouira le porte blu sono
urla nel bianco troppo sfacciato delle pareti
delle case, quasi geometrie ritagliate dal
colore dell'oceano e appiccicate qui. Un
collage nel paesaggio, una cartolina fin
troppo cartolina, esagerata, con il cielo che fa
mirabilmente da cupola. Il mare, si sente in
basso, oltre le smisurate mura, è un boato
profondo che frange la pietra e che sgrana la
falesia.
Ora spira un po' di vento, l'aliseo è
un'illusione che non mitiga il caldo quando la
città si svuota e diventa l'immagine di un
fantasma che si aggrappa candido su un
promontorio al limite di una spiaggia lunga
dieci chilometri. Passi ovattati si confondono
lontani. Mi aspetto di veder passare l'ombra
di una donna avvolta dalla testa ai piedi nel
suo haik, la larga tunica di lana bianca.
Poi un raglio spacca il silenzio. l'asino è
chiuso in una stalla sotto i bastioni. Sembra
abbia dato il via a una serie di colpi di
martello, forse di intagliatori che lavorano la
tuia, il legno nodoso simile al cipresso ma
molto più profumato, con belle venature. La
tuia viene intarsiata con legno di limone,
madreperla, osso di cammello, avorio e fili
d'argento, così come vuole la tradizione della
khotta, 14 motivi ornamentali basati
sull'alfabeto arabo.
Si fanno tavoli, sedie, scacchiere, scrigni,
piatti, vassoi in 150 laboratori persi in città.
«Ci siamo svegliati dal letargo secolare e ora
arrivano un po' di soldi». Ali mi segue come
un'ombra, si è incollato a me con tanta voglia
di Italia. E intanto parla a ruota libera.
La sua città non è un sogno ma un incubo,
una cella in cui vive troppo stretto.
La sola via di fuga è l'Europa, come un
tempo, quando Essaouira, con il nome di
Mogador, era il più importante porto
portoghese sulla costa Atlantica.
«Non mi giudichi male, non rifiuto il mio
Paese, sono solo uno studente e ho diritto di
sperare», incalza Ali. «Il mio cuore è aperto»,
dice mentre si porta una mano al petto.
I suoi pensieri seguono i travagli del Marocco,
la povertà, la miseria, la disoccupazione, la
disillusione. Ora saliamo verso la Sqala de la
Ville, i bastioni settentrionali che si innalzano
sull'Atlantico. Qui Orson Welles girò le prime
drammatiche inquadrature del suo film
Otello. La pellicola fu un fiasco, maltrattata
dalla critica venne rivalutata solo dopo la
morte del grande regista, quando fu
restaurata e riproposta dalla figlia.
Ora in basso, lo sguardo corre sulla medina e
più in là sul mellah, il quartiere ebraico dove
un tempo lavoravano centinaia di orafi.
Quassù una batteria di cannoni è puntata
verso il mare aperto. Quelle innocue bocche
da fuoco ruggini sembrano giocattoli finti,
come artificiale sembra questa città dai
caratteri troppo europei, poco arabi, per
niente berberi.
«Dobbiamo svegliarci, o moriremo», insiste
Ali,mentre le nostre membra cuociono sotto il
sole che assale larghe e rettilinee vie. A due
ore dalle città imperiali di Marrakech e Fès.
Essaouira è di un'altra pasta.
Non c'è il caotico intrico della kasbah araba, il
dedalo di vicoli. Si direbbe piuttosto una La
Rochelle fortificata o una Palmanova
veneziana trapiantata in Africa.
Il progetto urbanistico risale al 1765, quando
un francese, tale Théodore Cornut, progettò
la città a tavolino per volere del sultano Sìdi
Mohammed bin Abdallah che lo teneva
prigioniero. Essaouira, significa ben
disegnata. Doveva diventare un moderno
porto commerciale, punto di riferimento per
gli scambi con l'Europa. E per desiderio del
sultano, Cornut aveva anche circondato di
mura la città ed eretto un porto fortificato per
difenderla dalle incursioni dei pirati e delle
soldataglie della vicina Agadir. Ben prima di
essere la Mogador portoghese, Essaouira era
conosciuta dagli antichi romani come la città
della porpora. II colore col quale venivano
tinte le tuniche si estraeva dal murice, un
mollusco gasteropode di cui era ricco il suo
mare. Oggi quel nome, porpora, è rimasto
attaccato alle Îles Purpuraires, dichiarate
riserva naturale perché da aprile a ottobre vi
nidifica il raro falco Eleonora che arriva dal
lontano Madagascar. «Cosa dobbiamo fare,
ringraziare per l'operazione di marketing
gratuita le rockstar? Venga, la porto da un
musicista che suonava con loro», propone Ali,
che ormai ha scoperto le sue carte di faux
guide, falsa guida, come dicono i francesi.
Jimi Hendrix, Frank Zappa, Leonard Cohen,
Jefferson Airplane sbarcarono a Essaouira alla
fine degli anni '60 sul filo del vagabondaggio
hippy. Alloggiarono all'Hotel du Pacha, antico
palazzo del 1871, diventato ora il Riad a/
Madina. Hendrix in una passeggiata lungo la
spiaggia arrivò fino al fortino abbandonato di
Bordj el Berod, uno dei posti di vedetta che
un tempo segnalavano l'arrivo del pericolo
dal mare. Addossato alle dune marine gli
apparve come un incantesimo esotico.
Da questa immagine nacque la canzone
Castle in the Sand, e il nome Essaouira si
conobbe nel mondo.
Da quel momento l'antica Mogador è stata
oggetto del secondo assalto della sua storia
da parte degli occidentali. Ha conosciuto i
dolori hippy, le tende sulla spiaggia, l'amore
libero e gli spinelli. Poi, più tardi, il vento
delle mode ha rimpiazzato le chitarre con gli
alberghi de charme, i ristoranti, le buone
tavole, la cucina francese, i vini d'annata.
I capelli lunghi sono stati rasati e la
metamorfosi ha portato altra gente, o forse la
stessa, trasformata. Artisti, letterati, beautiful
peopie in incognito come Mel Gibson, o
Phìlìppe Starck ora sono qui. nella città più
trendy del Marocco, ritornata a essere set del
grande cinema: Claude Lelouch ha girato qui
And Now... Ladies and gentlemen, che uscirà
negli Usa in estate e ad agosto è atteso Brad
Pitt che starà qui almeno due mesi per girare
La Guerra di Troia di Wolfgang Petersen.
Si fondono con i turisti che passeggiano sulla
piazza principale Moulay Hassan, tra
cartelloni di agenzie turistiche, boutique,
tavoli all'aperto e terrazzi per cocktail al
tramonto, molto romantici, quando il sole
spande pennellate di giallo. Tutto questo
mentre poco più in là appena oltrepassata la
Porte de la Marine, ci si infila tra i
nauseabondi effluvi del mercato del pesce e
la mistura di catrame e nafta che esala dai
cantieri. Qui, i piedi scalzi dei pescatori si
mescolano a reti e prede: squali, granchi,
tonni. E i gabbiani riempiono l'aria di gridi.
Volteggiano bassi alla ricerca di un
rimasuglio, sembra che tutte le sere
reinterpretino un passaggio di Uccelli di
Hitchcock.
Sono scene di storie diverse. In uno spazio
immaginario di scatole cinesi si affacciano
molteplici frontiere. "II Marocco è un
susseguirsi di porte che si spalancano a mano
a mano che si avanza", scrive incantato
Tahar Ben Jelloun, il più noto narratore
marocchino. Anche Essaouira non sfugge a
questa regola. Il pittore Mohamed Tabal, con
le sue tele, è l'interprete eccentrico di queste
prospettive incrociate e sovrapposte.
I suoi percorsi sono tortuosi, seguono labirinti
calligrafici, miniature, sovrapposizioni di
elementi decorativi berberi, architetture
esagerate e invadenti come se avesse paura
dello spazio vuoto. «Dipingo il mio cinema
interiore», sospira lui, quasi tormentato dai
suoi stessi messaggi come se non gli
appartenessero. Sono immagini tratte
dall'hal, lo stato di trance prodotto dalla
musica degli schiavi neri gnaoua giunti a
Essaouira con le carovane che partivano dal
cuore nero dell'Africa.
Cammelli carichi di avorio, oro. piume di
struzzo, spezie venivano scambiate con merci
europee. La Lila degli gnaoua è la notte della
guarigione quando, secondo la tradizione,
Fatima, la figlia di Maometto, guarì grazie al
ritmo ossessivo della musica degli schiavi.
Da allora il rito si ripete ogni estate.
Il musicista entra nello stato di trance.
Il pittore invece trae da quest'estasi
l'ispirazione e si apre a orizzonti onirici da
trasferire sulla tela. Come Mohamed Tabal
altri pittori di Essaouira percorrono la stessa
strada. E un'arte naif etnica, primitiva. Un'art
brut che nasce senza pretese. Esce dalla
mano di pescatori e artigiani, pastori e
contadini che, se riescono, vendono.
Con il ricavato si comprano altri colori e altre
tele, assieme a quello che serve per vivere,
una capra o il cous cous.
Arte povera, dunque, che, come quella di
Tabal, è stata raccolta da un danese dai
capelli bianchi e dal sorriso dolce, Frédéríc
Damgaard, da più di vent'anni abitante di
Essaouira.
«Per me è stata una scoperta. Quando ho
visto le prime tele sono rimasto a bocca
aperta», ricorda Damgaard che dal 1988 ha
aperto una galleria in avenue Oqba Inb
Nafiaa. «Ho comprato senza contrattare.
Loro scrivevano su un foglio il prezzo, io lo
confermavo riscrivendolo a fianco.
Erano meravigliati. Non pensavano che i
quadri valessero qualcosa».
Anche l'arte alle porte del deserto è una
sequenza di scatole cinesi, un volto di questa
Essaouira che si apre sui confini incerti della
frontiera.