La prova del vincitore settore A

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La prova del vincitore settore A
SETTORE A
QUARTO ANNO
2.
Per quanto sospinta da cogenti, acute e insopportabili privazioni (materiali e/o civili e/o politiche),
l’opzione migratoria, lungi dall’essere una risposta irriflessa a cui soggiace un individuo sopraffatto
dalla vita e dalla storia, va appresa come la reazione forte di una soggettività capace di opporsi alle
difficoltà con una progettualità attiva messa alla prova nella fase ideativa del trasferimento o
dell’espatrio e di necessità esercitata per tutta la durata dell’esperienza in relazione ai riscontri
(positivi o negativi) che il nuovo contesto andrà ad offrire. E possibile convenire con questa
affermazione? Fate le vostre riflessioni in proposito.
Nel Memoriale dell’Immigrato di San Paolo, in Brasile, è ricordata una domanda, rivolta da un
emigrante italiano a un ministro suo connazionale, che sintetizza con forte drammaticità le motivazioni che
spinsero milioni di italiani a lasciare il proprio paese: “È una Patria la terra dove non si riesce a vivere del
proprio lavoro?”.
Nel corso del XIX secolo gli italiani, specie i contadini, subirono continue vessazioni che li
portarono sulla soglia della fame: prima il dominio napoleonico, con la sua concezione degli stati come
citrons à pressurer e con l’eliminazione dei diritti comunitari; poi l’imposizione, con l’Unità, della fiscalità
piemontese a tutto il regno, che innescò pericolose spirali debitorie le cui conseguenze furono pagate
soprattutto dal Mezzogiorno; infine, il declino della protoindustria e lo sviluppo industriale che accentuò il
dualismo economico, dal momento che le fabbriche meridionali, dotate di carenti vie di trasporto, furono
delle “cattedrali nel deserto”, in un territorio da sempre caratterizzato da un’economia di autoconsumo.
Nel biennio 1815-16 si ebbero i primi spostamenti, dovuti alla carestia causata dal cattivo raccolto; nel 1818,
però, grazie alla ripresa agricola e alla chiusura del governo nei confronti di questi esodi, il fenomeno sembrò
arrestarsi. Riprese, amplificato, nella seconda metà del secolo: tra il 1876 (anno della prima stima) e il 1900
emigrarono più di cinque milioni di italiani.
Nonostante i numerosi push and pull factors (fattori di repulsione e attrazione) la scelta migratoria
non si prospetta come l’inevitabile destino del contadino, dell’allevatore o dell’operaio, ma come
un’alternativa in più, capace di imprimere una svolta decisiva alla propria vita e a quella della propria
famiglia: si profila dunque come progettualità attiva, ossia come impegno dinamico nel reperire i mezzi e
nell’organizzare i modi in cui tale progetto si attuerà.
La prima cosa che l’emigrante cerca sono le informazioni sul viaggio, sulla permanenza e sulle
opportunità di lavoro: utili sono, a tal fine, le fiere, i mercati, coloro che sono tornati dalla “’Merica” e le
esperienze di mobilità pregressa, cioè tutti quei protoemigranti, mendicanti, artisti di strada e girovaghi che
fecero da apripista alla grande migrazione transoceanica; essi costituirono la cosiddetta “migrazione
vergognosa” che, schernita in Italia quanto in America, favorì la nascita del pregiudizio anti-italiano.
La fase successiva è il reperimento dei mezzi necessari alla realizzazione del progetto. È a questo
punto che l’emigrante avverte il distacco e l’abbandono di tutto ciò che ha: per permettersi il viaggio e il
soggiorno negli USA (diventati meta principale dall’80 in poi) utilizza la dote della donna, vende gli attrezzi
o il bestiame oppure, molto più spesso, effettua un patto di retrovendita del microfondo, che d’altra parte non
è più sufficiente al sostentamento familiare. L’abolizione del maggiorascato e l’obbligo di dividere il terreno
in parti uguali tra tutti i figli, infatti, aveva portato alla frantumazione esponenziale del latifondo: il
proprietario terriero, non potendo beneficiare del suo piccolissimo bene, decide di monetizzarlo per
permettersi il viaggio e crearsi, in America, le condizioni per il ritorno.
L’ultimo passo che manca alla realizzazione del “sogno americano” è la partenza, che si configura
secondo un modello binario: partenza per un trasferimento temporaneo (più frequente nel caso di famiglie
allargate, che scelgono i figli più adatti al lavoro oltreoceano) o per un trasferimento definitivo (che
coinvolge famiglie nucleari, spesso richiamate dal capofamiglia quando questo trova un’occupazione stabile).
In entrambi i casi, comunque, l’emigrante porta con sé la propria forza-lavoro, definita da K. Marx, nel suo
Lavoro salariato e capitale, come “quella merce speciale che è contenuta solo nella carne e nel sangue
dell’uomo”: l’immigrato (e non più “emigrante”) metterà a disposizione tale merce per ottenere, spesso non
nella giusta misura, la retribuzione che gli permetterà una vita più agiata.
Giunti in America, infatti, i riscontri non sono sempre positivi: la prima preoccupazione, una volta
sbarcati a Ellis Island, è quella di superare le ispezioni e i test sanitari e di non essere rimandati indietro.
Ammessi negli Stati Uniti, alcuni hanno qualcuno che li aspetta o un indirizzo scarabocchiato su un pezzo di
carta, altri sono abbandonati a se stessi e devono trovare ad soli casa e lavoro. Di certo non possono sperare
nell’aiuto o nell’ospitalità della società americana: dominata dall’ostilità del White Anglo-Saxon Protestant e
lungi dal realizzare il melting pot odierno, era avversa a tutti coloro che provenivano dall’Europa
meridionale e orientale; in ambito italiano, vi era una distinzione tra settentrionali, considerati appartenenti
ad una “razza celtica”, e meridionali, appartenenti invece ad una “razza mediterranea” e definiti, nei
censimenti, addirittura come “non white” o “semi-coloured”: questi ultimi, specie i siciliani (memorabile
l’episodio dell’omicidio di undici siciliani a New Orleans perché accusati di essere mafiosi) erano
considerati rumorosi, retrogradi nelle relazioni interpersonali e familiari, esportatori di violenza e
brigantaggio. Tali posizioni, forse in parte fondate (molti emigrarono dalla Calabria per sfuggire alla lotta al
brigantaggio) non lo furono più in seguito, quando gran parte degli immigrati subì una progressiva
emancipazione socio-culturale, dovuta al nuovo ambiente, più aperto e liberale, che prima influenzò
l’entusiasmo dei figli più giovani e poi ammorbidì l’arcigna severità dei genitori.
Questi ultimi, infatti, erano intenzionati a non stravolgere le gerarchie familiari e, soprattutto le
donne, si mantenevano su posizioni di integralismo e difesa (i vestiti neri, il dialetto, il lavoro legato all’etnia
o alla classe sociale); la novità della moderazione americana, però, non poteva non farsi spazio nelle loro
abitudini: prime avvisaglie di questo processo furono i conflitti tra madri e figlie, le quali volevano
innanzitutto essere più libere nella scelta matrimoniale e più autonome a livello economico. Spesso
trovavano un lavoro salariato, assumendo un ruolo di maggiore responsabilità all’interno della famiglia,
facendo ciò che era possibile per accrescere il guadagno familiare (nel caso di trasferimenti temporanei) o
mettendo in gioco la propria professionalità (quando il trasferimento era definitivo). A livello ideologico non
poterono non essere influenzate dai movimenti del femminismo liberale, socialista e anarchico che stavano
plasmando una nuova figura femminile – si pensi ad esempio alla Dichiarazione dei sentimenti di Elizabeth
Cady Stanton, presentata ad un’assemblea di trecento donne a Seneca Falls nel 1848.
Non solo la donna, ma in generale tutto il nucleo familiare subì dei cambiamenti profondi, in
particolare se si era trasferito definitivamente e quindi andava incontro ad un allontanamento dal substrato
macrofamiliare di provenienza, retrivo e conservatore. Nel caso di rimpatri si aveva un vantaggio culturale
rispetto ad una struttura sociale tipica dell’Ancien régime, poiché l’emigrato aveva visto, vissuto e poteva
fare confronti. I rimpatri degli emigrati non provocarono solo un progresso culturale tramite l’influenza di
quanti erano rimasti in Italia, ma furono anche la scintilla per la ripresa economica del Paese: i guadagni dei
rimpatriati, così come le rimesse di quelli che si trattenevano in America ebbero effetti macroeconomici,
perché furono investiti in attività di piccolo commercio che aumentarono la produzione italiana rendendo
possibile anche l’inserimento in grandi circuiti commerciali.
Le rimesse furono impiegate, inoltre, per ripianare i debiti e per legittimare il nuovo stato economico con
consumi ostentativi (famosa è, del resto, l’immagine dello zio d’America tornato arricchito); infine, ma non
meno importante, vi fu l’acquisto della casa o della terra e con esso la tanto aspirata coronazione del progetto
migratorio.
Gli emigranti, lungi dall’accettare passivamente la propria sorte, ne diventarono essi stessi artefici;
“homo faber fortunae suae”: essi lo sono stati in modo intraprendente ed attivo.
Riconoscendosi nell’ideologia americana, furono influenzati anche da un diritto fondamentale, sancito dalla
Dichiarazione d’Indipendenza americana e da essi osservato con impegno e fatica: ogni uomo ha diritto a
perseguire la propria felicità.