e chiedo, se davvero lei vuol difendere i diritti umani

Transcript

e chiedo, se davvero lei vuol difendere i diritti umani
L
e chiedo, se davvero lei vuol difendere i diritti
umani, proibisca questi aiuti al governo salvadoregno. Garantisca che il Suo governo non interverrà direttamente o indirettamente per determinare il
destino del popolo salvadoregno. … Sarebbe ingiusto
e deplorevole che per la intromissione di potenze
straniere il popolo salvadoregno fosse frustrato, represso, impedito di decidere autonomamente la traiettoria economica e politica che la nostra patria deve
seguire.
(lettera di Oscar Romero a Jimmy Carter, presidente U.S.A., 1980)
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXVIII (2008)
n. 3
Periodico mensile - Anno XXVIII, n. 3, marzo 2008 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue.
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Renato Tamanini
GESÙ
E LA POVERTÀ
Francesco Comina
Luigi Giorgi
MARIANELLA
GARCIA VILLAS:
ANTIGONE
FRA I POVERI
A VENT’ANNI
DA CAVRIAGO:
L’UNIVERSITÀ
DELLA VITA
Anneliese Knoop-Graf
Eugen Galasso
FATICARE PER
ESSERE UOMINI
LA QUESTIONE
CILENA
Alberto Guasco
Marco Zecchinato
CON LE MANI
ALZATE
LA DISCUSSIONE
BALCANICA
IL MAR
MARGINE
Francesco Comina
Alberto Guasco
3
MARZO 2008
3
Marianella Garcia Villas:
Antigone tra i poveri
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Faticare per essere uomini.
Incontro con Anneliese Knoop-Graf
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20
Gesù e la povertà
Luigi Giorgi
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A vent’anni da Cavriago:
l’università della vita
Marco Zecchinato
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abbonamento normale: 20 euro
abbonamento di amicizia: 30 euro
un piccolo progetto
un impegno che, grazie ai suoi lettori, continua per il 28° anno
Con le mani alzate.
Istantanee del Novecento
Renato Tamanini
Eugen Galasso
IL MARGINE
anno 2008
La questione cilena.
Il ruolo del movimento
e del partito cattolico
La discussione balcanica
Mentre andiamo in stampa…
Leggerete questo numero ad elezioni già concluse: su di esse abbiamo
ritenuto inutile tornare, avendo dato un giudizio della situazione sul n.
1/2008. Qui possiamo solo aggiungere un auspicio: che sia l’ultima volta
che votiamo con quest’orrida legge elettorale, che rende non solo il Paese
difficile da governare (fragilissime le maggioranze al Senato), ma rafforza
anche, nella realtà e soprattutto nell’opinione comune, la “casta”, dato che
l’ingresso nel mondo politico è oggi possibile solo per cooptazione. Conseguenze: indebolimento dello spazio politico (a vantaggio di chi ha già forza
propria, nell’economia, nella finanza, nell’informazione) e aumento della
sfiducia nella partecipazione democratica. Non pensiamo che si tratti di conseguenze impreviste. Speriamo che, nell’urna, qualcuno se ne sia ricordato.
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Testimoni
Marianella Garcia Villas:
Antigone fra i poveri
FRANCESCO COMINA
S
ono convinto ogni anno di più che la vita di Oscar Arnulfo Romero – e
quest’anno in maniera particolare, perché è l’anno dei diritti umani –
non può essere scissa da quella di Marianella Garcia Villas, presidente della
Commissione per i diritti umani di El Salvador (1948-1983). Pur nella particolarità che contraddistingue tutte le vite, tutte le storie personali, mi convinco ogni anno di più che Romero non sarebbe stato Romero senza Marianella e che Marianella non sarebbe stata Marianella senza Romero. Le loro
vite si sono incrociate nella tragedia, si sono sovrapposte nella ricerca di
giustizia, hanno percorso il margine della vita, si sono bruciate al fuoco della sofferenza del loro popolo. Entrambi barbaramente uccisi. Entrambi assassinati. Romero con un solo colpo dritto al cuore, Marianella mitragliata
senza pietà, offesa anche nella morte, disprezzata fino all’ultimo e schiacciata come un insetto.
Il 13 marzo del 1983 Marianella venne catturata dall’esercito nelle
campagne del Salvador e crivellata di colpi. Qualche giorno dopo un comunicato rendeva noto che nel villaggio di La Bermuda, 40 chilometri a nord
della capitale, la “terrorista” Marianella Garcia era stata uccisa mentre era al
comando di un gruppo di sovversivi. Nome di battaglia “comandante Lucia”. Nessuno accorse per analizzare il suo corpo, nessun referente della
Commissione per i diritti umani si precipitò a fotografarla perché questa volta nessuno avrebbe potuto farlo. Era lei che accorreva, era lei che veniva
chiamata in qualsiasi ora del giorno e della notte per raccogliere l’eredità
degli uccisi. E doveva scattare in fretta prima che arrivasse l’esercito a seppellire senza nome le vittime dell’obbrobrio. Marianella si presentava con la
sua macchina fotografica sporca di sangue, analizzava i corpi degli uccisi
per sapere se erano state fatte torture (e quasi sempre c’erano i segni), molto
spesso era costretta a ricomporli, quasi sempre faceva il segno della croce
sulla fronte. Poi archiviava la foto col nome e l’indirizzo. Con i soldi devoluti alla Commissione da lei presieduta comprava una pagina del giornale e
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pubblicava le foto con i nomi degli uccisi del giorno prima. Questo era il
solo modo per le vittime di sopravvivere all’oblio e di avere un fiore sulla
tomba, questa era l’unica luce nell’orrenda notte del Salvador controllato
dalle milizie armate, spiato da Orden, retto da una giunta militare e spalleggiato dalla Democrazia cristiana di cui Marianella era la coscienza critica, la
dissenziente, fino a diventarne nemica al punto da essere lei perseguitata dai
suoi stessi colleghi di partito.
Credo che Marianella sia molto di più di un’eroina. Marianella è
l’attualità del vangelo. Senza tunica, senza voti, senza dogmi. Marianella ha
incarnato la Parola liberatrice di Dio fino in fondo, fino a morirne. Romero
gridava il suo scandalo perché vedeva all’opera il vangelo di Marianella.
L’Arcivescovo non è stato convertito soltanto dal martirio dei suoi sacerdoti, uccisi perché perseguitati dalle legge per la sicurezza nazionale che
vedeva nella Bibbia uno strumento del comunismo, molto di più è stato convertito dalle denunce che Marianella gli portava in canonica, dai racconti
delle stragi quotidiane, dai processi farsa dove poveri contadini venivano
condannati con infamia senza aver commesso nessun reato. Marianella aggiornava Monsignore su tutto quello che stava avvenendo nel Paese, era al
corrente del numero delle vittime, sapeva che in giro c’erano all’opera i
gruppi di Orden che denunciavano chiunque cercasse di lavorare insieme al
popolo, ai contadini, ai lavoratori. Marianella raccontava il dramma delle
donne violentate e Romero piangeva come un niño, come quando venne violentata lei in uno scantinato di una caserma di polizia: «Pianse Romero come un niño – raccontò più tardi Marianella – ma mi esortò a non pensare
alla vendetta perché la vendetta è una cosa poco cristiana». Romero sostenne il lavoro di Marianella, le diede amplificazione, le diede un programma
nella sua radio in cui potesse denunciare i soprusi perpetrati dall’esercito e
per questa attività Romero si attirò le ire dei militari, la radio saltò in aria e
lui fu condannato a morte. Anche la sua denuncia al presidente americano
Jimmy Carter, qualche giorno prima di venire assassinato, in cui l’Arcivescovo denunciava le pesanti ingerenze statunitensi in Salvador, venne fatta
sulla base dei rapporti dettagliati sulla situazione nel Paese che Marianella
gli mostrava.
Ma come mai è stato possibile che un vescovo come Romero e una
giovane donna come Marianella venissero ammazzati in quel modo?
L’America Latina in cui si muovevano Marianella e Romero era del
tutto diversa da quella di oggi. In molti Paesi vigeva un clima di terrore e di
devastazione. Il Salvador è uno dei Paesi più piccoli del continente, eppure
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Testimoni
in un solo anno i morti ammazzati venivano contati a migliaia. C’era una
spaccatura violenta della società fra due visioni agli antipodi: da una parte
c’era il popolo, c’erano i contadini, gli operai, quasi sempre privati di ogni
diritto; dall’altra c’era il governo, c’erano i militari, c’erano le truppe civili
di Orden, borghesi impellicciati terrorizzati della possibilità che i comunisti
potessero prendere in mano le redini del potere. Orden decideva chi ammazzare e i soldati ammazzavano. In Salvador è stato compiuto fra la metà degli
anni Settanta e la metà degli anni Ottanta un vero e proprio genocidio. Fatti
a pezzi tutti i diritti, si era andati alla deriva: dalla democrazia alla vera e
propria lotta armata. In progressione ci furono massacri terrificanti come
quello del febbraio del 1977 in piazza della Libertad, trascinato poi nella
chiesa del Rosario (300 vittime); il 12 marzo ci fu l’assassinio del parroco di
Aguilar, Rutilio Grande, ammazzato insieme a un vecchio e un ragazzo; poi
toccò a padre Alfonso Navarro; poi ancora padre Barrera Motto che leggeva
il vangelo con gli operai; e poi ci fu il massacro di El Despertar, una casa di
ritiro parrocchiale trasformata in un mattatoio dalle forze di sicurezza sobillate da Orden. Cercavano il prete, Octavio Ortiz Luna, ma uccisero cinque
persone, Octavio e quattro ragazzi. Nel 1979 ci fu un altro massacro, 23
contadini uccisi in una manifestazione indetta per rivendicare aumenti salariali. Il 24 marzo 1980 il regime alzò il tiro e uccise l’Arcivescovo scomodo,
monsignor Romero. Il 14 maggio del 1981 l’esercito provocò una vera e
propria strage con 600 morti schiacciati e colpiti dall’esercito mentre tentavano la fuga in Honduras. È la strage del rio Sumpul.
La violenza ormai stringe come un assedio senza via d’uscita la vita di
Marianella. Nel 1981, mentre è in Italia, una colonna di mezzi blindati circonda la sua casa che viene assaltata. In Europa Marianella denuncia la totale deriva politica, civile, costituzionale del Salvador. In Italia parla in varie
città. Raniero La Valle la intervista in Rai e proietta il documentario “Il grido del popolo”. Il regime salvadoregno è infuriato e si prepara a fare semplicemente quello che già sta facendo da anni: uccidere. E Marianella è la
prossima vittima.
Marianella, avvocato dei poveri, compagna degli oppressi, sorella dei
perseguitati, voce degli scomparsi, era una donna giovane che amava la vita,
l’amava al punto di esporsi perché altri potessero amarla, perché tutti potessero goderla fino in fondo. Ma la morte brutale, che era regola della storia
nel Salvador anno ’83, la colse in campagna e Marianella cadde nella terra
dei contadini che difese, che protesse. Morì solo per amore.
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Faticare per esse
essere uomini
Incontro con Anneliese KnoopKnoop-Graf
L
unedì 4 febbraio 2008, presso la Fondazione Lazzati di Milano,
l’Associazione Rosa Bianca italiana ha presentato il libro di Paola Rosà
Willi Graf – Con la Rosa Bianca contro Hitler (Edizioni Il Margine). All’evento è stata invitata Anneliese Knoop-Graf, sorella di Willi Graf. Il libro
riporta una intensa biografia di Willi Graf, arricchita da nuove e importanti
documenti tratti dalle sue lettere e dai diari.
Willi cresce in una famiglia cattolica conformista, ma non si iscriverà
mai alla Gioventù hitleriana. Lettore onnivoro, combattuto interiormente da
un moto di resistenza silenziosa. Per Anneliese si trattava «di una fatica spirituale. Qualcosa che per Willi è anche una premessa nell’essere uomo.
L’uomo deve faticare per ottenere qualcosa». Egli era un maratoneta senza
scatti e senza soste, che attraversava la solitudine senza abbattersi. Carattere
taciturno e coraggioso, in prima fila nella pericolosa attività di resistenza
nonviolenta al nazismo. Durante la frequentazione dell’Università di Monaco di Baviera conosce Hans Scholl, il leader del gruppo clandestino della
Rosa Bianca, autore dei sei volantini anti-regime diffusi dal giugno 1942.
Nel febbraio 1943 viene catturato dalla Gestapo subito dopo l’arresto dei
suoi amici Sophie e Hans Scholl. Come loro verrà ghigliottinato. Ciò che,
ancora oggi, è rimasto di lui, dice Annaliese, è un messaggio di libertà. Ad
Anneliese sono state rivolte alcune domande che riportiamo.
Quali valori della Rosa Bianca sono rimasti ancora oggi nell’opinione
pubblica tedesca ?
La risposta è abbastanza complicata, differenziata, anche perché dipende dalle singole persone, dagli uomini, ma anche dalla scuola e dal ruolo educativo che svolge. Comunque qualcosa è rimasto che ci unisce tutti ed
è questa sensazione di libertà. Soprattutto è la libertà il messaggio che è
rimasto. Quello che ha caratterizzato la libertà è il rapporto tra Willi e me
come fratello e sorella. Willi era un credente molto convinto, a differenza
invece di me, che mi sono allontanata da quella che era stata la nostra edu-
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cazione cattolica severa. Con me non ha mai voluto fare proselitismo. Questo è ciò che ancora oggi apprezzo in lui. Abbiamo avuto un rapporto epistolare piuttosto intenso, qualcosa di inusuale tra fratello e sorella. In una
delle lettere che mi ha scritto si parla di libertà. Mi presenta le diverse possibilità che ho per approfondire la questione religiosa. Mi dice di confrontarmi con tutte queste religioni ma poi, dice sempre, alla fine tu hai la libertà di intraprendere il cammino che decidi, al contrario di quella che era stata la nostra educazione in famiglia dove ci venivano prescritte delle cose.
Prescrivere era una parola sconosciuta, estranea al lessico di Willi. Strettamente connessa a questa libertà c’era anche il dovere di faticare. Faticare
per ottenere anche i risultati religiosi. Faticare è un termine che ricorre
tantissimo nelle lettere e nei suoi diari. Non si trattava, ovviamente, di fatica
fisica, che Willi riusciva benissimo ad affrontare perché era molto forte e
sano; si trattava invece di una fatica spirituale. Qualcosa che per lui è anche una premessa nell’essere uomo. L’uomo deve faticare per ottenere
qualcosa. Tutti noi qui, e comprendo anche me stessa, ci troviamo di fronte
a qualcosa che per noi è troppo faticoso e, quindi, siamo tentati di sottrarci.
Invece ci colpisce quello che Willi mi ha scritto in un’altra lettera da Monaco dove dice: «non vedo l’ora di fare qualcosa di faticoso, di impegnativo».
Lei era la sorella minore e non è mai stata coinvolta dal fratello nella
attività di resistenza perché, dice Willi, non era attività per donne. Che cosa
avrebbe fatto se Willi ne avesse parlato con lei?
Certamente non lo rimprovero di non avermi coinvolto. I miei genitori
hanno faticato moltissimo ad accettare quello che poi è successo, ovvero
l’arresto di Willi Graf per alto tradimento. Tutta la mia parentela cattolica
diceva «come ha potuto fare questo ai suoi genitori?». Non si parlava assolutamente di incoscienza. Per questo non ce l’ho mai avuta con i miei genitori perché loro, più di noi, erano stati formati da una educazione molto autoritaria. Tutto quello che veniva dall’alto doveva essere accettato, eseguito, e basta. Un altro elemento a dimostrazione di come erano i fatti è la visita di mia sorella maggiore Mathilde a Willi nel carcere. Mathilde è l’ultima
parente che vede Willi vivo; egli, vedendola, le raccomanda: «devi dire a
papà che non si è trattato di una ragazzata, di un gioco stupido di ragazzini
e un giorno potrà essere orgoglioso di me». Purtroppo i genitori non hanno
avuto molto tempo di essere orgogliosi di Willi perché sono morti negli anni
cinquanta, appena superati i 65 anni di età.
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Nel libro è riportato l’episodio in cui le studentesse universitarie di
Monaco si ribellano ad un gerarca nazista. Forse lei aveva avuto modo di
leggere i volantini della Rosa Bianca. Era presente personalmente
all’episodio e, in un certo modo, si è sentita coinvolta da questo fermento di
cambiamento?
La prima domanda si presta ad una facile risposta perché io non avevo
mai letto i volantini della Rosa Bianca e mai parlato con nessuno. Per descrivere la reazione dei tedeschi ho dovuto, come voi, leggere dei libri. So
quello che anche voi sapete dai libri. Nonostante non sapessi nulla dei volantini, però avvertivo qualcosa. Come sorella sentivo che qualcosa stava
accadendo. Non sapevo ancora dare un nome, una forma, ma dentro di me
sentivo qualcosa. Ho potuto ricostruire il tutto soltanto dopo. Per rispondere alla seconda domanda occorre brevemente ricordare l’episodio. Il 13
gennaio 1943 si festeggiavano i 470 anni dell’ateneo di Monaco, con uno
dei soliti raduni guidati da esponenti di partito, e gli studenti dovevano partecipare. Il capo del partito nazista bavarese prende la parola e viene colpito dall’alto numero di ragazze presenti. Questo non perché all’Università
studiassero molte ragazze – durante il nazismo la quota femminile era del
10% – ma semplicemente perché gli studenti uomini erano al fronte. Il capo
nazista inizia a provocarle: «invece di scaldare i banchi, perché non andate
a casa a fare un figlio per il Führer? Conosco tanti soldati prestanti». Era
in vigore la regola nazista che imponeva un figlio ogni anno. L’episodio
verrà riportato sui giornali solo nella sua parte ufficiale, non in quella provocazione che scatena la reazione delle donne. C’è una mezza ribellione
delle studentesse che si sentono offese dal capo del partito. Io sono stata
una delle prime ad andarmene da quella sala, abbandonando l’Università.
Sono riuscita ad andarmene prima che venissero chiuse le porte e arrestate
delle studentesse. A tutti i costi volevo correre da mio fratello per raccontargli che cosa era successo. C’è un passaggio del diario di Willi, datato 13
gennaio 1943, che annota: «riconosco a malapena Anneliese che torna dalla manifestazione all’Università. Infatti è molto agitata».
(trascrizione e sistemazione redazionale di Silvio Mengotto)
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Storia
Con le mani alzate
Istantanee del Novecento
ALBERTO GUASCO
U
tilizzando come strumento due celebri fotografie (scattate nel corso
della seconda guerra mondiale e del conflitto in Vietnam) – questo articolo vorrebbe riflettere sui rapporti tra immagine e narrazione storica, per
giungere non tanto o non soltanto a dare risposte agli interrogativi che suscitano, quanto a lasciarsi colpire da quegli interrogativi.
In questo senso, la domanda da cui potremmo partire è: le immagini
parlano da sole? La risposta è già ambivalente: certamente sì, certamente no.
Sì perché la potenza dirompente di certi scatti è innegabile. Quando diciamo
di qualcuno “ha una memoria fotografica”, in realtà gli attribuiamo qualcosa
che è anche una nostra prerogativa. Declinando l’affermazione sul piano storico, chi non ricorda, ad esempio, l’immagine della famiglia di emigranti, a
inizio Novecento, sul molo di Ellis Island, alle porte dell’America? O i marines che issano la bandiera a stelle e strisce sul monte Suribachi, durante la
battaglia di Iwo Jima nel febbraio del 1945? O i due atleti statunitensi
Tommy Smith e John Carlos, a Città del Messico, nel 1968, sul podio dei
200 metri, mentre alzano il pugno in sostegno del Black Power? O nel 1972,
il terrorista col passamontagna sul balcone del villaggio olimpico di Monaco
di Baviera, prima della strage degli atleti israeliani? O il ragazzo cinese che
il 4 giugno del 1989 ferma col proprio corpo un’intera colonna di carri
armati vicino a Piazza Tienanmen? E ciascuno di noi potrebbe proseguire.
Ma se è vero che le immagini parlano da sole, è altrettanto vero che
possono rivelarsi dei falsi. Di almeno tre tipi diversi. Chi non ricorda il Miliziano morente fotografato nel 1936 da Robert Capa alla guerra di Spagna?
Se ne continua a discutere l’autenticità, ma probabilmente si tratta di una
fotografia costruita a tavolino come molte altre. Oppure, caso differente, gli
archivi dei regimi totalitari del Novecento abbondano di fotografie artefatte
e ritoccate, in cui chiunque è sgradito all’occhio ferreo della censura di par-
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tito scompare per incanto1. O ancora, terzo caso, ci sono scatti autentici che
possono diventare dei falsi: basta cambiare loro la didascalia. Pensiamo al
cormorano immerso nel petrolio durante la guerra del Golfo del 1991, immagine di un incidente avvenuto mesi prima, diventata icona – insieme alle
traiettorie degli scuds e dei patriots – di una guerra che non si poteva e doveva vedere; o agli apparati di propaganda dei serbi e dei croati, che durante
la guerra dell’ex Jugoslavia mostravano le stesse fotografie di stragi, ma con
didascalie opposte. Dunque, anche una didascalia diventa essenziale per calare un’immagine nel suo contesto.
Dunque utilizzare le immagini come fonti storiche è possibile, a patto
di smontarle, di guardare dentro l’obiettivo del fotografo, ai suoi fini, al
pubblico a cui si rivolgono, in breve, cercando di scoprirne il movente. Operazione particolarmente difficile in un contesto bellico, se è vero – da Omero
in poi – che la storia della guerra converge con quella della bugia. Ma operazione possibile per quanto riguarda le fotografie “a mani alzate” di due
bambini, Tsvi Nussbaum (se lo è) e Kim Phuc2, scatti ai quali cerchiamo di
far riprendere profondità, raccontando due storie di guerra, di immagini e
d’infanzia.
«Il ghetto non esiste più». Varsavia, aprile-maggio 1943
Sulla storia del ghetto di Varsavia disponiamo ormai di vasto materiale
documentario e di accurate ricostruzioni, dalla sua costituzione fino alla liquidazione dell’aprile-maggio 1943. L’evacuazione del ghetto, nota come
Grossaktion, fu affidata dal comandante delle SS Heinrich Himmler a Friedrich Wilhelm Kruger, comandante SS a Cracovia, e da questi al generale di
brigata Jurgen Stroop. L’operazione, per la quale si erano previsti tre giorni,
iniziò il 19 di aprile ma si concluse soltanto il 16 maggio, a causa della furiosa resistenza degli ebrei, che in pochi e con un numero limitato di armi a
disposizione, resistettero casa per casa all’artiglieria e all’aviazione dei tedeschi. In quel mese, Stroop inviò a Kruger dispacci quotidiani (da questi gira1
Alain Jaubert, Commissariato degli archivi. Le fotografie che falsificano la storia, Corbaccio,
Milano 1993.
2
Su Tsvi Nussbaum (o per meglio dire sul “bambino nella fotografia”) cf. Richard Raskin, A
child at gunpoint. A case study in the life of a photo, Aarus University Press, Aarus 2004; su
Kim Phuc cf. Denise Chong, La bambina nella fotografia. La storia di Kim Phuc e la guerra del Vietnam, Codice, Torino 2004.
10
ti a Himmler), che ordinati e accompagnati da un album di materiale fotografico confluirono in un rapporto, redatto in tre copie, dal titolo Es gibt keinen judischen Wohnbezirk in Warschau mehr («Il ghetto ebraico di Varsavia
non esiste più»), oggi noto agli storici come “rapporto Stroop”.
Le finalità di Stroop erano probabilmente diverse. Anzitutto di autodifesa: per giustificare quella “perdita di tempo” il generale dovette esagerare
ad arte la resistenza degli ebrei, e di conseguenza l’eroismo dei propri uomini. Accanto all’autodifesa, ecco allora anche un intento auto-celebrativo. Poi
un significato di dissuasione, una sorta di memento per chiunque stesse progettando di ribellarsi al Reich. E infine anche uno scopo documentario, una
sorta di testimonianza storica su un popolo, quello ebraico, che avrebbe presto cessato di esistere. Intenti che a guerra conclusa, nelle mani del procuratore capo degli Stati Uniti Robert J. Jackson, si sarebbero trasformati nel documento 1061-PS, uno dei duemila sui quali fu istruito il processo di Norimberga del 1945-1946.
Cinquantatre immagini compongono l’album fotografico, compresa –
con il numero 14 – quella che ci interessa, con la pomposa didascalia Mit
Gewalt aus Bunkern hervorgeholt («strappati dai bunker con la forza»). Non
conosciamo esattamente il nome del fotografo che l’ha scattata, anche se indubbiamente si trattò di uno degli operatori della Propaganda Kompanie
(PK) 689.
Certo non è un’immagine che lascia indifferenti, al punto che alcuni di
quanti l’hanno osservata sono arrivati a vedere elementi che non ci sono:
una stella gialla sul cappotto del bambino, molti mitra puntati su di lui, soldati tedeschi che ridono3. In realtà, nella fotografia si vedono, non del tutto
chiaramente, venticinque persone: venti civili, soprattutto donne, adolescenti
e bambini (degli uomini non percepiamo che i berretti), e cinque soldati, che
li trascinano fuori da un portone (non c’è traccia del bunker della didascalia
di Stroop), con qualche pacco assemblato in pochi minuti, o forse già pronto
nell’attesa di quel momento.
Poi, per quasi tutti loro, una fine senza nome, da Stücke, da pezzi, contrassegnati con un numero. Eppure, grazie soprattutto al lavoro del museo
Yad Vashem di Gerusalemme, di alcuni soggetti di questa foto si è arrivati a
sapere il nome, il cognome e la storia. Sappiamo ad esempio, che la donna
con una fascia bianca al braccio destro si chiamava Matylda Lamet Goldfin3
«The Star of David / on your coat … as many Nazi machine guns / pointing at you» Peter
Fischl, To the Little Polish Boy Standing with His Arms Up, 1994; Elie Wiesel, Discorso al
Bundestag, 27 gennaio 2000.
11
ger e che la bambina al suo fianco, sua figlia Hanka Lamet, morì nelle camere a gas di Majdanek; che due persone al centro della foto – il ragazzo col
sacco bianco sulle spalle e la donna alla sua destra – sono stati identificati
rispettivamente come Leo Kartuzinsky e Golda Stavarowski.
Di un uomo, invece, conosciamo senza ombra di dubbio l’identità:
quello col mitra, che guarda l’obiettivo quasi in posa, l’SS Rottenfuehrer
Josef Blösche. Nato nel 1912 a Friedland, nei Sudeti, prestò servizio negli
Einsatzgruppen – cioè le quattro “unità mobili di massacro” impegnate nelle
fucilazioni di massa sul fronte orientale – e nell’ottobre 1941 fu trasferito
nella polizia di sicurezza di Varsavia, di stanzia al ponte di legno che collegava il ghetto alla città. Nell’aprile-maggio 1943 prese poi parte alla liquidazione del ghetto – altre fotografie del rapporto lo mostrano all’opera, con
uno zelo che gli valse la decorazione con la Croce al merito di guerra di seconda classe – e nell’agosto 1944 alla soppressione dell’insurrezione polacca di Varsavia. Alla fine della guerra fu fatto prigioniero in Cecoslovacchia
e qui, nel 1946, rimase gravemente ferito per lo scoppio di una mina, che gli
devastò completamente il volto. Così ferito e deformato, tornò in Germania,
12
dove si sposò, ebbe figli e visse lavorando come minatore, senza cambiare il
suo nome. E fu questa la sua sfortuna, perché nel 1967 le autorità di Amburgo – quelle della Germania Est – lo fecero arrestare per crimini di guerra e
contro l’umanità. A causa della sua deformazione i dieci sopravvissuti del
ghetto che testimoniarono ebbero problemi a riconoscerlo, anzi, non poterono riconoscerlo, ma egli stesso rilasciò e siglò dichiarazioni incontrovertibili:
«La persona in uniforme delle SS, in piedi alla testa di un gruppo di SS, con in mano un
mitra in posizione di fuoco e con gli occhiali da motociclista sull’elmetto d’acciaio, sono
io. La fotografia mostra come io, in quanto membro della Gestapo in servizio al ghetto di
Varsavia, insieme a un gruppo di SS, stia rastrellando un gruppo di ebrei da una casa. Il
gruppo è composto in prevalenza da bambini, donne e vecchi, trascinati fuori attraverso
un portone, con le mani in alto. Gli ebrei furono poi trasportati alla cosiddetta Umschlagplatz – il centro di raccolta – e da qui deportati al campo di sterminio di Treblinka». E
ancora: «Mi ricordo di esecuzioni di ebrei nel ghetto di Varsavia. Succedeva quando non
c’erano deportazioni al campo di sterminio di Treblinka».
questo onore. Penso di essere io, ma onestamente non posso giurarlo. A un
milione e mezzo di bambini ebrei fu ordinato di alzare le mani»5.
«Nong qua! Nong qua!». Saigon, giugno 1972
Oltre a quella che viene da Varsavia, c’è un’altra foto fortissimamente
simbolica del Novecento in cui qualcuno alza le mani: una bambina interamente nuda, che corre urlando, bruciata dal napalm. Si chiama Phan Thi
Kim Phuc – il suo nome significa “dorata felicità” – e quando l’obiettivo la
cattura per sempre ha nove anni6.
Processato nell’aprile 1969 a Erfurt, Joseph Blösche fu riconosciuto
colpevole di crimini di guerra e impiccato a Lipsia il 29 luglio 19694.
E il ragazzino con le mani alzate, il cappotto senza stella, il berretto, i
pantaloni corti e le ginocchia magroline, chi è? Con certezza non lo sappiamo, così che potremmo semplicemente chiamarlo un anonimo sopravvissuto, anche perché in tanti hanno cercato e voluto identificare e identificarsi
col bambino. Potrebbe trattarsi di Artur Dab Siemiatek; secondo quanto propone l’identificazione più vecchia, risalente agli anni Cinquanta; o di Levi
Zeilinwarger, come propose nel 1999 il 95enne Avraham Zeilinwarger,
convinto che il bambino fosse suo figlio. O forse il dottor Tsvi Nussbaum,
classe 1935, tuttora vivente, che nel 1982 sostenne di poter essere il ragazzo
della foto. E tuttavia, anche in quest’ultimo caso, i conti non tornano alla
perfezione, sia tramite un preciso riscontro fotografico, sia perché egli fu
arrestato nel luglio 1943, due mesi dopo gli eventi documentati nel rapporto
Stroop, e per di più nei pressi di un hotel posto al di fuori del ghetto. Allora,
in mancanza di elementi certi, potremmo concludere con l’osservazione piena di umanità dello stesso Nussbaum, che ben dimostra d’aver compreso il
significato più profondo della fotografia: «Non reclamo niente. Non chiedo
5
4
Cf. Heribert Schwan e Helgard Heindrichs, Der SS Man. Josef Bloesche, Leben und Sterben
eines Moerders, Droemer, Monaco 2003 e l’omonimo documentario televisivo.
13
Cf. l’intervista “Rockland Physician thinks he is the boy in Holocaust photo taken in Warsaw”, New York Times, 28 maggio 1982 e il documentario A boy from Warsaw: Tsvi Nussbaum, Fin, 1990, 50’.
6
Dal libro di Denise Chong ha tratto ispirazione la cantante Yanah per il suo album The girl in
the picture.
14
È uno scatto di cui conosciamo tutte le coordinate. Anzitutto la data esatta, il pomeriggio dell’8 giugno 1972. Cioè un momento in cui gli americani si stanno disimpegnando da una guerra ormai persa – ma in cui il presidente Nixon ha da poco coinvolto la Cambogia – garantendo però ancora
appoggio e supporto militare al Vietnam del sud, il cui esercito è impegnato
a respingere una nuova offensiva dei vietcong. E sappiamo anche il luogo
esatto dello scatto: il villaggio di Trang Bang, nel sud del Vietnam, a circa
40 miglia da Saigon, sulla statale I, che passa intorno alla capitale e attraversa il confine tra Vietnam e Cambogia per arrivare fino a Phnom Penh. Una
strada di solito ingombra di traffico ma in quel momento deserta, perché da
qualche giorno il villaggio si trova nel mezzo della linea dei combattimenti
tra esercito del sud e vietcong. Quelli che per i soldati americani sono inafferrabili, che si muovono di notte, che bussano con educazione alle porte
delle case contadine – “Mamma per favore apri il cancello” – e le attraversano per scomparire nella giungla; che scavano tunnel sotto quelle stesse
case, indifferenti alle rimostranze degli abitanti.
Ma oltre che quel silenzio, possiamo abbinare alla fotografia anche
un’altra colonna sonora: i razzi, le bombe e le granate che segnano il combattimento, le armi utilizzate dall’esercito comunista di Hanoi – tutte fabbricate in Cina e Unione Sovietica – e gli aerei Skyrider AI-E a elica, quelli
che a coppie volano a bassa quota: il primo sgancia le bombe, il secondo il
napalm. È in corso un’offensiva dell’aviazione sudvietnamita, coordinata
dall’ufficiale statunitense John Plummer, intesa a stanare gli uomini dai nascondigli circostanti l’abitato, nella convinzione che fosse stato evacuato.
Così non è, come ha modo di verificare la mezza dozzina di giornalisti stranieri presente a Trang Bang sotto il cielo rabbuiato da un acquazzone. Lo
scatto che ci interessa venne dall’obiettivo del ventiquattrenne Huynh Cong
Ut, più noto come “Nick Ut”, fotografo dell’agenzia Associated Press, a cui
sarebbe valso il premio Pulitzer7.
Nessuno di loro si aspetta che nel villaggio ci siano ancora civili. Se ne
accorgono quando dal fondo della strada – e dalle vampate delle bombe e
del napalm – esce correndo un primo gruppo di civili e un cagnolino nero. E
dopo il primo un secondo, cinque ragazzini che corrono urlando verso il
gruppo dei giornalisti. Sulla sinistra, appena davanti ai soldati, il bambino
più piccolo si volta indietro; a destra una bambina ne tiene per mano uno
poco più grande; davanti a tutti, un ragazzino in camicia bianca e pantaloncini neri piange e impreca con violenza. Grida: «Che si fotta l’aereoplano
che con le sue bombe ha cercato di ammazzare mia sorella»; poi cambia parole e supplica: «Aiutate mia sorella». Sua sorella è Kim, integralmente nuda davanti all’obiettivo del fotografo, che continua a ripetere: «Nong qua!
Nong qua!» (cioè «Troppo caldo! Troppo caldo!»).
E poi avviene tutto in fretta: i soldati che le gettano addosso l’acqua
dalle borracce; Nick Ut che la carica su un e corre all’ospedale di Cu Chi,
dove Kim arriva con ustioni del terzo grado su più della metà corpo; la selezione della foto per la pubblicazione, nonostante la censura imponga di non
pubblicare nudi integrali frontali. E mentre in Vietnam scende la notte, la
fotografia rimbalza sulle pagine di tutto il mondo: Kim Phuc entra nella storia.
A Kim Phuc furono necessari ben 14 mesi e 17 operazioni per uscire
dall’ospedale e nel frattempo la storia continuò dimenticandosi di lei: nel
1973, i colloqui di Parigi posero ufficialmente fine all’intervento americano
in Vietnam; nel 1975, i nordvietnamiti attaccarono il sud del paese, fino alla
conquista di Saigon (30 aprile), cui seguì l’edificazione di un regime comunista.
Per dieci anni, la storia di Kim proseguì nell’anonimato di un paese così descritto nel 1981 dal suo primo ministro Pham Van Dong8, già collaboratore di Ho Chi Minh: «Sì, abbiamo sconfitto gli Stati Uniti. Ma adesso siamo perseguitati da molti problemi. Siamo un paese povero, sottosviluppato.
Fare una guerra è facile, ma governare un paese è difficile». Anche per la
famiglia di Kim (padre, madre e altri otto fratelli) è difficile vivere nel nuovo Vietnam comunista. Quando gli americani abbandonano il paese, per il
ristorante gestito dalla madre, Nu, gli affari cominciano ad andar male. Il
padre, Tung, proprietario di un piccolo podere, è costretto a cederlo agli avidi funzionari locali di partito. Anche i problemi di salute di Kim, che pensa
di studiare medicina, non sono certo da poco e richiedono cure. In questo
contesto di estrema difficoltà e di personale crisi interiore, Kim matura la
propria conversione dal tradizionale culto cadaoista alla fede cristiana.
E mentre tutto questo avviene, nel 1982, dieci anni dopo lo scatto, Kim
viene di nuovo trascinata sotto i riflettori, questa volta dal governo di Hanoi,
che la rintraccia e la “consegna” al proprio ministero dell’informazione, co8
7
Oltre alla fotografia, dell’intera sequenza esiste un filmato, girato per la NBC dal corrispondente Arthur Lord.
15
Pham Van Dong (1906-2000). Nel 1941, insieme a Ho Chi Minh fu tra i fondatori del partito
Vietminh; poi fu primo ministro del Vietnam del Nord (1955-1976) e della Repubblica Socialista del Vietnam (1976-1986).
16
stringendola a lasciare gli studi per farne un’icona propagandistica del comunismo nazionale e mondiale. Nelle maree d’interviste a cui viene sottoposta, le sue risposte sono concordate in anticipo, imparate a memoria. E la
fotografia diventa una presenza sempre più ingombrante, che le regola la
vita e di cui in fondo diventa schiava. Kim sa di essere usata a scopi di propaganda, e quando domanda il perché di tanto interesse per la sua storia, ne
ha un’ulteriore conferma: «Sei una notizia fresca», le viene risposto.
A questo gioco propagandistico Kim è costretta a sottostare, ma comincia a cercare una via d’uscita. In questo intento, le sono d’aiuto sia i giornalisti e fotografi occidentali che l’hanno immortalata sia lo stesso primo ministro Pham Van Dong, che la incontra e le si affeziona come a una figlia.
Grazie al suo intervento, nel 1986, Kim viene mandata a Cuba a studiare,
sempre sotto la sorveglianza del partito: qui vive per sei anni, sposandosi
anche con uno studente vietnamita conosciuta sull’isola, Bui Huy Toan. Fino a che, il loro viaggio di nozze a Mosca diventa l’occasione attesa per
fuggire. Durante il viaggio di ritorno a casa, approfittando di uno scalo a
Terranova, Kim e il marito riescono a fuggire e ad ottenere asilo politico in
Canada, dove vivono tutt’oggi, vicino a Toronto, insieme ai due figli e ai
genitori di Kim.
no ai trent’anni) sotto un regime dittatoriale – sia attraversata da tutti questi
elementi?
Gli analisti della comunicazione potrebbero spiegare come, a livello
mediatico, ciò che non si vede non esiste, o la capacità delle immagini di
cogliere l’efferatezza della guerra dimostrandosi non solo testimonianza storica, ma agenti stessi di storia. Se nell’Ottocento un libro costò all’Austria
più di una battaglia perduta, nel Novecento una fotografia può contribuire
«ad accrescere l’avversione dell’opinione pubblica alla guerra, più di cento
ore di atrocità viste alla televisione»9.
La letteratura potrebbe aiutarci a riflettere sul tema dell’indifferenza
umana, attraverso la poesia del premio Nobel Czeslaw Milosz:
«A Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve dal muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano
alte nel cielo sereno.
Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia»10.
Conclusioni
Allora perché raccontare queste due storie, su cui sarebbe possibile una
vastissima gamma di riflessioni? Gli storici potrebbero parlare di temi quali
gli eserciti e le guerre, nel momento stesso in cui la loro composizione e caratteristiche (per come li abbiamo conosciuti da tre secoli a questa parte)
stanno cambiando. Oppure occuparsi della sorte dei civili in guerra, sapendo
che costituiscono l’80% dei circa 185 milioni di morti che le guerre del Novecento, assommate, hanno provocato. O ancora, leggere le due fotografie
quasi come simbolo delle due più grandi esperienze tragiche dell’intero XX
secolo, il nazismo e il comunismo. E così via, dalle ambiguità delle democrazie liberali agli scenari coloniali, post-coloniali del pianeta; dal Novecento “secolo dei campi” al Novecento “secolo delle masse”. Chi potrebbe negare che la storia di Kim – che trascorse tutta l’infanzia in un contesto di
guerra (nata durante il conflitto del Vietnam, aveva nove anni quando fu
bruciata dal napalm e dodici quando la guerra finì) e l’intera giovinezza (fi-
Tutto vero, tutto condivisibile, ma alla fin fine non sufficiente, perché
mi pare che tutti questi angoli visuali, legittimi e doverosi, corrano il rischio
di continuare a inchiodare i loro stessi protagonisti in un ruolo simbolico che
non basta. Ecco allora che chiamarli per nome può assumere un significato
più profondo rispetto al semplice dato storico. Lo ha fatto ad esempio lo
scrittore polacco Jaroslav Marek Rymkiewcz, che rivolgendosi per nome al
bambino del ghetto ha scritto:
«Ti sei stancato. Deve essere davvero molto scomodo, star fermi così, con le braccia
alzate. Facciamo così. Adesso sarò io ad alzare le braccia, e tu le puoi abbassare. Forse
non se ne accorgeranno. Oppure sai che. Facciamo in un’altra maniera. Stiamo fermi tutti
9
Susan Sontag, Sulla Fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1978
Czeslaw Milosz, “Campo dei Fiori”, in Poesie, Adelphi, Milano 1990.
10
17
18
Fede
se ne accorgeranno. Oppure sai che. Facciamo in un’altra maniera. Stiamo fermi tutti e
due, con le mani in alto»11.
O ancora, provare a comprendere nel concreto come le loro vite, almeno alcune, siano andate al di là di quello scatto che le ha definite, esaurite e
addirittura imprigionate in quel momento storico. È questo, a mio avviso,
uno tra i significati più autentici del lungo itinerario di Kim Phuc. E si svela
appieno nel momento in cui, nel 1996, Kim incontra John Plummer,
l’ufficiale americano che aveva ordinato l’azione col napalm e che per anni
e anni fu ossessionato dal senso di colpa. Il perdono che gli accorda, con parole estremamente semplici – «Non possiamo cambiare la storia né quello
che mi è accaduto. Ma … non possiamo arrenderci: c’è in ballo la salvezza
dei nostri figli» – dimostra che davvero, anche nelle più grandi tragedie personali e collettive, è possibile aprire una strada di riconciliazione con sé e
col proprio vissuto, nella misura in cui nessuno è responsabile del male che
ha subito, ma lo è di ciò che fa del male subito12. Ed è ciò che ha fatto Kim,
oggi ambasciatrice dell’Unesco che si occupa della sorte dei bambini nelle
zone di guerra, scesa in fondo alle sue ferite personali, non più abissi ma
ponti per ricominciare a passare.
11
Jaroslav Marek Rymkiewcz, Il bambino inerme del ghetto di Varsavia, “Diario di Repubblica”, 19 giugno 2004.
12
Cf. Lytta Basset, Le puvoir de pardonner, Albin Michel-Labor et Fides, Parigi 1999, cit. in
Luciano Manicardi, L’umano soffrire, Qiqajon, Bose 2006.
19
Gesù e la povertà
RENATO TAMANINI
S
arebbero tanti gli aspetti della vita di Gesù che hanno riferimento con il
tema della povertà e quindi farò una scelta di qualche aspetto, quello
che a me sembra decisivo e all’origine anche degli altri.
La povertà di Gesù è prima di tutto di tipo spirituale, è la povertà di chi
ha una passione così grande e così irruente che non gli permette di badare ad
altre cose. La passione di Gesù è riuscire a raccontare l’amore del Padre per
l’umanità, spiegare che al centro del cuore e delle occupazioni di Dio c’è la
decisione di far arrivare il suo amore, la sua offerta di vita, il suo perdono a
tutti gli uomini, senza distinzione di condizione sociale o di situazione
morale. Il resto non gli poteva interessare: avere soldi, potere, cose,
comodità. Non lo preoccupava nemmeno la possibilità di avere una casa,
una famiglia, un luogo dove rifugiarsi, godere di una legittima privacy,
coltivare qualche hobby. «Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra e
come vorrei che fosse già acceso». Il fatto di avere al centro del suo essere
la vita di Dio e il suo amore lo rendeva libero di fronte a tutto il resto,
perfino di fronte alla sua stessa vita. Sulla croce rinuncerà a salvare se stesso
e diventerà re proprio in forza della sua disponibilità a dimostrare fino a che
punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. Aveva trovato un bene, una realtà
così bella, così importante ed avvincente che assorbiva tutti i suoi interessi e
che gli permetteva di rimanere sempre legato, abbarbicato a questo centro
della sua vita. L’amore del Padre e la voglia di farlo conoscere a tutti gli bastano e riempiono tutta la sua vita, gli prendono letteralmente la vita.
Ma questo non vuol dire affatto vivere nelle nuvole o immergersi nei
propri pensieri, ma viceversa lasciarsi guidare da questa passione nel rapporto con le persone e nello sguardo sulla vita umana.
Nei rapporti Gesù ha uno stile veramente nuovo e inaspettato: lo vediamo dedicarsi alla gente in modo instancabile e attorniarsi dei più poveri e
dei più emarginati. Leggiamo alcuni versetti: Mt 15,29-31.
20
«Allontanatosi di là, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là.
Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri
malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere
i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele».
È vero che Gesù aveva questo dono di poter guarire i malati, ma ad ogni modo è impressionante osservare chi c’è ai piedi di Gesù: questi sono
versetti riassuntivi della sua vita e quindi descrivono un quadro abituale delle sue giornate. Poteva considerare così importante quello che aveva da insegnare da ritirarsi a scrivere le sue memorie e lasciare ai posteri il suo vero
pensiero. Invece il suo diario è proprio questo vivere a stretto contatto con
tutti i più sfortunati. La sua libertà era così grande che non gli dispiaceva
passare il suo tempo con i più deboli ed affermare proprio con questo suo
atteggiamento il messaggio che era venuto a portare: Dio è vicino, vi vuole
bene, vuole che ogni uomo sia felice e consapevole della sua dignità, certo
dell’amore e della premura costante di Dio. E siccome era lui il volto di Dio
reso concreto, reso umano, allora portava questo messaggio con la sua presenza concreta, con la sua vicinanza anche fisica, di compassione e di attenzione. Non andava in mezzo ai sofferenti con il camice né con casse di regali ma con la sua persona. La povertà di Gesù era quindi la scelta di vivere
con i poveri ai suoi piedi, attorno a lui. E lo stesso atteggiamento lo assume
con i peccatori e con gli stranieri. Sono vari gli episodi del vangelo che lo
descrivono in brutta compagnia, tant’è vero che i commenti su di lui lo descrivevano come un mangione e un beone, che si intrattiene con i peccatori.
La passione che gli brucia dentro lo rende libero anche davanti ai giudizi dei
benpensanti, anche alle categorie dei bravi uomini religiosi del suo tempo.
Fino al punto che muore in compagnia di due ladroni e trattato anche lui
come malfattore, portato fuori della città e fatto morire come un disturbatore
dell’ordine stabilito e delle sane tradizioni.
Il fatto da mettere in evidenza quindi è questo: Gesù non ha scelto di
essere povero e di stare vicino ai poveri per motivi ascetici, per desiderio di
austerità e di penitenza e nemmeno per dare un segno provocatorio alle autorità religiose o civili ma molto più semplicemente e significativamente
perché aveva qualcosa di grande, di prezioso, di invadente da custodire e da
realizzare. È per questo che la sua scelta è di tipo spirituale, ossia nasce dallo spirito, nasce dalla sua identità, dal suo concentrarsi su qualcosa che era
assolutamente più importante di ogni altra cosa e che lo metteva nella necessità di lasciar perdere molte altre cose, che gli dava la serena e suprema li-
21
bertà di decidere. La povertà quindi è una conseguenza necessaria ma non è
un ideale. Nella Chiesa ci sono stati movimenti che hanno scelto la povertà
come carattere distintivo ma che hanno esagerato il valore assoluto della povertà perché lo hanno dissociato da aspetti più importanti e prioritari. Non
ha senso votare la propria vita alla povertà di Cristo se non assumo ciò che
giustifica e motiva questa povertà. Vale anche a questo riguardo ciò che dice
Paolo (1Cor 13) a proposito della carità: posso dare tutte le mie sostanze ai
poveri ma se non ho la carità a niente mi giova. Posso andare in Africa a lavorare per i poveri per mille motivi, tutti validi; quello che muove il cristiano è il caritas Christi urget nos, è l’amore di Cristo per l’umanità, la sua
passione di raccontare a tutti di essere importanti per Dio. Non ci vado perché i poveri sono buoni, migliori degli altri né perché così la mia vita acquista valore o per contestare il mondo occidentale. Per il cristiano la ragione
principale è di ordine spirituale, come per Gesù.
Però da questo luogo, da questo angolo particolare della sua vita che
sono i poveri Gesù osserva la realtà, il comportamento dei suoi contemporanei e lancia delle osservazioni molto nette e decise nei confronti della ricchezza. La sua scelta di vita, di spiritualità diventa evidentemente anche
luogo di discernimento, di giudizio.
È decisivo il fatto che qui Gesù ponga un contrasto netto tra le due realtà: Dio e il denaro. A noi sembra che si possa tranquillamente combinare
tutto, mescolare secondo i propri criteri l’uno e l’altro; invece Gesù esclude
questa possibilità, afferma che bisogna stare da una parte o dall’altra (Lc
12,13: «Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà
l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire
a Dio e a mammona»). La ricchezza, le proprietà alla fine finiscono per rubarti il tempo e il cuore e tu diventi schiavo, non hai più la libertà sufficiente
per dedicarti a ciò che vale di più. Non ti accorgi nemmeno delle persone,
dei poveri che ti stanno accanto. Si veda la parabola di Lazzaro e del ricco
(Lc 16,19-30), dove la colpa del ricco è solo quella di non aver visto e pensato al povero, di non aver avuto il “tempo” o la capacità di essere sensibile,
misericordioso, solidale.
«C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a
leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi
e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui».
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Non è il tanto che viene criticato, non è la quantità che ti ruba l’anima
ma è l’affanno, la preoccupazione, il pensiero, l’importanza data al mangiare
e al vestito che ti toglie la capacità di essere libero, di fidarti di Dio e di impegnarti per il suo Regno e la sua giustizia (la giustizia di Dio è l’amore). Lc
12, 22-31:
«Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».
Si giunge al punto che è meglio disfarsi delle ricchezze per non correre
il rischio di avere altro tesoro che Dio (Lc 12,33-34):
«Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro
inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il
vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore».
La ricchezza diventa un inciampo, impedisce di apprezzare e di essere
liberi di darsi da fare per ciò che è veramente importante. Liberarsene è segno di saggezza ed è condizione per la sequela piena di Gesù. Lc 18, 18-25:
«“Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un
tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”. Ma quegli, udite queste parole, divenne assai triste,
perché era molto ricco. Quando Gesù lo vide disse: “Quanto è difficile per coloro che
possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. È più facile per un cammello passare per
la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno di Dio”».
Capita così che chi dà importanza alle cose, ai beni, non si accorge
nemmeno quando Dio gli sta accanto, non riesce a vedere il povero e quindi
non riesce a vedere e servire Dio. Perde l’occasione di fare qualcosa di bello
per Dio. «Tutte le volte che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo
avete fatto a me» (Mt 25,31).
Qui allora si salda l’anello: la povertà materiale, la sobrietà come scelta
di vita diventa condizione che permette di dare priorità a Dio e al suo Regno. Gesù cioè sceglie di vivere totalmente e radicalmente per Dio e trova in
questo la sua libertà ma si accorge che coloro che hanno ricchezze non riescono a staccarsene e non riescono a mettersi al servizio radicale del Regno;
ed allora provoca i suoi discepoli perché diventino poveri, perché si disfino
dei loro beni se vogliono mettersi al servizio di Dio.
23
A questo proposito risulta interessante l’episodio di Zaccheo (Lc 19):
Gesù non gli rivolge nessuna raccomandazione e tanto meno non impone
nessun obbligo. È lui che, stando a contatto con Gesù, capisce di dover restituire quello che aveva rubato e di distribuire metà del suo patrimonio ai poveri. Non è detto che sia diventato povero; però è significativo che quando
uno viene in contatto con Gesù scatta immediatamente l’attenzione ai poveri. Sequela di Gesù e considerazione dei poveri sono legati tra di loro. Ma
non però per un motivo ideologico ma di fede, perché non si può rimanere
ricchi e attaccati ai propri beni e mettersi a seguire un povero come Gesù,
non si può dare attenzione alle cose da possedere e dare contemporaneamente il proprio cuore a Dio. Qui allora si inserisce anche l’altro aspetto fondamentale nella nostra fede: se Dio è amore, e se l’amore di Dio è esistere per,
dare totalmente se stesso per la crescita dell’uomo, ne consegue che mettere
al centro Dio vuol dire mettere al centro l’amore, mettere al centro il fratello. E questa scelta ha evidentemente un’estensione infinita, generale: tutti gli
altri, dal più vicino al più lontano. Diventa un modo di vivere, il modo cristiano di stare al mondo. «Come puoi dire di amare Dio che non vedi se non
ami il fratello che vedi?» (1Gv 4,20).
Ma è anche vero che nessuno di noi riesce a vivere l’amore in dimensione universale; è sempre necessario scegliere. E se la scelta del cristiano è
sempre l’opzione preferenziale per i poveri, il dedicarsi a questi o a quelli
dipende da molti fattori, non ultimo la conoscenza o l’incontro occasionale.
Un’ultima precisazione: la radice di questo amore è sempre fondata in
Dio, è per Lui che cerchiamo di essere presenza di solidarietà e compassione, è da Lui che prendiamo lo stile e la misura: ma il modo di portare questo
amore va misurato sulla condizione e sul bisogno. Gesù solo qualche volta
ha approfittato dell’intervento di guarigione per introdurre altre tematiche
(vedi il paralitico calato dal tetto); in generale ha solo risposto alla richiesta
e al bisogno senza chiedere sequela, oggi diremmo senza fare proselitismo.
In altre parole mi sembra di poter affermare che la normalità è quella di osservare (l’importanza del vedere nel vangelo!), di rendersi conto, del provare compassione e del venire incontro al bisogno (vedi moltiplicazione dei
pani o il buon samaritano); in alcuni casi, probabilmente per la buona disposizione dei singoli, arriva anche la richiesta di credere in Gesù e di seguirlo.
Questo per sostenere che, anche se la ragione originaria è la fede in Dio,
questo non vuol dire battezzare ogni azione e approfittare ogni volta per
rendere esplicita la propria motivazione. È sufficiente amare per dire Dio! 24
Scritti su Giuseppe Dossetti
dal contatto con i suoi abitanti molte delle sue scelte future: dalla vita in
comunità per non essere un cristiano isolato; all’esercizio al dialogo e
all’ascolto esperito poi nell’Assemblea costituente; all’interesse per il mondo e per gli scenari internazionali; all’attenzione per gli ultimi. Quanta continuità con il discorso dell’Archiginnasio.
Sempre a Cavriago egli rifletté in modo sereno sulla genesi della Costituente, sui suoi limiti e pregi, collegando però ogni idea di mutamento istituzionale con un necessario rinnovamento etico dell’uomo e della comunità
civica e spirituale. Senza questo ogni tentativo di riforma sarebbe stato controproducente, se non dannoso. Disse infatti:
A vent’anni da Ca
Cavriago:
l’università del
della vita
LUIGI GIORGI
«Il problema più importante mi pare un altro: quello di un rinnovamento etico dell’uomo
e di un rinnovamento del senso comunitario, del senso della comunità, di quella piccola,
di quella di paese, di quella di città, di quella di provincia, di quella di regione e della
grande comunità statale».
R
icorrono quest’anno vent’anni dal discorso di Cavriago, pronunciato da
Dossetti il 13 febbraio (giorno del suo compleanno) del 1988 in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria da parte del comune.
Il discorso di Cavriago è un topos, nella costruzione e nei contenuti, del
pensiero dossettiano del periodo. Esso infatti rappresenta insieme una ricapitolazione della sua vita, della sua esperienza civica e religiosa e uno sguardo
verso il futuro accompagnato dalla necessità in qualche misura di spiegare e
di riflettere sulle varie influenze culturali, politiche e spirituali della sua esistenza. Esso dimostra come, volontariamente o meno, i diversi interventi di
Dossetti si costruiscano in una continua evoluzione: un processo organico di
riflessione teso a comunicare e ad esporre alcune idee ben precise.
Il discorso di Cavriago si sviluppa a partire dalla citazione del Salmo
90, un passo significativo che, come è solito in Dossetti, per la sua forza da
solo racchiude il senso dell’intervento: «Insegnaci a contare bene i nostri
giorni e giungeremo alla sapienza del cuore».
Dossetti insisterà con forza sul cuore e sulla sapienza del cuore. Viene
il mente quanto detto alla redazione di Bailamme qualche anno dopo:
«L’unico grido che vorrei far sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese
ancor più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione.
Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che
l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano».
Il cuore e i giorni e quindi il tempo, il cui impiego è di Dio (e della
Chiesa), come recita la Regola: un tempo che egli analizza, scompone e ripercorre con sensibilità e intelligenza. A Cavriago infatti Dossetti riassunse
un po’ tutta la sua vita, facendo discendere da quella esperienza di paese e
25
Una comunità intesa come consorzio di vita, come capacità di «abbandono della propria individualità alla volontà degli altri».
Il discorso di Cavriago può essere visto come una tappa, come un passaggio intermedio fra due poli: la riflessione fatta, nel 1986, in occasione del
conferimento dell’Archiginnasio d’oro e il ricordo di Lazzati, del 1994, nel
quale citerà il famoso passo della “Sentinella” e con cui, in qualche modo,
aprirà il suo impegno a difesa della Costituzione.
A Cavriago Dossetti poneva, in definitiva, un altro tassello nel personale percorso di vita, rivisitandolo in un’ottica riepilogativa, ma non conclusiva, della propria esistenza, attraverso il ripensamento di alcune esperienze
fondamentali, tutte vissute come dono di Dio, e nessuna rinnegata, anche le
più difficili. Esse venivano colte e interpretate nella totalità di un cammino
di vita articolato, fatto di alti e bassi, di strappi e meditazioni, ma sempre
obbediente ad una logica di sviluppo coerente, ad una continuità personale,
civile e religiosa. Dirà infatti ricordando la sua esperienza religiosa che questa:
«fortemente comunitaria, fortemente condizionata dagli altri, fortemente controllata dagli
altri, è l’auspicio, il desiderio della mia vita e di quelli che con me hanno condiviso il
cammino degli ultimi trentacinque anni, che sono stati gli anni conclusivi e ricapitolanti
di tutti i valori prima accumulati».
Mario Tronti ha colto e spiegato con sensibilità, a mio giudizio, la continuità insita nell’esperienza di vita di Dossetti:
26
Politica
«È un paradigma del nostro tempo, la scelta monastica di Dossetti. Il monaco c’era già
prima come intimo segno dell’anima. Il politico interviene per l’irrompere di una tragica
contingenza storica. Il monaco ritorna come l’eterno quando la grande storia si consuma.
Di qui, monachesimo e politica, grande discorso del futuro passato. Anche in politica –
stiamo parlando della grande politica – c’è il cenobio e c’è l’eremo. Il momento della
comunità nell’agire e nel meditare. Il momento della decisione solitaria e, prima ancora,
della scelta interiore di vita. Se manca l’uno o l’altro di questi momenti, manca l’unità
della persona politica, e quindi non si dà né il senso né l’efficacia dell’intervento nel
mondo. L’attività politica chiede di essere pensata. E il pensiero politico chiede di essere
realizzato. Reggere questa tensione, saperla e al tempo stessa governarla, è l’esercizio
dell’esistenza quotidiana».
Casa Editrice Il Margine
di prossima uscita:
Guido Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nel Novecento italiano
Il libro affronta alcuni passaggi decisivi nella storia dei rapporti tra cattolici e politica nell’Italia
del Novecento. Un tema di grandissima attualità che continua a segnare la politica italiana di
oggi. L’autore unisce la profondità dell’analisi all’acutezza dell’interpretazione. Il libro risponde ad alcune questioni centrali. Quali sono le correnti di pensiero che da sempre dividono i cattolici in politica? Qual è stato l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla democrazia? E il ruolo
del partito cattolico? Perché è finita la DC? Qual è stato il ruolo del cardinale Ruini nell’ultimo
ventennio? E cosa resta della lezione di grandi protagonisti come Sturzo, Dossetti, De Gasperi,
Lazzati, Moro?
Piergiorgio Cattani, Cara Valeria. Lettere sulla fede
Un giovane, bloccato fin dall’infanzia in carrozzina, scrive a un’amica e le rivela sofferenze,
incertezze, speranze. Lettere che diventano a poco a poco un canto di amore per la vita e un atto
di profonda fede, nonostante tutto. Le domande sul senso della vita, l’amore, il dolore, la morte,
Dio, il bene, il male stanno dentro ciascuno ma non sempre trovano la possibilità di esprimersi.
Attraverso un epistolario semplice e intenso l’autore instaura con l’amica Valeria un dialogo
profondo che tocca i temi decisivi dell’esistenza e arriva al cuore di tutti.
Paolo Renner, Frontiere – Grenzen. Vita free lance di un prete felice
L’autore si trova a suo agio sulle frontiere, luoghi di incontro e scontro, luoghi rischiosi ma che
lui giudica sempre originali e stimolanti: la frontiera italo-tedesca, quella dei non credenti, delle
altre religioni, dei poveri, dei malati, degli immigrati, degli omosessuali... La felicità dell’essere
prete in mezzo all’umanità vera, non quella dei manuali.
I libri del Margine possono essere richiesti nelle librerie, oppure direttamente alla casa editrice:
tel. 0461-1871871/0461-983368 (il mattino dalle 9 alle 13); e-mail: [email protected]; oppure attraverso il sito www.il-margine.it dove si può effettuare l’acquisto online con carta
credito (e con ottimi sconti). C’è anche la formula dell’abbonamento: 10 libri a scelta a 110
euro (per informazioni telefonare in sede).
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La questione cilena
Il ruolo del movimento e del partito cattolico
EUGEN GALASSO
N
on è affatto esagerato ritenere che la “questione cilena” segni uno
spartiacque non meno importante del 1989-1991. Se tra la fine degli
anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo crollano muri
e regimi fondati (al di là delle esagerazioni propagandistiche dell’Ovest) su
menzogna e oppressione, nel 1973 (la data esatta del golpe di Augusto Pinochet è l’11 settembre, ma l’atto fu preparato molto prima e con una regia ben
precisa, notoriamente firmata Kissinger/CIA), la dottrina Monroe, formulata
a metà Ottocento (per cui diventava legittimo per gli States intervenire in
America latina «ove gli interessi nazionali degli USA vengano minacciati»),
molto elastica e applicabile senza troppi problemi, diventava prassi corrente.
Lo sciopero dei camioneros fu una tragica avvisaglia ma anche la preparazione economica del golpe.
Sul fronte della sinistra, cattolica e laica, marxista e non (i confini, in
America Latina, non sono mai così netti), si segnalò un disagio: in Unidad
Popular, certo “diffranta” nel suo variegato panorama (da un piccolo partito
della sinistra cattolica e soprattutto dalla socialdemocrazia fino al MIR, che
raggruppava l’“estrema sinistra”) esistevano contrasti non da poco. Essi non
mettevano in discussione il giudizio sull’imperialismo espansionista degli
States e in particolare sulla destra repubblicana, già allora al potere, ma segnalavano una questione che, assieme ad altre concause, portò alla proposta
di “Storico Compromesso” (l’alleanza, in sostanza, tra DC e PCI), formulata
dall’allora segretario del PCI ma ri-disegnata anche, pur con modifiche, in
proposte quale quella dell’eurocomunismo, che vide uniti, per gran parte
degli anni settanta, i segretari comunisti Berlinguer, Marchais, Carrillo, gli
esponenti comunisti dei principali partiti “sovietici” d’Europa (non senza
influenzare anche la sinistra cattolica, in genere i partiti cattolici e, certo con
accenti diversificati, tutta la sinistra europea e nordamericana). Di quella
28
stagione, in apparenza, non rimane nulla; in realtà le liti in famiglia anche
nel neo-nato PD italiano segnalano pur qualcosa che “viene da lontano”; ma
rimane anche, nello scacchiere internazionale totalmente mutato, un neoimperialismo USA1.
In questo testo non si affrontano affatto i nodi delle questioni cui si è
accennato, lasciandoli problematicamente al lettore, e si restringe invece il
campo al ruolo del movimento e del partito cattolico, sempre tenendo conto
del décalage tra il primo e il secondo.
La questione cattolica, tra movimento e partito “cristiano”
Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto nel 1970, esponente del Partito Socialista, per alcuni versi considerato, solo da alcuni
però, “più a sinistra di quello comunista”, era al tempo stesso socialista, cattolico, massone. Se il primo e il terzo termine sembrano più compatibili, se
il primo e il secondo sicuramente anche già all’epoca (almeno nella prospettiva conciliare, in specie se fecondata dalla teologia della liberazione), qualche problema lo crea, semmai, il rapporto con la massoneria, in tutta
l’America Latina considerata spesso non solo”anticlericale” ma anticristiana
e particolarmente anticattolica.
In realtà, prescindendo da esempi storici (in Nicaragua Augusto César
Sandino fu massone ma non “anticristiano”, anzi), nella figura di Allende
uno stacco tra queste “diverse appartenenze” non c’è. Assumere come esempi paradigmatici gli esempi della Rivoluzione Messicana ma anche quelli della lotta feroce tra Partido Conservador (di destra, clericale) e Partido
Liberal (socialista, anticlericale) nella Colombia descritta dai/nei romanzi
storici di Gabriel Garcia Marquez, vorrebbe dire limitarsi a un segmento storico ottocentesco e al massimo (già con maggiori problemi) protonovecentesco. A parte poi la specificità cilena (il Cile più “europeo”, ma
non privo di comunità “chollas”, cioè indie, meno “interculturale”, ma anche
paese delle grandi distanze e del forte contrasto tra città e campagna), si veda il caso-attuale del presidente venezuelano Hugo Chàvez, le cui dichiarazioni filo-cubane si sposano con il suo cristianesimo un po’epidermico, ma
sicuramente legato al “precipitato” delle teologie della liberazione.
D’altronde, tornando più strettamente al Cile, già nel 1969, quando la
sinistra democristiana si stacca dal partito/madre, dando luogo al MAPU
(Movimiento de Acciòn Popular Unitaria), essa entra totalmente nell’ottica
di UP, tra l’altro aderendo totalmente al progetto del governo di Allende, in
cui entra a pieno titolo, senza alcuna riserva verso il marxismo, considerato
quale “ideologia operazionale”2. Nel 1971 al governo di Unidad Popular si
aggiunge la Izquierda Cristiana, altro “troncone” dissidente dell’exDemocracia Cristiana di Eduardo Frei, che alle elezioni del 1970 era ormai
leader indiscusso e candidato premier della/per la Democrazia Cristiana cilena.
Apriamo una parentesi. Un testo di Corrado Corghi pone in luce come
in Jacques Maritain vi siano le basi per una critica cattolica al capitalismo,
senza una fuoriuscita dallo stesso, mentre in Emmanuel Mounier a fortiori si
può e si deve parlare di uscita dal capitalismo o del suo superamento, proprio a partire dal presupposto personalista (il capitalismo schiaccia la persona, la aliena in ogni senso, tanto che Mounier – qui citato da Corghi – arriva
a dire: «é vero che molti comunisti sono portatori di più autentica spiritualità
di coloro che buttano loro in faccia lo spirituale; e che c’è più fecondo umanesimo nella rivoluzione sovietica che nelle chiacchiere di tanti socialisti
umanisti»3. Questa affermazione oggi, ex post, si può criticare anche duramente, ma all’epoca attrasse le migliori energie intellettuali, politiche e sociali di ogni continente (l’entusiasmo per il bolscevismo coinvolse tantissimi
intellettuali – e non –non comunisti, cattolici di sinistra, ma anche socialisti,
persino socialisti riformisti, libertari ecc.).
È anche vero che tali esperienze si fecondano (quella di Mounier soprattutto) poi con le teologie della liberazione, anche esogene, come
l’esperienza di padre Louis Lebret, domenicano francese, nato nel 1897, poi
vissuto a stretto contatto con l’esperienza “latina”, arrivando a collaborare in
maniera determinante alla Populorum Progressio di Paolo VI (morì a Parigi
nel 1966). Le posizioni di Lebret, seppure estremamente avanzate, comunque non chiedono la collettivizzazione sistematica dei mezzi di produzione;
egli è fautore di una sussidiarietà “spinta”, finalizzata cioè al bene collettivo.
In altri termini, dove l’iniziativa privata non basti, anzi soffochi un progres2
3
1
Su ciò cfr. per esempio il bel saggio di Janette Habel, Washington a-t-il perdu l’Amerique
latine, in “Le Monde diplomatique”, Décembre 2007, n. 645, pp. 1 e 10-11.
29
R. Ambrosio (primo segretario genrale del MAPU), in “Vispera”, luglio 1969, n. 11, pp. 6061.
E. Mounier, Les certitudes difficiles, in Oeuvres, IV, Paris 1961, citato in C. Corghi,
L’ideologia democristiana e l’Internazionale DC, a sua volta in F. Bertolini – F. Hermans,
La DC in Cile, Milano, Mazzotta, 1974, p. 259.
30
so che non sia solo sviluppo, appare necessario l’intervento statale. Da posizioni inizialmente quasi conservatrici, Lebret si spinge verso una critica radicale dell’Occidente capitalistico, pur se non globalmente in sé, ma nelle
sue articolazioni storico-concrete, in particolare rispetto al Terzo Mondo4.
Anche Lebret non è solo “peritestuale” rispetto al movimento cattolicodemocratico cileno: anzi, egli è pienamente presente, ”infratestuale” allo
stesso. Se poi consideriamo il generale approccio della stessa DC cilena, peraltro sintonica con l’Internazionale democristiana, esso non fu mai succube
rispetto al capitalismo. Questo almeno in teoria, perché in realtà posizioni
come quella di Eduardo Frei sono prone agli interessi USA e di Bretton
Woods, la “seconda Yalta” economica. Come nota acutamente Corghi,
«Malgrado queste dichiarazioni [quelle anticapitaliste come anti-socialismo
reale], la realtà è quella dei partiti democristiani al potere con politiche di
neocapitalismo illuminato e di centrismo in variegate posizioni»5.
Potremmo tranquillamente dire che il Cile, paese industrialmente e in
genere economicamente avanzato rispetto alla media latino-americana, come circa un lustro dopo l’Argentina (altra “punta avanzata”, pur con tutte le
sue contraddizioni, rifrantesi anche nell’oggi) che cede alla dittatura militare, con i “Chicago-Boys” iper-liberisti e friedmaniani al potere6, era espressione di una condizione politica internazionale, appunto legata ai parametri
di Bretton Woods e della”guerra fredda”. Né la condizione attuale, postcapitalistica (meglio diremmo iper-capitalistica e iper-liberista, posttecnotronica, come vorrebbe Brezisnki, ex-consigliere di Carter e di altre
amministrazioni democratiche), sembra essere migliore, anzi.
In nessun documento della DC di Frei Montala (scelto comunque, a
differenza di Tomic e di altri, perché più “a destra”) durante la dittatura pinochetiana e quindi “a partiti silenziati”, si trova mai una difesa del golpe,
anzi ufficialmente condannato, ma neppure troppo larvate “giustificazioni
socio-economiche”dello stesso sono facilmente rilevabili: «il golpe militare
appare come una soluzione, negativa in se stessa, però direttamente o indi-
4
Cfr. tra l’altro il testo citato di Corghi, in Bertolini-Hermans, La DC in Cile, pp. 263-270.
Corghi, L’ideologia democristiana, p. 275.
6
Ciò nella politica pinochetiana era ancora ben più evidente ma anche esplicitato che nella dittatura argentina di Videla e Viola... Chi scrive, dal canto suo, un decennio fa, ebbe una violenta polemica con il filosofo della politica germanico, cristiano-luterano, Hermann Luebbe,
che in un corso pubblico sosteneva la bontà della politica economica del Cile di Pinochet,
sentendosi replicare: «Forse dal punto di vista di un PIL comunque truccato, non certo per i
salariati e i non garantiti cileni!».
5
31
rettamente provocata da settarismi e dal disastro economico e sociale e
dell’odio fratricida prodotti dal governo della cosiddetta “Unidad Popular”»7. Si tratta di un testo di un’ipocrisia più unica che rara, anche stilisticamente sospesa, tra il detto e il non-detto, tra incisi parentetici, negazioni
della negazione mascherate, degne di miglior causa... ma soprattutto di una
tradizione democristiana che, a pensarci bene, non è poi dissimile da certe
scelte della DC europea e segnatamente italiana che, però, a scelte simili
non arrivò mai...
La realtà “latina”oggi
Il fantasma del 1973 e la realtà dell’impegno cristiano in politica oggi.
Da modesto conoscitore della realtà latino-americana, anche dal punto di
vista esperienziale, considero la situazione attuale del Cile, dell’Argentina,
del Brasile, del Nicaragua, della Bolivia e anche del Venezuela (con tutte le
contraddizioni del populismo di Chàvez) comunque migliore di quella degli
anni settanta. Ma in certi paesi (segnatamente la Colombia, in parte
l’Ecuador, Trinidad/Tobago, Haiti, Santo Domingo in particolare) permane
una forbice spaventosa tra ricchi e poveri, tra detentori del capitale (comunque si esplichi, anche e soprattutto finanziario) e salariati (per non dire degli
esclusi, di chi è pagato a cachet o peggio occasionalmente o è disoccupato).
In questi paesi, in genere, la presenza “cristiana” o non riesce a farsi sentire,
in forma di sindacato, partito, movimento popolare, realtà associativa di base, oppure rimane troppo flebile di voce... Spesso, rifluisce o nel marasma
conservatore oppure (i settori progressisti, gli “scampoli” delle teologie della liberazione) nella sinistra politica, spesso senza rivendicare istanze forti,
però.
La situazione latino-americana è abissalmente diversa da quella europea, per cui sarebbe ingeneroso tirare conclusioni. Tuttavia, senz’altro, in
Europa la situazione non appare migliore: in Italia, a livello mediatico (comunque fondamentale, nella nostra “società dello spettacolo”) appaiono ormai quasi solo cattolici conservatori, dall’UDC ai cattolici nei partiti di destra, ai Pezzotta ma anche alle Binetti (che è nel PD!) di turno. Le presenze
“altre” certamente vi sono, ma sono soffocate e/o imbavagliate, spesso isolate.
7
La Dc in Cile, Appendice II, p. 286.
32
Appunti
In Germania la CDU-CSU (certo con accezioni diverse) ha da decenni
le caratteristiche “secolarizzate” di un partito conservatore, più raramente
centrista, con scelte economiche quasi sempre iper-liberiste; in Spagna
l’identità cattolica, nel Partido Nacionàl Popular (PNP, nato, come ben si sa,
con un inquietante retaggio post-franchista) sembra ormai essersi radicata in
un viscerale anti-modernismo: no al matrimonio gay, no a Zapatero su tutta
la linea, con una difesa ad oltranza del nazionalismo unitaristico, con dei
secchi no non solo all’indipendentismo basco ma anche all’autonomismo
basco e catalano, con una politica economica ultra-conservatrice. Non andrebbe dimenticata la situazione della Polonia, con un passato inquietante,
di cattolicesimo fascistoide; ben diversa è la situazione irlandese, per quanto
è dato conoscerla ai “non-addetti ai lavori”. Si tratta di una carrellata fatalmente incompleta: ma si tratta di alcune punte dell’iceberg.
Si ripropone dunque il problema dell’impegno del cristiano in politica.
Non vorrei sembrare a tutti i costi un sostenitore della negazione musiliana
del partito cristiano («un esempio di ermafroditismo politico»); ma, tramontati quasi dappertutto i partiti “cristiani” o espressamente dichiaratidichiarantisi tali, forse è meglio ripiegare su forme associative e su movimenti d’opinione (non su gruppi e movimenti a priori ultra-dogmatici e ultra-conservatori a livello religioso e teologico, solo in seconda battuta anche
politicamente, privi d’ogni autonomia di pensiero, alla faccia dell’impegno
conciliare all’autonomia in ultima istanza del credente) che, senza “torcicollo” verso il Vaticano, sappiano guardare criticamente all’oggi e al domani,
nel confronto anche aspro, rinunciando ad assurdi “unitarismi”.
33
La discussione balca
balcanica
MARCO ZECCHINATO
sera fa, in una fredda notte tiranense, mi sono scoperto a rifare
Qualche
un esercizio che mai, prima di quest’anno, mi era capitato di provare
nella capitale albanese: la famosa discussione balcanica. Chiunque abbia
soggiornato qualche tempo in uno qualsiasi dei Paesi dell’ex-Jugoslavia capisce benissimo a cosa mi riferisco. Si tratta di una maratona dialettico/etilica nella quale vengono sviscerati gli argomenti più disparati, generalmente con perfetti sconosciuti che insistono nell’offrire spropositate razioni di raki, birra o altre varianti locali rigorosamente alcoliche. Si parla di
politica, calcio, sentimenti, patria, ricette, donne e futuro. Il linguaggio è faticoso, un mix di italiano, inglese, tedesco, serbo-croato o albanese, a seconda della latitudine, quello che non cambia è la comunicazione non verbale,
fatta di continui brindisi, strette di mano, offerte di sigarette, risate eccessive
e finti litigi su chi debba offrire il prossimo giro (in media un italiano può
spuntarla una volta su quattro). Era con me un amico, alla sua prima esperienza nel sud-est Europa, che si è divertito molto ma che, durante la conversazione, è rimasto più volte interdetto perché, pur affermando posizioni
pacate e ragionevolissime, non riusciva ad entrare in “sintonia” con la discussione, fino ad essere scherzosamente soprannominato carabiniere e addirittura infiltrato dell’FBI. Questo divertente sketch mi ha offerto
l’ispirazione per fornire qualche indicazione a lui e a chiunque voglia venire
a farsi un giretto da queste parti. Ma, soprattutto, far sorridere i molti amici
italiani conosciuti nei Balcani, che di sicuro si riconosceranno in molte delle
situazioni qui descritte.
La “locanda balcanica”, che è anche il titolo di un serio testo psicologico-sociale su comunismi e nazionalismi nei Balcani (cfr. Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani, Raffaello Cortina editore), propone alcune costanti: il
locale è generalmente a soffitto basso (spesso sotto terra) e senza impianto
di areazione, ideale per portare per giorni sui propri vestiti il ricordo della
serata con aromi di fritto e sigaretta. I frequentatori hanno un’età media superiore ai 60 anni e le uniche donne presenti sono quelle al vostro tavolo (di
solito vostre amiche italiane, anche se in Croazia e Serbia può accadere, nel-
34
le città, che l’emancipazione femminile raggiunga anche questi santuari della mascolinità) o, al massimo, cantanti di quart’ordine che si dimenano in
abiti più o meno succinti nell’indifferenza generale. Il padrone del locale è
spesso lo zio, il cugino o il nipote dei vostri interlocutori e accoglierà con
entusiasmo qualsiasi vostra richiesta, fosse anche quella di uscire nella neve
per procurarvi la marca di sigarette da voi preferita. Il cibo è ottimo, il servizio trascende qualsiasi norma igienica, i prezzi sono ridicolmente bassi e il
riscaldamento troppo alto (tranne che in Albania, dove qualche goccio di
raki ottiene ugualmente lo scopo).
L’incontro avviene in maniera assolutamente casuale, generalmente
qualche avventore si accorge degli “stranieri” e, positivamente incuriosito
dal fatto che abbiano preferito quella bettola allo Sheraton (a Tirana gli Italiani “devono” essere tutti ricchi), attacca discorso. Se siete dell’umore giusto (e se il giorno dopo non dovete lavorare) non perdete l’occasione di ricambiare la battuta e vi troverete ben presto seduti al loro tavolo con un bicchiere pieno davanti. Le presentazioni sono l’occasione per rompere il
ghiaccio, ad ogni nome Italiano viene associato un nomignolo (per il sottoscritto gli accostamenti più gettonati sono Marco Van Basten, Marco Polo,
Marco Visconti [!], Marco Aurelio e Marco Pantani, con varianti come Fidel
Castro, Karl Marx o Bin Laden se la barba supera i due millimetri) cui è obbligatorio reagire divertiti e dimostrando di conoscere perfettamente il personaggio nominato (generalmente le citazioni non sono molto dotte, ma un
mio amico di nome Andrea si è visto chiamato Andrea Cavalcanti e non conosceva lo scultore... pessimo inizio!). La prima domanda è “cosa ci fate qui
in… (Albania, Bosnia, Serbia ecc.)?” cui, a seconda degli ambienti, conviene rispondere in maniera piuttosto generica. Se lavorate per l’Ambasciata
italiana non ditelo in Albania (o vi crederanno in grado di concedere un visto in due giorni e ve lo chiederanno), se lavorate per un’organizzazione internazionale tipo OSCE non ditelo in Croazia (vi riterranno filo-Serbi) o in
Bosnia (parassiti super-pagati); associazione italiana indipendente (se cattolica al momento tacetelo) generalmente mette d’accordo tutti. La seconda
domanda sarà inevitabilmente “come vi piace qui?” (traduzione letterale del
how do you like here?) a cui siete liberi di rispondere molto, moltissimo o “è
il paradiso”. Ovunque siate, trovate in fretta una ragione convincente e usate
quella per motivare la vostra risposta, onde risultare credibili e non soltanto
gentili (donne bellissime, cibo buonissimo, panorama incantevole, ospitalità
calorosa). Se il posto è talmente brutto che nessun argomento può risultare
davvero convincente, condite la vostra risposta comunque positiva con un
35
commento negativo sulle colpe dei politici (ad esempio “Scutari è molto bella, peccato che le strade siano in cattive condizioni”) oppure con una ottimistica previsione per il futuro (“Tirana è un po’ caotica, ma sta diventando
una metropoli europea”). Tanto, nel corso della serata, se raggiungerete un
sufficiente livello di intimità, potrete permettervi di capovolgere il giudizio e
nessuno noterà la contraddizione. Sarà quindi il vostro turno di chiedere agli
interlocutori da dove vengono e resterete colpiti dalla percentuale di persone
che affermeranno di essere originari di un’altra cittadina. Affrettatevi a trovare nella vostra testa una collocazione geografica plausibile per il semisconosciuto posto menzionato e, se fra i vostri ricordi riuscirete a pescare
qualsiasi cosa da accostare al nome della loro cittadina natale, il secondo
giro di raki è garantito. A meno che vi troviate in una città universitaria con
interlocutori molto giovani, evitate di domandare come mai si siano spostati
nella città in cui vi trovate. Spesso gli spostamenti sono dovuti ad un passato
doloroso legato alla guerra o alla povertà. Per lo stesso motivo, specie se vi
trovate in Bosnia o in Serbia, non indugiate troppo sul paese di origine, ma
passate alla domanda successiva. Un generico “di cosa vi occupate?” (“che
lavoro fate?” rischia troppo spesso di non trovare risposta in Paesi con percentuali di disoccupazione drammatiche) aprirà la strada al momento epico
della serata. Sarà spesso il compare del vostro interlocutore a rispondere al
suo posto per rivelarvi che vi trovate di fronte a: uno dei più grandi compositori, pittori, registi, artisti del Paese; uno dei più dotati studiosi che
l’accademia nazionale abbia mai prodotto; uno dei maggiori ristoratori della
regione; il primo inventore/importatore/costruttore di qualche meraviglia
tecnologica; un grande generale ora in pensione; il primo emigrante della
nazione a raggiungere un determinato posto; un grande ex calciatore/cestista/sciatore/tennista; il maestro di un grande calciatore/cestista/sciatore/tennista; il cugino di un grande calciatore/cestista/sciatore/tennista ecc. In
ogni caso, la persona che avete davanti avrà compiuto qualcosa di mirabile
di cui resterete seriamente impressionati. Nelle mie frequentazioni balcaniche ho conosciuto l’unico serbo della regione sopravvissuto ad un campo di
concentramento tedesco, il primo albanese che ha nuotato sei ore nell’acqua
ghiacciata del lago di Scutari, ricoperto da grasso di automobile, per fuggire
al regime, un paio di ex calciatori di Liverpool, Bayern Monaco e Stella
Rossa, il ritrattista ufficiale di Tito, un amante di Uma Thurman, un collaboratore di Maurizio Costanzo, chitarristi e concertisti di fama nazionale e internazionale, il maestro di scuola di Berisha, un ex-collega di Karadzic, il
compagno di banco di Enver Hoxa, l’ex ambasciatore bosniaco in Iran e tan-
36
ti altri personaggi dalle storie più incredibili e avventurose. Inoltre, ma questo veniva rivelato parecchi bicchieri più tardi, ho apparentemente condiviso
il tavolo con trafficanti di benzina, armi o droga, con mercenari al soldo di
Arkan, combattenti dell’Uck, ex-spie comuniste e combattenti di ogni fazione. Uno degli artifici per far risultare più credibile la propria identità è quella di aggiungere la parola “prima” (inteso a seconda come prima della guerra o prima della caduta del regime), il che giustifica qualsiasi condizione attuale che non corrisponda ai vostri occhi allo status dovuto ad una tale personalità. Potete divertirvi a stuzzicare l’interlocutore con qualche “oh” di
meraviglia o un bonario scetticismo. Se vi spingete a far notare qualche contraddizione (devo ancora capire come il compagno di banco di Enver Hoxa
potesse avere soltanto 70 anni), offrite subito una spiegazione plausibile
all’errore; farete capire di non voler essere presi per scemi, ma nessuno avrà
perso la faccia. Anche perché, molto più spesso di quanto possiate credere,
non state affatto ascoltando balle, semmai verità leggermente enfatizzate.
Siete entrati nel vivo della serata. Dovreste ormai essere al quarto o
quinto giro di bevute e alla decima sigaretta. Terminati i complimenti agli
Italiani recitando la strofa di qualche canzone di Sanremo che probabilmente
non avevate mai ascoltato all’interno dei patri confini, i vostri nuovi conoscenti torneranno per qualche minuto a parlare in lingua locale, commentando le novità sul vostro conto appena apprese. Sfruttate questo momento per
tastare il polso alla vostra compagnia, è forse l’ultima vostra chance per non
tornare a casa completamente ubriachi. Se decidete di restare, siete pronti
per tuffarvi in qualche discussione che partirà da una battuta su Berlusconi,
un commento su qualche ragazza, una riflessione sul tempo, e in breve vi
troverete a discettare di massimi sistemi, democrazia, teorie amorose, esperienze personalissime che non avete mai raccontato a nessuno e riflessioni
che non vi era mai capitato di fare. Seguire il discorso risulterà sempre più
difficile, vi troverete a ridere per battute che non erano tali ed esporre concetti che, se non hanno corrispondente nella lingua del vostro interlocutore,
a stento possono averla nella vostra. Verrete contraddetti su cose che ritenete scontate e appoggiati per posizioni che non avevate mai sostenuto in pubblico. Preferite qualche battuta a effetto a ragionamenti troppo lunghi, specie
se pacati. La discussione ha bisogno di rianimarsi ogni poco per avere
l’occasione di lanciare un brindisi (prima cosa da imparare in un Paese, come si dice “salute!” nella lingua locale). Attenti però: nel clima di euforia
generale è facile farsi scappare qualche leggerezza o battuta fuori luogo che
potrebbe di colpo raffreddare l’atmosfera. Se avete di fronte qualche fonda-
37
mentalista religioso (di solito ultracattolico) non sforzatevi di riportarlo alla
ragione. Abbozzate e cercate semmai di correggerne gli eccessi. Prima o poi
arriverà la mitica frase “povera Italia, non sapete chi vi state portando in casa”, riferito agli immigrati mussulmani che a suo dire rovineranno noi e il
nostro Paese. Quando viene detto da un Albanese (tra l’altro Paese a maggioranza mussulmana e membro della Lega Araba), la cosa suona vagamente paradossale. Guai a voi se, in un momento di sbandamento dovuto
all’alcool, reagirete davanti a un Serbo dicendo “dovremmo mica ammazzarli tutti come volevate fare voi!” o se ricorderete ad un Croato che l’Italia
di cattolicesimo ne è intrisa e non è il caso che vi venga a spiegare che la
vera fede si trova a Medjugorje e dintorni. In ogni caso, che siate un esperto
balcanologo, che viviate da anni nella regione o che stentiate ad individuare
Sarajevo sulla cartina, preparatevi ad essere trattati, nelle discussioni, con
superiorità. “Voi non potete capire” sarà il baluardo estremo che chiude
qualsiasi argomentazione possiate portare. Il che a volte vi salverà dal ridicolo, come quando cercavo di convincere un tizio della bontà e imparzialità
del Tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia per poi scoprire che lui stesso era
stato imputato per crimini di guerra. Riconoscete il torto anche quando non
l’avete e ammirate l’arguzia di battute o argomentazioni triviali, vi sarà poi
concesso l’onore delle armi e avrete la possibilità di infilare qualche considerazione che riceverà lo stesso trattamento. Questo non significa che la discussione sia solo una parata di falsità. È piuttosto una schermaglia, nella
quale vi saranno pause di totale sincerità (approfittatene, sono rare anche
con gli amici!) alternate a fanfaronate e luoghi comuni.
Il commiato dalla serata (nel frattempo trasformatasi spesso in notte
fonda) prevede una serie di convenzioni: eterne strette di mano e pacche sulle spalle, solenni promesse di arrivederci, scambio di numeri e indirizzi che
non verranno (quasi) mai usati, a volte scambio di ricordi o regalini: una
bottiglia di quella “che non è mica come nei supermercati”, un proiettile,
una spilla, un berretto (ebbene si, una volta finii col copricapo cetnico in testa).
Dopo simili esperienze, ho spesso sentito degli amici neofiti di exJugoslavia entusiasti per essere finalmente riusciti ad “integrarsi nella mentalità” e di aver imparato molte più cose che leggendo decine di articoli e
riviste sulla regione. Non crediate di aver capito i Balcani perché avete trascorso una serata come questa da qualche parte a est di Trieste. Ma, d’altra
parte, sarà dura che abbiate capito i Balcani se non l’avete mai fatto. E se
siete astemi, soprattutto!
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