Studia Moralia 48/2 Luglio
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Studia Moralia 48/2 Luglio
Studia Moralia Biannual Review published by the Alphonsian Academy Revista semestral publicada por la Academia Alfonsiana Rivista semestrale pubblicata dall’Accademia Alfonsiana 48/2 • 2010 EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE Studia Moralia 48/2 Luglio-Dicembre 2010 CONTENTS / ÍNDICE / INDICE Articles / Artículos / Articoli La venuta del Figlio di Dio nell’Eucaristia. Il dono della nuova alleanza per un giusto comportamento morale . . . . . . . . . . . Gabriel Witaszek Il dono come principio dell’agire morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . Aristide Gnada Predicare il vangelo in modo nuovo Alcuni ipotetici percorsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Serafino Fiore 281 309 331 The Resurrection and the foundations of Moral Theology . . . . Anthony J. Kelly 349 “Work in progress” on Tradition in Moral Theology . . . . . . . . Terence Kennedy 371 Experience as a Source of Moral Theology Notes from a clinical ethicist . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mark Miller 395 Amartya Kumar Sen e la povertà globale. Analisi etica e linee essenziali di confronto con la Caritas in veritate . . . . . . . . . . . Domenico Santangelo 415 Reviews / Recensiones / Recensioni FANTON ALBERTO, Metodologia per lo studio della teologia. Desidero intelligere veritatem tuam (Álvaro Córdoba Chaves) . . . . . . . . 441 GARCÍA MAESTRO JUAN PABLO, La Teología del Siglo XXI. Hacia una teología en diálogo (J. Silvio Botero G.) . . . . . . . . . . . . . . . 443 280 CONTENTS / ÍNDICE / INDICE GROCHOLEWSKI ZENON Cardinal, Universitatea Azi – Universität Heute (Martin McKeever) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 445 KOWALSKI EDMUND, Osoba i bioetyka. Zagadnienia biomedyczne dla duszpasterzy i katechetów [Persona e bioetica. Questioni biomediche per i pastori e catecheti] (Andrzej Zwoliński) . . . . . 448 MACHINEK MARIAN, Spór o status ludzkiego embrionu [Controversia sullo status dell’embrione umano] (Edmund Kowalski) . . 451 TREMBLAY RÉAL, François-Xavier Durrwell teologo della Pasqua di Cristo (Vincenzo Viva) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 453 International Conference / Congreso Internacional Congresso Internazionale Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale Resoconto del VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale (Cadine -Trento [Tn], 21-24 luglio 2010) Enrique López – Gabriel Witaszek Ordo caritatis e fragilità umana Cronaca del XXIII Congresso dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) (Pietralba - Nova Ponente [Bz], 22-24 luglio 2010) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giovanni Del Missier 459 467 Chronicle / Crónica / Cronaca Cronaca dell’Accademia Alfonsiana relativa all’Anno Accademico 2009-2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Danielle Gros 473 Books Received / Libros recibidos / Libri ricevuti . . . . . . . . . . . . 501 Index of volume 48 (2010) / Índice del volumen 48 (2010) Indice del volume 48 (2010) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 505 LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA Il dono della nuova alleanza per un giusto comportamento morale Gabriel Witaszek, C.Ss.R.* Il documento della Pontificia Commissione Biblica Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano pone l’accento sulla “morale rivelata” come dono di Dio1. L’espressione “morale rivelata”2 relaziona tre principali doni di Dio: la creazione; l’alleanza con il popolo d’Israele e la nuova alleanza3 con la venuta e l’opera del Suo Figlio nel- * The author is an extraordinary professor of biblical theology at the Alphonsian * Academy. * El autor es profesor extraordinario de teología bíblica en la Academia Alfonsiana. 1 Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano (= Collana Documenti Vaticani), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008 (d’ora e poi DPCB). 2 Cfr. Intervista Di Mirko Testa a padre Klemens Stock, Segretario della Pontificia Commissione Biblica, il 27 aprile 2007, cfr. http://www.zenit.org/article; I. SCHINELLA, “Morale rivelata” o “Morale incarnata”? A proposito di un recente documento della Pontificia Commissione Biblica”, in Asprenas 56 (2009) 113-130. 3 L’uso del termine “nuova alleanza”, caratterizzata dal dono dello Spirito, risale a San Paolo che la contrappone l’alleanza antica, strutturata dalla legge di Mosè (2Cor 3, 4-6). Il tema della nuova alleanza è ripreso nel Nuovo Testamento per descrivere il rapporto di continuità e di novità tra l’elezione d’Israele da parte di Dio e l’economia cristiana. Come scrive A. WÉNIN [“Alleanza”, in Temi teologici della Bibbia, a cura di R. PENNA, G. PEREGO, G. RAVASI, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2010, 30]: “Per il NT la nuova alleanza è definitivamente suggellata in Cristo (Eb 9, 15)”. Infatti, se l’alleanza al Sinai è stata conclusa nel sangue degli animali (Es 24, 8), quella nuova si compie nel sangue di Gesù. StMor 48/2 (2010) 281-307 282 GABRIEL WITASZEK la Persona di Gesù di Nazaret. Nel giorno della Pentecoste, con la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, riuniti nel cenacolo di Gerusalemme assieme a Maria e alla prima comunità dei discepoli di Cristo, ha avuto luogo la solenne manifestazione della nuova alleanza tra Dio e l’uomo “nel sangue” di Cristo (1Cor 11, 25)4. Questa nuova alleanza è simboleggiata dall’Eucaristia (Lc 22, 20), inaugurata con il dono che Gesù fa della propria vita (Mt 26, 28). Cristo è il nuovo dono di Dio all’umanità e allo stesso tempo l’esempio più alto per un giusto comportamento morale. Gesù, istituendo l’Eucaristia, donò alla Chiesa il sacramento, che, sotto le specie del pane e del vino, contiene il suo corpo e il suo sangue, offerti in sacrificio per la salvezza degli uomini. Nell’Eucaristia egli ha dato all’umanità lo strumento per poter adempiere al dovere fondamentale di riconoscenza e di amore verso Dio. La Chiesa, come scrive Giovanni Paolo II, ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore come dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza (Ecclesia de Eucharistia, 11). Alla base del dono c’è la reciproca relazione di amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Nella dinamica d’amore del dono del Padre nello Spirito il Figlio rappresenta la luce finale. Cristo, infatti, è colui che riceve, come uomo, il dono di Dio ossia, che un uomo sia il Figlio. La filiazione divina è l’autentica rivelazione di Dio come Padre, che si compie soltanto in “colui al quale, il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27). È una rivelazione che comprende la realizzazione di una storia d’amore con il Figlio per saper vivere come figlio, per il Padre. L’aspetto dinamico e attivo di questa filiazione acquista un valore specifico nelle azioni dell’uomo e nel suo modo di agire5. La dinami- 4 Dio non si rende più presente nel tempio, come veniva nella prima alleanza, ma nel corpo morto e risorto di Cristo (Gv 2, 13-22). Si tratta di un’alleanza definitiva ed eterna, preparata dalle precedenti alleanze, di cui parla la Sacra Scrittura. 5 L. MELINA – J. NORIEGA – J. J. PÉREZ-SOBA, Camminare nella Luce dell’Amore. I fondamenti della morale cristiana, Edizioni Cantagalli, Siena 2008, 493 nota 62: F. OCÁRIZ BRAÑA, Hijos de Dios en Cristo. Introducción a una teologia de la participación sobranatural, Ed. Universidad de Navarra, Pamplona 1972. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 283 ca del dono comprende sempre l’intenzione di una reciprocità e presuppone necessariamente un’apertura radicale dell’uomo a una dinamica che lo precede. Essa è imprescindibile per comprendere l’intenzionalità propria della conoscenza umana6. 1. Alleanze esteriori ed interiori a) L’alleanza mosaica esteriore Nell’Antico Testamento si trovano diversi esempi di alleanza umana e dell’alleanza che Dio ha voluto stringere con gli uomini. Essa è strettamente legata con l’idea dell’elezione d’Israele e di conseguenza con la fuga dall’Egitto, momento fondamentale comunitario e salvifico per Israele e per le future generazioni7. La liberazione dall’E- 6 L. MELINA – J. NORIEGA – J. J. PÉREZ-SOBA, Camminare nella Luce dell’Amore. I fondamenti della morale cristiana, 485. 7 L’alleanza è un concetto centrale nella Bibbia e designa il legame in virtù del quale sono uniti in generale Dio e l’umanità e, in particolare, il popolo d’Israele. Per Israele il concetto d’alleanza non era una novità assoluta. Sul piano umano egli già la conosceva, come vincolo di mutua solidarietà, che univa due o più persone in virtù di un patto sacro, che veniva sancito da giuramento concluso con un sacrificio e una cena alla quale partecipavano i contraenti, diventati ormai fratelli. Mangiando le carni dello stesso animale, formavano da quel momento una sola unità solidale, una eventuale violazione avrebbe costituito uno spergiuro e attirato la vendetta divina. Nel libri di Genesi ci sono molti esempi di alleanze stipulate a livello umano tra un patriarca e un altro uomo (Abramo e Abimèlech in 21, 22-23; Isacco e Abimèlech in 26, 26-30; Giacobbe e Làbano 31, 43-54). Altrettanto è significativa quella tra i Gabaoniti e gli Israeliti, per assicurare la loro sopravvivenza durante lo sterminio dei popoli di Canaan (Gs 9). Cfr. GIOVANNI PAOLO II, “La Pentecoste: compimento della nuova alleanza”, in Udienza Generale il 2 agosto 1989; DPCB, 26; A. MISTRORIGO, Giuda alfabetica alla Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995; P. BEAUCHAMP, “Proposition sur l’alliance de l’Ancien Testament comme structure”, in ID., Pages exégétiques, Cerf, Paris 2005, 55-86; S. HAHN, “Covenant in the Old and New Testaments (1994-2004)”, in CBiR 3 (2005) 263-292; R. RENTDORFF, La “formula dell’alleanza”, Ricerca esegetica e teologica, Paideia, Brescia 2001. 284 GABRIEL WITASZEK gitto viene intesa come la vocazione d’Israele ad aprirsi alla rivelazione del vero Dio (Es 3, 13-15) e ad adorare lui solo (Es 3, 12. 15. 18: 4, 23: 5, 1. 3. 8: 7, 16: 8, 4). Essa serviva da introduzione a quella liberazione che sarebbe stata realizzata in modo perfetto, nella pienezza dei tempi, da Cristo. Questa esperienza di Dio sarà talmente basilare da diventare forma relazionale di vita8. Tale atto salvifico è stato poi coronato con la stipulazione dell’alleanza con la quale Dio si è impegnato ad essere “il Dio d’Israele”, e questi ad essere “il popolo del Signore”9. Prima dell’alleanza del Sinai, stabilita tra Dio e il popolo di Israele tramite Mosé, vi erano già state, l’alleanza di Dio col patriarca Noè e con Abramo. Dopo il diluvio, Dio aveva stretto un’alleanza con Noè, rappresentante della nuova umanità e di tutta la creazione che circonda l’uomo nel mondo visibile: “(...) ecco, io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi (...)” (Gen 9, 9-10). Questa alleanza ha preso la forma di un impegno solenne di Dio, unilaterale e dunque eterno, a non distruggere più la terra a causa degli uomini, anche se il loro cuore è da sempre incline al male. L’alleanza di Dio con Abramo aveva un altro significato. Essa era accompagnata dalla solenne promessa di concedergli numerosa posterità e la terra di Canaan (Gen 15 e 17), promessa poi rinnovata con Isacco (Gen 26) e con Giacobbe (Gen 28, 12-17). Dio scelse un uomo e con lui stabilì un’alleanza a motivo della sua discendenza: “Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Gen 17, 7). Dio si impegnò con Abramo e i suoi discendenti, gli offrì la sua amicizia, lo associò all’attuazione del suo disegno salvifico. Abramo rispose con fede alla pro- 8 La rivelazione di Dio è accompagnata dalla promessa del dono di una terra (Gen 12, 7) e della conoscenza sempre più profonda di Dio (Es 6, 3; Is 48, 12-17). 9 G. WITASZEK, “L’alleanza dimenticata. Richiamo etico dei profeti”, in StMor 47/1 (2008) 11-12. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 285 posta di Dio, cosa che lo giustifica (Gen 15, 6; Gal 3, 6). L’alleanza con Abramo era l’introduzione all’alleanza con un intero popolo, Israele, in considerazione del Messia che doveva provenire proprio da quel popolo, eletto da Dio a tale scopo. L’alleanza del Sinai si presenta come un prolungamento e un perfezionamento di quella di Abramo (Es 19-24) ed è il momento centrale e unificante degli eventi fondamentali: la liberazione della schiavitù e l’entrata nella terra promessa. Il raggiungimento della terra promessa non è automatico: è legato alla condizione che Israele accetti il vincolo con Jahve (alleanza), e l’osservanza della legge. Perché la liberazione dall’Egitto si compia con l’arrivo nella terra promessa era necessario la libera risposta di Israele all’iniziativa del suo Dio. E la fedeltà all’alleanza (osservanza della legge) rimane la condizione, perché Israele possa godere del permanere nella terra promessa. La terra non è mai raggiunta una volta per tutte. L’alleanza sinaitica è il caposaldo della rivelazione vetero-testamentaria, che da la vita a tutta la storia d’Israele. Essa ha rivelato in modo definitivo un aspetto essenziale del disegno di salvezza: Dio vuole unire a sé gli uomini, facendone una comunità cultuale votata al suo servizio, governata dalla sua legge, depositaria delle sue promesse. L’alleanza del Sinai comportava impegni espressi nel codice che Dio donò al popolo tramite Mosè10. La legge era segno del dialogo tra Jahve e il suo popolo e attraverso di essa Mosè custodì il popolo. Mosè che fu custode di questo dialogo, rammentava con forza al popolo il legame con Dio e il suo impegno (Es 32, 32). Dio scelse Israele come sua particolare proprietà: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19, 6), ma a con- 10 Tra i luoghi dove Dio ha dato la legge a Israele durante il suo peregrinare, primeggia il monte Sinai, sul quale Mosè ricevette da Dio le tavole della legge (Es 24, 12: 31, 18; Dt 4, 13: 5, 22) e alle cui pendici è stata ratificata la prima e fondamentale alleanza d’Israele con Dio (Es 24, 1-11) dalla quale dipendono tutte le altre e ne sono conferma. Alcune norme date a Noè (Gen 9, 1-7) e ad Abramo (Gen 17, 10-14) fanno parte dell’alleanza, detta “alleanza mosaica”, stabilita da Dio con il popolo d’Israele attraverso Mosè. Cfr. “Alleanza”, in Dizionario di Teologia Biblica, XAVIER LEON-DUFOUR e altri collaboratori, Marietti, Torino 51978, 27-34. 286 GABRIEL WITASZEK dizione che il popolo osservasse la legge che egli avrebbe dato col decalogo (Es 20, 1-21), le altre prescrizioni e norme. Da parte sua Israele si è impegnato a questa osservanza: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19, 8). Dio accordando la sua alleanza ad Israele e facendogli delle promesse, gli impone anche delle condizioni da osservare fedelmente. Lo descrive accuratamente L. Melina: “I comandamenti esprimono il modo con cui il popolo può rimanere dentro l’Alleanza e così entrare in possesso di quanto è finora solo promesso: l’ingresso nella terra promessa. I precetti dell’Alleanza si pongono così come regola per il cammino tra un beneficio già gratuitamente ricevuto e una promessa ancora sperata e attesa”11. I comandamenti di Dio formano una totalità inscindibile attraverso cui il popolo è chiamato a esprimere la sua fedeltà all’alleanza12. La legge nell’Antico Patto è quella dell’alleanza tra Dio e il suo popolo: è dunque l’alleanza che dà il vero significato ai comandamenti. Essa dà origine al popolo consacrato al Signore, e gli offre anche i comandamenti come regole di vita, è un’istruzione data per il tempo del cammino13. La legge non è l’espressione della divina volontà che viene imposta all’uomo, ma è innanzitutto un insegnamento, in cui è lo stesso Dio (Dt 4, 5-6). Il Decalogo, nel libro di Esodo (20, 1-17) è stato inserito all’interno di una sezione che narra della stipulazione dell’alleanza ai piedi del monte Sinai. Ciò che Israele deve fare è legato a ciò che Dio è e ha fatto per Israele. Il codice, contenuto nella Legge, non si presenta però come il fine della condotta, ma piuttosto come un’in11 L. MELLINA – J. NORIEGA – J. J. PÉREZ-SOBA, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, 216; cfr. J. L’HOUR, La Morale de l’Alliance, Cerf, Paris 1985; P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000. 12 R. FISICHELLA, Gesù di Nazaret profezia del Padre, Paoline, Milano 2000, 48-51. 13 G. LIEDKE – C. PETERSEN, Tôrāh, in E. JENNI – C. WESTERMANN (Hrsg.), Theologisches Handwörterbuch zum Alten Testament II, 1032-1043 (traduzione italiana: tôrāh istruzione, in Dizionario Teologico dell’Antico Testamento II, 931-941); G. ANGELLINI, Teologia morale fondamentale, Glossa, Milano 1999, 254-294. Il termine legge (tôrāh) talvolta viene inteso come legge prescrittiva, ma esprime invece l’idea più ampia del carattere istruttivo della storia della salvezza. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 287 sieme di indicazioni affinché l’uomo non perda il cammino che lo conduce verso il bene ultimo, la comunione con Dio. I precetti dell’alleanza si pongono quindi come regole per il cammino tra un beneficio già gratuitamente ricevuto e una promessa sperata e ancora attesa14. Solo imitando il modo di agire di Dio nei suoi interventi gratuiti di liberazione verso l’uomo, l’azione umana può entrare in alleanza con lui e offrire il contributo necessario per il compimento del disegno salvifico15. Il libro del Deuteronomio (5-11) che riporta il secondo discorso di Mosè, propone in maniera sintetica il complesso di comandi, leggi e norme che il Signore ha ordinato di insegnare, sottolineando l’atteggiamento fondamentale, che precede l’obbedienza alle singole prescrizioni: l’appartenenza totale di Israele a Dio, in cui è la vita e da cui solo si può sperare la realizzazione della promessa. Le tante leggi diventano una sola parola come esprime in maniera eccellente il brano di Dt 32, 46-47: “Ponete nella vostra mente tutte le parole che io oggi uso come testimonianza contro di voi. Le prescriverete ai vostri figli, perché cerchino di eseguire tutte le parole di questa legge. Essa infatti non è una parola senza valore per voi; anzi è la vostra vita; per questa parola passerete lunghi giorni sulla terra di cui state per prendere il possesso, passando il Giordano”. Per osservare le singole norme, leggi e comandi, occorre però conoscere e amare il legislatore. La legge non diventa un idolo solo nel contesto dell’alleanza16. I comandamenti dati dal Signore nell’alleanza sono espressione di legge intelligente e giusta che verrà riconosciuta anche dai popoli circostanti (Dt 4, 6-8). Il Dio dell’alleanza è lo stesso Dio creatore che guida tutti i popoli della terra. La legge morale donata ad Israele nell’al- 14 L. MELLINA – J. NORIEGA – J. J. PÉREZ-SOBA, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, 216. 15 Il libro del Deuteronomio dà le motivazioni per giustificare l’osservanza della legge. Esse sono due tipi: il primo tipo rimanda a un “perché” che fa memoria del dono di liberazione di Dio realizzato nel passato Dt 5, 15; e il secondo tipo rimanda a un “affinché”, che prospetta il futuro compimento della promessa Dt 6, 13. 16 P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, 109. 288 GABRIEL WITASZEK leanza ha carattere universale, scritta nel cuore è espressione della sapienza del Creatore, che ha disposto ordinatamente tutte le cose per il bene (Sap 10, 1-4). Le parole della legge forniscono l’unica base autentica per la vita degli individui, delle società e delle nazioni; oggi come sempre, esse sono l’unico futuro della famiglia umana. Salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna. Evidenziano tutte le false divinità che lo riducono in schiavitù. b) La novità dell’alleanza secondo i profeti La storia dell’antica alleanza attesta che l’impegno della fedeltà verso Dio molte volte non è stato mantenuto. I profeti Geremia17, Ezechiele ed Isaia rimproverano Israele per le sue infedeltà e guardano al futuro in cui è promessa una nuova alleanza (Ger 31, 31-34)18: “Ecco verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa di Israele 17 Il profeta Geremia sin dall’inizio della sua attività profetica denuncia i peccati del popolo di Giuda che consistono nell’abbandono di Dio, nel tradimento e nell’apostasia (Ger 2, 13. 20: 3, 13: 11, 10). La depravazione del popolo è così grave che ha prodotto una profonda corruzione dell’animo (Ger 1, 18: 10, 21: 23, 11-13), ha determinato nell’intimo del popolo una disposizione perversa, ostinata (Ger 33, 3: 6, 10. 15-17) e inveterata verso il male (Ger 2, 5: 16, 11-12). Con la frase lapidaria: “Essi hanno violato la mia alleanza” (Ger 31, 32) Geremia denunciava la rottura definitiva del rapporto fra Dio e il popolo eletto. Gli inizi del ministero di Ezechiele erano contemporanei con l’ultima parte dell’attività profetica di Geremia, e con ogni probabilità il giovane Ezechiele avrà visto e ascoltato il suo predecessore a Gerusalemme. Non dovrebbe sorprendere dunque di trovare varie somiglianze a livello tematico fra questi due libri, ciò nonostante, il libro di Ezechiele parla con una voce ben propria. 18 DPCB, 56-58; A. WÉNIN, “Alleanza”, in Temi Teologici della Bibbia, 30. Nonostante le colpe della presente generazione alle quali si aggiungono quelle dei padri, il Signore che ha concluso un patto con Israele, non abbandona completamente la sua nazione e la città prediletta Gerusalemme. Il castigo e la rovina del popolo d’Israele non sono l’ultima parola di Dio, perché egli è per natura un Dio compassionevole e misericordioso (Ger 31, 34: 50, 20). Cfr. B. MARCONCINI, “L’uomo nuovo secondo Geremia ed Ezechiele”, in AA.VV. e COLLABORATORI, Profeti e Apocalittici (= LOGOS, Corso di Studi Biblici 3), ELLE DI CI, Leumann (Torino) 2007, 435-436. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 289 e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. Come giustamente scrive Benito Marroncini: “Il testo di Geremia non intende proporre una nuova volontà di Dio, una nuova tôrâ che fondamentalmente resta quella dell’Esodo, ma una modalità nuova – che costituisce un dono, una grazia – farla conoscere e praticare, imprimendola nell’uomo. Questi cioè per conoscere la divina volontà (...), non dovrà guardare all’esterno di sé, come alle due tavole di pietra, ma è invitato ad ascoltare il proprio cuore, capace ora di fargli sentire la volontà divina conforme al vero interesse dell’uomo”19. La novità dell’alleanza consiste nel doppio contrasto con il passato. Secondo Geremia, il patto viene stipulato tra Dio che perdona e l’uomo perdonato, una specie di nuovo patto sancito con la formula: “Essi mi avranno per loro Dio ed io li avrò per mio popolo” (Ger 31, 33) e sfociante sempre in un atto di condono generale: “Perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31, 34: 50, 20). La nuova alleanza verrà accolta dal popolo in modo ben diverso dalla precedente (Ger 31, 32). La prima alleanza non è stata osservata dalla gente di allora ne dai loro discendenti, ma al contrario la nuova alleanza verrà osservata e vissuta. La novità sta nel come questa nuova obbedienza si realizzerà di fronte alla disobbedienza del passato20. La novità radicale dell’alleanza annunciata in Ger 31, 31-34 sta nell’azio- 19 B. MARCONCINI, “L’uomo nuovo secondo Geremia ed Ezechiele”, in AA.VV. e COLLABORATORI, Profeti e Apocalittici, 438. 20 Negli altri testi, Geremia (6, 10: 13, 23: 17, 1. 9) sembra dire che è praticamente impossibile per il popolo vivere secondo le parole di Dio. 290 GABRIEL WITASZEK ne di Dio che interiorizzerà la sua legge, scrivendola nel cuore21, centro della vita personale, del popolo. Interiorità in contrasto con esteriorità cioè con la legge scritta sulle tavole di pietra e forse anche con la legge imposta esteriormente con autorità regale da Giosia nella sua riforma. Se la legge verrà scritta nel cuore, allora l’impulso di agire secondo le istruzioni di Dio verrà dal di dentro, liberamente. Solo così un uomo sarà capace di vivere la legge, in quanto, essendo peccatore, con le proprie forze non può vivere i precetti del Decalogo. Tale forza scaturisce da un’appartenenza reciproca fra Jahve e il suo popolo (Ger 31, 33). Gli israeliti non avranno più bisogno di istruzione per poter “conoscere” Jahve, per poter vivere questa relazione. Conoscere connota la sintonia di mente e di cuore. Essa include anche il superamento della barriera tra l’uomo e Dio. Se la legge verrà scritta nel cuore, allora tutti, dal più piccolo al più grande, potranno sentire dentro di sé come comportarsi. Ci sarà una “connaturalità” con la volontà di Dio e non ci sarà nessun bisogno di maestri. Questo intervento di Dio, secondo Ezechiele, si concretizza in una specie di trapianto di cuore umano (Ez 36, 26. 27-38)22, perché quello di pietra, sede del peccato, non è più atto a coltivare pensieri di fedeltà e di comunione con il Dio dell’alleanza. Ezechiele, insieme con gli esiliati, condivide la fatica di capire la situazione dell’esilio, di riconoscere le colpe e di sperare per un futuro migliore23. Egli si è 21 Ger 31, 31 è l’unico testo nell’intero dell’Antico Testamento dove si trova il sintagma “nuova berît”; “alleanza nuova” o di “alleanza rinnovata”. 22 Negli oracoli Ez 36, 16-38 è annunciato la purificazione di Israele in termini antropologici: nuovo cuore e nuovo spirito (Ez 36, 26-27), nuova fertilità anche per la terra, e tutto come segno della santità di Jahvé e come testimonianza della sua potenza sulle altre nazioni (Ez 36, 20-21: 22-23: 36). 23 Ezechiele si trovò a profetizzare nel periodo in cui Israele perse definitivamente la sua libertà. Nel 593 a. C., Gerusalemme cadde in mano ai Babilonesi, e molti ebrei furono deportati come prigionieri. In questa situazione Ezechiele si sente inviato in mezzo agli esuli a sostenere la speranza, a indicare un senso ancora positivo della vita, pur in mezzo a una spaventosa tragedia. Egli fa l’analisi della situazione religiosa del popolo e arriva alla conclusione che la storia è finita male perché è mancata la serietà nella fedeltà da parte dei capi civili e religiosi che hanno usato male il loro potere e non sono stati capaci di garan- LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 291 impegnato a dare certezza in una situazione difficile. In tale contesto Ezechiele sogna con entusiasmo un cambiamento radicale della situazione del popolo vissuto nell’esilio babilonese. Secondo Ezechiele, Dio intende rinnovare alla radice i rapporti con il suo popolo proponendogli ancora un’alleanza di reciproca fiducia, di fedeltà che inizierà con il dono della pace e della sicurezza da parte di Dio. Nel proclamare il rinnovo dell’alleanza il Signore non pone condizioni, ma lui stesso dona pace e sicurezza, benedizione e protezione. Ci sarà un nuovo pastore, che sarà in continuazione con Davide. Nella nuova l’alleanza ci sarà una nuova riconciliazione con la terra e gli elementi cosmici. Dio ratificherà la nuova alleanza con Israele ripetendo i segni dell’esodo. Egli condurrà di nuovo il suo popolo come un gregge verso la terra promessa partecipando questa volta a ricostruire le fondamenta della vera religione e del culto coerente. La critica al formalismo cultuale diventa importante per creare una mentalità più cosciente alla trasformazione del cuore. Tutto questo sarà accompagnato dal dono gratuito e radicale di “un cuore nuovo, uno spirito nuovo” (Ez 36, 26- 38). Nel cuore nuovo, Dio stesso pone la sua legge, segno della sua volontà salvifica e amorosa e gli offre in dono la possibilità di rispondere e di aprire un dialogo. In forza di questa alleanza, anche se il peccato lo ha allontanato da Dio, Israele non morirà, ma resterà in vita grazie all’amore misericordioso di Dio24. tire la giustizia e il diritto. Alla violenza dei capi, si è accompagnata così la violenza interiore dello sradicamento e della mancanza dei punti di riferimento della diaspora. Il caos di valori e soprattutto la sensazione di una catastrofe ha favorito uno sbando collettivo. Dalla vita pubblica sono spariti il senso della responsabilità e della solidarietà reciproca (Ez 34, 8. 10). 24 L’annuncio della speranza e della gloria per Israele arriva anche dal profeta Trito Isaia (56-66) nel post esilio. Egli esprime la certezza dell’agire divino che ha ormai liberato il popolo dalla schiavitù (Is 60, 1. 4-5. 15. 19-22: 62, 3-5). Segno definitivo della ripresa del rapporto con Dio sarà il dono della profezia che verrà fatto per tutto il popolo. Questo sarà la dimostrazione dell’elezione di Israele a popolo scelto da Dio. Lo Spirito del Signore rimarrà come segno della speranza di un incontro definitivo quando Dio abiterà per sempre con il popolo. L’elemento conclusivo nel rinnovamento dell’alleanza e la promessa a cui guardare per verificare la fedeltà di Dio è l’oracolo di Gioele (3, 12), Cfr. R. FISICHELLA, Gesù di Nazaret profezia del Padre, 62. 292 GABRIEL WITASZEK Secondo il profeta Isaia la legge che costituisce la nuova alleanza verrà impressa nello spirito umano per mezzo dello Spirito di Dio. Infatti lo Spirito del Signore si poserà su un virgulto che “spunterà dal tronco di Iesse” (Is 11, 2), cioè sul Messia. In lui si realizzeranno le parole del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore (...) mi ha consacrato con l’unzione” (Is 61, 1). Il Messia, guidato dallo Spirito di Dio, realizzerà l’alleanza e la renderà “nuova” ed “eterna”. E ciò che preannuncia lo stesso Isaia con parole profetiche sospese sull’oscurità della storia: “Quanto a me, ecco la mia alleanza con essi, dice il Signore: il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno dalla tua bocca né dalla bocca della tua discendenza né dalla bocca dei discendenti, dice il Signore, ora e sempre” (Is 59, 21). Le parole di Isaia trovano il pieno compimento in Cristo (Gv 5, 37) e nel suo Vangelo, che rinnova, completa e vivifica la legge e nello Spirito Santo, che viene mandato in virtù della redenzione operata da Cristo mediante la sua croce e la sua risurrezione, a piena conferma di ciò che Dio aveva annunziato per mezzo dei profeti già nell’antica alleanza. 2. Eucaristia, dinamica pasquale della nuova alleanza a) La nuova cena dell’esodo L’Eucaristia istituita durante la pasqua ebraica evoca la cena pasquale dell’esodo, che si consumava in memoria dell’alleanza del Signore con il popolo eletto quando lo condusse nella terra promessa liberandolo dalla schiavitù d’Egitto (Es 12, 13: 24, 8)25. Essa rievoca il rito sacro dell’immolazione di un agnello e del pasto di comunione, consumato dagli Ebrei per essere risparmiati dalla morte al passaggio dell’angelo sterminatore nella notte in cui fuggirono dall’Egitto (Dt 26, 5-9). 25 Sull’esperienza religiosa dell’esodo si sarebbe fondata la coscienza di un’alleanza eterna stabilita da Dio con il suo popolo e, per mezzo di essa, con tutti gli uomini. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 293 Gesù, celebrando l’ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, ha dato alla Pasqua ebraica un significato nuovo e definitivo e nella sua persona ha attuato il piano divino di salvezza (Lc 2, 11; Gv 4, 42; At 5, 31; Ef 5, 23; 2Tm 1, 10)26. L’antica alleanza sul monte Sinai, tra il popolo di Israele e Dio, fu sancita con il sangue di un sacrificio; così anche l’alleanza definitiva del nuovo Israele è convalidata dal sacrificio di Cristo, vero Agnello. La nuova alleanza portata da Gesù non cancella la precedente, perché Dio rimane fedele alle sue parole e alle sue azioni (Rm 9-11). Confrontando la nuova alleanza con l’antica si nota l’infinita superiorità della seconda sulla prima. L’antica era scritta sulla pietra, la seconda invece nello spirito e nel profondo del cuore (2Cor 3, 6-7). Con la nuova alleanza sono rimessi i peccati (Rm 11, 27), Dio abita in mezzo agli uomini (2Cor 6, 16), muta il loro cuore e pone il suo spirito in essi (Rm 5, 5). Essa tocca l’intimo dell’uomo (2Cor 3, 6), dona a tutti la libertà dei figli di Dio (Gal 4, 24) e riguarda ogni tempo e luogo, ogni popolo e nazione, perché il sangue di Cristo ha stabilito l’unità del genere umano (Ef 2, 12ss.). Nella persona di Gesù, il Figlio di Dio e l’uomo, Gesù di Nazaret, sono uniti intimamente e in modo immutabile e definivo; Dio si è vincolato in modo inscindibile all’umanità. Per mezzo di lui l’intera umanità è entrata in quella liberazione e salvezza che Dio dall’eternità aveva pensato e voluto, per amore verso gli uomini. Cristo viene quale capo del nuovo Israele, per realizzare nel suo sangue la nuova ed eterna alleanza per la salvezza di tutto il mondo. L’istituzione dell’Eucaristia era così importante che Gesù ha sentito il bisogno di preparare per tempo i suoi discepoli con la moltiplicazione dei pani, con l’acqua trasformata in vino a Cana di Galilea e con il discorso sul pane della vita, tenuto nella sinagoga di Cafarnao. La moltiplicazione dei pani operata da Gesù (Mt 14, 13-21: 15, 3239; Mc 6, 31-44; Lc 9, 10-17; Gv 6, 1-15) costituisce un momento cul- 26 RÉAL TREMBLAY, “Escatologia e protologia alla luce del Cristo pasquale”, in R. TREMBLAY, François Durrwell teologo della Pasqua di Cristo. Con bibliografia di Durrwell a cura di JULES MIMEAULT, (Memoria 7), Lateran University Press, Città del Vaticano, 2010, 189-210. 294 GABRIEL WITASZEK minante della sua manifestazione divina. Il testo sinottico fa riferimento a Gesù che con soli cinque pani e due pesci riesce a sfamare una moltitudine di cinquemila persone. I gesti di Gesù che prende i pani, alza gli occhi al cielo, ringrazia Dio, spezza i pani e li dà alla gente dimostrano una solennità rituale che richiama al rito eucaristico (Mt 26, 26). Il racconto evidenzia anche la presenza significativa dei discepoli, che svolgono un compito di mediazione tra Gesù e la folla. Essi capiscono perfettamente le intenzioni del maestro, anche se sono dubbiosi sulla reale possibilità di sfamare tanta gente. I dodici, presenti e attivi nella moltiplicazione dei pani, alludono ai ministri della Chiesa che distribuiscono l’Eucaristia e l’insegnamento di Gesù ai credenti. Il nuovo popolo di Dio si nutre alla tavola eucaristica del corpo e del sangue di Cristo. Nella Chiesa gli Apostoli e i ministri spezzano il pane eucaristico e la parola del Signore. Gesù trasformando l’acqua in vino a Cana di Galilea (Gv 2, 11) annunzia l’ora della sua glorificazione e manifesta il compimento del banchetto delle nozze, nel regno del Padre, dove i fedeli berranno il vino nuovo (Mc 14, 25) divenuto il Sangue di Cristo. Gesù nel discorso sul pane di vita, tenuto nella sinagoga di Cafàrnao (Gv 6, 22-59) spiega che la moltiplicazione dei pani è un segno premonitore di qualche cosa di più grande e più importante che succederà: “Il pane che io darò è la mia carne” (Gv 6, 51). Egli si riferisce anche al dono della manna, che perisce presto (Gv 6, 32. 48-50). Definita nei salmi “pane del cielo” (Sal 78, 24: 105, 40), la manna fu donata da Dio al popolo d’Israele come nutrimento durante i quaranta anni di peregrinazione nel deserto, prima di giungere nella terra promessa. Gesù afferma che non è stato Mosè a dare il pane del cielo agli Israeliti, ma che Suo Padre dà il vero pane, e lui stesso è il pane vivo, disceso dal cielo (Gv 6, 41) e aggiunge: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. (...) Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6, 54-55. 58). L’Eucaristia è dunque pegno d’immortalità, e sacramento di comunione con Cristo. Nel Vangelo di Giovanni la parola “vita” è l’espressione privilegiata per indicare la salvezza. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 295 b) Gesù l’artefice del nuovo esodo Gesù è il grande pastore del gregge (Eb 13, 20) ossia del popolo eletto, del nuovo Israele e l’artefice del nuovo esodo. Egli pone il nuovo Israele in una nuova pasqua e in una nuova alleanza, passando lui stesso da questo mondo al Padre, come sacerdote, vittima e sacrificio. Per lasciare un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi discepoli e renderli partecipi della sua pasqua, istituì l’Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e ordinò ai suoi Apostoli di celebrarla fino al suo ritorno. Il momento solenne dell’istituzione viene descritto con parole molto sobrie e concise dai tre Vangeli sinottici (Mt 26, 26-28; Mc 14, 22-24; Lc 22, 19-20) e da san Paolo (1Cor 11, 23-26). Giovanni evangelista riferisce le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, che preparano l’istituzione dell’Eucaristia: Cristo si definisce come il pane di vita, disceso dal cielo (Gv 6). Secondo i sinottici, mentre la cena continuava, Gesù compì un atto alquanto insolito nel rito pasquale. Prese del pane e dopo aver pronunziato la preghiera di benedizione, lo spezzò e dandolo ai discepoli disse: “Prendete e mangiate” (Mt 26, 26; Mc 13, 22),“Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19). Poco dopo prese un calice colmo di vino e dopo averlo benedetto allo stesso modo disse: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26, 27-28; Mc 13, 24; Lc 22, 20). Gesù ordinando di ripetere i suoi gesti e le sue parole “fino al suo ritorno” (1Cor 11, 26), non chiede soltanto che ci si ricordi di lui e di ciò che ha fatto. Egli chiede la celebrazione liturgica, per mezzo degli Apostoli e dei loro successori, del memoriale di Cristo, della sua vita, della sua morte, della sua risurrezione e della sua intercessione presso il Padre. Il termine memoriale (anamnesi) nel contesto biblico, indica azioni rituali riferite ad un evento salvifico passato in grado tuttavia di attualizzarlo, rendendolo presente ai celebranti nelle sue stesse dimensioni salvifiche, e proiettandolo anche verso il futuro. Memoriale indica, nella liturgia ebraica e cristiana, l’atto liturgico di far memoria di un avvenimento importante della storia della salvezza (Es 12, 14). Tale memoria è ritenuta attualizzante: il fatto ricordato è 296 GABRIEL WITASZEK reso presente, e i suoi frutti resi disponibili ai partecipanti. Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, fa memoria della pasqua di Cristo, e questa diventa presente: il sacrificio che Cristo ha offerto sulla croce, rimane sempre attuale (Eb 7, 25-27). L’Eucaristia è il memoriale di Gesù crocifisso e risorto, è segno vivo ed efficace del suo sacrificio, compiuto una volta per tutte sulla croce e ancora operante a favore di tutta l’umanità (1Cor 11, 24). L’intera celebrazione eucaristica (liturgia della parola e liturgia eucaristica) è il memoriale di tutto il mistero di Gesù, centrato nella sua morte e risurrezione e costituisce il culto di Dio per la salvezza del mondo. La preghiera eucaristica è, in modo particolare, pervasa dal tema del memoriale. c) I segni del pane e del vino Al centro della celebrazione Eucaristica troviamo il pane e il vino che, per le parole di Cristo e l’invocazione dello Spirito Santo, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo27. Il pane e il vino, le primizie della terra, in segno di riconoscenza al Creatore, costituivano nell’antica alleanza le offerte per due sacrifici incruenti: quello del cibo e quello della bevanda (Lv 7, 11-14; Nm 15, 1-12)28. Nel contesto dell’Esodo essi assumono un nuovo significato. I pani azzimi che Israele mangiava ogni anno a Pasqua, commemoravano la fretta della partenza liberatrice dall’Egitto e la manna del deserto ricordava sempre ad Israele che egli viveva del pane della Parola di Dio (Dt 8, 3). Grande importanza avevano nell’AT i pani delle offerte, posti sopra un tavolo speciale nel Tempio, davanti al Santo dei Santi, in nu- 27 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, 1333. 28 Pane e vino sono usati nella celebrazione dell’Eucaristia perché Gesù stesso li ha usati nell’ultima cena per esprimere l’offerta di sé. Tra il popolo di Israele, pane e vino erano il cibo e la bevanda basilari, e spezzare il pane e benedire il calice di vino erano riti importanti e ricchi di significato durante i convitti festivi. Ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena era dunque legato alle tradizioni esistenti. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 297 mero di dodici rappresentavano l’Alleanza di Dio con Israele (Lv 24, 5-9; 1Re 7, 48; 2Cr 13, 11), e la comunione di vita di Dio con il suo popolo. Molto importante era il pane ottenuto delle primizie dei raccolti e, in particolare, dal grano offerto a Dio nella festa delle Settimane, perchè era l’espressione di riconoscenza al Signore per tutti i suoi doni (Es 23, 17). Il pane quotidiano, infine, era il frutto della terra promessa, pegno della fedeltà di Dio alle sue promesse. Gesù ha istituito la sua Eucaristia conferendo un significato nuovo e definitivo alla benedizione del pane e del vino. Per la vita dell’uomo il pane è sempre stato un elemento nutritivo indispensabile, e la sua mancanza significava privazione del necessario per vivere (Am 4, 6). La quotidiana dipendenza dal pane, come cibo, creava il quotidiano vincolo con Dio. Era considerato uno dei ponti che conducevano l’uomo a Dio e Dio all’uomo. In tale luce acquistano splendido significato le moltiplicazioni dei pani sia nell’Antico Testamento (2Re 4, 42-44) che nel Nuovo Testamento (Mt 14, 20: 15, 37), il dono prefigurato dai pasti di Gesù con i discepoli (Mt 11, 19) e soprattutto il pane eucaristico (Gv 6). Nel Padre nostro, insegnato da Cristo, la richiesta di pane sembra riassumere tutti i doni che sono necessari per l’anima e per il corpo (Mt 6, 9-13; Lc 11, 2-4). Nei sacrifici dell’Antico Testamento il vino aveva un posto speciale. La legge prescriveva che nell’olocausto quotidiano ci fosse anche l’offerta di vino (Es 29, 40; Nm 15, 5. 10; 1Sam 1, 24; Os 9, 4). Il vino era pure una delle primizie che spettavano ai sacerdoti (Dt 18, 4; Nm 18, 12; 2Cr 31, 5). Gesù, a Cana di Galilea, compie il suo primo miracolo: trasforma l’acqua in vino, un gesto che racchiude un significato messianico sottolineato dall’abbondanza del vino e della sua ottima qualità (Gv 2, 1-12). Il vino che sostituisce l’acqua preparata per le abluzioni, fa capire che Egli è il Messia venuto a sostituire l’antica alleanza con la nuova e a superarla. Gesù riserva inoltre l’uso del vino per l’istituzione dell’Eucaristia. Il vino viene così elevato alla massima dignità ed espressione. Il sangue nella Bibbia viene considerato come principio vitale che appartiene a Dio, autore della vita. Era elemento e simbolo di unione con Dio. Un vincolo di stretta Alleanza era confermato con l’aspersio- 298 GABRIEL WITASZEK ne del sangue delle vittime offerte in sacrificio (Es 24, 4-8). Nei sacrifici perciò il sangue aveva una funzione primaria, perché esprimeva la vita che, veniva offerta a Dio con virtù espiatoria (Dt 12, 20-25; Lv 17, 11-14). Il sangue di Cristo, vittima perfetta, ha sigillato la nuova Alleanza tra Dio e gli uomini come i profeti avevano annunziato (Ger 31, 31-34) e come Cristo stesso ha proclamato nell’ultima Cena dicendo: “Questo è il sangue mio della nuova Alleanza, sparso (...) in remissione dei peccati” (Mt 26, 28), e di cui gli Apostoli annunziarono poi il compimento (2Cor 3, 6; Rm 11, 27; Eb 8, 6-13: 9, 15). Il sangue versato in sacrificio è la nostra bevanda di salvezza con la quale entriamo in comunione di vita con Dio (Gv 6, 55-56). Lo conferma san Paolo dicendo: “Il calice con il quale noi ringraziamo Dio, quando lo beviamo, ci mette in comunione con il sangue di Cristo” (1Cor 10, 16). L’assemblea liturgica celebra ciò che secondo il racconto del Nuovo Testamento Gesù fece nell’ultima cena, la sera prima della sua passione: egli pronunciò la preghiera di ringraziamento e di benedizione sul pane e sul vino, offrendo se stesso ai suoi discepoli nel pane spezzato e nel vino versato29. Nei doni consacrati del pane e del vino Gesù ci dona se stesso, si offre affinché gli uomini possano essere redenti e liberati dal peccato e dalla colpa. Ogniqualvolta l’assemblea cristiana si riunisce per la celebrazione dell’Eucaristia (ringraziamento), celebra il memoriale di quest’offerta o sacrificio, confidando nella fede che Gesù è presente e che laddove la preghiera di ringraziamento e di benedizione siano pronunciate sopra il pane e il vino egli si dona ai fedeli nel santo sacramento. Coloro che celebrano questo memoriale e ricevono Gesù sono introdotti da Cristo nella sua stessa fiduciosa relazione con Dio Padre e nel suo offrirsi per gli uomini. In questo modo coloro che celebrano insieme l’Eucaristia sono trasformati e assunti nel “Corpo di Cristo”. 29 Restando fedele alle sue origini storiche anche la Chiesa usa il pane e il vino nella celebrazione dell’Eucaristia. Ci sono stati alcuni cambiamenti per quanto riguarda i dettagli del rituale e delle pratiche eucaristiche. Così, invece del pane che veniva spezzato e distribuito nel banchetto festivo, ad un certo momento è stato introdotto l’uso di “ostie” che potevano essere spezzate in parti più piccole; queste però non assomigliavano quasi per nulla al pane. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 299 Nella celebrazione eucaristica, il pane ed il vino restano inalterati nella loro concreta realtà materiale e fisica; la “forma” (il termine tecnico latino è species) del pane e del vino è preservata interamente. Ma pane e vino vengono assunti in un nuovo contesto in cui acquisiscono un nuovo significato: in essi Gesù Cristo, vivo in Dio, dona se stesso. Pane e vino, dunque, assumono un significato completamente nuovo, dato da Gesù Cristo stesso e fondato in Dio stesso. Ma poiché la realtà è ciò che è al cospetto di Dio, occorre dire che nell’Eucaristia pane e vino sono trasformati nella loro realtà più profonda: essi comunicano la presenza di Gesù Cristo. La loro più profonda realtà non è più quella di nutrimento o di piacere per la vita terrena degli uomini, bensì quella di comunicare la presenza di Gesù come cibo per la vita eterna (Gv 6). Nel loro aspetto fisico, pane e vino restano inalterati; Gesù non diviene pane e vino nella loro realtà fisica. Per questo Gesù non è masticato quando il pane è mangiato; non è limitato nello spazio del pane; non soffre quando il pane è spezzato. 3. L’alleanza nuova e l’impegno nuovo a) Dimensione sacramentale dell’Eucaristia L’evento della morte e risurrezione di Gesù, non è rimasto isolato in coordinate spazio-temporali, ma istituendo il dono dell’Eucaristia egli si è dato salvificamente a ciascuno e alla Chiesa30. Il dono dell’Eucaristia richiede come specificazione della sua forma di svilupparsi fino alla sua realizzazione piena. Il dinamismo della ricezione del dono si realizza nella misura in cui l’uomo è capace di dare agli altri e di donare se stesso. L’Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vi30 Á. GARCÍA IBÁÑEZ, L’eucaristia, dono e mistero. Trattato storico-dogmatico sul mistero eucaristico, Università della Santa Croce, Roma 2006, 23-35; W. KASPER, Sacramento dell’unità. Eucaristia e Chiesa, Queriniana, Brescia 2004, 45-56; D. MOSSO, Riscoprire l’Eucaristia. Le dimensioni teologiche dell’ultima cena, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 123-149. 300 GABRIEL WITASZEK ta cristiana (LG, 11) ed è il centro e vertice di tutta la vita sacramentale. Attraverso l’Eucaristia riceviamo la forza salvifica della redenzione. In questo sacramento si rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del suo sacrificio sulla croce, sacrificio che il Padre accettò, ricambiandolo con il dono della vita immortale nella risurrezione. Attraverso lo Spirito Santo, la vita divina viene comunicata a tutti gli uomini che sono uniti a Cristo (Gv 5, 21. 26; 1Gv 5, 11). Di questa unione con Cristo, l’Eucaristia è il sacramento più perfetto. Partecipando ad essa, noi ci uniamo a Cristo, che intercede per noi presso il Padre (Eb 9, 24; 1Gv 2, 1), perché egli ci ha redenti e “comprati a caro prezzo” (1Cor 6, 20), dimostrando così il valore che noi abbiamo presso Dio, la nostra dignità di figli di Dio (Gv 1, 12) e la nostra compartecipazione al sacerdozio regale (1Pt 2, 9; Ap 5, 10), mediante il quale, uniti a Cristo, possiamo pure noi, restituire l’uomo e il mondo al Padre. Nel Figlio incarnato, il dono divino si realizza in modo umano anche nelle azioni, cosa di importanza decisiva per l’uomo, che riceve questo dono solo sviluppando una relazione personale con Gesù Eucaristico. La sinergia tra l’azione di Dio e quella dell’uomo deve seguire la forma storica che Dio ha scelto nel suo piano di salvezza e, attraverso la scelta libera, tale storia diventa un mezzo per raggiungere il dono che Dio fa di se stesso. b) Dimensione comunitaria dell’Eucaristia Gli Atti degli Apostoli riferiscono che, dopo l’Ascensione di Gesù al cielo e la Pentecoste, i primi cristiani “(...) erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli, nell’unione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42). Soprattutto il primo giorno della settimana, la domenica, giorno della risurrezione di Gesù, i cristiani si riunivano per spezzare il pane (At 20, 7). Il rito di frazionare il pane, tipico della cena ebraica, consiste nel dividerlo in tante parti quanti sono i fedeli presenti. Questo rituale è stato utilizzato da Gesù quando benediceva e distribuiva il pane come capo della mensa (Mt 14, 19: 15, 36; Mc 8, 6. 19) in particolar modo nell’Ultima Cena (Mt 26, 26; 1Cor 11, 24). Da allora, la celebrazione dell’Eucaristia si è perpetuata con la stessa struttura fondamentale, fino ai nostri gior- LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 301 ni e la ritroviamo nella Chiesa. Fra tutti i gesti compiuti nell’Ultima Cena, quello dello spezzare il pane sembra avere per la Chiesa primitiva un valore particolare. I discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nel gesto dello spezzare il pane (Lc 24, 13-35) sia perchè il Maestro ha avuto un modo particolare e personale di eseguire questa azione (Mc 6, 41: 8, 6. 19), ma soprattutto perchè essi l’hanno collegata alla cena di pochi giorni prima. Il rito dello spezzare il pane, ereditato dai Giudei che lo facevano durante i pasti, ora riguarda il rito eucaristico, e sottolinea il carattere sociale e comunitario dell’Eucaristia: un solo pane, un solo corpo. Ne deriva che, tutti coloro che mangiano dell’unico pane spezzato, Cristo, entrano in comunione con lui e formano in lui un solo corpo (1Cor 10, 16-17). Affinché tutti possano riceverne, il pane deve essere spezzato, diviso, come avviene normalmente a tavola fra i membri di una stessa famiglia. Costruire la fraternità che la frazione del pane richiede, significa impegnarsi nell’essere costruttori di unità. La prima comunità era aperta a tutti; ciò che contava era la fedeltà al progetto di Gesù di accogliere tutti senza distinzione. La frazione del pane sopprime le barriere discriminatorie tra gli uomini. La comunione con Cristo è profondamente legata alla comunione con i fratelli. L’assemblea eucaristica domenicale è un evento di fraternità, che la celebrazione deve mettere bene in evidenza, pur nel rispetto dello stile proprio dell’azione liturgica (Mt 5, 23-24). Ricevendo il Pane di vita, i discepoli di Cristo si dispongono ad affrontare, con la forza del Risorto e del suo Spirito, i compiti che li attendono nella loro vita quotidiana. In effetti, per il fedele, la celebrazione eucaristica non può esaurirsi all’interno del tempio. Come i primi testimoni della risurrezione, i cristiani convocati ogni domenica per vivere e professare la presenza del Risorto sono chiamati a diventare evangelizzatori e testimoni. In tal modo l’Eucaristia costruisce la Chiesa come autentica comunità di popolo di Dio e come vera assemblea di fedeli, e la rigenera sulla base del sacrificio di Cristo stesso, perché celebra il memoriale della sua morte sulla croce, per mezzo della quale siamo stati redenti. La Chiesa fin dalla sua origine, celebra l’atto sacramentale dell’Eucaristia come uno degli impegni che Gesù, suo Dio, salvatore e 302 GABRIEL WITASZEK fondatore, le ha lasciato. L’Eucaristia è l’azione sacrificale durante la quale, il Sacerdote offre il pane e il vino a Dio, che, per opera dello Spirito Santo, diventano realmente il Corpo e il Sangue di Cristo, lo stesso Corpo e lo stesso Sangue offerti da Gesù stesso sulla croce. Nell’Eucaristia si vive il mistero stesso del corpo e del sangue del Signore, come testimoniano le parole dell’istituzione pronunciate da Cristo, le stesse, ripetute dal sacerdote durante la celebrazione. Ne consegue che la Chiesa vive dell’Eucaristia nella quale Cristo è veramente presente. Egli è ricevuto come cibo, l’anima è ricolma di grazia e le viene dato il pegno della gloria futura (Sacrosanctum Concilium, 47; Redemptor hominis, 20). Sin dalle origini, l’Eucaristia costituisce il cuore del culto della Chiesa. In essa si celebra il memoriale della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Per la nostra fede Gesù Cristo, risorto dai morti da Dio Padre, è vivo e rimane per sempre presente nella Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Nella celebrazione dell’Eucaristia l’assemblea cristiana si riunisce consapevole della presenza di Cristo – secondo le parole stesse di Gesù che ci sono state tramandate: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). L’assemblea prega ed ascolta la parola di Dio, così come è stata trasmessa nella Scrittura; in essa è presente anche Cristo, che è Parola di Dio. In ogni Eucaristia si rinnova il sacrificio di Cristo per il mondo, nuova alleanza di Dio con l’uomo: il Signore dà nuovo nutrimento all’uomo e nuova forza alla Chiesa perché gli sia fedele, pronto a seguire con la propria vita la sua vita, donata nel servizio a tutti. Per questo la Chiesa invita i cristiani a partecipare alla Messa ogni domenica e ad accostarsi alla comunione sacramentale almeno a Pasqua: la completa partecipazione all’Eucaristia non può tralasciare questo suo fondamento ossia la comunione al corpo di Cristo, che Cristo stesso ha lasciato ai cristiani, anche come responsabilità. Il sangue di Gesù offerto per gli uomini si fa comandamento nuovo. Nel racconto dell’istituzione eucaristica fatto, da Paolo, Gesù aggiunge: “Fate questo in memoria di me” (1Cor 11, 25). Non è solo il comandamento di ricordare ritualmente il suo gesto ma è anche l’invito sottinteso ad agire come egli ha agito, con la sua stessa disponibi- LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 303 lità al sacrificio e alla rinuncia di sé per amore degli altri. Lo dice esplicitamente Pietro, ricordando che “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1Pt 2, 21). Gesù esprime questo concetto formulando il comandamento fondamentale di tutta l’etica cristiana, nell’ampio e conclusivo discorso tenuto agli apostoli durante l’ultima cena, per commentare il senso di quell’eucaristia che l’Evangelista Giovanni dà per presupposta. In questo discorso Gesù riassume tutto il suo insegnamento in un unico comandamento: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il modo con cui Gesù ha amato e insegna ai discepoli ad amarsi è precisato poco dopo: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). Come scrive R. Robuschi: “In tutto il vangelo, questo è l’unico comandamento di Gesù a essere citato da Giovanni. Per l’evangelista questo è, infatti, l’unico comandamento proprio di Gesù: “Questo è il mio comandamento” (Gv 15, 12), ed è il suo unico comandamento nuovo. Esso costituisce infatti la novità sostanziale ed essenziale di quella che possiamo chiamare la legge di Gesù, ovvero del suo insegnamento etico, rispetto alla legge o Tôrah di Mosé. All’amare il prossimo come se stessi qui è sostituito l’amare il prossimo come Gesù ha amato, fino a dare la propria vita per gli altri”31. La rivelazione fatta da Gesù e l’esempio dato da Gesù hanno un valore morale permanente in tutti i tempi32. E infine al dono della presenza di Gesù è collegata la norma globale, per cui chi vuole en31 R. ROBUSCHI, La legge nuova e antica di Gesù. Linee di teologia morale e biblica nel Vangelo di Matteo, (= Interpretare la Bibbia oggi 2.4 a cura di Carlo Ghidelli), Editrice Queriniana, Brescia 2006, 167-168; SINODO DEI VESCOVI, L’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005; G. MARCHESI, “Il sinodo dei vescovi sull’Eucaristia”, in La Civiltà Cattolica 156 (2005) IV, 57-65. 32 R. TREMBLAY, “L’eucaristia e il fondamento della vita morale secondo Sacramentum caritatis di Benedetto XVI”, in NARDIN, R.–TANGORRE, G., Sacramentum caristatis. Studi e Commenti sull’Esortazione Apostolica postsinodale di Benedettto XVI (Dibattito per il Millennio, 11), Lateran University Press, Città del Vaticano 2008, 541-549; ID., “Eucaristia e morale: Pane di vita per il mondo”, in L’Osservatore Romano 21.10.2005, 6. 304 GABRIEL WITASZEK trare nella comunione di vita offerta da Gesù deve seguirne l’esempio. Non è possibile desiderare la comunione di vita con Gesù e poi comportarsi in modo egoistico, non corrispondente al modo di vivere di Gesù. La persona umana è prima creatura a cui Dio ha donato la stessa vita, poi membro del popolo eletto con cui Dio ha stipulato una particolare alleanza. Questo dono esprime la comunione profonda che Dio instaura con Israele, frutto della sua libera iniziativa d’amore. Esso richiede senso di responsabilità da parte dell’uomo, che si concretizza nell’osservanza dei comandamenti divini attraverso i quali Dio manifesta la sua volontà. Le disposizioni morali, i comandamenti, le prescrizioni e le proibizioni non sono fine a se stesse, non ci sono prescrizioni a se stanti, c’è sempre un dono di Dio che precede e implica un modo giusto di accoglierlo e amministrarlo33. Conclusione L’alleanza è il patto che Dio, di sua propria iniziativa, ha voluto stringere in ordine alla salvezza, nelle varie epoche della storia del mondo. Dopo il diluvio, Dio aveva stretto un’alleanza con Noè, rappresentante della nuova umanità (Gen 9). Nella memoria rimane soprattutto l’alleanza divina con Abramo, accompagnata dalla solenne promessa di concedergli numerosa posterità e la terra di Canaan (Gen 15: 17), rinnovata poi con Isacco (Gen 26) e con Giacobbe (Gen 28, 10-22). L’alleanza del Sinai (Es 19-24) si presentava come un prolungamento e un perfezionamento di quella di Abramo. Con l’alleanza stretta sul Sinai, Dio si è impegnato ad essere il Dio d’Israele, e questi ad essere il popolo del Signore (Es 19, 5; Lv 26, 12). Si trattava di una libera iniziativa di Dio, con la quale egli si impegnava a essere 33 R. TREMBLAY, “La voie christique d’accès à la loi naturelle à la lumière de l’Écriture. En marge du récent document de la Commission Théologique Internationale sur la loi naturalle”, in StMor 48/1 (2010) 64-66; P. CARLOTTI, “Il dono come ermeneutica e rivelazione della persona. La prospettiva teologicomorale”, in A. AMATO e G. MAFFEI (a cura di), Super fundamentum apostolorum, LAS, Roma 1997, 557-575. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 305 presente e a camminare con il popolo d’Israele (Es 25, 8); a garantirgli la sua protezione e il suo aiuto (Es 23, 22); a dargli una legge, che lo guidasse nella vita religiosa, morale, civile, individuale, familiare e comunitaria (Es 20-23) e a garantirgli il possesso di una terra (Es 23, 31-33). A Israele, Dio ha chiesto l’impegno esplicito e formale di osservare la sua legge, condizione indispensabile per vivere nella vera libertà, che egli ha concesso. La legge del Sinai doveva entrare nel cuore di ciascun Israelita ed essere un continuo richiamo alla presenza di Dio e uno stimolo incessante a servire lui solo (Dt 6, 6-9). Israele accetta Jahve come suo unico Dio, perché riconosce che egli è intervenuto nella sua storia con gesti prodigiosi, a lui si affida totalmente e per sempre e promette di rispettare la sua legge. Israele, diventando popolo di Dio è diventato anche un popolo di fratelli, i cui membri dovevano sentirsi uniti con vincoli di amore reciproco, di giustizia, di rispetto e di pace. Per il popolo d’Israele l’alleanza era un vincolo di mutua solidarietà, che univa due o più persone in virtù di un patto sacro, che creava diritti e doveri reciproci, che veniva sancito da giuramento e concluso con un sacrificio e una cena tra i contraenti, diventati fratelli. I Giudei mangiando le carni dello stesso animale, formavano così una sola unità solidale e credevano di unirsi alla divinità (1Cor 10, 18). Solo così Israele poteva testimoniare nel suo cammino di libertà la salvezza operata da Dio. Gesù, celebrando l’ultima Cena con i suoi Apostoli durante il banchetto pasquale della nuova alleanza, ha dato alla Pasqua ebraica un significato nuovo e definitivo e nella sua persona ha attuato il piano divino di salvezza (Lc 2, 11; Gv 4, 42; At 5, 31; Ef 5, 23; 2Tm 1, 10). La cena pasquale dell’esodo, che si consumava in memoria dell’alleanza del Signore con il popolo eletto quando lo condusse nella terra promessa liberandolo dalla schiavitù d’Egitto (Es 12, 13: 24, 8) evoca l’Eucaristia. Essa rievoca il rito sacro dell’immolazione di un agnello e del pasto di comunione, consumato dagli Ebrei per essere risparmiati dalla morte al passaggio dell’angelo sterminatore nella notte in cui fuggirono dall’Egitto (Dt 26, 5-9). L’antica alleanza sul monte Sinai, tra il popolo di Israele e Dio, fu sancita con il sangue di un sacrificio; così anche l’alleanza definitiva del nuovo Israele è convalidata dal sacrificio di Cristo, vero Agnello. La nuova alleanza portata 306 GABRIEL WITASZEK da Gesù non cancella la precedente, perché Dio rimane fedele alle sue parole e alle sue azioni (Rm 9-11). Confrontando la nuova alleanza con l’antica si nota l’infinita superiorità della prima sulla seconda. L’antica era scritta sulla pietra, la seconda invece nello spirito e nel profondo del cuore (2Cor 3, 6-7). Con la nuova alleanza sono rimessi i peccati (Rm 11, 27), Dio abita in mezzo agli uomini (2Cor 6, 16), muta il loro cuore e pone il suo spirito in essi (Rm 5, 5). Essa tocca l’intimo dell’uomo (2Cor 3, 6), dona a tutti la libertà dei figli di Dio (Gal 4, 24) e riguarda ogni tempo e luogo, ogni popolo e nazione, perché il sangue di Cristo ha stabilito l’unità del genere umano (Ef 2, 11-22). Nella persona di Gesù, il Figlio di Dio e l’uomo, Gesù di Nazaret, sono uniti intimamente e in modo immutabile e definivo; Dio si è vincolato in modo inscindibile all’umanità. Per mezzo di lui l’intera umanità è entrata in quella liberazione e salvezza che Dio dall’eternità aveva pensato e voluto, per amore verso gli uomini. Cristo viene quale capo del nuovo Israele, per realizzare nel suo sangue la nuova ed eterna alleanza per la salvezza di tutto il mondo. LA VENUTA DEL FIGLIO DI DIO NELL’EUCARISTIA 307 SUMMARIES The Covenant of Sinai, based on its commandments of the Law contained in a book, is replaced by the way of life of Jesus—in which are realised and concretised not only the commandments of the Law, but also the very teachings of the Covenant. The New Covenant, founded in the blood of Jesus, renews us completely, and places us in a deep relationship with God through Christ. In his Incarnation there arises a whole sacramental dynamism which is intrinsic to the human mode of reception of the divine gifts lived out in the mediation of the Church. One of the special sacramental signs is the Eucharist, which directly transforms the results of human activity, the bread and wine, into the essence of this sacrament. Men respond to the gift of the Son of God in the Eucharist, in the bread and wine they have previously received by participating in the offering which Christ makes of himself in love. This is an internal reality of the action, which is realised by means of a efficacious sign: the dimension of gift, proper to the human action. *** La alianza del Sinaí basada en los mandamientos de la ley, contenidos en un libro, es sustituida por la forma de actuar de Jesús, en el cual se realizan y concretizan no sólo los mandamientos de la ley, sino también sus mismas enseñanzas. La nueva alianza, basada en la sangre de Jesús, nos renueva totalmente y nos pone en profunda relación con Dios por medio de Cristo. En su encarnación, se origina toda una dinámica sacramental, intrínseca a la forma humana de recibir los dones divinos, vivida en la mediación de la Iglesia. La Eucaristía es uno de los sacramentos especiales, que transforma directamente el fruto de las obras del hombre, el pan y el vino, en la esencia de este sacramento. Los hombres responden al don del Hijo de Dios en la Eucaristía, en el pan y en el vino que antes han recibido participando del ofrecimiento que Cristo hace de sí mismo por amor. Es una realidad interna de la acción que se cumple por medio de un signo eficaz: la dimensión del don, propia de la acción humana. *** All’alleanza del Sinai fondata sui comandamenti della legge, contenuti in un libro, si sostituisce il modo di agire di Gesù, nel quale si realizzano e si concretizzano non solo i comandamenti della legge, ma anche i suoi stessi insegnamenti. La nuova alleanza, fondata sul sangue di Gesù ci rinnova completamente e ci mette in relazione profonda con Dio attraverso Cristo. Nella sua incarnazione, nasce tutta una dinamica sacramentale, intrinseca al modo umano di ricevere i doni divini, vissuto nella mediazione della Chiesa. Uno dei speciali sacramenti è l’Eucaristia, che trasforma direttamente il frutto delle opere dell’uomo, il pane e il vino nell’essenza di questo sacramento. Gli uomini rispondono al dono del Figlio di Dio nell’Eucaristia, nel pane e nel vino che hanno precedentemente ricevuta partecipando all’offerta che Cristo fa di se stesso per amore. È una realtà interna dell’azione, che si realizza per mezzo di un segno efficace: la dimensione del dono, propria dell’azione umana. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE Aristide Gnada, C.Ss.R.* Introduzione Il concetto del dono è, oggigiorno, oggetto di varie interpretazioni non solo nel campo della sociologia e dell’antropologia1, ma anche nella filosofia contemporanea a partire dai contributi di Jacques Derrida (1930-2004) e di Jean-Luc Marion2. Nel discorso socio-antropologico che riguarda il dono, si è convinti che il triplice obbligo di donare, ricevere e rendere costituisce la base delle relazioni sociali. Derrida e Marion chiamano in causa tuttavia questa concezione del * The author is an invited professor at the Alphonsian Academy. * El autor es professor invitado en la Academia Alfonsiana. Il presente articolo riprende la relazione svolta durante il VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale (Cadine-Trento, 21-24 luglio 2010). 1 Cfr. MAUSS MARCEL, Sociologie et anthropologie. Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss, = «Bibliothèque de sociologie contemporaine», Presses Universitaires de France, Paris 1950, pp. 143-279; GODBOUT Jacques, L’esprit du don, Editions La Découverte, Paris 1992; ID., Le langage du don, Editions Fides, Québec 1996; ID., Ce qui circule entre nous. Donner, recevoir, rendre, Les Editions du Seuil, Paris 2007; CAILLÉ ALAIN, Anthropologie du don. Le tiers paradigme, Éditions Desclée De Brouwer, Paris 2000. 2 DERRIDA JACQUES, Donner le temps, I. La fausse monnaie, Editions Galilée, Paris 1991; ID., «Donner la mort», in RABATÉ JEAN-MICHEL – WETZEL MICHAEL, L’éthique du don. Derrida et la pensée du don, Editions Transition, Paris 1992, pp. 11-108; Marion Jean-Luc, «Esquisse d’un concept phénoménologique du don», in Archivio di filosofia 1-3 (1994) 75-94. (1994); ID., Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Presses Universitaires de France, Paris 1997. StMor 48/2 (2010) 309-329 310 ARISTIDE GNADA dono, perché, secondo loro, il donatore, l’oggetto donato e colui che riceve il dono rendono ciascuno a modo proprio il dono impossibile, trasformandolo in un sistema di scambio e di economia, mentre il dono deve essere gratuito. Però se per Derrida il vero dono rimane assolutamente impossibile, pur essendo pensabile, desiderabile e dicibile a causa del suo legame con l’etica, per Marion, esso è impossibile solo nell’orizzonte dell’economia e dello scambio, ma non dal punto di vista del dono ridotto alla donazione e irriducibile allo scambio e/o all’economia3. Accanto alla decostruzione derridiana del concetto del dono e alla fenomenologia di Marion della donazione, abbiamo l’ontologia del dono di Bruaire che lo considera come l’essere nel suo modo spirituale di essere4. Per Bruaire, l’essere umano, in quanto essere di spirito, è un dono di essere a se stesso, il cui destino è quello di essere dono nella sua origine e per gli altri. Come tale non può affermarsi nella negazione della sua origine che è il Dono assoluto, né nel rifiuto della sua realtà ontologica che è l’essere-dono, né nella negligenza del suo modo di esistere che è di essere dono. L’ontologia del dono in Bruaire, può essere avvicinata alla teologia del dono in Giovanni Paolo II che afferma che l’uomo può realizzarsi solo nel dono di sé all’altro, luogo della sua vocazione e fonte della sua felicità. Per Giovanni Paolo II, il dono è la via di passaggio dall’individuo ripiegato su di sé alla persona aperta a Dio per essere sostenuta nel suo donarsi agli altri, e la libertà umana significa, nella prospettiva della libertà evangelica, dono di sé e disciplina del dono, libera iniziativa e dovere personale5. L’ermeneutica del dono nelle varie discipline ci rivela che con il dono siamo di fronte ad un termine polisemico ed ambivalente, ad 3 Cfr. CAPUTO D. JOHN, «Apôtres de l’impossible: sur Dieu et le don chez Derrida et Marion», in Philosophie 78 (2003) 33-51. 4 Cfr. BRUAIRE CLAUDE, Pour la métaphysique, Librairie Arthème Fayard, Paris 1980, pp. 258-266; ID., L’être et l’esprit, Presses Universitaires de France, Paris 1983. 5 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’assemblea parlamentare del consiglio europeo, n. 4; ID., Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994), n. 14. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 311 una realtà complessa e misteriosa. Il dono simboleggia l’affetto, la simpatia, l’amore, appare come un legame sociale, ontologico ed etico, funziona come un sistema di benevolenza, di solidarietà o, comunque, come un sistema fondamentale d’azione6. Il dono è un fatto sociale che impegna le dimensioni economica, ecologica, culturale, politica, sociale, etica e spirituale dell’uomo, per cui, la teologia morale, che ha l’uomo e il suo agire come oggetto prossimo, non può essere indifferente al fenomeno del dono. Già A. Mattheeuws, partendo dalla costatazione della presenza del dono nell’universo, mostra che il dono è il fondamento della morale familiare, ma, come lo dice Jean-Louis Bruguès, è veramente “l’insieme stesso della teologia”, e quindi la teologia morale anche, che trarrebbe sicuro vantaggio dall’essere rivisitato da questo concetto”7. In questa prospettiva ed ispirandomi a G. Richard8, cercherò di mostrare, a partire dal dono come esperienza fondamentale dell’essere umano nella prima parte, che la vita morale è in fondo come un donarsi all’altro in analogia del donarsi divino all’umanità nella seconda parte, e che il dono stesso è come il principio dell’agire morale nella terza parte. 1. Il dono come esperienza fondamentale dell’essere umano Se consideriamo l’esperienza come tutto ciò che è afferrato dai sensi e costituisce la materia della conoscenza umana, come un insie- 6 Cfr. DUMONT JEAN-NOËL, Le Don. Théologie, philosophie, psychologie, sociologie, Editions de l’Emmanuel, Lyon 2001; BENVENISTE ÉMILE, Problèmes de linguistique générale, Éditions Gallimard, Paris 1966, pp. 316-323; COMITO ANGELO, «Dire “dono” oggi: tra linguaggio e significato», in PANIZZA GIACOMO, Il dono. Iniziatore di senso, di relazioni e di polis, Rubbettino Editore, Soneria Mannelli 2003, pp. 27-28; ZANARDO SUSY, Il legame del dono, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2007, 6-62 e 535-603. GODBOUT J., Ce qui circule entre nous, pp. 277-288 e 122-157. 7 Cfr. MATTHEEUWS ALAIN, Les «dons» du mariage. Recherche de théologie morale et sacramentelle, Éditions Culture et Vérité, Bruxelles 1996; ID., Amarsi per donarsi. Il sacramento del matrimonio, Marcianum Press, Venezia 2008. 8 MATTHEEUWS A., Amarsi per donarsi, p. 11. 312 ARISTIDE GNADA me di fenomeni conosciuti e conoscibili, quindi come ciò che si applica a tutto ciò che è collegato o è stato esperito dall’essere umano mediante il ricevere da un altro o il comunicare ad un altro, possiamo chiederci: quale è l’esperienza fondamentale della persona? Meditando su questa domanda ci accorgiamo che, prima di essere capace di discernere, la persona umana è stata in contatto con la realtà del dono, con il dono della possibilità di essere, e che, al risveglio della coscienza, esperimenta la verità del dono almeno sotto tre forme: la forma ontica o il dono di qualcosa di determinato, la forma non ontica o il dono educativo, e la forma ontologica o il dono dell’essere personale. Nelle due prime forme, che possiamo chiamare dono umano, sperimentiamo la nostra capacità di dono nel ricevere e nel donare, mentre nella terza forma, sperimentiamo l’impossibilità di un tale dono per noi e, quindi, la dipendenza del nostro essere da una origine donatrice, chiamata Dio nelle diverse religioni. Nella forma ontica del dono, facciamo l’esperienza di tre categorie di dono che sono destinati ad offrire delle possibilità al donatario: i doni che permettono al donatario di essere semplicemente o di vivere, per esempio la generazione9 o il dono della vita, le cure mediche ed ogni attività che assicura la sopravvivenza dell’altro; i doni che permettono al donatario di essere una persona capace di fissare e di tendere verso uno scopo, per esempio tutto quello che riguarda l’istruzione10; e i doni che permettono al donatario di considerarsi come un essere fine in sé nella sua dignità personale e non come un mezzo, per esempio gli affetti e le premure, certe opere d’arte e dottrine filosofiche o teologiche11. Dalla nostra esperienza d’educazione possiamo dire che più che trasferire una cosa determinata come l’istruzione, educare è “fare 19 Cfr. RICHARD GILDAS, Nature et formes du don, Editions L’Harmattan, Paris 2000. 10 È necessario distinguere il senso della generazione da quello della creazione: la generazione o dono della vita consiste nel donare la possibilità di essere, di vivere, mentre la creazione o dono ontologico consiste nel donare l’essere stesso. 11 Imparare a parlare, scrivere, leggere, la formazione tecnica, scientifica. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 313 uscire l’altro” da ciò che non è veramente egli stesso, e sviluppare in lui ciò che rimane irriducibile ad un condizionante conglomerato di realtà materiali. L’educazione consiste così in una conversione dell’altro alla verità del suo essere, per cui essa prende sempre la forma di una spoliazione, appare sempre all’educando come qualcosa d’indesiderabile, d’inaspettato, d’imprevisto, e, di conseguenza, possibile solo nello spirito di gratuità di un dono che s’impone all’altro per aiutarlo a scoprire ed a vivere, secondo la verità del suo essere, ad accogliere una realtà che lo precede e si offre a lui12. Da queste due forme del fenomeno, è possibile ricavare alcune caratteristiche del dono nel suo concetto puro: l’assenza di contropartita che troviamo nella definizione corrente del dono come trasferimento di qualcosa che è gratuita; la costituzione ternaria del dono in donatore, donatario e oggetto donato; la centralità e la principialità del donatario quando si tratta del dono; l’impossibilità di essere chiesto come prova e criterio di ciò che esige al massimo grado di essere donato; il riconoscimento dell’altro nella sua dignità di essere fine in sé e nella situazione di penuria e di bisogno; il donatore ideale come colui che appare non solo come un non-fornitore, ma che si impone come uno che fa scoprire all’altro la verità del suo essere; il disinteresse, nel senso della gratuità o di un atto motivato dalla preoccupazione per l’altro, come qualità naturale del dono. L’esperienza umana ci fa scoprire la verità reale del dono che, in virtù della sua radicalità e della sua fondamentalità, è effettivamente solido, stabile e sicuro nelle sue manifestazioni, ed atto a suscitare nell’essere umano fiducia e fedeltà, facendo di sé un essere in atto costante di dono, cioè donatario e donatore. “La carità nella verità, scrive Benedetto XVI, pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono”13. Infatti, da sempre e dappertutto si tessono legami sociali, si entra in relazione interpersonale e si manifesta la reciprocità mediante il dono. L’essere umano è posto e configurato dalla verità del dono, in modo che la sua esperienza esistenziale è essenzialmente una 12 13 Cfr. RICHARD GILDAS, Nature et formes du don, pp. 110-115. Ivi, pp. 136-170. 314 ARISTIDE GNADA esperienza di dono, una esperienza che è universale nello spazio e permanente nel tempo. L’esistenza della persona umana è inseparabile dal dono e la sua storia è una storia di doni a cominciare dal dono ontologico che egli è. Che la persona umana sia dono ontologico, lo possiamo dedurre dall’esperienza stessa del dono che ci fa scoprire la figura essenziale dell’uomo come quella non solo del donatore, ma ugualmente del donatario. Essere donatore nel senso sia del dono ontico che del dono educativo presuppone un capacità fondamentale al donare, e donare all’altro presuppone nell’altro una capacità fondamentale di ricevere. Ora la duplice capacità umana al donare e al ricevere presuppone, a sua volta, un donatore diverso dall’uomo ed una forma di dono diversa dal dono umano: Dio e la creazione. La creazione è un dono fondamentale ed originario, “perché in essa appare l’uomo che, come immagine di Dio, è capace di comprendere il senso del dono nella chiamata dal nulla all’esistenza”14. L’esperienza del dono ci fa scoprire così il dono come il concetto adeguato per dire ciò che l’essere personale è veramente e essenzialmente: La persona umana è donata a se stessa, è un essere-dono, la cui identità rinvia all’atto creatore che è un atto di dono libero e gratuito. La persona umana ha dunque una origine donatrice che s’identifica con il dono assoluto: Dio. Perché non è la propria origine, la persona umana non può che essere donata, e perché è donata a se stessa, essa non può che essere libera. La persona umana è un essere donato a se stesso, un essere libero a immagine della sua origine donatrice: Dio-Creatore. Il dono, come l’origine, manifesta la persona e il suo agire nella libertà. Secondo Tommaso d’Aquino, “dovrà appartenere a una Persona divina di essere data e di essere Dono” e “da tutta l’eternità una Persona divina si dice Dono”15. E quando san Giovanni afferma che 14 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate sullo sviluppo umano integrale (29 giugno 2009), n. 34, in http://www.vatican.va. 15 GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, p. 73. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 315 “Dio è Amore” (1Gv 4, 16), non fa altro che indicarci che l’amore, il dono di sé, è l’essenza stessa di Dio, Uno e Trino. Dio è l’infinita potenza di essere nell’unità d’amore, il cui contenuto si esprime mediante la generazione paterna, la resa filiale e la conferma spirituale16. “Nella sua vita intima, insegna Giovanni Paolo II, Dio è amore, amore essenziale, comune alle tre Persone divine: amore personale è lo Spirito Santo, come Spirito del Padre e del Figlio”17. Nonostante la sua pluralità formale – ontica, educativa, ontologica –, il dono, in forza del suo scopo che è la pienezza dell’altro, è un concetto univoco che possiamo comprendere come modo di relazione di una persona ad un’altra che è pienamente destinata a sé, ma incapace di giungervi da sola. Infatti, il dono ontico è la forma dell’unico concetto di dono che preserva l’integrità fisica dell’altro. Il dono educativo è la forma dell’unico concetto di dono che aiuta l’altro a scoprire la verità del suo essere umano. Il dono ontologico è la forma dell’unico concetto di dono che istaura l’essere umano come un essere donato a se stesso, al mondo ed a Dio. Eppure l’esperienza ci rivela che questo essere, fondamentalmente “fatto per il dono”, non è sempre riconosciuto come tale “a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza”18. Infatti, la persona umana è un essere che viene dal dono, vive nell’universo del dono, un essere aperto al dono, un essere impregnato dalla verità del dono e diretto dalla logica del dono, in modo che per negarlo basta negare questa verità e questa logica nella sua esistenza. Il male morale delle origini di cui ci parla il libro della Genesi (Gen 3, 1-13) non è entrato nel cuore dell’uomo per via di un falso dono o, comunque, di una falsa promessa? Il fratricidio commesso da Caino (Gen 4, 1-16) non è stato forse la conseguenza di un rifiuto, da parte dello stesso Caino, della logica del dono che implica la libertà 16 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Somma Teologica, I, q. 38, a 1, risp. e sol. 4; a. 2, risp. 17 Cfr. BRUAIRE C., L’être et l’esprit, pp. 190-193. 18 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dominum et vivificantem sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo (18 maggio 1986), n. 10, in http://www.vatican.va. 316 ARISTIDE GNADA del donatario? In ogni caso, la cattiveria o la malizia di un atto umano risiede sempre nella negazione del dono, sotto forma d’antidono19 che consiste nell’agire in senso contrario al dono e sotto forma d’abbandono20 che consiste nel rifiutare semplicemente di rispondere all’appello dell’altro. Nel primo caso, l’altro è considerato come centro assoluto ma negativo di un atto che cerca di distruggere la sua alterità e la sua dignità ontologica come essere fine in sé. Così le diverse forme d’omicidio e qualsiasi modo di nuocere all’integrità fisica dell’altro si oppongono al dono della possibilità di essere e di vivere. La privazione dell’istruzione si oppone al dono della possibilità di realizzarsi come una persona responsabile di se stessa e degli altri. L’odio, il disprezzo, l’indifferenza si oppongono al dono della possibilità di considerarsi nella propria dignità di persona. Nel secondo caso, si tratta di abbandonare l’altro alla sua miseria, alla sua sofferenza e, perfino, alla morte. La negazione del dono, allora, sotto forma d’abbandono si presenta come il contradditorio stesso del dono. L’altro è considerato come un semplice elemento della realtà ontica. Anche se è, talvolta, oggetto di interesse o di affaccendamento apparentemente generoso, ma di fatto possessivo, cade sempre nell’essere considerato come una realtà ontica, come cosa tutt’al più, con lo statuto di un centro relativo e momentaneo. La possibilità di negazione del dono nell’altro e in se stesso attesta che la persona umana, in quanto essere donato a se stesso, quindi libero, si trova, secondo la logica stessa del dono che esprime la fraternità, nell’esigenza di donare ma sempre nella libertà potenziale di accettare o rifiutare, di affermare o negare il dono. Donato a se stesso, l’uomo è logicamente libero dalla logica del dono, a rischio di esaurirsi nell’isolamento del rifiuto e della negazione dell’altro mediante certe forme di violenza e d’indifferenza, fondate su una concezione utilitaristica e egocentrica dell’essere umano, come l’osserviamo nella violazione dei diritti fondamentali degli uomini. Tutte le 19 20 Caritas in veritate n. 34. Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 117-119. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 317 argomentazioni o giustificazioni che possiamo avanzare a favore di una violazione dei diritti umani, per esempio la violazione del diritto alla vita, riconducono incontestabilmente all’egoismo come tendenza a preoccuparsi esclusivamente del proprio piacere e del proprio interesse senza curarsi di quello degli altri. Ora una vita moralmente buona, quella che permette all’uomo, che è nel pieno possesso delle proprie facoltà di camminare liberamente verso un profondo compimento di sé, liberandosi da una vera alienazione, consiste nell’accettare di essere dono e di vivere secondo la logica del dono che lo definisce essenzialmente. Si tratta qui di una vita morale che possiamo, nella prospettiva dell’etica cristiana, comprendere come una vita d’amore o un donarsi all’altro in analogia con il mistero dell’Incarnazione: il donarsi divino all’uomo o l’amore divino ad extra. 2. Vita morale come un donarsi all’altro in analogia 2. con il donarsi divino all’uomo Alla luce del mistero dell’Incarnazione, compreso come mistero del donarsi di Dio all’umanità (cfr. Lc 1, 26-38), l’amore può essere definito come un duplice desiderio del bene dell’altro e di essere unito all’altro: mancando l’una o l’altra forma di desiderio, cioè il bene dell’altro o quello di essere unito all’altro, non c’è, per l’esattezza, l’amore nel senso pieno, ma un amore in senso analogico. Nell’amore come desiderio del bene dell’altro e desiderio di unione con l’altro, la persona che ama presuppone necessariamente che il bene dell’altro è inseparabile da questa unione e consiste nell’essere unito all’altro. Il bene dell’altro e l’unione con l’altro s’identificano, come lo rivela il mistero dell’Incarnazione, in cui Dio si è donato considerandosi come il supremo desiderabile che colma l’uomo e desiderando solo il bene dell’uomo21. Dal mistero dell’Incarnazione, cioè da quell’“amore proprio di un totale e irrevocabile dono di sé da parte di Dio all’uomo in Cri- 21 Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 119-120. 318 ARISTIDE GNADA sto”22, possiamo ricavare tre condizioni che fondano la legittimità dell’amore come dono di sé o come persona che si dona. La prima condizione è che la persona che si dona deve essere capace di essere via per un fine, pur rimanendo perfettamente fine in sé. Infatti Dio, nel Figlio, ha donato se stesso come fine in sé e come via adeguata alla soddisfazione del desiderio dell’uomo. La seconda condizione è che la persona, che riceve l’altro che si dona, deve essere mantenuta nella sua identità di fine in se stessa. Infatti, è in quanto fine in sé che l’uomo riceve Dio. La terza condizione è che il bene della persona che riceve deve consistere nell’unione stessa con la persona che si dona. Infatti, il bene dell’uomo consiste sempre nell’unione con Dio. Quindi, Dio è stato capace di donarsi come bene all’uomo senza confusione d’identità, senza sfigurarsi e senza fare violenza all’uomo, per cui, Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, è vero uomo e vero Dio, secondo la confessione della fede cristiana. L’amore, nel suo senso autentico di una persona che desidera il bene dell’altro e si unisce all’altro, è stato nei confronti dell’uomo vissuto perfettamente da Dio, e soltanto partecipato da Dio stesso nella comunione intratrinitaria delle Persone. Dio solo, perché è amore e supremo desiderabile, è stato capace di esercitare perfettamente e legittimamente l’amore come dono di sé o della sua persona all’altro e per il bene dell’altro. Alla luce del mistero dell’Incarnazione, è necessario confessare l’incapacità dell’uomo di vivere l’amore nel suo senso autentico, il cui scopo è di colmare l’essere umano nel desiderio infinito. In realtà, se l’uomo vuole assolutamente essere ciò che colma il desiderio infinito dell’altro, lo sarà sia sfigurandosi sia facendo violenza all’altro. Infatti, se l’uomo, pur riconoscendo l’infinitezza del desiderio dell’altro, si presenta come ciò che lo colma, significa che si dimentica di essere creatura, cioè oblia la propria finitezza per potersi considerare come il supremo “oggetto” desiderabile dell’altro, e in questo caso si sfigura. Ma se invece l’uomo, pur riconoscendo la propria finitezza, si presenta come ciò che colma il desiderio dell’altro, significa che colmerà solo un 22 Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 303-304. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 319 desiderio finito e impoverito, vale a dire un desiderio di cui avrà provocato o, comunque, accettato l’impoverimento, un desiderio di cui impedirà l’allargamento infinito, e in questo caso fa violenza all’altro23. Il dono di sé all’altro ha senso e realtà solo se il sé da donare è ciò di cui l’altro come tale ha bisogno, solo se il sé è contemporaneamente ciò che desidera infinitamente e colma infinitamente ogni desiderio. Ora quando parliamo dell’amore come dono di sé stesso, nel caso dell’uomo, il sé si riferisce ad uno o molti aspetti certo significativi, ma non all’intero essere come nel caso di Dio. Infatti, il dono di sé umano può avere il senso di dare la propria vita e si realizza nell’accettare le sofferenze o anche la morte per l’altro o in nome dell’altro. Il dono di sé umano può avere il senso di consacrare la propria vita a qualcuno e si realizza nell’impiegare completamente e definitivamente le proprie capacità, le proprie energie, le proprie risorse, il proprio tempo, il corpo personale e sessuato, a favore dell’altro. Il dono di sé umano può avere il senso dell’amore coniugale tra uomo e donna e si realizza nell’unirsi, corpo e spirito, all’altro. Quindi il dono di sé a livello umano si manifesta realmente come dono di qualcosa che non è, per l’esattezza, il sé, anche se c’è l’intenzione o il desiderio di donare se stesso. L’amore umano, cioè il dono di sé umano, si traduce concretamente nel dono di qualcosa e nel dono educativo, che sono in realtà delle forme imperfette dell’autentico amore come dono di sé espresso nel mistero dell’Incarnazione. Nondimeno queste forme rimangono delle forme perfette che manifestano l’essere-dono della persona umana e la sua partecipazione all’amore divino, e mediante cui è sempre possibile condurre l’altro ad una comunione con il dono assoluto che è, in verità, il Dio trinitario che si dona in quanto supremo bene desiderabile. Infatti, il dono umano, nelle sue diverse forme, riflette l’amore divino, perché l’amore divino rivela una parte del suo mistero attraverso ogni forma del dono umano. L’analogia del donarsi umano permette di penetrare in certo modo nel mistero dell’amore divino, fonte e fine della vita morale. 23 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Udienza Generale (29 settembre 1982), in http://www.vatican.va. 320 ARISTIDE GNADA L’essere umano riflette il dono attraverso il linguaggio, il corpo, il desiderio e la libertà, in modo da lasciare scoprire in lui e da lui il dono stesso come il principio del suo agire morale, cioè come una realtà che è unitariamente fonte, norma e finalità dell’agire morale. 3. Il dono come principio dell’agire morale Una considerazione più attenta sull’agire umano rivela che l’agire morale non è diverso dal dono umano: dono di qualcosa e dono educativo. Dono umano ed agire morale s’identificano, perché esprimono l’umanità e si traducono in atti concreti per permettere all’altro di essere semplicemente, di essere capace di fissare e tendere verso uno scopo, di considerarsi come fine in sé, e di scoprire e vivere in conformità con la verità del proprio essere. Comprendere l’agire morale come dono è indicare non soltanto l’essere in relazione, ma la fonte stessa della responsabilità dell’uomo verso gli altri rispetto ai loro diritti e doveri fondamentali, e comprendere il dono umano come atto morale significa che la bontà di un atto umano risiede nell’essere un atto di dono determinato a partire dall’altro come centro, principio e fine in sé, in vista di rispondere adeguatamente al suo bisogno vero, necessario ed universale. Riconoscere la persona umana come un essere donato a se stesso è riconoscere che, non solo, essa è libera causa di ciò che fa del proprio essere, ma anche un essere fine in sé che chiede nei suoi confronti l’atteggiamento del dono, perché a un tale essere, non si può che donare liberamente e gratuitamente. Inoltre, perché la persona umana è gratuitamente donata a se stessa, essa è infinitamente in debito del proprio essere24 e, perciò, in stato originario di resa di se stessa all’origine25. Ma questa resa di sé, o conversione ontologica, che sarà compiuta so- 24 Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 307-308. Il debito non è che un fatto sociale o economico, neppure è un fatto morale, ma una realtà ontologica che situa l’essere umano come un essere in dipendenza e, quindi, definisce il suo rapporto con l’alterità originaria. 25 IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 321 lo nell’interfaccia con l’origine donatrice all’occasione della morte26, si manifesta già nel mondo come una conversione morale in forma d’apertura agli altri e attraverso la duplice forma del dono ontico ed educativo (cfr. Mt 25, 32). La persona umana, perché è donata a se stessa, è in debito del suo essere, e perché è in debito del suo essere, è in obbligo morale, anche se decide, grazie alla sua libertà, di rifiutarlo. L’etica umana, per l’esattezza, non può essere diversa da una etica del dono come agire morale, ed ogni persona, che segue la logica del dono, può condurre veramente una vita moralmente buona, perché si tratta di una logica che, simultaneamente, include tutto il bene possibile e esclude il male: donare è fare il bene ed evitare il male. “La morale è obbligo di fronte al dono che ciascuno rappresenta per il fatto stesso di esistere. Profusione e gratuità costituiscono la trama di tutta l’oggettività morale”27. L’agire umano è moralmente buono quando è un agire di dono, un agire che, nella prospettiva cristiana, permette all’uomo di rimanere sempre più immagine di Dio-Amore e partecipe della vita d’amore di Dio. Il fedele in Cristo è infatti chiamato ad essere testimone della generosità di Dio in Cristo lasciandosi motivare dallo spirito del dono come principio animatore della sua vita morale che si concretizza negli atti di dono come risposta al bisogno vero, necessario ed universale dell’altro (Mt 25, 31-46; Gc 2, 14-26; 1Gv 2, 7-11; 3, 11-24). Il dono è il luogo naturale della carità. È solo nella logica del dono che i cristiani possono manifestare la grandezza della loro vocazione in Cristo e il loro obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo. Ed è questa logica che il teologo moralista è chiamato a trasmettere sulla scia di Gesù Cristo stesso il cui comandamento è: “Che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15, 12). La carità con cui Cristo ci ha amato superava tanto quelle esigenze giuridiche 26 Cfr. BRUAIRE C., L’être et l’esprit, pp. 60-61; La force de l’esprit, p. 27. Il dono, perché gratuito, apre sempre ad una reazione sotto forma di gratitudine o di conferma del dono ricevuto. 27 Nel reciproco dono di se stesso a Dio, “l’uomo concentrerà ed esprimerà tutte le energie della propria soggettività personale ed insieme psicosomatica”, cfr. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, pp. 270-271. 322 ARISTIDE GNADA e morali che nessuno poteva rivendicarla. La carità ingloba tutti gli atti moralmente buoni, compresi i castighi, le sanzioni o le punizioni, che possiamo legittimamente porre in virtù dei diritti e doveri dell’uomo, della giustizia. Quindi più che lo spirito di giustizia, è necessario augurare lo spirito di dono per un mondo vivibile, un mondo dove gli uomini si preoccupano e rispondono ai bisogni necessari, veri ed universali degli esseri umani secondo la logica del dono e del perdono, che non nega la giustizia ma la supera e la completa. “La città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione”28. Una società umana, a cominciare dalla famiglia, non può vivere soltanto dei beni della giustizia, vale a dire dei beni che derivano dal dovere. Sono necessari anche i beni della gratuità, cioè i beni che derivano dalla coscienza di essere legati agli altri che, in un certo qual modo, fanno parte della mia esistenza. Il dono si rivela non solo come agire morale ma anche come principio d’agire morale, cioè come ciò che lo fonda, lo comanda e l’orienta in tutte le sue dimensioni: antropologica, sociale, economica, politica, ecologica. Il dono è principio perché non è una realtà inventata dall’uomo, ma una realtà che l’uomo scopre come tale nella sua esistenza e vive nella forma di dono di qualcosa e d’educazione. Infatti, nell’esistenza umana, la persona, dal suo concepimento alla sua morte, riceve dagli altri la possibilità di vivere, di tendere verso uno scopo, di considerarsi come un essere portatore di dignità, e di scoprire la verità del suo essere come quello di spirito irriducibile alla sua dimensione corporea. Il dono è, per l’esattezza, un atto di vita che fa vivere l’essere umano, una legge che, naturalmente, orienta la finalità dell’essere umano, ne esprime i diritti e i doveri, e risponde alle inclinazioni naturali: vita, fecondità e socievolezza, conoscenza. La legge del dono struttura talmente l’esistenza umana che nessuno può prescindere assolutamente da essa29. 28 29 MATTHEEUWS A., Amarsi per donarsi, p. 334. Caritas in veritate, 6. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 323 La regola fondamentale del dono come principio dell’agire morale può essere formulata così: l’atto morale deve essere assolutamente determinato a partire dall’altro. Questa regola significa che le determinazioni delle circostanze di ogni atto morale sono dedotte dalla situazione particolare e determinata, universale e fondamentale dell’altro come fine in sé. L’altro si presenta, alla luce del principio dono, come colui a partire dal quale si deve pensare l’atto morale da porre. Questo non significa però sottomettersi servilmente ai capricci dell’altro. Proprio al contrario, determinare l’atto morale da porre a partire dall’altro come centro e principio esige di deludere o di contrariare talvolta le sue attese o desideri, per esempio nel caso di un desiderio che chiede l’eutanasia30, e come lo richiede il dono educativo. In questo dono, l’educando è soprattutto considerato, nella sua identità di fine in sé, come un essere irriducibile ai suoi bisogni contingenti e particolari che mascherano talvolta i suoi desideri essenziali e veri, ed è da questa situazione particolare che l’educatore l’aiuterà a scoprire la verità del suo essere. L’applicazione della regola fondamentale dell’agire morale come dono richiede dunque un criterio morale da seguire. Questo criterio si basa sul contenuto dell’atto da porre come dono di una cosa che esige assolutamente di essere donata: per essere donata, la cosa deve corrispondere al bisogno necessario, vero ed universale dell’altro. Secondo questo criterio, l’esigenza assoluta di essere donata risiede nel suo duplice carattere di essere fine in sé e mezzo: la cosa da donare deve contemporaneamente essere e non essere un fine in sé, cioè un essere-fine ed un essere-per (per esempio, un organo umano). Rispetto al primo carattere, la cosa da dare non ha prezzo né contropartita, perché l’esigenza di essere donata è intrinseca ad essa. Rispetto al secondo carattere, la cosa da dare si riferisce alla dignità della persona e, per questa ragione, non può che essere donata all’altro quando risponde al suo bisogno necessario, vero ed universale.31 In altre paro30 Cfr. SAGNE JEAN-CLAUDE, La loi du don. Les figures de l’Alliance, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1997, pp. 5-8. 31 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sull’eutanasia (5 maggio 1980), in http://www.vatican.va: “Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di 324 ARISTIDE GNADA le, senza il carattere del fine in sé, la cosa non esige assolutamente di essere donata, ma con il carattere assoluto del fine in sé, la cosa esige assolutamente di non essere donata, a fortiori di essere venduta o scambiata32. Nel dono come modo di relazione, l’altro è sempre in una situazione di mancanza del necessario per essere, è sempre in penuria di un avere da essere e, dunque, in attesa di essere colmato. Ma ciò che colmerà l’altro sarà veramente un dono se gli si richiede meno di riempire l’una o l’altra condizione, per esempio manifestare il suo bisogno, o se le condizioni della sua realizzazione sono state a carico del donatore: più il dono è veramente dono, meno si impone all’altro di riempire l’una o l’altra condizione per poter essere donatario33. Secondo questo criterio, possiamo fare tre osservazioni: il dono ontologico è il più grande dono perché in esso ciò che riceve e ciò che è ricevuto s’identificano, e quindi non c’è nessuna condizione da riempire in anticipo dal lato del donatario; il dono educativo è dono maggiore rispetto al dono ontico, non solo perché lo suppone, ma perché tutte le sue esigenze, le sue condizioni sono a carico dell’educatore; l’embrione umano è il donatario per eccellenza della forma ontica del dono, perché le condizioni richieste da parte sua si riducono alla sua semplice presenza di persona umana che non chiede nient’altro che le cure affettive, nutrizionali e mediche per poter vivere e crescere. Di fronte ad una certa discriminazione etico-medicale dell’embrione umano con la scusa di evitare la nascita di bambini anormali, l’antropologia del dono e la teologia del dono non possono che confermare che l’embrione umano, come ogni persona umana, sia un es- una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno, è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri”. 32 Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 106-109. Una macchina può, per esempio, essere venduta o scambiata in quanto è assolutamente uno strumento o un mezzo, mentre l’essere umano, in quanto è assolutamente un fine in sé, non può essere donato da un altro. 33 Cfr. RICHARD G., Nature et formes du don, pp. 154-155. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 325 sere-dono, un essere che, nella sua debolezza, povertà e fragilità, ha necessariamente bisogno dei doni adeguati per esistere34. Si tratta qui di una sfida morale lanciata all’uomo che è nel pieno possesso delle proprie esistenziali facoltà e a cui si applica la legge del dono come legge morale naturale. Solo la razionalità del dono sembra poter raccogliere una tale sfida. L’essere umano, a seconda dell’età e delle circostanze, tende a conservare la sua vita, a preservare la sua specie, a vivere insieme agli altri e a conoscere la verità, ma l’esperienza fondamentale del dono ci rivela che la realizzazione di queste tendenze è possibile solo attraverso il dono e, di conseguenza, inscindibile e dipendente da un agire di dono. Riconoscere il dono come principio dell’agire morale è appunto riconoscerlo non solo come origine e fine dell’essere umano, ma anche come l’istanza unificatrice ed universale degli atti umani e, quindi, come la norma per eccellenza che orienta l’uomo sulla via di una vita moralmente buona, in cui si cerca di rispettare l’essere umano nella sua identità di essere-dono, considerando la sua alterità secondo la logica del dono e, nello spirito d’amore. Conclusione Se il dono ci permette di spiegare l’agire morale nella sua fonte, norma e finalità, allora esso si rivela anche come principio della teologia morale che possiamo comprendere come una scienza teologica che riflette sull’agire umano alla luce della rivelazione divina dell’amore e dell’esperienza umana del dono. Comprendere così la teologia morale con la chiave del dono permette di riaffermare, di fronte al relativismo etico, l’esistenza di una etica universale fondata sul dono. Il concetto di dono, che trascende ogni cultura, giustifica non solo l’universalità della teologia morale, ma anche la sua specificità teologica, che consiste nell’accogliere e nell’interrogare la rivelazione divina per poter rispondere all’uomo sempre in cerca delle ragioni 34 Cfr. MATTHEEUWS A., Amarsi per donarsi, pp. 281-292. 326 ARISTIDE GNADA del suo agire. “La teologia morale è una riflessione che riguarda la moralità, ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini”35. Con il dono, la morale è unitariamente radicata nell’antropologia e nella teologia, perché si tratta di un concetto che assicura il legame tra l’ethos, l’antropologico e il teologico, per cui riconoscere nella verità del dono il principio fondante, normativo ed orientativo della teologia morale può aiutare per giungere ad un discorso morale molto più razionale e forse più accettabile per l’uomo contemporaneo. La categoria del dono apre la porta ad una vera argomentazione teologico-morale, non solo perché traduce la connessione tra verità morale e verità ontologica dell’uomo, ma anche perché esprime con chiarezza il modo di realizzare il precetto fondamentale della legge morale naturale: fare il bene ed evitare il male, donando. Nella prospettiva dell’etica universale e nella stretta fedeltà all’etica cristiana, che è essenzialmente una etica d’amore, il dono non solo può servire da criterio per un discorso teologico-morale, ma anche aiutare il teologo moralista “ad abbandonare il quadro troppo arido, perfino troppo rigido, del dovere e dell’obbligo, per fissarsi nelle leggi del perdono e della carità”36. La logica del dono come principio dell’agire morale è quella di instaurare la promozione integrale dell’essere umano nella sua identità ed alterità di essere-dono. L’uomo, però, la cui libertà ontologica suppone, a seconda dell’età e delle circostanze, la libertà di scelta e d’azione, può confermare o infirmare questa logica. Tuttavia se accade all’uomo d’infirmare questa logica, agendo nel senso contrario del dono o contrariando il dono, se dunque gli accade di agire in modo alogico, non si può più parlare del bene morale, ma del male morale con le sue conseguenze non soltanto sulla vittima ma anche sullo stesso autore. Infatti, in ogni azione contro la logica del dono si ne- 35 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa (6 agosto 1993), n. 29, in http://www.vatican.va. 36 Cfr. MATTHEEUWS A., Amarsi per donarsi, p. 11. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 327 ga l’infinita alterità dell’altro, pur ferendo la propria dignità come essere di dono37. Tuttavia il dono, nella sua solidità e sicurezza, ci ricorda che, con il perdono, è sempre possibile ristabilire ciò che è stato negato e ferito. Perdonare, cioè rinunciare a punire una mancanza o a vendicarsi di una offesa, non serbare rancore verso qualcuno per la sua cattiveria, è manifestare la sopravvivenza della propria alterità infinita e, contemporaneamente, affermare la dignità dell’altro al di là del suo atteggiamento di violenza o d’indifferenza. Il dono mostra la sua onnipotenza, vittoria e sovrabbondanza attraverso colui in cui è stato negato sia nella violenza che nell’indifferenza, facendo di lui un donatore: una persona che perdona, e attraverso colui che ha negato facendo di lui un donatario: una persona perdonata. 37 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale (20 luglio 1983), n. 3, in http://www.vatican.va: “Il male morale è precisamente il male” dell’uomo come tale; il bene morale è il bene” dell’uomo come tale”. 328 ARISTIDE GNADA SUMMARIES What is the principle, that is the origin, norm and purpose of moral action? In light of a gift like the fundamental experience of the human person, the moral life can be understood as “the giving of oneself to the other” in analogy with the divine self-giving to humanity and it is the same gift as that principle of moral action. Moral action, identifies itself with the gift in its twofold form, ontic and educational, rooting itself in the ontological gift, or of the being given to oneself, whose origin is God-Love. In its conceptual and formal reality, the gift reveals itself as an ethical norm that orientates man in his action and expresses the fundamental precept of the natural moral law: giving, while doing good and avoiding evil. The gift, as well as that which is communicated, is presented as an anthropological and theological truth that gives sense to the actions of man called to realize himself according to his own gifted being. The gift, because it explains moral action in its source, norm and purpose, can serve as a criterion for a theological-moral dialogue within the perspective of universal ethics and in strict fidelity to Christian ethics, which is essentially an ethics of love based on the example of Jesus Christ and in the image of the One and Triune God. *** ¿Cuál es el principio, o sea el origen, la norma y la finalidad del obrar moral? A la luz del don como experiencia fundamental de la persona humana, la vida moral puede ser comprendida como un donarse al otro en analogía con el donarse divino a la humanidad y el don mismo como aquel principio del obrar moral. El obrar moral, que se identifica con el don en su doble forma ontica y educativa, se funda en el don ontológico, o del ser que se dona a sí mismo, cuyo origen es Dios-Amor. Desde su realidad conceptual y formal, el don se revela como una norma ética que orienta al hombre en su obrar y expresa el precepto fundamental de la ley moral natural: hacer el bien y evitar el mal, donando. El don, en cuanto bien que se comunica, se presenta como una realidad antropológica y teológica que da sentido al obrar del hombre llamado a realizarse según su propio ser como don. El don, en la medida que explica el obrar moral en su origen, norma y finalidad, puede servir de criterio para un discurso teológico-moral en la perspectiva de la ética universal y en estrecha fidelidad a la ética cristiana, que es esencialmente una ética del amor basada en el ejemplo de Jesucristo a imagen del Dios Uno y Trino. IL DONO COME PRINCIPIO DELL’AGIRE MORALE 329 *** Quale è il principio, cioè l’origine, la norma e la finalità dell’agire morale? Alla luce del dono come esperienza fondamentale della persona umana, la vita morale può essere compresa come un donarsi all’altro in analogia con il donarsi divino all’umanità e il dono stesso come quel principio dell’agire morale. L’agire morale, che si identifica con il dono nella sua duplice forma ontica ed educativa, si radica nel dono ontologico, o dell’essere donato a se stesso, la cui origine è Dio-Amore. Nella sua realtà concettuale e formale, il dono si rivela come una norma etica che orienta l’uomo nel suo agire ed esprime il precetto fondamentale della legge morale naturale: fare il bene ed evitare il male, donando. Il dono, in quanto bene che si comunica, si presenta come una realtà antropologica e teologica che dà senso all’agire dell’uomo chiamato a realizzarsi secondo il proprio essere di dono. Il dono, poiché spiega l’agire morale nella sua fonte, norma e finalità, può servire da criterio per un discorso teologico-morale nella prospettiva dell’etica universale e nella stretta fedeltà all’etica cristiana, che è essenzialmente una etica d’amore sull’esempio di Gesù Cristo e ad immagine di Dio Uno e Trino. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO Alcuni ipotetici percorsi Serafino Fiore, C.Ss.R.* Ci sono espressioni che s’impongono all’attenzione pubblica, fino a diventare un refrain per un certo tempo, salvo poi finire nel dimenticatoio. O ripresentarsi di tanto in tanto, giusto per assicurarci di non essere scomparse del tutto. “Ritrovare le proprie radici”, “riscoprire una carica profetica”, “incarnarsi tra i poveri”, “priorità pastorali”, “rileggere il carisma”, “rifondarsi”, e – più recentemente – “ristrutturarsi” sono esempi che potremmo citare, per limitarci al solo ambito della vita consacrata. Ma il ricorso allo slogan affiora anche in un orizzonte di Chiesa più ampio: si pensi all’uso spesso disinvolto che si fa dei “nuovi areopaghi per la missione” e al “Duc in altum!” di Giovanni Paolo II, o all’“atrio dei gentili” caro a Benedetto XVI. Tra queste e altre espressioni, “nuova evangelizzazione” è quella che le ingloba tutte. Sia perché è ottimo contenitore in cui deporre ogni conato di adattamento ad un mondo troppo sfuggente, sia perché meno di altre accusa il peso degli anni: se fu Giovanni Paolo II a renderla celebre negli anni ‘80, solo recentemente – per la cronaca il 28 giugno 2010 – è stato costituito il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. Va da sé che di questo dicastero non si sa molto, se non che ha “il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di ‘eclissi del senso * The author is the former Vicar General of the Redemptorist Congregation. * El autor fue Vicario General de la Congregación Redentorista. StMor 48/2 (2010) 331-348 332 SERAFINO FIORE di Dio’, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo”1. Certo questo neonato organismo non potrà prescindere da alcune indicazioni di principio fatte proprie dal magistero: che cioè la nuova evangelizzazione sia “nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nella sua espressione”2. Né potrà ignorare le magnifiche esperienze e metodologie già esperite in questi anni3. Resta la coscienza di una sfida immane. Se si guardasse al mondo come da un satellite, ci sarebbe da avvilirsi, vedendo terre ancora non raggiunte dal vangelo, altre sempre più secolarizzate, per finire alle religioni con cui il dialogo si rivela faticoso. Il bisogno d’indicazioni magisteriali concrete ed organiche si impone. E sin da ora si sa che esse non saranno “la” soluzione, se mancherà un coinvolgimento ecclesiale da parte di tutti coloro che hanno a cuore il vangelo. Se una nuova evangelizzazione ci sarà, essa sarà il risultato di un effettivo “scendere in campo” di operatori pastorali, teologi, moralisti, vescovi, che decidano di studiare, sperimentare, verificare, proporre e riproporre nuovi sentieri. Queste pagine hanno una ragion d’essere solo in questa prospettiva, all’interno di quel gigantesco “laboratorio della fede”4 – ecco un’altra espressione fortunata degli ultimi anni – che non dovrebbe 1 BENEDETTO XVI, Omelia del 28 giugno 2010. GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Assemblea del Celam, Port-au-Prince (Haiti), 9 marzo 1983. 3 Non rientra assolutamente tra i nostri obiettivi un censimento dei tanti tentativi già sperimentati. Ma non si può dimenticare la Scuola di evangelizzazione di sant’Andrea, i Gruppi Alpha, l’intento di annunciare il vangelo attraverso l’arte, la musica, lo spettacolo, il moltiplicarsi di radio e TV di carattere religioso, i consistenti passi fatti nel cammino ecumenico, i sempre più numerosi “testimoni digitali” (siti internet a carattere religioso), le “Sentinelle del mattino”, i Festival biblici, la “Chiesa gonfiabile” (missione giovanile sui litorali) ecc. Penso infine al mondo della pastorale giovanile e dei ragazzi, dove gli animatori si distinguono per creatività e inventività, oltre che per gratuità, in un lavoro che apparentemente non dà risultati immediati. 4 GIOVANNI PAOLO II, XV Giornata Mondiale della Gioventù. Veglia di preghiera, Tor Vergata, sabato 19 agosto 2000. 2 PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 333 ridursi ad un cammino ecclesiale particolare, ma diventare un modo di pensare oggi la pastorale. Oltretutto non pretendo di affrontare qui il vasto ambito della nuova evangelizzazione. Più sommessamente parlo di modo nuovo di predicare il vangelo5: un’espressione che evidenzia una serie di attenzioni pastorali, incluso il modo di porsi del pastore e di una comunità, piuttosto che un progetto ad ampio respiro, che solo il magistero potrà organizzare. Le stesse proposte operative accennate in seguito non pretendono di essere inedite. Forse il nuovo andrebbe cercato proprio nel fatto di metterle in atto e sperimentarle. La teologia morale non può che trarre giovamento da una pastorale rinnovata, capace di mettere in discussione i suoi metodi e di porsi in ascolto del grido di salvezza che continua a provenire dal mondo. 1. Uno sguardo di fiducia Anche ai nostri giorni, decisivo per l’approccio alla realtà ecclesiale è il modo con cui la guardiamo. “Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce” (Mt 6, 22). Vediamo, e rischiamo di smarrirci. Nella rivelazione, nostra prima fonte di luce, fatichiamo a individuare una situazione analoga alla nostra. La Bibbia non ci dà punti di riferimento: oggi non viviamo in esilio, né all’ombra del Tempio, né attendiamo un messia. Se i profeti sembrano latitare, pare che a 5 Nella storia dei Missionari Redentoristi questa espressione è diventata famosa perché adottata da san Clemente Maria Hofbauer (1751-1820): nel modo nuovo di predicare il vangelo egli ravvisava un’urgenza di fronte alle sfide del giuseppinismo, alle derive dell’illuminismo e alle politiche di soppressione vigenti in Europa. Ultimamente tale espressione è stata ripresa e adottata come tema del sessennio per i Redentoristi dal loro XXIV Capitolo Generale (ottobre-novembre 2009). Ma evidentemente è una preoccupazione dei nostri giorni, se Benedetto XVI vi ha fatto cenno in varie occasioni, ad esempio rivolgendosi al Capitolo Generale dei Rogazionisti (“La grande sfida dell’inculturazione vi chiede oggi di annunciare la Buona Novella con linguaggi e modi comprensibili agli uomini del nostro tempo, coinvolti in processi sociali e culturali in rapida trasformazione”, vd. Osservatore Romano 8 luglio 2010, 7). 334 SERAFINO FIORE molti vada bene anche così, in linea con la rassegnata constatazione del salmista: “non vediamo più le nostre insegne, non ci sono più profeti, e tra di noi nessuno sa fino a quando” (Sal 73, 9). Non mancano sensazioni di diaspora e di esilio, ma quelle più gravi sono dentro di noi. L’invio missionario, a cominciare da quello ad gentes, sembra sospeso nell’aria, in attesa di chi se ne faccia carico. Altro rischio è lo scoraggiamento. Basta che i nostri occhi si soffermino su certe impietose statistiche, sull’esigua percentuale dei partecipanti alle liturgie, sul galoppante analfabetismo religioso, sulle attitudini sempre più secolarizzate con cui si discute della vita e si affronta la morte. O, se si preferisce, sulla distanza che separa le concrete e quotidiane scelte etiche dei credenti dalle norme morali dettate dal magistero. Simbolo pur non esaustivo del malessere della missione, di fronte al mondo d’oggi, può essere ritenuta la città, con tutto ciò che essa significa e comporta, a partire dalla “sindrome di Giona”, che fece preferire all’inviato di Dio le turbolenze del mare alle insidie di Ninive. Furono le città – a partire da Gerusalemme e Antiochia – i primi snodi dell’evangelizzazione. Sono le città oggi, ad ogni latitudine, il grande punto di domanda per il futuro del cristianesimo: quelle dei paesi più poveri le cui periferie sono erose dall’invasione di nuovi movimenti religiosi, e quelle del primo mondo dove Dio sembra il grande assente. Se tutto questo può indurre al pessimismo, va detto anche che il nostro occhio può spaziare altrove: ad esempio sul misterioso, lento ma evidente avanzare del Regno, in questi pur contraddittori versanti dei nostri giorni. Forse la nostra interpretazione della storia sarà meno catastrofica se penseremo – come ci invita a fare la liturgia – ai miliardi di persone come a esseri “di cui solo Dio conosce la fede”6. Fuor di metafora: le nostre chiese sono meno frequentate che nel passato, ma nel frattempo il seme del vangelo ha prodotto vita dove non ce n’era. Negli ultimi secoli, proprio le guerre e le devastazioni di ogni genere hanno portato quel grano a marcire e germogliare. Oggi 6 Preghiera eucaristica IV. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 335 l’umanità si pensa come “corpo unico”, alla ricerca non solo di benessere, ma anche di pace, di libertà, di solidarietà, di servizio. La salvaguardia del creato e la giustizia, la sacralità della vita adulta e la diffidenza verso corruzione e dittatura diventano motivi per cui lottare e militare. La FAO, stando ai dati di settembre 2010, ci informa che per la prima volta in quindici anni la popolazione di chi soffre la fame è scesa al di sotto del miliardo (attestandosi sui 925 milioni), pur rimanendo il loro numero “inaccettabilmente alto”. E se la fede è corrosa dal di dentro da una serie infinita di “ismi” – dal relativismo al soggettivismo – essa rimane pur sempre, per i più, luogo di domanda e di ricerca. Di autenticità e d’investimento di energia, se non di verità. Lo stesso confronto con altre religioni, in qualche modo imposto dai movimenti di popoli, chiama in causa una geografia della salvezza – tutta ancora da decifrare – prima che il riferimento acritico ad una storia della salvezza. Il convivere fianco a fianco di tradizioni diverse consolida il denominatore comune che soggiace a tutte le religioni: “il principio che l’uomo non è Dio e che, al contrario, solo nella relazione con l’assoluto egli può definire la sua esistenza”7. Sempre più ci si rende conto che “Il tentativo di emarginazione del fatto religioso alla sola sfera privata, a cui oggi si assiste, non aiuta nella costruzione di un’umanità adulta e consapevole delle proprie responsabilità”8. Da parte sua, nonostante mille fatiche e incidenti di percorso, la Chiesa vede in modo sempre più chiaro lo specifico della sua missione, dove niente e nessuno può prendere il suo posto: quello di ridare un’anima a questa società, altrimenti destinata all’involuzione verso abbrutimento e solitudine. Uno sguardo fiducioso e chiaro sulla storia non attutisce la gravità della sfida, anzi aiuta a coglierla meglio, con l’immane lavoro che rimane da fare per rispondervi. Intanto percepisce meglio certi errori di partenza: ad esempio quello di far consistere l’evangelizzazione in un indottrinamento, quando in gioco c’è una posta ben più alta, la digni- 7 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, citato da R. FISICHELLA, La responsabilità dei credenti in un mondo sempre più umano, in StMor, 41/1 (2003) 18. 8 Ibidem. 336 SERAFINO FIORE tà dell’uomo e quel salto di qualità che coincide con la redenzione. Altro errore può essere ridurre il vangelo ad una serie di valori, su cui tutti sono d’accordo, mettendo “sotto il moggio” (Mt 5, 15) il potere sovversivo della fede che Cristo ha descritto come luce, linfa, sale. La fede. Ecco la prima di tutte le sfide. Un obiettivo esigente e difficile, se con essa intendiamo non semplicemente una “visione della vita”, ma affidamento senza calcolo, gratuito abbandono a Dio, roccia su cui costruire e lievito dell’esistenza. E pur tuttavia un orizzonte che interpella tutti, credenti e non credenti. I primi, perché riconoscano Cristo dove abitualmente non lo colgono: nelle cose, negli eventi, in ogni palpito di vita, nel vagito del lattante e nel sospiro del moribondo, lì dove la persona vive e prega. I secondi, perché intuiscano che Cristo dà e non toglie, libera e non obbliga. Fu forse presagendo la terribile complessità di questa fede, che il Cristo dovette esporsi al dubbio: “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). È comunque dell’esperienza di fede, della sua bellezza e del suo potere di avvincere e illuminare, che ha bisogno molta parte della pastorale di oggi. Devitalizzata di questa forza, la Chiesa, locale o universale che sia, diventa mera distribuzione di servizi. E il prete un funzionario qualunque, fosse pure “di Dio” (E. Drewermann). 2. In dialogo con la laicità Se in gioco c’è la salvezza dell’uomo ancor prima che l’alfabetizzazione religiosa, un modo nuovo di predicare il vangelo non può che partire da un ascolto ampio e sereno del mondo laico. Ancor prima: un investimento di attenzione va fatto per la disamina umile e indifesa dello stesso anticlericalismo, nelle cui critiche – pur a volte velenose e ottuse – c’è sempre qualche lezione da cogliere, un motivo di ravvedimento per gerarchia e semplici credenti. E poi il dialogo. C’è da sviluppare un sesto senso, alla ricerca di persone, intellettualmente oneste, che – a prescindere da appartenenze e riti – abbiano a cuore il nocciolo del vangelo, che è comunque “buona notizia” sul vivere. Persone rispettose del sacro e ancor PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 337 prima del mistero di cui è impregnata l’esistenza. Persone che ammettano la centralità della questione “senso”, e che rispettino chi è arrivato a percepirvi una risposta, pur non essendoci pervenute esse. Per Albert Camus esisteva un unico problema: se si potesse essere santi senza Dio. E non riusciva a darsi una risposta, avendo intuito il salto di qualità rappresentato dalla fede. E Norberto Bobbio era costretto a malincuore ad ammettere la necessità della religione, “a meno che non esista un’altra forza capace di toccare le motivazioni interiori all’azione”9. Laici di questo tipo incarnano un fermento che lievita nel nostro mondo, rimandano a persone con cui poter dialogare, e che purtroppo vengono abitualmente escluse dalle nostre attenzioni. Un dialogo simile è chiamato a diventare prassi e non eccezione, modo d’essere e non concessione, perché dall’una e dall’altra parte c’è da buttare manciate di terra per colmare un baratro secolare. Se infatti la storia della Chiesa è stata spesso attraversata dalla tentazione di parlare di Dio mettendo tra parentesi l’uomo, da più di un secolo c’è la tendenza opposta, quella di parlare dell’uomo relegando Dio tra le anticaglie. Da entrambe le sponde bisogna superare la tentazione della barricata, programmare incontri, al cui centro d’attenzione siano posti gli interrogativi essenziali: cosa fondi la dignità della persona, cosa sia la vita e la morte, cosa il bene e cosa il male, la posta in gioco della libertà. 3. La proposta del Redentore Uno stile di dialogo sereno e costante col mondo laico può meglio mettere in luce lo specifico cristiano: la salutare tensione tra Regno e Chiesa, tra “già” e “non ancora”, il significato – unico tra tutte le religioni – dell’incarnazione e della pasqua, il fascino discreto del vangelo, il significato eucaristico della vita messo a confronto con la manipolazione tecnologica. 9 Cit. da V. PAGLIA – F. SCAGLIA, In cerca dell’anima, Piemme, Milano 2010, 175. 338 SERAFINO FIORE Ma la proposta di tutto questo va fatta sommessamente, “con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza” (1Pt 3, 15-16): attitudini che non sono semplice soluzione di cortesia, ma perpetuazione della logica del vangelo. Collocandosi nello strato di fermentazione continua tra mondo e Regno, il credente non solo si sintonizza con ogni uomo e donna di buona volontà, ma allena il suo occhio a percepire ciò che veramente conta: la rivelazione progressiva della persona e della sua libertà, l’impegno a lottare con gli altri per la giustizia e la condivisione. Lo specifico cristiano viene fuori innanzitutto nella relazione vitale col Cristo. E se in teoria questa è fuori discussione, nella pratica ecclesiale bisogna inventare e soprattutto praticare percorsi che rendano vitale quella relazione, a disposizione di tutti e non solo di una certa élite, che si tratti di gruppi o di movimenti. La liturgia è e deve continuare ad essere la “palestra” comune, ma a quasi cinquanta anni dalla Sacrosanctum Concilium sembra che molta creatività attenda ancora di essere messa in opera. A sua volta la frequentazione abituale del “pensiero di Cristo” (1Cor 2, 16) – e solo essa – permette di cogliere meglio le manifestazioni del male, che continuano ad essere inquietanti e pervasive. Essa rende possibile la parresìa, prima condizione di una profezia che sembra latitare in tanti ambiti di vita, a tutte le latitudini. Se una nuova evangelizzazione ci sarà, non potrà mettere tra parentesi questo impegno: che comincia dallo studiare i mille meccanismi della manipolazione mass mediatica, dallo stanare il virus che alligna nella corruzione a tutti i livelli, non solo politico. Essa dovrà rimettere al centro dell’attenzione globale il problema dei poveri, e con essi il baratro sempre più profondo che li separa dai ricchi. Dovrà ridestare in modo sistematico e diffuso la coscienza che sopravvive a tutti gli 11 settembre della storia, dimenticandone puntualmente le lezioni. In questo senso, niente e nessuno come la Chiesa cattolica ha delle chance da giocarsi. Proprio in quanto “segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano”10, essa dovrebbe navigare in acque ad essa congeniali, in un tempo in cui le nazioni si ritrovano vicine, come 10 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Lumen gentium, 1. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 339 mai prima nella storia, e scoprono il loro destino strettamente connesso con quello delle altre. Per di più quando ci si accorge che “lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia”11. 4. Accompagnare alla vita piena C’è una sorta d’interferenza che vanifica dall’inizio un discorso sul credere: “oggi molti ritengono che la fede non sia necessaria per vivere bene”12. Un rimedio può essere, ancor prima di educare la fede, quello di suscitarla. “Con il primo annuncio dobbiamo far ardere il cuore delle persone, confidando nella potenza del vangelo, che chiama ogni uomo alla conversione e ne accompagna tutte le fasi della vita”13. Ma perché questo accada, i nostri tempi chiedono a tutti, studiosi e operatori pastorali, una conversione mentale tuttora in fieri, di cui a volte si sperimenta difficoltà e lentezza, con gravi ripercussioni sul più ampio processo di nuova evangelizzazione. Si tratta di passare dall’oggetto al soggetto. C’è da trovare la chiave d’accesso a quel “soggetto” che è – da almeno tre secoli ma in modo più parossistico ai nostri tempi – metro e in qualche modo condizione della realtà, nostro malgrado, ovviamente: quel soggetto oggi così arroccato sulle sue posizioni da rivelarsi in qualche modo inattaccabile, pur dalla indiscutibile “potenza del vangelo”. Ci sono ancora incalcolabili conseguenze da ricavare, dall’assioma per cui l’uomo è “via della Chiesa” 14. Ed è tutto da dimostrare, rapportandolo alle mutate esigenze dei tempi, l’altro principio per cui la Chiesa è “esperta in umanità”15. 11 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, 53. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Annuncio e catechesi per la vita cristiana. Lettera alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel quarantesimo del Documento di base “Il rinnovamento della catechesi”, 2010, 10. 13 Ibidem. 14 GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, 14. 15 PAOLO VI, Discorso all’ONU, 4.10.1965. 12 340 SERAFINO FIORE A chi “pretende” di annunciare il vangelo oggi, tocca entrare – al pari di una sonda diagnostica – nel corpo e nell’anima dell’uomo e della donna contemporanei, e osservare: innanzitutto, cercare di capire come per nulla sia facile credere, oggi meno che mai, molto meno scontato di quanto si dia a millantare. Soprattutto se s’intende per fede un cammino che duri una vita, chiamato ad attraversare i deserti dell’assenza di Dio e le svolte rappresentate dalle diverse fasi esistenziali. Non è facile credere, in un mondo dove la popolazione mondiale che vive in città ha superato quella delle campagne, dove la selva di cemento e di vetrine soffoca sul nascere uno dei primi atti di fede, quello che scaturisce dall’elevare la mente a Dio guardando le stelle o ascoltando il gorgoglio di un torrente. Bisogna almeno intuire cosa finisca con l’iniettare nella vita della gente – pari a un’immensa flebo – la serie incalcolabile di ore trascorse di fronte alla TV16. C’è da immedesimarsi in un soggetto preda di condizionamenti massmediatici, di cui egli stesso fatica a rendersi conto. Soprattutto ai nostri giorni, il clima dominante è quello dell’assenza di certezze, dove il soggetto è “trascinato da un assurdo caratterizzato più dalla moltiplicazione dei sensi che dal non senso”17. Tutto questo lo si sa, e da tempo, ma il saperlo non ha aiutato finora a maturare conseguenze sulla prassi pastorale. Il primo passo dovrebbe essere fare del soggetto una risorsa, e non una palla al piede di chi annuncia il vangelo. La diffidenza dell’uomo e della donna di oggi verso il “no”, più o meno moralistico, verso un divieto scritto sulla pietra e non sintonizzato col cuore, ha solide motivazioni bibliche, e d’altra parte è stata all’origine del crollo delle ideologie. C’è da partire dalla vita, da ciò che la rende bella: amare ed essere amati, il desiderio di un figlio e lo stupore che assale di fronte alla natura, l’estasi dell’innamoramento, la grazia di poter respirare e il sapore della buona tavola condivisa con gli amici più cari. C’è da 16 In effetti un calcolo è stato fatto, pare che al raggiungere vent’anni un giovane abbia già assorbito in media 20.000 ore di TV. Cfr. AA.VV. La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della CEI, Laterza 2009, 169. 17 E. BIANCHI, Lettere ad un amico sulla vita spirituale, Qiqajon, Magnano 2010, 20. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 341 guardare anche – proprio per essere fedeli al soggetto – a ciò che più da vicino minaccia la bellezza dell’esistere: l’egoismo che si cela dietro l’amore, le paure connesse al compito educativo, lo spauracchio del non senso di fronte alla morte, l’agguato subdolo e tentacolare delle mille droghe quotidiane18. Il semplice tentativo di entrare nel corpo e nell’anima di chi guarda così alla vita, ci offrirà il codice necessario per parlargli. A livello di linguaggio, ad esempio, suggerendoci di adottare quello della vita di tutti i giorni, il vocabolario delle passioni e dei sogni. Ci motiverà a preparare con cura un’omelia, non dando a questa semplicemente le briciole del proprio tempo. Ci farà imparare dai “figli di questo mondo” (Lc 16, 8) e dalla loro capacità di avvincere con la poesia, la musica classica e quella moderna, le immagini, i simboli, le emozioni. In fondo, perpetuando nel tempo il linguaggio di Gesù di Nazareth. Prendere sul serio il soggetto implica avere a cuore una fondamentale distinzione in campo morale, soprattutto a favore delle nuove generazioni. C’è una verità morale, dove il male appare evidente al soggetto stesso, che al riguardo non necessita più di tanto d’opera di convincimento, si pensi al rispetto della proprietà altrui, alla qualità delle relazioni interpersonali dentro e fuori la famiglia, al senso di verità, o alla dinamica del perdono. Ma c’è un altro ambito della stessa verità, quello dove il soggetto attende di essere accompagnato con pazienza e gradualità pedagogica, e dove suo malgrado egli non vede chiara la colpa: il campo della morale sessuale, con tutte le mistificazioni e i condizionamenti a cui è esposto, è forse il caso più 18 In questa linea si colloca il Documento di base per la catechesi in Italia (1970), 77: “chiunque voglia fare all’uomo di oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio”. Altrettanto fa la Nota della CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004), 9: “l’adulto oggi si lascia coinvolgere in un processo di formazione e in un cambiamento di vita soltanto dove si sente accolto e ascoltato negli interrogativi che toccano le strutture portanti della sua esistenza: gli affetti, il lavoro, il riposo”. Questa raccomandazione a mio parere dovrebbe inglobare anche il positivo della vita, e non solo i suoi aspetti problematici. 342 SERAFINO FIORE lampante. Ma pensiamo anche all’uso responsabile del tempo e dei talenti, alla gestione delle stagioni della vita, con il loro “prendere e lasciare”. O più in generale ai peccati di omissione. Altrettanta fantasia va messa all’opera per rispondere, oltre che alla domanda sul “cosa fare”, anche quella sul “come farlo”. Al pari della tecnologia, anche la vita spirituale e morale ha il suo know how. La tradizione cristiana ha prodotto infinite risposte a quella domanda. Quali di esse sono ancora eloquenti? Cosa può essere ripreso, cosa è superato? Anche qui, proporre e sperimentare, a costo di sbagliare, è preferibile al lasciare tutto in deposito: scelta, quest’ultima, che perpetua il gesto del servo fannullone, che per timore “fa una buca nel terreno” (Mt 25, 18.30) e nasconde quanto ricevuto. 5. Ritrovare la passione pastorale Il vangelo di Gesù Cristo non smette di essere il codice per eccellenza, allo scopo di decifrare e redimere il mondo, questo mondo. Ma la posta in gioco è riuscire a dimostrare e non dare per scontato il “di più” che solo il vangelo sa dare, a “chi vuole amare la vita e vedere giorni felici” (1Pt 3, 10). Perché questo accada, è urgente deporre ogni presupponenza clericale e ritrovare l’autentica passione per la gente, o semplicemente la più evangelica misericordia. Occorre avere a cuore una delle dimensioni costitutive della rivelazione, quella della tenerezza19, riscattandola dalla marginalità a cui la si è da sempre destinata, ritenendola una sdolcinatura dell’amore. E facendo tesoro di un rimprovero formulato dallo scrittore tedesco Heinrich Böll (1917-1985): “ciò che fino ad oggi è mancato ai messaggeri del cristianesimo di ogni provenienza è la tenerezza”20. 19 Cfr. C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza, EDB, Bologna 2005; G. MARLa civiltà della tenerezza. Nuovi stili di vita per il terzo millennio, Paoline, Milano 1997. 20 H. BÖLL, Lettera ad un giovane cattolico, La Locusta, Vicenza 19862, 54. TIRANI, PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 343 Ad essere interpellata è la vita stessa dell’operatore pastorale, in primo luogo delle cosiddette vocazioni di speciale consacrazione: presbiteri, diaconi permanenti, religiosi e religiose, missionari e membri di istituti secolari. In causa è chiamata non solo la profonda coerenza tra ciò che si predica e ciò che si vive, ma ancor più l’origine di ciò che si annuncia: c’è davvero da auspicare che esso provenga da sorgenti profonde. A titolo di esempio, la passione di un parroco per la sua gente non può avere una fonte più vigorosa di quella del suo stesso celibato. E il servizio pastorale di religiosi e religiose sarebbe, quanto meno, falso e inautentico se non scaturisse, anzi non fosse in qualche modo testato da rapporti umani profondi e veri con confratelli e consorelle; e se l’ansia missionaria non fosse accreditata dalla condivisione di beni spirituali all’interno della stessa comunità. Per gli uni e gli altri, rimane – imprescindibile quanto implacabile dal punto di vista dell’efficacia pastorale – una misura a cui tendere: quella di vivere una vita bella, radiosa, alla pari di quella di Gesù Cristo. 6. Fare delle scelte “Il divorzio mortale che è alla base della crisi del nostro tempo, è quello che separa conoscenza e amore” 21. Oggi più che mai disponiamo di strumenti per conoscere e di contenuti facilmente accessibili, ma l’amore per natura sua non segue la logica dell’accumulo. E se lo fa, cade nel circolo vizioso del consumismo erotico. O in quello dell’isolamento figlio del nihilismo, che rode come un tarlo le nuove generazioni. Fare che sia l’amore a dettare i tempi della conoscenza, e più in generale dell’agenda pastorale, significa compiere delle scelte e metterle in rigorosa gerarchia. Quell’opera di snellimento che Giovanni XXIII avviò col Concilio richiede ulteriori concretizzazioni. Gioco- 21 R. PANIKKAR, Mistica e spiritualità. Vol. 1/1: Mistica pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008, 209. 344 SERAFINO FIORE forza bisognerà rinunciare al “di più”, soprattutto a ciò che appesantisce tuttora la dimensione istituzionale della Chiesa. Se si ha a cuore l’interesse delle persone e soprattutto delle giovani generazioni, si farà un taglio anche su qualche pratica di pietà portata avanti per accontentare le pie donne, e si “inventerà” qualche strategia per chi non ha avuto la buona sorte di nascere in un contesto tradizionale più immune da dubbi. E il taglio si farà non perché le pratiche di pietà siano indegne di essere portate avanti, ma semplicemente perché la “rigorosa gerarchia” di cui sopra non sempre permette di fare tutto. Lo stesso interesse delle persone e delle giovani generazioni, sempre nella linea del citato “snellimento”, richiede fantasia anche nel progettare un servizio: ad esempio bypassando i confini della propria parrocchia, se le proprie risorse non bastano, e cercando sinergia con quelle vicine, pur di offrire uno standard almeno accettabile. Si pensi a esperienze di volontariato, a laboratori di fede e di preghiera, a centri di accoglienza. L’accoglienza è un’altra scelta obbligata per le nostre Chiese, intendendo con essa uno stile di vita, e non una delega fatta al classico “comitato”. Forse non tutti si sentono chiamati in causa da una sorta di delusione sperimentata al riguardo dai Vescovi italiani, a quaranta anni dal Documento di base per la Catechesi22. Rimane pur tuttavia un’opzione di fondo di cui tener conto: “è necessario educare la coscienza missionaria della comunità tutta intera, stimolandola a diventare attraente, accogliente, educante: una comunità che accoglie le persone come sono e fa vivere esperienze significative di vita cristiana: una comunità in cui i praticanti accostano gli indifferenti e i non credenti, stabiliscono con loro rapporti di amicizia e narrano la propria esperienza di fede, sull’esempio di quanto proposto nella Lettera ai cercatori di Dio”23. 22 “La fondamentale indicazione pastorale sul ruolo e coinvolgimento della Chiesa locale nei confronti della catechesi sembra non sia stata recepita dalle nostre comunità”: CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Annuncio e catechesi per la vita cristiana. Lettera alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel quarantesimo del Documento di base Il rinnovamento della catechesi, 2010, 12. 23 Ibidem. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 345 Creatività e fantasia aiuteranno a inventare qualcosa per chi è totalmente a digiuno, suo malgrado, in materia di fede. Mi sembra pertinente un’osservazione fatta a proposito di quella che in Italia è stata chiamata “la prima generazione incredula”: “se oggi entrasse in una delle parrocchie d’Italia una persona qualsiasi che non sapesse che cosa è la fede, non troverebbe alcuno spazio ove elaborare e auspicabilmente superare tale ignoranza. Se vi entrasse una persona qualsiasi che non sapesse cosa è pregare, difficilmente troverebbe qualcuno disposto a insegnargli come si prega”24. Altrettanta creatività va impiegata per riprendere tra le mani la Parola, cercare forme nuove di pregarla e di conoscerla. Dopo i decenni in cui l’esperienza della Lectio contagiò diocesi e gruppi ecclesiali, oggi si assiste ad una fase di stanca che sarebbe bene sottoporre a verifica: e cercare di superare. In ogni caso, ancor prima di esperire soluzioni concrete, è decisivo porsi il problema, quello di “annunciare il vangelo in modo nuovo”. Una mente creativa che si ponga la questione non mancherà di idee se vorrà rispondere alla sfida, idee che si possono pescare a piene mani anche tra quei semina Verbi, che Dio si è divertito a spargere qui e là, in culture e religioni altre, a cominciare da quel Gn%qi seautón che marcava il tempio dell’oracolo di Delfi, per finire a tecniche di controllo di pensiero e respiro, di consapevolezza personale e di presenza al proprio corpo, metodologie che pure sono propedeutiche alla preghiera cristiana e allo stesso Cristo. Altrettanto si dica di una saggia valorizzazione del linguaggio dei simboli, e più specificamente di rituali non liturgici, sia nell’annuncio del vangelo che nella vita cristiana in genere 25. Per non dimenticare un più serio investimento da fare per il sacramento della penitenza, che per molti oggi è l’unico, vero momento di spiritualità, se con esso si intende l’opportunità di rientrare in sé, riflettere sulla propria vita, e pregarla. E l’investimento andrebbe fatto sia assicurando un’effettiva presenza nel confessionale, 24 A. MATTEO, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, 34. 25 Cfr. A. GRÜN, Cinquanta rituali per la vita, Queriniana, Brescia 2010. 346 SERAFINO FIORE sia facendo che il sacramento sia vera celebrazione della misericordia di Dio in Gesù Cristo. Ancora una volta, se si assume come criterio di lettura del vangelo la tenerezza che ha portato Dio alla kénosis estrema del Figlio, non sarà un senso positivo del ministero a mancare, né il lavoro. E se il rifiuto altrui costringerà a scuotere la polvere dai propri piedi (Mt 10, 14), avremo sempre con noi i poveri (Gv 12, 8). Saranno loro i sempiterni “fuori schema”, non allineati, si chiamino ROM, anziani soli, malati gravi, i “senza speranza”. Se tanta creatività e tanto lavoro sono richiesti da parte dell’operatore pastorale, è da auspicare anche uno stile di maggiore sinodalità da parte del magistero. A cominciare da una sempre più diffusa capacità di ascolto e di dialogo, che si può concretizzare in tanti modi, ad esempio con quell’“attitudine umile, sobria, disposta all’autocritica, non onnipresente, ovvero capace di valorizzare il principio di sussidiarietà nei confronti di istituzioni ecclesiali di ricerca e insegnamento morale”26. Oppure in quella consultazione delle Chiese locali che ebbe luogo nella stesura d’importanti testi del passato, come il Documento di base Il rinnovamento della catechesi in Italia, ma che non è diventata una prassi abituale in seguito27. I tanti strumenti che si hanno a disposizione per comunicare e incontrarsi, dovrebbero favorire questo stile di sinodalità, che pur deve tenere conto di una sorta di “allergia” maturata in tanti operatori pastorali al proliferare di convegni e conferenze, in questi ultimi decenni. Certamente bisognerà ritrovare un equilibrio nuovo. Bisognerà rianimarsi di entusiasmo, che è essenzialmente dono dello Spirito. 26 B. PETRÀ, Quale teologia morale per il XXI secolo?, in StMor 42/2 (2004), supplemento, 220. 27 “Nella fase della sua stesura (del Documento di base) ogni diocesi fu chiamata a esprimersi nello stile del dialogo, della ricerca e del confronto dinamico per contribuire alla ricezione condivisa dell’insegnamento del Concilio Vaticano II”: CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Annuncio e catechesi per la vita cristiana. Lettera alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel quarantesimo del Documento di base Il rinnovamento della catechesi, 2010, 1. PREDICARE IL VANGELO IN MODO NUOVO. ALCUNI IPOTETICI PERCORSI 347 SUMMARIES Moral theology is affelted, for better or for worse, by the way the Church places itself before the world, and in particular from what has been called the “new evangelization.” Pending organized and precise indications from the Magisterium on this, some hypotheses of the path to journey are proposed here, inspired above all by a “new way of preaching the gospel.” In the ecclesial reality of today, many of these ferments of pastoral innovation are already very active, and yet they have witnessed uncertainties, difficulties and no lack of contradictions. A “new way to preach the gospel,” while allowing for the gratuitousness and inefficiency of the “useless servants” (Lk 17:10), must have points of reference so that one may begin with a positive look on history and the Reign of God that is a leaven within it. It takes form in a serene dialogue with the laity, and in the love for life, that by its nature suggests a more effective language in order to communicate with the men and the women of our time. It finds its spirit in the redeeming passion, and still more in the style of tenderness incarnated in Jesus of Nazareth. It becomes a courageous and possibly creative pastoral project, in order to respond to the times and decidedly new demands. *** La teología moral se ve afectada, para bien y para mal, por la postura con la cual la Iglesia se pone frente al mundo, y en modo particular por aquella que ha sido llamada “nueva evangelización”. A la espera de indicaciones orgánicas y precisas de parte del magisterio sobre la misma, aquí se proponen algunas hipótesis, principalmente inspiradas en un “nuevo modo de predicar el evangelio”. En la realidad eclesial de hoy, se encuentran muchos de estos fermentos de novedad pastoral, pero aún hay incertidumbres, desgastes, sin que falten contradicciones. Un “nuevo modo de predicar el evangelio”, no obstante la gratuidad y la aparente ineficacia de los “siervos inútiles” (Lc 17, 10), debe tener puntos de referencia, comenzando por una mirada positiva de la historia y del reino de Dios que en ella emerge. Esto se concreta en un diálogo sereno con la laicidad, y en el amor a la vida, que por su naturaleza sugiere el lenguaje más eficaz para comunicarse con los hombres y las mujeres de nuestro tiempo. Encuentra su alma en la pasión redentora, y más aún en el estilo de ternura encarnado por Jesús de Nazaret. Llega a ser un proyecto pastoral valiente y posiblemente creativo, para responder a los nuevos tiempos y a las nuevas exigencias. 348 SERAFINO FIORE *** La teologia morale risente, nel bene e nel male, del modo di porsi della Chiesa di fronte al mondo, e in particolare di quella che è stata chiamata la “nuova evangelizzazione”. In attesa di indicazioni organiche e precise da parte del magistero su di essa, qui vengono proposte alcune ipotesi di percorso, ispirate soprattutto a un “modo nuovo di predicare il vangelo”. Nella realtà ecclesiale di oggi sono già attivi molti di questi fermenti di novità pastorale, e pur tuttavia si assiste a incertezze, fatiche, né mancano contraddizioni. Un “modo nuovo di predicare il vangelo”, pur mettendo in preventivo la gratuità e l’apparente inefficacia dei “servi inutili” (Lc 17, 10), deve avere comunque dei punti di riferimento, a cominciare da uno sguardo positivo sulla storia e sul Regno di Dio che in essa lievita. Esso prende forma in un dialogo sereno con la laicità, e nell’amore alla vita, che per sua natura suggerisce il linguaggio più efficace per comunicare con gli uomini e le donne del nostro tempo. Trova la sua anima nella passione redentrice, e ancor più nello stile di tenerezza incarnato da Gesù di Nazareth. Diventa progetto pastorale coraggioso e possibilmente creativo, per rispondere a tempi ed esigenze decisamente nuovi. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY Anthony J. Kelly, C.Ss.R.* This is a brief reflection on the resurrection of the crucified Jesus and its relation to moral theology and Christian ethics. We argue that faith in the resurrection continues to be of revolutionary significance. The more it is appreciated as the world-transforming event it is, the more evils of the world are unmasked, and the greater is the demand for a critical, hopeful praxis in confronting them. In what follows, I will present my remarks under four headings: 1) Theological Systems and Christ’s “Indefinable” Resurrection; 2)The Realism of Moral Theology; 3)The “Resurrection Effect”; 4) A Paschal Hermeneutics. 1. Theological systems and Christ’s “indefinable” resurrection It is often observed that religions are reborn with each new day. Unless there is a continuing refreshment of religious experience, any religious phenomenon would vanish from history. Needless to say, this is true of Christian faith – and of the vitality and imagination of theology, especially of moral theology in its concern to re-shape the world in accord with the Kingdom of God and the New Creation that is already begun. In some radical way, the resurrection of the Crucified One permeates the whole phenomenon of the Church – its * The author is an ordinary professor of the Australian Catholic University. * El autor es profesor ordinario en la Universidad Católica de Australia. Il presente articolo riprende la relazione svolta durante il VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale (Cadine -Trento, 21-24 luglio 2010). StMor 48/2 (2010) 349-369 350 ANTHONY J. KELLY proclamation, liturgy, sacraments, scriptures, its theologies, and its communal life and mission. Admittedly, the resurrection of the crucified Jesus is, in effect, so embedded in Christian tradition that it has never neededa “definition” in the way that the mysteries of the incarnation and the Trinity eventually needed to be defined. Even if not defined – and even if inherently “indefinable” on this side of the eschaton – the resurrection of the crucified Jesus is the transformative event affecting all Christian existence. However, theology seems to suffer a certain embarrassment compared to its assurance in regard to the supposedly meatier and more relevant doctrinal themes and moral concerns. Note that in the history of Christian doctrines, the incarnation, from the third century on, attracted a major part of the Church’s concern. The incarnation was more adaptable to systematic presentation than the resurrection – even if, for both doctrine and theology, it is only in the light of the resurrection that the incarnation is appreciated as a mystery, or encountered as a problem. Christian morality, too, finds in the life, teaching and death of Jesus a clear point of departure and ethical inspiration. The Word incarnate, God-with-us in Jesus of Nazareth (Mt 1:23) – not Christ apart from us in the resurrection – anchors theology more firmly in the world of human experience.1 Yet it is seldom stressed that the Word was made flesh, not only in being born, living, speaking and acting, suffering and dying as a human being, but also in his rising from the tomb, in his ascension to God’s right hand in heaven, in his presence in the life of the Church, and in the eschatological recapitulation of all things in him.2 1 While ascribing to a thoroughly incarnational theology in the tradition of Chalcedon, I cannot but notice that its classic Christological doctrine does not mention the resurrection. Yet the confession of the “one and the same, our Lord Jesus Christ”, acknowledged “in two natures, without confusion, change, division or separation” (DS 301), would have presented no problems and required no doctrinal definition if Jesus had not risen from the tomb. 2 In the West, at least, the piety of the faithful accorded Christmas more importance than Easter. The Word and Son of God was born of Mary two thousand years ago in the stable at Bethlehem. His rising from the tomb did not have THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 351 Decades ago, Karl Rahner lamented the dwindling theology of the resurrection.3 Before him, F-X. Durrwell expressed a similar lament over the resurrection being demoted to mostly apologetic significance.4 To a lesser extent, this is the case with N. T. Wright’s monumental study, The Resurrection of the Son of God;5 it is largely a document of historical explanation with an explicit apologetic intent. Brian Johnstone, CSsR has already pointed out the strange absence of the resurrection in moral theology and Christian ethics.6 When Paul’s speaks of the new creation and conformity to Christ crucified and risen, or when John elaborates on “the life that has been revealed” (1 Jn 1:2), it can appear that moral theology is most busy speaking of the “natural law” in a shared world in which the resurrection has made little difference. Likewise, in treatises on the sacraments, though sophisticated and helpful connections are made with the anthropology of ritual, symbols and signs, the resurrection-effect can be oddly muted. The resurrection is simply taken for granted. It the same affective impact. The resurrection was intrinsically a far more awkward consideration. It was an event of another order; and imagination, in its efforts to depict it, could easily veer in the direction of fantasy. Despite the imaginative and affective importance loaded onto the birth of Jesus in the flesh, we need to recognise that, unless Christ had been raised, Christmas would lose its significance. There would be no theology of the incarnation, and no “merry Christmas”. 3 KARL RAHNER, “Dogmatic Questions on Easter”, Theological Investigations IV, trans. Kevin Smyth, (Baltimore MD: Helicon Press, 1966), 121-133. 4 FRANÇOIS-XAVIER DURRWELL, F.-X., The Resurrection: A Biblical Study. Trans. Rosemary Sheed (London and New York: Sheed and Ward, 1960), xxiii. F. X. Durrwell’s The Resurrection appeared fifty years ago in its original French edition. It stands out as a bracing attempt to recall theology to its focal point. Yet it came, and went; possibly because it was lost in the no-man’s land of “biblical theology” – too biblical for theology, and too theological for the historicalcritical styles of exegesis that were then developing. 5 N.T. WRIGHT, The Resurrection of the Son of God (Minneapolis, MN: Fortress Press, 2003). 6 BRIAN V. JOHNSTONE, CSSR, “Transformation Ethics: The Moral Implications of the Resurrection”, in STEPHEN T. DAVIS, DANIEL KENDALL, SJ AND GERALD O’COLLINS, SJ (eds), The Resurrection. An Interdisciplinary Symposium on the Resurrection of Jesus, (New York: Oxford University Press, 1997), 339-360. 352 ANTHONY J. KELLY is not appreciated as granted, as given within the inmost dynamics of God’s self-giving love, to saturate every aspect of the life and mission of the Church. For the Church itself, there are inevitable preoccupations occasioned by defending its rights to exist, especially in non-Christian or post-Christian societies. However urgent such concerns are, the energies of the Church’s mission would be sapped if it sees itself merely as the guardian of ethical values, or as the promoter of human dignity, and, inevitably, as the defender of its own institutional freedoms and so forth. Of more radical importance is the sense of the resurrection-effect pervading every aspect of the Church’s communal life and mission.7 The resurrection sounds, perhaps, as a base chord in the larger symphonic arrangement of theology, but it is never particularly intrusive. Indeed, theology seems to observe a strange silence. When it comes to speaking of what made all the difference, it is not only the women in Mark’s Gospel who “said nothing for they were afraid” (Mk 16:8). Theologians in every age can sympathise with the quandary felt by the provincial governor, Porcius Festus, puzzled by the possible subversive effect of Paul preaching the resurrection of Jesus (Ac 25:19). Yet Paul was intimately convinced of the reality that had been revealed to him, understanding it to be central to the tradition he knew and handed on. In addressing a situation of confusion in the Christian community of Corinth, he expressed a vigorous logic: “if Christ has not been raised, your faith is futile, and you are still in your sins” (1 Cor 15:17). Paul presumes a knowledge of the life, death and words of Jesus, and even cites a saying of Jesus not recorded in the Gospels, “It is more blessed to give than to receive” (Ac 20:35). It remains, however, that the resurrection of the crucified One is for him the event that made all the difference. At this point, later theology inherits both the clarity of Paul’s conviction and the complexity he experienced in trying to communicate it. When theol- 7 See ANTHONY J. KELLY, CSSR, The Resurrection Effect: Transforming Christian Life and Thought (Maryknoll, NY: Orbis, 2008). THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 353 ogy is busy about finding a hearing in the intellectual world in which it operates, it can seem oddly mythological to speak of the resurrection in a world in which the dead do not rise. Paul knew this then, and theology knows it now. Paul’s experience of the mockery of the Areopagus when he attempted to tell his learned audience of “the good news about Jesus and the resurrection” (Ac 17:18) is nothing new. If the cross is a stumbling block to the Jews and foolishness to the Gentiles (1 Cor 1:23), to say nothing of a subversive impact on Roman imperial claims, the resurrection certainly intensifies the problem – of scandal, foolishness and suspicion of subversion. 2. The realism of Moral Theology As they explore the foundations of their discipline, moral theologians feel the force of two Pauline declarations. The first serves as an inspiration to incarnationally founded dialogue in terms of global natural law: “Whatever is true, whatever is honourable, whatever is just, whatever is pure, whatever is pleasing, whatever is commendable, if there is any excellence and if there is anything worthy of praise, think about these things” (Phil 4:8). The second quotation expresses Paul’s all-but stark insistence on the central role of Christ: “I regard everything as loss because of the surpassing value of knowing Christ Jesus my Lord. For his sake I have suffered the loss of all things, and I regard them as rubbish, in order that I might gain Christ...” (Phil 3:8). Such words might require that moral theologians discreetly shield their prospective dialogue partners of other religious or philosophical persuasions from such intense, starkly expressed, Christian conviction if any kind of conversation is to ensue. The incarnation has not ceased; it continues as an expanding event through Christ’s life, death, resurrection and ascension. How, then, does its very excess open outward to dialogue with all human beings in a global search for moral values and in hope for the transformation of our one world? Though moral theology cannot be imagined without ways of incorporating the natural law tradition, it must never allow itself to 354 ANTHONY J. KELLY presuppose an idealized, “innocent” moral situation without any acknowledgement of the evils that infect human history and affect the capacities of culture and society to promote consistently the common good. Natural law is an exalted notion, but it does not permit us to be unaware of “unnatural” laws that have structured the history of human societies. This is evident in the victimization of the other, in social dynamics of envy and in the totalitarian uses of violence. But a problem remains in the human experience of moral impotence and the spiralling frustration that results throughout history. So much of life is clearly undecided; so much sacrifice goes unrewarded; so many of the once strongly flowing currents of renewal end up in arid sands to no calculable effect. The directionless life favours a culture of being “law unto oneself ”, no matter how the suffering other or the common good might be affected. When this cultural self-understanding is bent away from the source of transcendent meaning and value, the profound existential significance of the biblical description of sin as harmartia and anomia begins to resonate loudly in our cultural consciousness. There is a twisted, self-referential, directionless impotence in the air we breathe. In that atmosphere, the uncovering of one evil occasions further evils in response – further dishonesty, vengeance, violence, and in the end, further hopelessness. Little wonder the reality of evil is trivialised: an anodyne listing of “sins” is submitted to the figure of a kindly divine judge to wipe away, so that the mercy of the Father is reduced to a tolerance of the banal naughtiness of the children. But the more we are exposed to Christ, the Light of the world, the more the driven, grotesque absurdity of the human situation stands out as that from which we need to be saved. It can happen, then, that the event that represents Christ’s victory over death, and over the evils that we have caused or suffered, is little appreciated because the energies of hope are being overwhelmed in a world groaning with menace, despair and absurdity. While current interest in a global ethic may be greeted as a secular grace in critical times, it cannot pretend that secular and dehumanizing forms of “original sin” are simplely part of our sorry inheritance. Indeed, a renewed commitment to a global ethic or to a THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 355 universal natural law seems increasingly like an expression of hope protesting against all totalitarian attempts, political, economic or cultural, to diminish the human community by undermining human rights and disregarding any transcendent values. There is a summons to move beyond forms of isolated security or short-term gain in order to develop a more inclusively moral humanity. Such a global ethic would promote co-responsibility in contesting particular cultural forms of untroubled self-love with their implicit contempt for the other. In other words, natural law does not underwrite the status quo. It is revolutionary, in its way, as it provokes an examination of the possible “new”, especially through the recognition of the hitherto disowned other, and those voices of suffering hitherto inaudible in the routine worlds of political discourse. All have suffered similar kinds of defeat, and each has felt the scandal of evil working in the history of hitherto irreconcilable conflicts. Still, out of the depths of the darkness, death and defeat, the Crucified One has risen. He is present to the Church with the words, “Do not be afraid: I am the first and the last, and the living one. I was dead, and see, I am alive forever and ever; and I have the keys of death and the underworld” (Rev 1:17-18). Does this make a difference to the way we see the world, and the way we present the Christian moral life? The New Testament does not seem to envisage a world of urbanely conducted dialogue. The figure of the enemy and the persecutor is never far away. The Gospels presume that the world that God loves, and that Christ comes to save, will be in neuralgic reaction against the Risen One who disturbs the human condition with his summons to love, to forgive, and to renounce oneself (Lk 6:2731; Jn 16:1-4). The world, even in its religions, is the milieu in which the crucified Jesus is a multi-dimensional scandal (1 Cor 1:22-25). Admittedly, Christian realism can never foreclose on the limitless range of God’s mercy, nor turn from the possibilities of reconciliation even in adverse situations, nor, for that matter, place any limits on our hope for the salvation of all (1 Tim 2:3-4). How such an eschatological hope will be realized is not given to the mortal mind or imagination to conceive (Rom 11:33-34). What must remain clear is that any Christian conception of the fulfillment of life must not give 356 ANTHONY J. KELLY way to defeat, or limit itself to the present dimensions of the “fearlocked room” in which the community of disciples gathered: the crucified and risen Jesus appears among them, and sends them forth in the power of his Spirit (Jn 20:19-23). 3. The “resurrection effect” Theology plays its part by drawing on the energies that flow from the risen Christ. Moral Theology/ Christian ethics is understandably intent on serving the cultures of humanity by elucidating universal values and ethical norms in the contemporary pluralistic world. But how does the all-transforming event of Christ’s rising from the tomb make any difference to moral discourse? Any attempt to answer that question might find unexpected resources, for instance, in St Thomas’ traditional theology of the Gifts of the Spirit. There, Aquinas allows for a certain “deconstruction” of his own systematic synthesis in the light of the economy of grace. He treats of qualities of moral consciousness when mind and heart experience a movement of God’s action taking the graced agent beyond the rational scope of human reason. True, the gifts of the Spirit are not usually connected with the moral impact of the resurrection on Christian consciousness, but it would be worth exploring how “wisdom, understanding, counsel, fortitude, knowledge, piety and fear of the Lord” can be interpreted as a register of the resurrection in human experience, or as Aquinas would say, “the resurrection of the soul”.8 Faith experiences the Spirit of God moving within a supra-rational mode of consciousness – with consequences in the moral life in terms of individual vocations, charisms, and inspired action. The gift of the Spirit does not replace the risen Christ, but rather manifests his presence and conforms the faithful to him – in whom the gifts of the Spirit are present “in the most excellent manner”.9 8 9 STh III, q. 56, a. 2. STh III, q. 7. a. 5. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 357 Aquinas’ treatment of the gifts is one indication of how the immense interconnected “system” of his theology makes way for the singularity of God’s action, either in moving Christians to act, or in raising the Crucified from the tomb. It easily happens that generalised, rationalistic abstractions push the uniqueness of the Resurrection-event out of play. And yet its effect continues – in the witness of the early disciples, in the formation of the New Testament itself, in the very existence of the Church – and in the faith, hope and love informing Christian consciousness at this moment. Christ’s rising from the dead saturates the Christian and moral life with meaning. It opens the horizon of faith in which everything – body, mind, heart, history, and the universe itself – is seen differently. How might this new awareness be articulated? The answer would need to encompass the whole of Christian experience – and that is never going to be possible. But there are some particular matters to consider. For example, there is a sense in which the secular world is showing a new, largely inexplicable moral awareness of responsibility to the victims of history. Remarking on this unprecedented contemporary phenomenon, René Girard observes, “No historical period, no society we know, has ever spoken of victims... you will not find anything anywhere that even remotely resembles our modern concern for victims... It is the secular face of Christian love”.10 Our world is giving a new hearing to voices from the underside of history, hitherto drowned out by the “success stories” of the powerful. We may lament the nihilistic relativism and moral confusions of the age, but there is obviously something else at work. And it is a powerful factor in contemporary social and political awareness. A new sense of solidarity with victims means that Christian faith in the Risen Victim precludes any retreat from the secular, public world, but calls for a more wholehearted involvement in it. It does not distract from social responsibilities, but remains the inspiration for what a socially and politically concerned morality most needs. 10 RENÉ GIRARD, I See Satan Fall Like Lightening (Maryknoll, NY: Orbis, 2001), 161. 358 ANTHONY J. KELLY All recognize that United Nations’ Universal Declaration on Human Rights (UDHR) in 1948 is among the most noble carriers of this revolutionary awareness. Recognition of the dispossession suffered by indigenous peoples in the colonial period, the claims of poor countries for cancellation of debts, and even the present awakening to ecological values, are all part of the developing picture. In the face of resistance and all manner of setbacks, especially as documented in L. C. Keith’s recent study11, somehow hidden in this new awareness is a stirring of conscience. Despite the waning of what was once termed “Christian civilisation”, there is an indication of how the paschal mystery of Christ’s death and resurrection has in fact been penetrating human history in a surprising way. In this historical field of mustard seeds, the Gospel is slowly permeating the world, sprouting even in the stony ground of the violence and selfishness inherent in any human culture. The kingdom of God does not lack its signs even though language is lacking to articulate the moral and philosophical foundation of human rights, and even if there is a strange cultural amnesia in regard to the historical sources of social meaning and values. Nonetheless, there is a hope, however inarticulate and inexpressible, that, in the end, the proud are scattered in the conceit of their hearts, the mighty are toppled from their thrones, and the lowly, from the underside of history, are lifted up (Lk 1:52-53). The situation is undoubtedly morally precariouse. For that reason it provokes in Christian believers and theologians a fresh receptiveness to the radical significance of the resurrection in human history, as the focal disclosure of the truth “that will make you free” (Jn 8:32). This is the stone rejected by the builders of fortresses designed to keep out the threatening “other”. Yet it has been made the chief corner-stone of a home open to all (1 Pt 2:4-8// Mt 21:42; Mk 12:11; Ac 4:11. Cf. Ps 117: 22). A pacific humanity is in-the-making. Paul’s words have a striking modern relevance: “Bless those who persecute you; bless and 11 L. C. KEITH, “The United Nations Covenant on Civil and Political Rights: Does it Make a Difference in Human Rights Behavior?” Journal for Peace Research 36, no. 1 (1999): 95-118. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 359 do not curse them... do not repay anyone evil for evil, but take thought for what is noble in the sight of all. If it is possible, so far as depends on you, live peaceably with all” (Rom 12:17-19; cf. 14:13). 3.1. A Refreshed Sense of the Resurrection? There is a gap between UDHR’s powerful proclamation of human rights, on the one hand, and, on the other, the responsibility of all parties to make such rights a social reality. But this is the door inviting Christian theology to enter. Jesus freely exposed himself to the violence of cultural forces in order to disrupt, once and for all, the old world order based on the victimisation of others. His resurrection is not a new thought, but an erupting and expanding event, unmasking the victimising dynamics latent in all societies, and revealing a new and final way of co-existing. It has both a disturbing and liberating effect. Those who have suffered as victims and martyrs, and those who have caused such suffering as oppressors and persecutors, are alike enfolded in the boundless compassion and forgiveness embodied in the risen One. In the self-disclosures of the risen Victim, his disciples receive their mission. They are sent out to work for transformation of the world in the light and in the power of what has already been anticipated in Christ’s rising from the dead: “As the Father sent me, so I send you” (Jn 20:21). The dynamism of this sending makes Jesus’ rising from the dead an ever-expanding event. At the origin and end of God’s saving action, the first and last word is peace and reconciliation. There is no question of an original and essential dialectic of conflict between good and evil. The “other”, however malevolent, death-dealing, indifferent – or simply “different” – is not a terminal threat to Christian integrity. All are destined to belong in Christ and to find their reconciliation in him. The “other” can never be sacrificed for the sake of “me” or “us”; for “we”, in the most comprehensive sense, belong together. The Gospel is clearly quite aware of the contrary point of view: Caiphas is prepared to sacrifice Jesus for the stability of the political and religious order (Jn 11:50), while Pilate consigns him to death for reasons of the imperial pax Romana. Political accommodations of this 360 ANTHONY J. KELLY type presume a certain conception of peace. But it is ever fragile and elusive, achievable only through calculations of a balance of power. There is, however, a basic irony in this position: for when is power ever content with a balance? Rivals must remain a threat; and if a threat, there is really no place for them in any desirable future. In the end, they do not belong with “us” in what is coming to be. In contrast, the resurrection of the crucified Jesus embodies peace as the reconciliatory event which has already occurred.12 God has acted by vindicating the Victim. For the sake of an all-inclusive salvation, Jesus had chosen the way of powerlessness, in contrast to the way of power and domination of others. In the vulnerability of love, he has surrendered to the peace that only God can give. Such love and such peace are the radical subversion of an untroubled establishment, and ever a threat to the authority in possession. The inviolable, religiously-sanctioned, social and political order thus has reason to fear. The kind of future that Jesus embodies inspires the conviction that the mighty are to be toppled from their thrones and the lowly and despised raised up (Lk 1:52-53). His rising from the tomb changed the meaning of hope. No longer could it be dismissed as a naïve and impractical longing – with him as its chief casualty. His resurrection was the ultimate vindication of his way of seeing and imagining the world. 4. A paschal hermeneutics In this perspective, the empty tomb becomes a troubling space at the heart of any “order” and “peace” founded on the domination of the poor and the powerless. The kind of politics intent merely on restoring the balance of entitlements in a radically diseased and violent world is called into question. Once the resurrection has occurred, that “world is passing away” (1 Jn 2:17). In the new aeon al- 12 See WILLIAM BOLE, DREW ANDERSON SJ, AND ROBERT HENNEMEYER, Forgiveness in International Politics (Washington, DC: United States Conference of Catholic Bishops, 2004). THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 361 ready begun, justice is newly defined through the vindication of the crucified Victim. Justice, in such a light, must become the expression of the moral imagination of love. It promotes solidarity with all victims. It realises that reconciliation of enemies is the only way forward. It dares to see forgiveness as a practical option and, indeed, the only final solution. Problems, of course, abound, but it is good that they emerge for the right reasons. The political and social seductions of the death penalty are perennial. New issues arise related to torturing enemies for the sake of national security. The conditions legitimating war in defense of national or regional interests are the subject of endless deliberation. Is there a point at which all such options appear as counsels of desperation in a world where nothing has really changed, and no real change is possible? And is that point found precisely in the resurrection of the crucified Jesus? Whatever the complexity, moral discernment recognizes in the instances just named that the judgments of prudence are questionable if they are used to guide human conduct in the world without any recognition of how God has decisively acted within it and for it. The prudence appropriate to a postresurrectional world is a practical anticipation of eschatological peace. It guides a vision of human community in which the victimisation of some is not the precondition of lasting life for others. The divinely-given victim has unmasked the assumption that making victims is the prelude to peace. His resurrection reveals the ultimate fruitfulness of sharing in his self-giving love.13 In the face of disillusionment and impotence, all the passionate energies of liberation, all the courageous critique of the way things are, do not finally rely on some mythic symbol or on an ever-deferred future. That future is already inscribed into the reality of history.14 It 13 JOHNSTONE, “Transformation Ethics”, 355, notes that for Aquinas war is treated in the context of charity, not justice! (cf. STh II-II, q. 39). 14 DENIS EDWARDS, “Resurrection and the Costs of Evolution: A Dialogue with Rahner on Non-Interventionist Theology”, Theological Studies 67 (2006): 816-833 – especially 827-833. 362 ANTHONY J. KELLY is the source of an impetus to something more, something more worthy of God’s transformative judgment on human and cosmic history. The enormous excess of evil, increasingly apparent in its global proportions, is met by another excess, that of love, stronger than any death we know. It has already raised up the Crucified, and made him the source of life to the full (Jn 10:10).15 This is to say that appealing to the “natural law” built on a communication of global moral values need not be continually mocked by the excess of evil. It is a way of hopeful moral thinking within a history in which the ultimate vindication of human values has occurred in Christ. In a singularly evocative passage, Vatican II’s Gaudium et Spes points theology in the right direction: When we have spread on earth the fruits of our nature and our enterprise – human dignity, fraternal communion, and freedom – according to the command of the Lord and in his Spirit, we will find them once again, cleansed this time from stain of sin, illuminated and transfigured, when Christ presents to his Father an eternal and universal kingdom... Here on earth the kingdom is mysteriously present; when the Lord comes, it will enter into its perfection.16 Understandably, moral theologians and Christian ethicists may well observe a certain reserve in the conduct of conversations in many areas of ethics today. But this does not mean, nor must it mean, a methodological exclusion of the significance of God’s victory over evil in raising Jesus from the tomb. At the price of its authenticity, Christian theology cannot pretend that the resurrection has not happened. A rationalistic hermeneutic of suspicion can be countered by a hermeneutic of receptivity and gratitude more typical of a phenom15 St. Thomas considers that the Risen Jesus is already the cause of our “spiritual” resurrection, even if the resurrection of our mortal bodies must wait until the end of time. See STh 3, q. 56, a. 2. 16 Gaudium et Spes, “The Pastoral Constitution on the Church in the Modern World”, par. 39, in Austin P. Flannery OP (ed.), Documents of Vatican II. New Revised Edition (Grand Rapids, Michigan: Eerdmans, 1984), 938. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 363 enological attitude. Then, things begin to look different. Open-ness to the given, thankfulness for it, participation in it – all stand in contrast to an ideological suspicion of the phenomena. The data, the “givens”, of love and life, of union with Christ in his transformed bodiliness, are a new point of departure. The intimations of wonder and astonishment in the face of the uncanny gift of existence in all its forms call forth another kind of disciplined awareness. It is not a matter of taking everything naively for granted. There is, however, a more critically nuanced receptivity appropriate to the unobjectifiable particularity of persons, things and events. It means, not taking them for granted, but as granted – as being given into consciousness in their originality.17 This disciplined receptivity is not preceded or subsumed by a prior ontology which would pretend to establish the limits of the possible. Newman, in a general remark, contrasts the phenomenon of mystery with its opposite: Instead of looking out of ourselves... throwing ourselves forward upon Him and waiting for Him, we sit at home bringing everything to ourselves... Nothing is considered to have an existence so far forth as our minds discern it... in a word, the idea of Mystery is discarded.18 As Newman saw, what is at stake is our sense of the infinite originality of the divine mystery. From one point of view, the resurrection represents the most intense point of a positive theology. From another perspective, it inspires a demanding negative theology, for the resurrection, even though it “means the world” to Christian faith, it is “out of the world” – in terms of any analogies, concepts or symbols that pretend to depict it. Positivity and negativity are inter- 17 Cf. WILLIAM DESMOND, “Is There Metaphysics after Critique?”, International Philosophical Quarterly (2004): 221-241. 18 J. H. NEWMAN, “On the Introduction of Rationalistic Principles into Revealed Religion”, Essays, Critical and Historical 1 (London: Longmans and Green, 1890, 34-35. 364 ANTHONY J. KELLY twined. Each aspect impels toward the other, and both look beyond themselves to the singularity of the resurrection-phenomenon itself. Aquinas, for all his systematic coherence and precision of expression, suggests the indefinable character of the resurrection in what reads as a disconcertingly modest and open-ended description: “Christ in his rising has not returned to life as it is perceived in common human experience, but to a kind of deathless life which is conformed to God”.19 Thus, the resurrection occupies a point beyond human perception, beyond the limits of death, ultimately definable only by the form or character of the mystery of God itself. If the phenomenality of the experience of faith is not appreciated, the philosophical categories and systems supporting doctrinal positions cannot but appear as ice-sculptures needing the controlled atmosphere of a protective metaphysical system. But that is what is now being threatened by the hot winds and the changing seasons of historical experience. Phenomenological vigilance is needed if what is given is to be received on its own terms. Without such receptivity, theology tends to be confined defensively within the atmosphere of a locked room of firm floors and ceilings. It may allow for a certain number of doors and windows, but, all along, what is at stake is letting in the light and atmosphere of a new creation. Just as the risen Jesus entered the locked rooms to the surprise of his fearful disciples, a more phenomenological receptivity makes any theological space more hospitable to the light of Christ and the fresh air of his Spirit. The conclusion of John’s Gospel remains a healthy reminder: the risen Jesus is not contained within the linear print of any book – or of all the books of the world (Jn 21:25). That is to say that the phenomenon exceeds all efforts to express it. In a more contemporary vein, theology is not engaged in a video replay of the highlights of the game, passively assured of the outcome, once one’s team has won. For beyond the play of images, theological faith must risk an openness to the “given” on its own terms. It is not a matter of reproduc- 19 Christus autem resurgens non rediit ad vitam communiter hominbus notam, sed ad vitam quandan immortalem et Deo conformem (STh 3, q. 55, a. 2). THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 365 ing impressions or trying to capture a dwindling after-effect. The challenge is otherwise: to enter into an involvement with what causes everything to be seen anew – the light of the risen One. By attending to the resurrection as the original datum of faith, theology is invited to re-focus its attention precisely on what originally collapsed all categories, and left tongue-tied the original disciples who witnessed it, namely, the resurrection of the crucified One. It is this which, quite literally, must be allowed to shock theology to its foundations, and dazzle the spurious clarity of its rational systems. The strong wind of the Spirit shakes the whole house of our thinking. The no-longer controlled atmosphere makes the ice sculptures melt. The freedom of the living One interrupts the linear format of our books and disturbs the locked doors of our previous security: something else is in play, involving believers in a way that no replay of highlights can satisfy. In the following intriguing remark, the philosopher Wittgenstein ponders on what inclined him to believe in the resurrection: What inclines even me to believe in Christ’s Resurrection? ... If he did not rise from the dead, then he decomposed in the grave like another man... but if I am to be REALLY saved – what I need is certainty – not wisdom, dreams or speculation – and this certainty is faith. And faith is faith in what is needed by my heart, my soul, not my speculative intelligence. For it is my soul with its passions, as it were with its flesh and blood, that has to be saved, not my abstract mind. Perhaps we can say: only love can believe in the Resurrection. [Emphasis original]20 The philosopher is here undoubtedly pointing in the direction of what Paul hymned as the unending love “that bears all things, be20 L. WITTGENSTEIN, Culture and Value. Trans. Peter Winch (Chicago: Chicago University Press, 1980), 83. Sarah Coakley, “‘Not With the Eye Only’: The Resurrection Epistemology and Gender”, Reflections 5 (2001): 1-15, connects Wittgenstein’s to the premodern theological tradition of “spiritual senses”, as an alternative to the modern extremes of “Lockean” empiricism and the history-transcendent emphasis of the early Barth. 366 ANTHONY J. KELLY lieves all things, hopes all things, endures all things” (1 Cor 13:7-8). The all inclusiveness of love’s object correlates with the unreserved self-surrender of the subject, the one who loves “with all your heart, and with all your soul, and with all your mind, and with all your strength” (Mk 12:29-30). When the resurrection event is the truth on which the unreserved and unconditional love is based, and the point from which a horizon of love for God and the world opens out, its moral significance cannot be minimised. On the transformative effects of love, Lonergan writes, Being in love with God, as experienced, is being in love in an unrestricted fashion. All love is self-surrender, but being in love with God is being in love without limits or qualifications or conditions or reservations. Just as unrestricted questioning is our capacity for selftranscendence, so being in love in an unrestricted fashion is the proper fulfillment of that capacity. That fulfillment is not the product of our knowledge and choice. On the contrary, it dismantles and abolishes the horizon in which our knowing and choosing check this and sets up a new horizon in which the love of God will transvalue our values and the eyes of love will transform our knowing.21 Lonergan is not speaking of the resurrection, that is true. However, he is referring to that divine gift of love which is disclosed, communicated, sustained and focused in the culminating event of the resurrection of the Crucified. Christian moral theology can be more specific: when it speaks of love as the charity informing all the virtues of the moral life it connotes the resurrection as the transformation that God’s love has already brought about – and will bring about in all the members of Christ. Conversely, the theological meaning of the resurrection is focused in the divine transformation of the crucified Jesus, and finds its effect in the transformed lives of his disciples 21 BERNARD LONERGAN, SJ, Method in Theology (London: Darton, Longman and Todd, 1972), 105-106. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 367 (Rom 8:11). If, in the words of Wittgenstein, “only love can believe in the resurrection”, it can also be argued that only the resurrection of the crucified Jesus inspires unconditional love to have confidence in its ultimately transformative power. The love of God reaches into our humanity and transforms it – in Christ, and in all who, through faith, hope and love, live in him. How then does Christ’s resurrection figure in moral theology? This brief sketch of a possible answer suggests that the resurrection is the revelation of God’s love and our participation in it, whereas, the more love takes possession of us in mind and heart, the more the resurrection is understood as its source, form and end. Conclusion In concluding these remarks on the fundamental significance of the Resurrection for moral theology we can appeal to the four dimensions of its meaning.22 Cognitively, in terms of the objectivity of Christian revelatory events, we have been emphasising the incarnational significance of the Resurrection: the Word is made flesh climactically as “the resurrection and the life” (Jn 11:25). This is to say that a Christian moral theology needs to play all the notes on the scale of the incarnation, especially the completing highest note. In the constitutive dimension of its meaning, the resurrection informs and indwells the consciousness of faith, through the ultimate registers of faith, hope and love, as Wittgenstein insightfully suggested. The believer hears the first words of the Word in John’s Gospel, and answer the question they pose: “What are you looking for?”(Jn 1:38). The moral agent acts as a new self, a new creation, conformed to the crucified and risen One, and transformed by his Spirit. The deep narrative shaping that identity finds its ultimate 22 See LONERGAN, Method in Theology for the whole chapter on “Meaning”, 57-100, and especially “The Functions of Meaning”, 76-80. 368 ANTHONY J. KELLY meaning in the resurrection: “if the Spirit of him who raised Jesus from the dead dwells in you, he who raised Christ from the dead will give life to your mortal bodies also through his Spirit who dwells in you” (Rom 8:11). In terms of its communicative effect, the resurrection of the Crucified not only stands at the centre of the Church’s community and mission, but also inspires a hope-filled solidarity with the victims of violence and injustice. The risen Victim is the foundation of a hope that the reign of God will not be defeated, and that life to the full is promised to all in “a new heaven and a new earth” (cf. Rev 21:1-7). These three dimensions of the meaning of the resurrection feed into its effective or world-transforming praxis. This is the special area of moral theology as it promotes the natural law governing relations to the neighbour and the global neighbourhood. But it also brings an excess of conviction and expectation into moral activity – in terms of the vocations, charisms and “the cloud of witnesses” – alive with the assurance that the best in the human condition will not be forever subject to the violence of the worst, but that the future will be one in which justice will be done, peace will reign and a healing mercy poured out. Even in apologetic terms, it seems wiser for theology to risk rejection of Christian claims for the right reason, namely, the overbrimming significance of the unique event of the resurrection. Even moral theology will communicate more tellingly when it clearly focuses on the singularity of the love that has been revealed, and what is at stake for human history. THE RESURRECTION AND THE FOUNDATIONS OF MORAL THEOLOGY 369 SUMMARIES This article reflects on the relationship of Christ’s resurrection to the methodological foundations of Moral Theology. The “indefinable” character of the resurrection event has often meant that it is overlooked in theological systems, even when theologians treat of the positive values and the destructive evils affecting the human condition. Yet the resurrection continues to have its effect, especially in inspiring hope for the victims of history, and in inspiring and expressing the transformative value of our participation in the love of God. *** Este artículo reflexiona sobre la relación entre la resurrección de Cristo y los fundamentos metodológicos de la Teología Moral. El acontecimiento de la resurrección no ha recibido a menudo la atención que merece en los sistemas teológicos, debido a su carácter “indefinible”, incluso cuando los teólogos tratan los valores positivos y los males destructivos que afectan a la condición humana. Pero la resurrección continúa teniendo su efecto, especialmente como esperanza que inspira a las víctimas de la historia, e inspirando y expresando el valor transformativo de nuestra participación en el amor de Dios. *** Questo articolo riflette sul rapporto della risurrezione del Cristo ai fondamenti metodologici della teologia morale. Il carattere “indefinibile” del avvenimento di risurrezione ha significato spesso che è trascurato nei sistemi teologici, anche quando teologi trattano dei valori positivi ed i mali distruttivi che toccano la condizione umana. Tuttavia la risurrezione prosegue avere un effetto, specialmente nella ispirazione di speranza per le vittime della storia e nell’ispirazione e nell’espressione dei valori trasformativi della nostra partecipazione nell’amore del Dio. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY Terence Kennedy, C.Ss.R.* For the last five centuries the notion of tradition has been at the eye of the storm, first in theology since the Reformation and then in culture and philosophy since the Enlightenment. The fact that this Congress on the sources of moral theology is meeting in this city of Trent highlights the continuing importance of the Tridentine Council’s teaching on tradition. However, tradition is rarely discussed as a source of moral theology1 although two experts on the theme, Fathers Brian Johnstone and Marciano Vidal, are participants at this conference. Tradition has also assumed a more secular aspect. For the argument that divided modernity was formulated as: reason verses tradition, a tension inevitably associated with the status of religion in society. In the end doubting the rationality of traditions only brought about more critical insights into its necessity for the transmission of truth and its justification. From the work of J. H. Newman, J. A. Möhler, J. Pieper and others it has emerged that tradition forms the horizon in which we think and act for we cannot avoid being situated in * The author is an ordinary professor at the Alphonsian Academy. * El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana. Il presente articolo riprende la relazione svolta durante il VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale (Cadine -Trento, 21-24 luglio 2010). 1 The notion of source should be defined as locus and not as fons so as to carefully distinguish the present discussion from that on the fontes moralitatis, which primarily has to do with the human act and how it is constituted from object, intention and circumstances, today often emphasising the aspect of human experience. StMor 48/2 (2010) 371-393 372 TERENCE KENNEDY history. Sociologists have studied the mechanism of its working, its constitutive and communicative value for both civil and religious society. A. McIntyre, S. Hauerwas and the German philosophers who rehabilitated Aristotle’s account of practical reason found it was necessary to have recourse to intellectual traditions in order to verify their ethical theories. The fierce barrage of criticism launched by rationalism against any adequate examination of tradition has long since been silenced, and its bastions breached since the Romantic period. The atmosphere has changed from the defensive apologetics of yester year to a sincere desire to grasp the meaning of tradition as a present reality. We begin by examining the fate of this concept, first in philosophy, and then in theology with closer reference to the Second Vatican Council. Its teaching on revelation changed the way the sources or fontes of theology are conceived. Their use in moral theology raises some serious questions about that discipline’s constitution especially in regard to ethics. It is also importance to inquire into its relevance for the Alphonsian inheritance in moral theology today. 1. Tradition in Culture and Philosophy Around 1970 when the sociologist Edward Shills decided to write a book on tradition he found to his amazement that there was any number of studies on precise traditions but no analysis of tradition as such in the social sciences. He concluded that societies do not come from nowhere “carried in by the stalk” as it were. They do not exist just in one moment but over time. Societies are historical in as far as they are born of, exist in and project themselves into the future as traditions. Shills argued that tradition is a necessary means for charting our world and culture, for without it our world lacks meaning and we humans become demoralized. Society cannot chart its law, institutions, religion and ways of relating in marriage, home and workplace ab ovo on every occasion anew. And it is equally impossible to be constantly innovating or restoring. For Shills, “Reason and tradition are the two main means of struggling with society’s problems.” Without the authority of tradition critical reason cannot be re- “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 373 strained from consuming society even in its need for reform. “Human beings need the help of their ancestors; they need the help which is provided by their own biological ancestors and they need the help of the ancestors of their communities and institutions.” He discerns a paradoxical dialectic at work in the modern-postmodern period. “The Enlightenment was antithetical to tradition,” but it owed its success to the fact of its “becoming a tradition.” “Living on a soil of substantial traditionality, the ideas of the Enlightenment advanced without undoing themselves, the Enlightenment ideal of emancipation through the exercise of reason went forward. It did not ravage society as it would have done had society lost all legitimacy.”2 Society itself can be endangered by such rationalism and by the rationalizing economic activity that discredits religious and neighbourly communities, shaking them to their very foundations. Michael Polanyi illustrates the power of this line of thought for what is acknowledged as the epitome of modernity, the scientific community at the cutting edge of Western civilization. He found, contrary to what is commonly presumed, that it links present and past in a “spontaneous coherence.” This applies either for a particular discipline or even over the whole ambit of science on certain issues despite conflicts and divisions among scientists because they have a common tradition. “They are speaking with the one voice because they are informed by the same tradition. The whole system of scientific life [is] rooted in a scientific tradition. The premises of science are embedded in a tradition, the tradition of science.” The tradition of science is external to any particular scientist; it is a social fact that is upheld by scientists, “as an unconditional demand if it is to be upheld at all... it is a spiritual reality that stands over them and compels their alliance.”3 Tradition is the result of the repeated affirmations that go into its making. It is transmitted most tangibly from teacher to pupil, the teacher discriminately selecting the appropriate material from the stock of knowledge he possesses while inculcating and 2 Citations are taken from the Conclusion of EDWARD SHILL’s, Tradition, University of Chicago Press, Chicago 1981. 3 Science, Faith and Society, University of Chicago Press, Chicago 1947, 38. 374 TERENCE KENNEDY arousing in the pupil a sensibility that allows him to grasp the problematic aspects of the tradition. Polanyi speaks of a spontaneous selfcorrecting process of transmission so that a tradition grows in appreciation of its inner strength and resources as it advances. There is thus a sequence or succession of experts that the scientific community honours for their outstanding contributions that have enriched and made the tradition progress into the future. The Polanyi type of investigation has been repeated for many other social institutions including philosophy, and its basic findings have been confirmed so often that we cannot avoid concluding that tradition is inextricably bound up with the history and understanding of rationality itself. The crisis of modernity shows where the hard nucleus of the problem can be identified. Once modernity became accustomed to attacking the idea of tradition the very notion of revelation and with it the constitution of theology were called into doubt. This essay touches upon but a few crucial turning-points in this conflict, drawing insights from them to show that theology cannot be rightly understood apart from tradition. For philosophers, in as far as tradition has rational content, it has come to mean i). the body of beliefs shared with past generations and handed on to the succeeding ones, and ii). the process by which such beliefs are transmitted. This conception changes radically when it is extended from such a body of beliefs to the practices by which they are socially transmitted from the past. Conflicts in the interpretation of tradition are not just over abstract ideas but about the forces, the powers that actually govern, form and shape society. Here we find deep tensions, e.g., the deep cleavage dividing rationalism from traditionalism in modern culture, particularly progressive from conservative in politics. For Karl Popper a prevalent modern attitude is, “I am not interested in tradition. I want to judge everything on its own merits... quite independently of any tradition...with my own brain and not with the brains of people who lived long ago.”4 Descartes and Locke were re- 4 Conjectures and Refutations, Routledge Kegan and Paul, 1973, 120-121. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 375 ligious believers convinced that as philosophers they had to rely on reason and experience alone. In reaction to dogmatism they sought to establish their theories on unshakably certain epistemological foundations so as to overcome the obscurantism associated with religious enthusiasm. The emphasis on reason, common to both the critics and defenders of religion in the Enlightenment period, led to a powerful concept that militated strongly against any appeal to tradition, namely autonomy. This found its classical formulation in Immanuel Kant who held that every individual bore responsibility for his or her beliefs. It was incompatible with one’s integrity as a rational being to defer to any kind of authority. Hence to align oneself with a tradition was deliberately to abdicate from the status of a rational agent. We must remember that Kant did not want to close off the path to God who could be approached only by an historic faith that was hermetically sealed off from reason so as to go utterly beyond it. Intellectuals have now began to realize that reason is so immersed in history that it cannot escape it, but at the same time that it can be transcended by discovering its universal intent. Faith and religion once again fall within the range of reason as legitimate subjects of intellectual inquiry without being bound down within the restricted confines set by Kantian “pure reason.” Under the influence of Romanticism, however, the claims of reason had to be modified or abandoned, and the demand for autonomy was, in fact, reinforced. For the modern hero is free, independent and lonely. Autonomy is the hallmark of modernity so that to identify with an inherited tradition is to be caught out in bad faith. Charles Taylor emphasizes that standing up against all claims of heteronymous morality is a deliberate act of courage.5 Tradition became the target of autonomous reason when it declared itself to be the one and only source of morality. What was to be done with traditional beliefs becomes a perplexing moral issue, the call to take a critical adult attitude 5 CHARLES TAYLOR cites this as a crucial step in the development of secularisation in his A Secular Age, Harvard University Press, Harvard MA 2007. 376 TERENCE KENNEDY to authority by standing on one’s own feet. The strife surrounding accepting or rejecting tradition pushed many wavering believers into skepticism or outright unbelief in the last few centuries. The source of morality is now found in the self-legislating moral self rather that in an appeal to God as the legislator of the moral law for humanity. Up till the seventeenth century tradition was largely unquestioned as a source of insight and so called for no defence. Since the Enlightenment it has been defended by traditionalist such as Burke and more recently in economics by von Hayek. Burke argues that we should cherish the latent wisdom contained in our prejudices simply because they are old. Tradition has authority in the present simply because it comes from the past, and encapsulates the wisdom and experience of the past. This is how he expounded traditionalism in 1790: “We are afraid to put men to live and trade each on his own private stock of reason; because we suggest that this stock in each man is small, and that individuals would do better to avail themselves of the general bank and capital of nations and of ages.”6 Upon inspection, however, traditionalism, if not indefensively irrational, turns out to be the demonstration of the overlooked rationality contained in traditions. Many philosophers would now argue that any explicit judgment is made against the background of unspoken and largely traditionally based agreement. John Henry Newman was the English thinker primarily responsible for vindicating the role of tradition. Although he was a theologian his approach was mostly philosophical. His primary target was Locke whom he criticized for failing to realize the role of antecedent assumptions in our reasoning. Locke held that beliefs could only be valid when established on self-evident principles or on experience. This evidence has to be able to be specified and to be able to be produced on demand before the bar of reason. Newman saw that this account was in contradiction with the way people actually think. All of us, and not only religious thinkers, are influenced by antecedent assumptions derived from some tradition of thought or practice which 6 Reflections on the Revolution in France, Dent, London 1967, 84. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 377 we are depending on whether we acknowledge it or not. Now antecedent assumptions cover a vast range of things: theories or systems of thought we take for granted and the language in which they are expressed. Newman also insisted that our convictions in matters of great importance are based on arguments that are informal and cumulative. It is not a straightforward matter to set out the evidence to which we appeal or to articulate the inferences we employ. Newman’s principles illustrate the flexibility and so the continuity throughout discontinuity in any long standing tradition. His 1845 Essay on the Development of Christian Doctrine defended the role of tradition in society and particularly in Catholic doctrine and teaching against philosophical criticism. Its criteria for discerning the authenticity of tradition are still in use. Newman restored the emphasis on the Church as a knowing, conscious subject whose mission was the transmitting of its faith inheritance. In Germany the Tübingen school performed a similar task in the early eighteenth century regarding the Hegelian concept of tradition as “the spirit in time.” It conceived truth as history, as consciousness in its self-evolution and so as a product of history. Truth had no objective hold outside the coils of the self as it progressively unfolded as an historical subject. Johann Adam Möhler highlighted how tradition was a fact, the Church’s progressive penetration and depthing of its growing awareness of the truth. Johannes E. Kuhn carried this proposition further by insisting that tradition should not be abandoned into the power of subjective consciousness, but had to discover what was objective and normative in this history.7 The knowledge of truth is not to be confounded with the truth itself. The issue of consciousness and historicity came to a head with modernism. With the introduction of new critical methods into the study of history scholars became aware how normative texts in a tra- 7 WALTER KASPER has paid close attention to the influence of German idealism in the nineteenth century discussion on tradition. See His “Tradizione come principio di conoscenza teologica,” in Teologia e Chiesa, Queriniana, Brescia 1989, in particolar 87-90. 378 TERENCE KENNEDY dition were influenced by social, political and historical conditions. They readily accepted tradition but were forced to ask if such texts, including the Bible, could be as consistent and normative as the ahistorical claims made for them pretended. Were they not relative to the history that generated them? They were always interpreted and so subject to the circumstances and worldview in which they were understood. Finally how does one access the claims of a tradition against rival traditions or interpretations? Such considerations lead the modernists not to deny tradition but give it a symbolic meaning whereby its foundations had to be constantly reinterpreted. This could of course be applied even to the magisterium and in this way modernism became a major challenge to Church authority. Tradition seemed to be disappearing with the advance of historical research. Blondel argues there is an irreducible element in tradition which always escapes when we put tradition in writing. “What happens then that, as the active sense of the word would suggest, tradition conveys in a literal, not a metaphorical sense more than ideas which can be given a logical form: it embodies a life which includes at one and the same time feelings, thoughts beliefs, hopes and actions.”8 In Polanyi’s short formula: “We know more than we can tell.”9 Blondel held for identity in continuity within history thus avoiding the “extrincisism” of some Catholic apologists who saw everything in terms of ahistoric dogmatic formulae, and a historicist exegesis that made everything relative to historical circumstances. Exegesis cannot simply be reduced to the application of the critical-historical method but had to take account of history by studying its Formgeschichte. Scripture itself as scholars came to realize was a product of traditions and grew out of the life of the Church. Thus “some part of the church is beyond the power of science to check. Without dispensing with the data of exegesis and history..[it] checks them all, since it has in the very same Tradition that constitutes it, other means of know- 8 Quoted by Y. CONGAR, Tradition and Traditions, Burns and Oates, London 1966, 360. 9 The Tacit Dimension, Doubleday, New York 1966, 4. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 379 ing its author, sharing in his life, relating facts to dogmas and justifying ecclesiastical teaching root and branch.”10 He goes on to describe its transmission, “by a kind of fertilizing contact” that successive generations have to interiorize and make their own, “and must in turn be bequeathed as a permanent condition for life, to be continually and inexhaustibly shared by individuals.” It is a principle of progress that “implies the spiritual communion of souls that feel, think and will within the unity of the same patriotic or religious idea.” What is passed on seems small, like a gold speck glistening in the sun on the earth’s surface revealing the immense quantity of precious metal yet to be mined beneath. It allows the gold of truth concealed in life to rise to the surface and be explicitly known. But it is quite impossible for the whole deposit to be turned into common currency. Blondel asserts that tradition has tacit and hidden dimensions for, “as a principle of unity, continuity and fecundity which is initial, anticipatory and final, [it] precedes all reconstructive synthesis and likewise survives all reflexive analysis.”11 Exactly these qualities have recently returned to prominence in virtue ethics. Alasdair MacIntyre in his 1981 ground-breaking study of ethical theory After Virtue has brought out how virtue is properly understood from the perspective of tradition and makes it clear that his insight applies beyond ethics. By assembling material from the social sciences, cultural history, ethics and literary theory he demonstrated that virtue can only be properly comprehended against a three dimensional background; tradition, practice and the unity of a life. Here the moral agent exists, as it were, surrounded by these three concentric circles, one overlapping the other. By communicating goods over time a community lives from tradition and participates in these goods by putting them into practice. Each tradition subscribes to normative standards which support it as a way of protecting its so- 10 Also quoted by Y. CONGAR in Tradition and Traditions, Burns and Oates, London 1966 from Blondel’s Histoire et Dogme. 11 See his Letter on Apologetics and History and Dogma, edited and translated by Alexander Dru and Illtyd Trethowan, Harvil Press 1964. 380 TERENCE KENNEDY cial inheritance. It is necessary to identify such goods, e.g. life, health, work, wealth, study and knowledge, recreation, public order, etc., and the institutions in which they are embedded so that society’s members may strive to flourish and find fulfilment as human persons. Tradition can be analysed as a process that is a teleological cultural reality with its own internal rules and structures. It may grow and decline over time, somewhat like a language. The truth of a tradition would then be measured by fidelity to its origin, the source from which it flows, and the goods that draw it on in hope of its future achievement. The subject of tradition maintains its identity by acting with consistency in continuity within the flux of history. Tradition is the inner principle of life and activity of a community or society. “A living tradition then is an historically extended, socially embodied argument, and an argument precisely in part about the goods which constitute the tradition.”12 Kathryn Tanner goes further and proposes in a post-modern vein that “instead of a process of transmission, tradition amounts to a process of argument.”13 Despite her postmodern credentials she appears to have fallen into the rationalist trap by collapsing the rhetoric of communication into the dialectics of purely speculative and abstract argumentation. MacIntyre maintains that, “when a tradition is in good order, it is always partially constituted by an argument about the goods the pursuit of which gives to that tradition its particular point and purpose.”14 The hermeneutic movement broke through the accumulated prejudices of the past to perceive tradition as a mode of determining historical consciousness. The hermeneutic circle, the prejudgment or anticipation of meaning, the sense of distance from historical phenomena and the principle of application all point to tradition and authority as constitutive moments in science and society. This implies a certain ontology which is a coincidence between knowing and be- 12 After Virtue, 2nd ed. University of Notre Dame Press, Notre Dame Ind. 1984, 222. 13 “Postmodern Challenges to ‘ Tradition’,” in Louvain Studies 28(2003) 183. 14 MACINTYRE, op. cit. 222. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 381 ing in history. In is in this direction that Gadamer and Ricoeur inspired by Heidegger but in a somewhat different key see tradition as the truth of historicity.15 Tradition was thus recognised as a source of moral knowledge that was constitutive not only of the life-style and biography for the individual but was also the carrier of a society’s customs, values and institutions. 2. Theology and Tradition: 2. Vatican II, Revelation and Tradition Twentieth century philosophy restored tradition’s respectability in intellectual conversation and this facilitated Vatican II rethinking the vexed question of the relationship of Scripture and Tradition as sources of revelation. This debate marked the turning-point or crisis in the Council’s proceedings that reversed the terms of this argument so that revelation was recognized as the one unique source of both Scripture and Tradition.16 The question of the material sufficiency of Scripture i.e., whether Scripture contains all the resources of revelation that the Church can call upon was not settled. Scripture, Tradition and Magisterium are inseparably linked. The Council’s teaching on Tradition in Dei Verbum no. 8 asserts: The Tradition that comes from the Apostles makes progress in the Church, with the help of the Holy Spirit. There is a growth in insight into the realities and words that are being handed on. This comes about in various ways. It comes about through the contemplation and 15 See the relevant sections in MATTHIAS JUNG, Hermeneutik. Zur Einführung, Junius, Dresden 2001. 16 See JOSEPH RATZINGER, “The Question of the Concept of Tradition,” in God’s Word, IgnatiusPress, San Francisco 2008, 41-67. See also the commentaries on Die Verbum, e.g., OTTO SEMELROTH AND MAXIMILIAN ZERWICK, Vatikan II über das Wort Gottes, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1966, and FRANCESCO TESTAFERRI, La Parola Viva, Cittadella, Assisi 2009. 382 TERENCE KENNEDY study of believers who ponder these things in their hearts (cf. Lk 2:19 and 51). It comes from the intimate sense of spiritual realities which they experience. And it comes from the preaching of those who have received, along with the right of succession in the episcopate, the sure charism of truth. Thus as centuries go by, the Church is always advancing toward the plenitude of divine truth, until eventually the words of God are fulfilled in her. Our problem is then nicely put: How do we get from the overwhelming richness of revelation to moral theology as we know it today? Here are a few pointers to the framework within which such a question about tradition might be answered. 1. The first need is for a basic framework in which tradition can be understood. For Yves Congar17 the origin of Tradition as distinct from individual traditions lies in the Father’s handing over of the Son and in the Son’s subsequent acceptance of betrayal (which in Latin is traditio meaning handing over) at the hands of sinful men. This two fold act is productive. Aidan Nichols says that it is “linked to a masculine divine symbolism, is received and transmitted in the Church’s tradition whose ultimate subject is the Holy Spirit and which Congar conceives in essentially feminine terms.”18 The Church is the realization in time of the self-communication of the triune God. The entire Church, in its lay and clerical components, is the mediating subject of Tradition which she passes on not just as teaching but as a reality, the reality of Christianity itself. Congar insists that Tradition constitutes, “the permanence of a past in a present is whose heart the future is being prepared.” It transcends the limits of a fixed conser17 The relevant references are from his classic La Tradition et les Traditions, Cerf, Paris, Part I 1960 and Part II 1963. Also to be consulted is Yves Congar. Theologian of the Church, G. Flynn (ed.), Peeters, Louvain 2005, and in particular JOHN WEBSTER’S “Purity and Plenitude. Evangelical Reflections on Congar’s Tradition and Traditions,” 43-65. 18 See his chapter on Congar in From Newman to Congar, T&T Clark, Edinburgh 1990, 253. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 383 vatism or falsely radical disregard for continuity. In each age, the Church’s Tradition puts forth new buds, new movements, from a liturgical text to a work of art, from a theological classic to a saint. “Tradition is a theological reality” affirms Congar, “which supposes an action of the Holy Spirit in a living subject, and this subject is the Church, the People of God and the Body of Christ.” As an ecclesial reality it has a sacramental structure, “disclosed through created signs.”19 “What was hidden in God is manifested in time. This manifestation, as knowledge, is revelation and tradition; as a present mystery, it is the Church, salvation and again Tradition, paradosis being the content of saving knowledge and practice which the Church transmits and by which it lives.”20 It involves human cooperation with God’s graceful initiative and so occurs in the time of the Church, “the time of those responses that are stirred up in us, in the order of truth and love, by the ‘divine missions’ or visitations.” 2. Tradition is a synthetic reality. It has active and passive, objective and subjective aspects. The Church under the action of the Spirit transmits revelation in history and so Tradition cannot be separated either from Sacred Scripture which is normative for it, nor from the Church’s Magisterium which is entrusted with its authentic interpretation. Tradition has a dual aspect: the depositum which is handed into the Church’s keeping, and the act of communication that transmits it. This accounts for the logical structure of tradition as an argument (depositum) that is continued over time in the actual transmission. This means that the formula “faith and morals” can be said to sum up the essential content of what is handed on by the Church and so in a broad sense concerns the fields of dogma and morals. This transmission implies a making, a production, a carrying forward through time of a spiritual and cultural witness. Such activity creates or produces history (a proesis) that as a truly human activity or act (as praxis or practice) follows normative moral criteria. Tradition has to 19 20 Y. CONGAR, Tradition and Traditions, Burns and Oates, London 1966, 238. Ibidem, 25. 384 TERENCE KENNEDY respect the logic both of its content and of the carrier responsible for its communication. Rhetoric bridges these two fields so that preaching the Kerygma means making the Gospel real and effective in new cultures and social contexts over the centuries. 3. Monuments of Tradition and Melchoir Cano’s Loci Theologici 1. The notion of Tradition therefore extends to “the active presence of revelation in a living subject.”21 This makes the distinction between Tradition and traditions not only possible but necessary in what are rightly called the monuments or witnesses of tradition. Congar sums it up this way: “the monuments of tradition are objective historical realities; but Tradition is a theological reality that supposes an action of the Holy Spirit” so that “Tradition is prior to its monuments, since they are only expressions of it.”22 2. It is in this context that the loci theologici need to be studied. Melchior Cano propounds ten loci where the monuments to revelation are to be found.23 1. Auctoritas Sacrae Scripturae. 2. Auctoritas Traditionum Christi et Apostolorum. 3. Auctoritas Ecclesiae Catholicae. 4. Auctoritas Conciliorum. 5. Auctoritas Ecclesiae Romanae. 6. Auctoritas sanctorum Veterum. 7. Auctoritas Theologorum scholasticorum. 8. Ratio naturalis. 9. Autoritas Philosophorum. 10. Humanae Auctoritas Historiae.24 These are not a preset series of categories for draughting and sorting historical material. They are really the overarching categories or 21 Ibidem, 401. Ibidem, 435. 23 It should not be forgotten that Cano is in fact continuing St. Thomas Aquinas’s discussion in the Summa Theologiae, I. Q.1, a.8, in particular in the lengthy response ad tertium. 24 The term “Authoritas” does not here refer to a power to bind or impose an obligation, but follows the original Latin meaning of capacity to generate life and make it flourish. 22 “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 385 better the horizons that make sense of the matter bequeathed by history and that can be discovered through the process of rhetorical inventio. The distinction between core and supporting sources (loci alieni) should be obvious and does not detract from the fact that both testify to God’s self-manifestation in the Church and in the world.25 Although philosophy, history, the natural and social sciences do not consider revelation as normative in their scientific elaboration today, for Cano they constitute sources constituting strictly theological understanding. The Council’s platform of viewing these autonomous disciplines, “in the light of the Gospel and of human experience,” (GS no. 46) draws them into theology’s orbit. 3. Over a century ago Ambrose Gardeil in his “La notion du lieu théologique,”26 interpreted Cano as providing the essentials for a treatise on theological methodology. This became the canonical way of seeing the sources of theology, i.e., reductively in a wholly epistemological key. His research showed that the notion of locus is drawn from Aristotle’s Analytics where dialect is the logic employed by reason in contingent matters. This was reflected in his Rhetoric as the method for establishing the reservoir or reserve of arguments that an orator could call upon in disputes within the polis. Gardeil’s main finding was that revelation is the criterion for the validity of a locus theologicus. In the subjective sense this means what the eyes of faith discerns the rational structure of the depositum and this is the starting point for all arguments in theology. Theologians are accustomed to give lists of such sources. Recently this has led to a retrieval of Cano’s thought as foundational not in an epistemological perspective but as communication channels whereby revelation reaches us. They are the paths that God’s action 25 See BERNHARD KÖRNER, „Welche Rolle spielen die loci theologici in der Fundamentaltheologie?” in J. M. ZU SCHLOCHTERN UND R. A. SIEBENROCK (HRSG.), Wozu Fundamentaltheologie? Ferdinand Schrönigh, Paderborn 2010, 15-37. 26 His study involves a series of three articles in Revue des Sciences Philosophique et Théologique, 1908. 386 TERENCE KENNEDY follows when revealing himself in his communicative action with us. In other words the various loci theologici are ways the Church’s faith recognises or perceives God’s action in history in this witness or in this monument of revelation. They provide the field, horizon or dwelling where the God of revelation communicates with us. The titles in the list are therefore not hermeneutically sealed categories without contact with each other. They overlap and interpenetrate so as to provide a multi-dimensional vision or converging view on particular theological realities. The order of their formulation has more to do with priorities of importance rather than with exclusivity. The one determining criterion is always how they relate to revelation in its organic unity. Max Seckler conceives of theology as an ecclesial science and the loci theologici as ways in which the Church discovers within herself, her history and her Tradition the resources and principles from which she builds up theology. The order of the loci therefore sketch and fashion the Church’s basic structure. They express God’s communication with us in terms of the ecclesial realities that form the communio between God and humanity.27 4. Congar’s list28 of the sources embraced by Tradition within the horizon the Church’s life is informative. Sacred Scripture must come first because it is a source, an inspired witness to revelation. It is authenticated by the Spirit as a normative source of divine truth for the Church that endures through history. Second is the liturgy which contains the whole of revelation as it forms the life of the Church from age to age. Then the Fathers follow because of their unique 27 Two significant articles of his that illustrate this paradigm change are “Il significato del sistema dei loci theologici ” in Teologia, Scienza, Chiesa, a cura di G. Coffele, Morcelliana, Brescia 1988, 171-206, and “L’ecclesiologia della communion. Il metodo teologico e la dottrina dei loci theologici di MELCHIOR CANO,” in Il metodo teologico, a cura di Manilio Sodi, Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, 163-189. See also JÜRGEN WERBICK, Den Glauben verantworten, Herder, Freiburg 2005, 847-866, especially 863-866. 28 See chapter IV of his Tradition and the Life of the Church, Burns and Oates, London 1964. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 387 place in Church history as generators of its life, as communicators of the Tradition. Next are the forms of Christian life that communicate God’s sanctity in the human soul, the purity of doctrine, and witness to the fullness of charity toward God and one’s neighbour especially the most needy or abandoned. Great Saints and Doctors are leading exemplars, heroes radiating light from the values incarnate in revelation which can guide humanity on its way to God. Popular piety, art, literature, drama, architecture etc. can witness to how God is moving to draw different ages to himself. In this sense, Peter Hünermann remarks,29 the list is not closed for God may provide other ways of seeing his presence in history that issue in other monuments to Tradition and so theology is renewed with new loci theologici. 4. Implications for Moral Theology 1. Given that revelation accepted in faith determines the source and shape of all theology it follows that moral theology has to observe the basic order and structure laid out by revelation in salvation history. This raises the question of the constitution of moral theology as a science and what should be its starting-point. Vatican II called for the discipline to be nourished from Sacred Scripture with the figure of Christ as its focus point (cf. OT no. 16). Thus the christocentric perspective was introduced to correct the rationalism of the moral manuals. Many interpreted this as putting Christ not just at the centre but at the starting-point of all moral considerations. This approach subsequently enjoyed immense popularity because it could relate morals to dogmatic themes and spiritual values. But it generally failed to demonstrate a capacity to generate the more detailed conclusions needed in judgments on concrete behaviour.30 Even 29 See note 36 for further information. The weakness seems to be a lack of space for deliberation and so for rational decision making. This short-circuiting of reason’s role in moral deliberation is evident in Barth. See JOHN WEBSTER, Barth, Continuum, London 2004, especially at 129 and 160-161. 30 388 TERENCE KENNEDY when the sequela Christi was propounded as a way of explaining how the moral life grew and developed, the specifically ethical element seemed to be sadly missing from this formulation of the science. 2. An alternative would be a comprehensive conception of theology beginning with the Trinity, God revealing and communicating himself in history through the missions of the divine persons. The Father constitutes the origin without origin, source without source. He sets up the real starting-point both for salvation history as the progressive manifestation of the living God, and as the cognitive origin from which to form a theological synthesis. The Father sends the Word and Spirit on mission to transform history invisibly and interiorly through grace, and visibly through the Incarnation and Pentecost. The birth of the Church includes and embraces the loci theologici which the apostolic mission ensures will endure through time as Tradition. What conception of the human person and of human activity fits into such an integrated theological synthesis? In Scriptural terms it can only be the imago Dei whereby the human person as a partner of the Trinity cooperates with its action in history. The acts of faith and love empower the human person to know and love the divine persons as such. These acts in turn assimilate human existence and with it all our human moral capacities, gifts and talents into the divine life. This means a progressive conformity to God’s inner Trinitarian life, that is, with the very processions of the Word as knowledge and the Spirit as love in God. This is the basis for Aquinas’s brilliant exposition of a Trinitarian morality.31 3. Historically this participation in Trinitarian life is made visible and reaches its fullness in Christ. This presupposes that human morality has been assimilated into the mystery of Christ by the Word assuming human nature. Salvation history respects the fact that human morality with its norms, virtues, charismatic gifts and its search 31 See his treatise on the Trinity in the Summa Theologiae as well as I. 93, and the prologue to the Prima Secundae. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 389 for happiness preceded Christ’s coming in history, but only achieved its completion when drawn into him. A Trinitarian view is necessary to explain how salvation history unfolds in a way that takes the autonomy of morality seriously. It corresponds with the way God acts by making morality an integral part of his salvific action. Christocentrism has a unique role in drawing everything into unity around Christ who stands at the centre of history as Lord of Church and world. All reality and all theology can then be arranged concentrically around Christ without losing their God given consistency and autonomy in creation. This consistency was expressed in salvation history prior to Christ (in natural law, in the law of peoples and nations and in Old Testament revelation) and after his coming by the Church’s transmitting the fullness of revelation in Tradition (through the law of the Spirit). Each of these circles represents a different human condition in salvation history, each with its own characteristic type of morality because of the way it shares in the gratia Capitis32, Christ as the head of the Church and of all humanity. The light of the Christus risurgens33 is progressively penetrating all humanity till it comes to eternal glory. 4. We might conclude that moral theology needs a clearer systematic treatment of how it is based in salvation history and of how the role played by reason is to be integrated into this vision. This raises the question of how adequately moral theology has received, welcomed and elaborated the teaching of Dei Verbum on revelation and particularly on Tradition. How far has it succeeded in conceiving its own history in terms of Tradition? This in turn indicates the need to recover its sources from the past using the scientific methods employed in historical research. But more important still is the task of judging such results precisely by the criteria of revelation. Probatur ex traditione asks how does this monument point to and so form part of salvation history? What value does it carry for the Tradition? This 32 33 See ST. THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae, III. 8, especially a. 3. ST. THOMAS, S.T.- III. 51 for the efficacy of the Resurrection. 390 TERENCE KENNEDY is how theology is done and opens the door to inquire into what is missing in our account of moral life and moral theology as presently constituted. 5. Beginning with revelation shows up the absence of a systematic treatise on grace in moral theology. This is a notable theological deficit and implies the need for a theological explanation of God’s action in history and more precisely of how the Holy Spirit acts on the human heart converting it to God. Of course no moralist denies the necessity of grace but because of how the theological disciplines were historically distinguished after the Council of Trent the grace tract ceded its place in moral theology to dogmatics. Hence grace has been overlooked as a specific theme in fundamental moral theology. Moral tradition, however, cannot be explained without it, that is, without the gift of the Spirit creating a new humanity. The Augustinian tradition with its fluctuating historical fortunes has been acutely sensitive to divine transcendence but its approach has been somewhat eclipsed in recent centuries. Nor have the theologal virtues of faith, hope and charity been given their rightful place. Rooted in grace they ground the dynamism of moral life. Should fundamental moral theology be articulated more as dialogue with modern culture and philosophy as in the transcendental-anthropological approach, or as fundamentally grounding Christian morality in revelation? Can these approaches be reconciled? 6. Since the Council of Trent moral theology has presented itself as an autonomous discipline along with dogmatic, aesthetic and later practical or pastoral theology. Its sources or loci, as in fact taken over from Melchior Cano’s classification, were intended for dogmatic theology. This means that Cano’s loci are the common sources for both dogmatic and moral theology. Seckler argues that all branches of theology share the inseparable unity of Tradition, Scripture and magisterium as obligatory points of reference as well as the other loci sketched by Cano. Each theological community, dogmaticians, moralists, liturgists, pastoralists, etc., constitutes a distinct ecclesial subject that determines how this discipline can incorporate these “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 391 sources. And so theology diversifies into different intellectual traditions, each with its own characteristic methodology. 5. The Alphonsian Tradition The third to the sixth edition of St. Alphonsus’s Theologia Moralis (this was probably not from Alphonsus’s pen but from Francesco Zaccaria S.J.) reflects and reproduces Cano’s pattern. The rigorists with the Jansenists not only firmly established Sacred Scripture followed by Tradition at the head of this list: they in fact considered them the only true founts of an authentic Gospel morality. Cano’s loci alieni were systematically excluded. However, St. Alphonsus along with the best casuists confirmed Cano’s insight that the sources of moral theology cannot be limited to Scripture, the Fathers and the magisterium.34 They realised that it must pay close attentive to society’s real state so as to do its work. Moral theology concerns how Tradition touches and is assimilated into culture through people’s decisions taken in conscience here and now. It helps form conscience, personally and socially, not in the abstract but according to the claims made by Tradition at this historic moment. That means taking the “signs of the times” seriously not only as sources of moral knowledge but as generating new loci that enrich moral theology in its service to Tradition.35 On one side moral theology has to actualise Tradition in new historical situations. On the other it enriches Tradition from what it learns by faith’s insight into these situations. The critical criterion is one of discernment: how far do the proposed loci witness to the actuality of revelation as transmitted by Tradition? The system of 34 See HEINRICH KLOPS, Tradition als Fortschritt der Moraltheologie, Bachem, Köln 1963. 35 See PAOLO PRODI, “La storia umana come luogo teologico”, in Il Regno Attualità, 20(2008), 706-716. Prodi identifies what appears to be the underlying problem in discussions on Tradition, the overlooking of history, even its supression, as a locus theologicus necessary to make theology the science of salvation history. 392 TERENCE KENNEDY the loci is radically open to the invention of new sources36 and so to the development of moral doctrine. In this way it serves the Gospel, the source of the Church’s evangelising mission. Conclusion The above considerations show that moral theology needs to undertake a more widely ranging dialogue with fundamental theology and to ensure a better and deeper reception of the Council, especially of Dei Verbum and its awareness of God’s action in history.37 This should help clarify many outstanding questions about its status as a theological science. 36 See PETER HÜNERMANN, “Neue Loci teologici. Ein Beitrag zur methodologischen Erneuerung der Theologie,” in Cristianesimo nella Storia, 24(2003), 1-21. 37 See RALPH HUNING SVD, “Mehr Bibel in der Pastoral,” in Bibel und Kirche, 4(2009) especially 198 for how this question has developed in the magisterium. “WORK IN PROGRESS” ON TRADITION IN MORAL THEOLOGY 393 SUMMARIES This essay explores “Work in Progress” on Tradition. It was eclipsed by enlightenment rationalism but returned strongly with hermeneutics. Dei Verbum proposes a new paradigm for revelation that transforms the relationship of Tradition and Scripture, uncovers theological deficits and requires theology and Cano’s loci to be redefined. These insights are applied to moral theology, pointing out how St. Alphonsus took history and current events seriously as loci for his Theologia Moralis. *** El presente articolo analiza el “trabajo en marcha” sobre la Tradición. Este concepto fue empañado por el razionalismo iluminista, pero la hermenéutica lo retomó con firmeza. La Dei Verbum propone un neuvo paradigma para la revelación que transforma la relación entre Tradición y Escritura, descubre los vacíos teológicos y pide que se definan de nuevo la teología y los lugares teológicos de Cano. Estas intuiciones se aplican a la teología moral y muestran còmo San Alfonso entendió seriamente la historia y los acontecimientos del momento como lugares para su Theologia Moralis. *** Questo saggio analizza I “lavori in corso” sulla tradizione. Questo concetto fu oscurato dal razionalismo dell’Illuminismo, ma ritornò con vigore con l’ermeneutica. La Dei Verbum propone un nuovo paradigma per la rivelazione che trasforma il rapporto tra Tradizione e Scrittura, scopre le carenze teologiche e chiede che la teologia e i loci di Cano siano ridefiniti. Questi discernimenti sono applicati alla teologia morale, indicando come Sant’Alfonso prese la storia e gli eventi attuali e contemporanei seriamente come loci per la sua Teologia Moralis. EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY Notes from a clinical ethicist Mark Miller, C.Ss.R.* Introduction It is always a challenge to present a relatively short paper on an enormous topic such as “Experience as a Source for Moral Theology.” One must begin by ensuring that there is some clarity about the very words we are using – ‘experience’, ‘source,’ and even ‘moral theology.’ My personal temptation, stemming from my years studying German theologians, would be to call this paper an Introduction to the Prolegomena for a start on the topic of Experience as a Foundation for Moral Theology. Then I could spend the rest of my academic career writing the 30 or so books that would continue the journey and assuredly still not reach the Summa status the topic deserves. Hence, I am going to do something that is at once somewhat presumptuous and probably overly ambitious. And I will do this on the basis of my experience as a clinical bioethicist, that is, as one who has been involved in many clinical decisions that had to be made, in accord with a clear time limit, by patients, their families and their medical teams. * The author is a clinical ethicist at the Centre for Clinical Ethics, Toronto, Ontario, * Canada. * El autor trabaja como consejero de ética en el Centro de Ética Clínica, en Toronto, * Ontario, Canadá. Il presente articolo riprende la relazione svolta durante il VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale (Cadine -Trento, 21-24 luglio 2010). StMor 48/2 (2010) 395-413 396 MARK MILLER Rather than outline a moral theory that would be useful for making specific moral decisions, I would rather present something like a phenomenology of moral decision making. “Phenomenology” is not the right word because it suggests a kind of descriptive approach to reality. Nonetheless I am using this word because I want to focus our attention on the act of making moral decisions in a self-reflective and self-substantiating process of analysis. Forgive the jargon, but what I am asking of you is to pay attention to the way in which you make actual moral choices – as I have been privileged to do in my work as a clinical bioethicist – and from this self-reflection we may perhaps be able to acknowledge both the fundamental role of human experience in moral choices as well as the irreducibility of this experience to formulaic moral rules. After I have sketched my understanding of the formal structure of moral decision making, I will spend a few moments examining the meaning and place of experts in various realms of human endeavour, as well as their limitations in the face of individual human subjects. I will do this using examples from my field, which will accompany my invitation to your own personal experience. 1. A Self-Reflective Look at Moral Decision Making Introductions within books on ethics or moral theology generally begin with a lengthy discussion on the meaning and scope of ethics, followed by another lengthy section on ethical theories. To me ethics and moral reasoning are an integral part of human decision making. When one chooses, one is seeking the good or choosing the better. The notion of a value-free choice is inherently incoherent when one speaks of human decision making, although there is a critical place for an unbiased pursuit of truth as far as that is possible. Accordingly, I would like to approach this topic from my appropriation of the epistemology of Bernard Lonergan, whose seminal work Insight grew into a self-reflective method for knowing and knowing our knowing. I realize that I am making a huge claim here (with Lonergan), but he is not offering a theory of knowing; rather he EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 397 is uncovering the underlying structure of all knowing. And this can give us a solid ground for understanding something about ethics.1 To oversimplify, Lonergan invites his readers to appropriate their own knowing by paying attention to what they do when they come to know something. They will discover four clearly differentiable aspects within the act of knowing and deciding. All knowledge for human beings begins with ‘experience’2 (this is the sensory data that comes to us, not the richer meaning of learning from one’s history and experiences). Such experiential data must then be ordered into insights and this is the task of what Lonergan calls ‘understanding.’ Insights may be correct or distorted and need to move to the next step for verification. This step Lonergan calls ‘judgement’ by which he means the answering of all relevant questions about the particular insight in order to ascertain, in a never-ending quest for complete knowledge, the truth of a particular insight or act of understanding. Judgements, however, may never leave our heads unless we move to the fourth level which is ‘decision’ and involves what I will maintain is the key component limiting the reach of ethics or moral theology. This component is the evaluating of all the factors that go into a de- 1 See the various works by BERNARD LONERGAN: Insight: A Study of Human Understanding (London: Longmans, Green and Co.& the Philadelphia Library,Inc., 1957); Method in Theology (New York: Herder and Herder, 1972); Collection: Papers by Bernard Lonergan, S.J., edited by Frederick E. Crowe (Montreal: Palm Publishers, 1967); A Second Collection: Papers by Bernard J.F. Lonergan, S.J., edited by William J.F. Ryan and Bernard J. Tyrrell. (London: Darton, Longman & Todd, 1974); A Third Collection: Papers by Bernard J.F. Lonergan, S.J., edited by Frederick E. Crowe (New York/Mahwah: Paulist Press; London: Geoffrey Chapman, 1985). 2 There will be some confusion in the English text around this word ‘experience.’ In Lonergan’s sense, it is the first stage of knowing and, as such, is associated primarily with sense data. In most other places in this paper, experience will refer to the broad range of what a person has gone through and/or grappled with intellectually in his/her personal history and memory. When I use the word in Lonergan’s sense, I will either make clear the sensory component or include it in the four-fold, dynamic structure of knowing: experience, understanding, judgment and decision. 398 MARK MILLER cision – the weighing and adjudicating of the importance accruing to each component that goes into a decision and its subsequent implementation. An example might help. And please be aware that none of us goes through these four steps in some neat and tidy, one-step-at-a-time process of experience followed by understanding, then judgement and decision. Our minds are so active that a constant stream of experiences is being sorted through our already culturally conditioned processes of understanding and judgement such that decisions are complex results which, in Lonergan’s terms cry out for ever-increasing authenticity. But, to the example. I would like you to think for a moment of a patient who has just been given the news that she has, let’s say, ovarian cancer, a very serious cancer with poor possibilities of successful treatment. She is hardly aware of the experiences through which this knowledge comes – she has received words, she senses the unease of the oncologist, she feels her own reactions. Her understanding seeks not just the diagnosis but the facts about this cancer, the treatment options, the length of the rest of her life, how this will affect her family and countless other elements. Her judgement is relatively uncomplex – she has heard from a specialist who speaks from a vast scientific and experiential background about cancer. Her initial decision is relatively simple; she can accept the truth of the diagnosis or live in denial or seek further information/confirmation in a second opinion. But now watch the next decision she has to make when the oncologist begins to outline treatment options. Let’s say that this doctor first suggests surgery to remove the ovaries and thus lessen the chance of the cancer spreading. The doctor then offers two different kinds of chemotherapy, one very aggressive with potentially serious side effects but a 15% success rate (meaning she has a 15% chance to still be alive in 5 years). Or the doctor can prescribe a gentler chemotherapy which is less effective (6-8%) and would include some prophylactic surgery to remove lymph nodes plus radiation for specific cancer tumours. Notice that the same process for coming to a decision is at work in this woman. She is getting insight into treatment possibilities and EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 399 trying to judge their accuracy (truth) knowing that she will have to make a decision. However, it is at this point that many patients turn to the doctor and say, ‘What would you do?” And the wise doctor says, “I cannot answer that because I cannot weigh exactly what each of these possibilities will mean for you and your life.” The art of weighing an aggressive treatment, with its often very difficult side effects, compared to a less successful and less harmful treatment is an art rather than an exercise in quantifiable and therefore verifiable exactitude. In reality, one woman will choose the harsh treatment, another the easier, and a third no treatment at all.3 They may justify their choices to their family by listing all the factors that they have been thinking about. And inherent to that process is the weight and value that is given to each particular dimension. One can see the inherently personal side to such choices when a spouse – with his own attitudes and feelings – often demands the potentially most successful treatment, not because he can (or cannot) weigh the factors but because he does not want his wife to die. His weighing and evaluating of factors must of necessity be personal for him, even though he may be trying to put himself in his wife’s shoes. 2. Practical Reason There is an insight here on the meaning of practical reason and its role in ethical decision making. Traditionally speculative reason has 3 A most interesting reflection can follow by asking one of two questions: First, which one is right? And, second, can they all be right? The first presupposes an ability to analyze all the individual circumstances in some objective manner and draw a morally certain conclusion. The second suggests that the individual, subjective side is indispensable to the decision making and there is NO right answer other than the individual patient’s. Ethicists or some such specialist might be able to support one option over another or even question a particular decision being made by a particular person. But unless there is some ironclad determination about right and wrong, then the personal decision must be respected in its unique, individual circumstances. 400 MARK MILLER been seen as the logical inter-connections of concepts such that knowledge derived from deductive reasoning was considered certain. Practical reason, on the other hand, has been understood over the centuries to involve itself in the manifold complexities of even relatively simple decisions for human beings. Hence, a traditional analysis of a moral action distinguishes the end or purpose of the action from the intention of the actor and then depends upon an analysis of the pertinent circumstances before any moral adjudication can be made. Libraries have been filled with writings on intention; and circumstances are as infinite as human situations. Consequently, there is more and more being written about the virtuous human being, the one who has not only good insight into the morally correct things to do in particular circumstances but who also has the dispositions or habits that accompany his/her ability to weigh and evaluate the many, many factors affecting a particular decision. I have been blessed to have seen this exercise of practical reason in a very particular way in the field of health care. For example, when a confrere in my town is diagnosed with something requiring surgery, I would seek out and ask the surgical nurses two questions: “Who is the most skilled surgeon?” and “Who would you recommend as the most caring doctor?” The answers to the two questions are not always identical, but there is usually a pool of names weighted by these experienced nurses in one direction or the other. 3. Why Practical Reason is Often Denigrated 3. in Academic Ethics A comment in Théodule Rey-Mermet’s excellent little book caught my attention in the context of this talk. In speaking of the acceptance of St. Alphonsus’ moral theology in the two hundred years after the ninth and last edition, Rey-Mermet comments on the strong objection Ignaz von Döllinger raised against St. Alphonsus’ method. “Even before 1870,” says Rey-Mermet, “he had fought for a German theology free of all foreign influences and which could thus lay claim EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 401 to the status of a science.”4 The context for this quote is the battle in Catholic moral theology during the 18th century between laxists and rigorists, which included such systems as probabilism, tutiorism, proabiliorism, equiprobabilism, etc. Alphonsus was attacked from both sides, but especially from the rigorists who emphasized the horror of sin and the difficulty of true confession and repentance and therefore forgiveness. Rey-Mermet’s book is a brilliant study of Alphonsus’ compassion for ordinary folk that did not degenerate into a laxist position. Rather Alphonsus demanded moral rules and the exercise of the confessional based upon the best arguments AND he learned the harm that rigorism did in the confessional, a practice he experienced as a young priest. From his work among the urban poor and then with the rural abandoned, he became both a rigorous thinker AND a confessor sensitive to the realities of human beings in their daily affairs, both of which flowed from his deep and devoted relationship with God whose mercy knows no bounds. Now the point of this digression is that word ‘science’ in von Döllinger’s criticism. The effort to try and find scientific – we might read: timeless, universal, always valid – principles for moral theology reflects the view that such a moral theology would provide ‘real knowledge’ or be an ‘authentic morality’ which even modern ethicists tend to aim for in a Kantian framework. It is almost as if anything less than absolute norms or absolute certainty would be a betrayal of true morality. The temptation to abandon practical reason for the greater certainty of speculative or deductive reason seems to me to be a constant threat to the reality of human decision making.5 A second problem with practical reason stems more or less from the same source – it is the positivist idea of science which suggests 4 THÉODULE REY-MERMET, C.SS.R., Moral Choices: The Moral Theology of Saint Alphonsus, Liguori. Trans. By Paul Laverdure. Liguori Publications, 1998, p. 134. 5 One of the very striking claims made by Rey-Mermet in the above-mentioned book is that Saint Alphonsus recognized that academic ethicists, tempted by the need to be clear (and certain?), often seemed to resolve moral issues in ways that did not take into account the realities of daily life. See the example of cursing the dead, pp. 40-42. 402 MARK MILLER that everything can be measured or quantified and is therefore verifiable in a multitude of situations. I saw this attitude played out often in health care where surgeons, specialists, physiotherapists, pharmacists, etc. were constantly providing data on ‘exactly what was accomplished,’ whereas spiritual care providers, social workers, music and recreation therapists were always scrambling to figure out ways to justify their existence. The so-called soft sciences like sociology and anthropology and even theology often end up scrambling to prove that they are evidence-based, like the hard sciences.6 While I do not have time to argue the case in this paper, I believe that this quantifiablity exercise – as seen in such moral systems as utilitarianism – is a result of the same conscious or unconscious need for certainty which confuses speculative and practice knowledge. Third, I would suggest that because practical knowledge or wisdom contains an inescapable element of subjective knowledge – based upon the weighing and valuing of particular aspects of a particular choice – our modern flight to the objective tends to dismiss this as less than knowledge precisely because it cannot be verified in any public, communal way. As a result this aspect of moral decision making must be inherently suspicious because it can so easily become subjective in the totally negative sense of the word – i.e., peculiar to an individual person and based upon his/her own will, rather than some out-there, verifiable piece of knowledge open to the scrutiny of all. An example of this suspicion was and is clear to me in the treatment of pain by modern medicine. Because pain is ‘subjective’ in the sense that little more than public manifestations of it (such as grimaces, grunts, screams, etc. – all of which can be imitated by good actors) can be verified, many, many patients have often been left in horrible pain because there is no way to prove (i.e., independently verify – independent of the subject’s testimony) the reality of the pain. Hence, to prevent potential drug abuse, subjective states and their reporting are generally banished from the realm of knowledge and its consequences. 6 Lonergan’s epistemology is extremely helpful here in understanding the methodologies particular to each branch of knowledge. See, especially, his book Insight. EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 403 A fourth issue arises when we consider practical knowledge in the face of ethics or moral theology as a Fach (G.) or a discipline or, as von Döllinger wanted to claim, a science, is the reality of power and control in the discipline of an area of expertise such as moral theology. To be somewhat callous about this, I would suggest that many people who would claim to be experts in ethics are making a greater claim to some objective knowledge than practical wisdom, correctly understood, would allow. An example of this in the field of medicine occurred for centuries, but was especially pronounced in the dramatic increase of medical interventions available by the 1960s. Now the doctor was an expert in all these possible treatments; the patient knew nothing about them. Hence, the doctor would not discuss options with a patient but would simply prescribe the treatment(s). This became known as paternalistic medicine. It was fought in the courts and by ethicists who recognized that being an expert in, say, surgery did not give a surgeon any insight into what that surgeon would do to the totality of the life of the patient. Gradually, the right of patients to demand various treatment options and to weigh potential benefits and burdens won the ethical day. Subjective knowledge – meaning, the knowledge of the subject about him/herself – came to be recognized as a key component of good health care! The simple truth here for moral theologians (or ethicists) goes back to what Rey-Mermet pointed out: What academics understand by moral situations is not necessarily the reality lived and experienced by people in their daily choices and actions. (See p. 66) The hearts, the awareness, even the language of ordinary people in their ordinary circumstances may be far removed from what an expert ethicist can supposedly identify. Hence, I would like to outline my own methodology in conversing with patients and family members about difficult moral decisions that they had to make.7 There is an art to an ethics consultation which in- 7 I would like to point out that throughout this paper (and often in North American bioethics) the patient-as-decision-maker is generally portrayed as an indepent, rational, autonomous person. In reality, i.e., in hospitals and doctors’ 404 MARK MILLER cludes such things as listening properly, paying attention to body language and tone of voice, repeating as necessary, bringing in other voices from other points of view, clarifying where something has been misspoken or misunderstood. Nonetheless, there is a specific methodology that I have tried to follow in these processes of discernment. First, I get as many of the facts about the situation as I can – some from the patient’s chart and/or the medical caregivers, some from whoever has asked for the consultation, and some from the patient or family/substitute decision makers. Obviously, one cannot get all the facts and then move on. Facts will surface as the conversation unfolds and sometimes there are big surprises well into a conversation. For example, I recall once a conversation about proper end-of-life care for an ICU stroke patient. Almost 45 minutes into the conversation, I found out that the patient had a number of major co-morbid conditions, including congestive heart failure, diabetes, very poor circulation to the extremities, and the beginnings of dementia. Suddenly what seemed a straight-forward case involving a man likely to recover became a palliative or end-of-life case. In short, one must be prepared to adjust the overall picture in accord with the facts (“the circumstances”) which may change dramatically in the re-telling of the story or, indeed, while re-telling the story. Second, since decisions are driven by feelings, it is important to allow feelings to be acknowledged and expressed. I recall one incident where a large family was gathered in the ICU waiting room because the ICU physician had come to terms with the wife and daugh- offices, patients are often frightened, overwhelmed, vulnerable, and dependent. Hence, when I speak of the patient-as-decision-maker, I use the legal fiction of this individual in the abstract sense (because then we ‘know’ who the decisionmaker ought to be). However, the reality is that he/she may make the final decision but he/she always does so in the light of conversations with spouses, family members, friends, spiritual counselors, medical personnel, etc. Hence, the decision may look focused in the abstract, but the key is what the patient chooses out of the context of his/her own life. For example, a patient may say, “Ask my wife.” That would be an autonomous decision, after which the wife makes all the decisions! EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 405 ter of a patient for whom no further treatment would ever provide an improvement. However, when the other family members were asked what they felt about the in-depth discussion that had just taken place, several of them reacted to the proposed removal of the ventilator with the statement, “I think you are trying to kill him!” The depth of feeling behind those words had to be pursued before we could even begin to explain the difference between withdrawing treatment to allow a patient to die and actually killing the patient. (Of interest here, too, was the realization that the family was from a group who felt discriminated against in society and therefore assumed that the doctor was just trying to ‘free up a bed.’) I need not remind you at this point that feelings or emotions have their own power and underlying reasons. Discerning feelings is not easy; being honest about them, even with oneself, is not easy; and ensuring that they point in the direction of good decision-making can be profoundly challenging. However, to ignore them is to assume that they are not important or perhaps that there is some rational and unemotional way to make such decisions, which is an assumption I sometimes find in academic discussions. Third, I make sure that the two extremes are clear for the decision makers. On the one hand, there are some things that are simply morally demanded. Healthcare teams have to provide good, responsible care for their patients, according to the often-changing circumstances. A physician cannot leave a patient in pain because a family member wants to punish him/her for all the bad things he/she did before. At the other extreme, there are some things that are simply wrong and cannot be done, like killing a patient to relieve suffering. The reason it is important to clarify both sides of the care picture is that there are now a number of options that are available to the patient/family which may or may not be the best choice for this patient – but which can be weighed and judged in the light of the large picture as to their appropriateness for this patient. Let us say, for example, that there are three reasonable options: 1.) Sustain the patient in the present condition until more certainty can be gained; 2.) Remove the present treatment that is prolonging the dying process and care for the patient while dying; and 3.) Try a different treatment 406 MARK MILLER that probably has very little chance of success but that might give the patient/family one last option. This is the fourth stage in my outline of the decision making process, the careful description of available options.8 Now each of these options has some possible benefits and some significant burdens/side effects/negatives – but they are all choosable options, i.e, ethically justifiable. They are not intrinsically evil; nor are they demanded by the situation. The particular benefits and burdens must be weighed by the decision makers. The role of the healthcare team is to give the best possible explanation for and insight into the potential benefits and expected burdens of each option. Sometimes people who have been through a similar experience are contacted to give their insight into what will be experienced. Often when the patient or family member, as noted above, asks the physician to make the decision, they are gently reminded that they cannot. All the feelings, family relationships, personal history, individual patient wishes (even when no longer able to make a decision), personal weighing of what the doctor has said, discussions among affected persons – all of this gets poured into the mix until an individual, responsible person (or persons) makes the best decision he or she can make, following their own conscience. To me, this is the most interesting part of the decision making process, watching people gather information, weigh options, ask for clarifications, struggle with the relative importance of each factor, tell stories, remember, converse among themselves or with the professionals, decide/change their minds, and often reflect back on how they got to this point. What I find interesting from an academic point of view is how ethicists can map out what they would do in these situations and circumstances and then defend their choices with the best of arguments. They tend to assume, however, that their weighing of each factor is clearly supported by their arguments and is (probably) 8 For a thorough decision process there are, of course, further steps such as actually deciding, then implementing the decision and, perhaps, evaluating the decision. However, they are not important for the points I am making in this paper. EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 407 unbiased. Thus, some ethicists would be prepared to give the answer (the ‘best’? the right? The most appropriate?) and would be prepared to make rules for such cases. What I am arguing is that such an exercise is inherently misguided, even though it might be helpful as an insightful process to those who have to make the decision. The role of case studies in teaching ethics to medical students (and medical professionals) is instructive here. Sometimes students rush to answers based upon their perspective; they might be surprised when they find out that the decision is not theirs to make (the principle of autonomy). They are often surprised when they grasp the legal aspects of a decision, only to stumble on the ethical aspects.9 The most interesting (and usual) comment then is that ‘there is no answer.’ People who are used to having a rule (or a diagnostic test or a logarithm or the like) by which a clear decision can be made must learn that some choices are made by individuals who do the best they can. (And, then, if the decision is one that is ethically choosable – i.e., a moral option – the role of the health care team is to provide good care in accord with the consequences of the decision.) In short, the instinct to look for what I call a ‘blueprint’ answer runs very deeply in human beings. We want clear answers that are correct and easily justified, especially by a rule. Furthermore, the effort of much of modern Enlightenment thought to quantify for measurable results and/or embrace various forms of positivism in order to dismiss values, evaluation, knowledge obtained from other than scientific method, and anything not ‘rigorously scientific’ has impoverished human thought in everything from history to theology to human emotions. These philosophies confuse 9 An example of this distinction arose for me not long ago when I was asked to give an ethical opinion regarding the re-organizing of an entire unit in a long term care facility. The staff simply re-assigned the residents without their prior knowledge and without any contact with their families who were often the legal substitute decision makers. A lawyer was consulted and suggested that the original contract signed by the residents allowed such changes. An ethical assessment recognized that the staff were ignoring a fundamental ethical right for these residents, namely, to be involved in the key decisions about treatment and how they live their lives in an institution. 408 MARK MILLER scientific method, which they suggest is the only way to obtain valid knowledge, with the underlying structure of all human knowing, an essential part of which is the work of weighing, evaluating, judging and applying principles to specific cases. 4. Drawing Some Conclusions One of the most challenging aspects of my work as a clinical bioethicist was to listen to the advice that good, faithful Catholics often received when they sought out the advice of their priests. I begin with a disclaimer that this is what these people heard; I cannot be sure that the priests actually said these things, but I also have little reason to doubt the veracity. The following are examples that have made me cringe (and just for clarity’s sake, I have added the correction in brackets): 1. Baptism was refused to a family who had brought their child, conceived through in vitro fertilization, to the parish church. The priest’s statement was that “... this was not a child of God.” (While in vitro fertilization “as presently practiced” is ethically unacceptable in the official Church teaching of Donum vitae, the encyclical of John Paul II, Evangelium vitae, made it abundantly clear that every child is a child of God, regardless of the failures of the parents.) 2. Feeding tubes are a particular concern in North America, especially in lieu of the Terri Schiavo case in Florida and the absolutist stand taken on EWTN TV. Some priests are telling their parishioners that a feeding tube must be used for anybody in a coma, particularly in a persistent vegetative state, because not to do so is to starve the person to death. (This is a controversial issue within the Catholic community. However, the Papal Allocution of 2005, followed by the CDF confirmation of the position taken, is very limited and does not speak to the issue of an individual weighing the benefits and burdens of a feeding tube for himself or herself – which is the moral tradition for the Church regarding medical treatments.) EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 409 3. A while back I received an email from a woman who refused to have her child vaccinated for measles because someone in her parish told her that the vaccine was ‘said to have been developed from tissue taken from an aborted fetus.’ It turns out that she was correctly informed; but she did not know about the Vatican statement that saw her ‘cooperation with this evil’ as remote and material and, hence, acceptable. I did not cringe over this case – but it reminded me that in the not-too-distant future there will almost certainly be treatments and possibly dramatic cures which make use of embryonic stem cells. What advice might a moral theologian then give to a desperately sick person in such circumstances? The instinct to provide answers to every situation runs deep in the Catholic tradition wherein we sought to make sure that sins were clearly delineated and laws were made ever clearer and more certain.10 However, there is a stronger tradition, I believe, which respects the right of an individual to discern and choose between a number of good options, realizing the burdens or down side that accompanies any choice. I presume that no moral theologian would say that there are no absolute moral norms; hopefully, the opposite extreme would also not surface, namely, that absolute moral norms must be clearly presented and followed. Where one draws the line, however, between these extremes depends upon our understanding of moral reasoning. Hence, I would like to draw the following conclusions, to which I have pointed rather than tried to prove. Conclusions 1. Practical reason is not speculative reason and it is inherently dependent upon the experience of individual decision makers and ac- 10 See the magisterial work by Servais Pinckaers, O/P. The Sources of Christian Ethics. Trans. by Sr. Mary Thomas Noble from the 3rd edition (Les sources de la morale chrétienne, c. 1985, 1990, 1993). Washington, DC: Catholic University of America Press, 1995. 410 MARK MILLER tors. Experience, as I have tried to show, is the process of weighing, judging and evaluating factors intrinsic to a moral situation out of one’s personal history, understanding, values, and collaboration. 2. Hence, respect for conscience must continue to be one of the cornerstones of Catholic moral thought11. By conscience, I do not mean that the individual can choose whatever he/she wishes. Rather, I follow the Church’s teaching that conscience seeks the true and the good and is morally bound to be as informed as possible under the circumstances. That the true and the good are not always perfectly clear, nor pure, should remind us that conscience may not only make some messy choices but may in fact be mistaken (as we all know). But if our fundamental way of imagining moral choosing is through discernment rather than following absolute moral rules, then moral theology as an academic endeavour must embrace a certain amount of humility in the ‘objective’ discernment of a situation. 3. Are there moral absolutes (meaning, moral rules that do not admit of exceptions)? Or is there really a relativity to morality that does not allow any fundamental, universally valid moral system or set of principles/rules to be drawn up? Lonergan would stress that the only absolute for human beings is the authentic use of our invariant cognitional structure to pursue continually the answers to the pertinent questions that human beings can raise about anything. To the extent that a person (or a community) has answered all the pertinent questions, one can approach absolutes – but the word Lonergan uses for this is Truth! Hence, if ethicists or anybody else can establish solid grounds for a moral absolute then clearly it is something we 11 Pinkaers makes a most interesting point about conscience in his reflections upon the role of nominalism in moving us away from the traditional categories of practical reason and its accompanying virtue of prudence. Conscience, he says, receives great emphasis today because of the corresponding shift to law for moral guidance. Hence, if I understand him correctly, what I am arguing for in this point is a return to prudence within the context of a respect for practical reason. See p. 268. EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 411 need to follow absolutely. To my way of thinking in the moral realm, I would hearken back to Aquinas’ understanding of moral principles whereby clearly the First Principle of Practical Reason – Do good and avoid evil – is absolute (at least until one begins to question the meaning of words like ‘good’ – I am thinking of Michael Jackson’s famous song “I’m bad” meaning “I’m really good”!). However, as moral principles become more specific, their absoluteness tends to diminish in the face of the many circumstances and even unknowns that affect a moral decision or action.12 4. Several years ago, at our Redemptorist Moral Theologians Conference in Mater Domini, I presented a paper called “The Uses of Morality.” I tried to show how morality or moral systems or moral teaching is not like mathematics where 2 + 2 = 4. Moral rules are often used for many different purposes – for example, the need for personal or communal control and order, or the psychological need for security and certainty. When one looks historically at the search for true and certain knowledge, one can also raise a question about our own attitudes towards ourselves as human beings. Can we trust the incredible diversity of human beings to make incredibly diverse decisions? Even more importantly, perhaps, we might ask the question, can we discover enough confidence in our intellectual endeavours and processes to pursue common wisdom about the values that are important and, indeed, indispensable to human beings, such that absolute (or almost absolute) rules can be put in place? I would give an example here of the euthanasia debate because I am more and more convinced that the idea of killing an innocent human being even for supposedly compassionate reasons is intrinsically wrong – not because I wish to quote God as the absolute Lawgiver, nor because I can find some exceptionless or Kantian way of proving it, but because 12 I would also point out that Aquinas, in his Summa Theologia concentrates his moral teaching first on virtue ethics and only then sees principle or rule ethics as complementary to the good person trying to make good decisions. I think the wisdom of this approach is supported by St. Paul’s insight that the Law (however one wishes to specify it) cannot motivate to implementation. Something deeper is necessary. 412 MARK MILLER all the evidence (all the answers to the questions I can raise) point to the necessity to protect vulnerable people at the end of life. Without going into the details and the usual arguments pro and con, I think that the efforts to prove this position in accord with some logical deduction following the logic of speculative reason is not possible, whereas trusting in the reasonableness of wise people to care for and protect the dying may leave the door open for those one or two exceptions that can become thousands of exceptions. So, do we absolutize the prohibition in order to be sure? 5. My final conclusion is probably not a surprise to those of you who have worked as moral theologians. What I am proposing has long been recognized as the model of discernment in our spiritual tradition. I am not suggesting that rules can be jettisoned or that rulefollowing cannot be a very, very helpful pattern of living a moral life. What I am saying is that discernment of the good is where we distinguish ourselves as human beings. The discerning Christian will discern also when and how to follow rules, to recognize which rules are more stringent than others, and to respect the discernment process of others. This model of discernment is the challenge to be an adult Christian and to take the consequences. It is to be inspired by the life of and unity with Jesus Christ, who is a model and teacher in the Gospels and whose followers have given us a Tradition and countless examples for living the life of Truth. It is a demanding model for it implies that individual Christians and communities will live out of a conviction in, an understanding of, and a union with God in Jesus Christ. And, frankly, these very Christians will humbly learn how much depends upon their own authenticity empowered by the Holy Spirit. In my title I asked two questions: What makes for expertise? & Who is an expert? I hope that by this point I can confidently say that we are all experts in our own experience – or, perhaps, better said, even if we are not experts in our own experience (for that depends upon attentiveness and self-knowledge, each of which has its own history) nobody is better placed to adjudicate it. Raise questions-yes. But even the ethicist must be first and foremost a listener in order to access, in part, the inner life of others. EXPERIENCE AS A SOURCE OF MORAL THEOLOGY 413 SUMMARIES This article attempts to speak to the reality of practical knowledge and decision making in the reality of ‘bed-side ethics.’ The article attempts to demonstrate that while ethicists can do an abstract and often excellent sketch of all the known factors going into a particular decision, they cannot ever enter the skin of the person who has to make the decision and live with the consequences. Hence, this article is a plea for ethicists to get their principles correct, to recognize when they provide guidance, and when they ought to back off and let the patient make his/her personal decision. It is also a plea to ethicists to avoid making more and more specific rules or laws because the circumstances of people’s lives are infinitely complex and people are quite capable of making their own decisions when the ethical options are clearly presented. *** Este artículo trata sobre el conocimiento práctico y la toma de decisiones en la realidad de la ‘ética a pie de cama’. Intenta demostrar que, aunque los moralistas pueden plantear un esquema abstracto, a menudo excelente, de todos los factores que entran en una decisión particular, no pueden nunca ponerse en la piel de la persona que tiene que tomar la decisión y vivir con las consecuencias. Este artículo es un ruego dirigido a los moralistas para la corrección de sus principios, para reconocer cuándo su consejo es útil, y cuando deben retirarse y dejar que el paciente tome su propia decisión. Es también una petición dirigida a los moralistas para que eviten crear cada vez un mayor número de reglas específicas o leyes, porque las circunstancias de las vidas de las personas son infinitamente más complejas, y las personas son capaces de tomar sus propias decisiones, cuando las opciones éticas se han presentado con claridad. *** Questo articolo tenta di rispondere alla realtà del sapere pratico e del processo decisionale nella situazione particolare dell’“etica del capezzale”. L’intento dell’articolo è di dimostrare che gli eticisti, mentre possono presentare un abbozzo talvolta eccellente dei fattori inerenti in una decisione particolare, non possono mai entrare nei panni della persona che deve prendere la decisione e sopravvivere con le conseguenze di una tale decisione. Dunque, l’articolo fa un appello agli eticisti di formulare correttamente i loro principi, di prenderne coscienza quando offrono una guida, e di osservare la dovuta distanza quando tocca al paziente prendere la propria decisione. L’articolo fa anche un appello agli eticisti di evitare l’accumulo di regole o leggi sempre più specifiche, perché le circostanze delle vite umane sono infinitamente complesse: le persone sono sufficientemente capaci di prendere le loro decisioni quando le opzioni etiche sono presentate in modo chiaro. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE Analisi etica e linee essenziali di confronto con la Caritas in veritate Domenico Santangelo* Il tema della povertà nel contesto della crescente globalizzazione si presenta intrinsecamente complesso e non facile da affrontare, in particolare, per l’urgenza e la dinamicità delle questioni che esso pone al vivere degli uomini in società con il “rischio [...] che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano”1. Il dibattito interdisciplinare in tema di povertà è stato negli ultimi decenni assai vivace, la letteratura ha raggiunto dimensioni considerevoli, molteplici sono stati gli studi che hanno dato origine ad una diversità di approcci, ad ognuno dei quali è corrisposta una attenta definizione e concettualizzazione2. Tra questi, per la serietà della * The author is an economist and an assistant of theological ethics at the Pontifical * Urbaniana University in Rome. * El autor es economista y auxiliar de ética teológica en la Pontificia Universidad * Urbaniana de Roma. 1 BENEDETTO XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29.06.2009), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, n. 9. 2 Si segnala in maniera specifica il contributo di area anglofona, su cui, per una rassegna significativa, cf. M. RAVALLION, Poverty Lines in Theory and Practice, Livings Standards Working Paper 133, World Bank, Washington DC, 1998; A.B. ATKINSON – F. BOURGUIGNON (eds) Handbook of Income Distribution, NorthHolland, Amsterdam 2000; S. CHEN – M. RAVALLION, «How Did the World’s Poorest Fare in the 1990s?», in Review of Income and Wealth 47 (2001) 283-300; WORLD BANK, Globalization, Growth and Poverty, World Bank, Washington (DC) StMor 48/2 (2010) 415-440 416 DOMENICO SANTANGELO competenza scientifica e per la ricchezza di analisi che ha saputo tracciare nuove strade verso cui indirizzare la comprensione e la valutazione del tema qui in discussione, si segnala l’opera dell’economista indiano Amartya Kumar Sen, sul cui contributo vorremmo soffermarci in questo articolo. In particolare, sono tre gli elementi sui quali intendiamo concentrarci: 1. presentare il pensiero dell’Autore e la sua concezione di globalizzazione; 2. esplicitare le linee principali della sua teoria per uscire dalla crescente povertà globale, una volta individuati e contestualizzati gli ambiti di riferimento delle scienze economiche che ne affrontano lo studio; 3. evidenziare le principali implicazioni etiche del pensiero qui esposto ed individuare qualche elemento generale per un confronto con l’idea di sviluppo umano contenuta nell’ultimo testo di dottrina sociale della Chiesa (= dsC), l’enciclica di papa Benedetto XVI, Caritas in veritate (= Cv) del 29 giugno 2009. Sullo sfondo della presentazione qui articolata, vorremmo fosse chiara la pertinenza morale del legittimo interrogarsi sulla globalizzazione, e della povertà nella globalizzazione: un’interrogazione che la teologia morale riempie di contenuto etico, rileggendo e interpretando dall’interno con gli strumenti e le categorie ermeneutiche sue proprie i dati offerti dalle scienze sociali3. 2002; D. DOLLAR – A. KRAAY, «Growth is Good for the Poor», in Journal of Economic Growth 7 (2002/3) 195-225. 3 È quanto, pur in forma di tentativo, abbiamo cercato di rileggere in chiave etico-teologica la proposta seniana sulla globalizzazione alla luce della dsC, su cui cf., D. SANTANGELO, Elementi di un progetto inclusivo per una globalizzazione più umana alla luce della Dottrina sociale della Chiesa. Rilettura etico-teologica della proposta di Amartya Kumar Sen, Tesi di licenza in Teologia Morale, Accademia Alfonsiana, Roma 2005. Sulla necessità di una proposta di maturazione in questo senso per la teologia morale in contesto di globalizzazione, cf. ID., «La globalizzazione: un “segno dei tempi” per il terzo millennio? Un tentativo di analisi etico-teologico», in Studia Moralia 42 (2004) 225-235. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 417 1. Amartya K. Sen: un economista etico Chi è Amartya K. Sen?4 A. K. Sen è indiano (il nome Amartya in hindu significa: “colui che è impossibile uccidere”). È nato nel 1933 a Santiniketan (altrimenti detta, “casa della pace”), nel Bengala dell’Ovest. Dell’India non solo mantiene orgogliosamente la cittadinanza, ma ha anche assorbito il metodo pragmatico di analisi dei problemi e la matrice culturale5. Si è formato alla scuola di Tagore (premio Nobel per la poesia nel 1913), ma si è poi laureato in Economics a Cambridge (Gran Bretagna). Del contesto anglofono ha sviluppato il rigore analitico che ha implementato nel percorso che lo ha condotto attraverso alcune delle più famose Università del mondo (anche da questo punto di vista, il suo contributo si situa bene nel contesto della globalizzazione): dalla London School of Economics alla Delhi University, da Oxford a Berkeley, da Stanford alla Cornell University, dal M.I.T. di Cambridge (Usa) ad Harvard (dove è tornato ad insegnare Economics e Filosofia dopo essere stato Rettore al Trinity College della Cambridge inglese). Tra i riconoscimenti e i premi internazionali ricevuti, merita rilevare la sua attribuzione del Premio Nobel per l’economia nel 1998 nella cui motivazione, e per quanto interessa anche questa presentazione, si fa notare l’aiuto che Sen ha offerto nello spiegare con una rilevanza etica i meccanismi economici sottostanti il tema della fame, la diseguaglianza e la povertà6, aggiungendo tra le ragioni che ne 4 Non essendoci testi cartacei che si soffermano con la stessa precisione, rimandiamo per approfondimenti all’auto-biografia preparata dallo stesso Autore e disponibile all’indirizzo: http://www.nobelprize.org/economics/laureates/ 1998/sen-autobio.html. Come indicazione metodologica precisiamo che, quando disponibili, ci riferiremo alla traduzione italiana degli scritti dell’Autore. 5 Su questo aspetto in particolare, cf. A. SEN, Laicismo indiano, a cura di A. Massarenti, Feltrinelli, Milano 19992. 6 Classico il suo contributo sullo studio della povertà e delle carestie, su cui, cf. ID., Povertà e carestie, Edizioni di Comunità, Milano 1997. Segnaliamo anche i pregiati studi in collaborazione con l’economista indiano di origine belga, Jean Drèze, su cui, in particolare, cf. J. DRÈZE – A. SEN, The Political Economy of Hunger, vol. 2: Famine Prevention, Clarendon Press, Oxford 2000. Sulla diseguaglianza, cf. A. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 20003. 418 DOMENICO SANTANGELO spiegano la consegna il fatto che (come si legge nel testo di attribuzione del meritato riconoscimento) il prof. Sen “has restored an ethical dimension to the discussion of vital economic problems”7. Un ‘economista etico’, quindi, dove l’unione dei due termini ‘economista’ ed ‘etico’ (affatto estrinseca) si presta bene ad inquadrare il suo pensiero, che sa comprendere oltre all’economia, la filosofia, la politica e l’etica8. Di Sen è senz’altro arduo sintetizzare la sua estesa produzione scientifica nel tentativo di ricondurla ad un unico filo conduttore, che pure crediamo si possa individuare. Ciò che ci sembra emerga con chiarezza dalla lettura dell’opera seniana (dove si intrecciano piani di analisi, chiavi di lettura, strumenti e linguaggi diversi e complementari tra di loro, tra cui frequente è il ricorso a pensatori del passato come Aristotele, Adam Smith, Confucio o Tagore, talvolta Tommaso d’Aquino), anche nel confronto con altri pensatori, è l’inclusività del suo pensiero, e questo secondo chi scrive lo rende interessante ed attuale proprio nello studio di problemi globali: Sen è non credente, si pone quindi in un’ottica extra-religiosa e non confessionale, ma al medesimo tempo aperto al confronto con il mondo religioso9. Non solo, ma siamo del parere che forse proprio la sua concreta attenzione all’uomo, colto nella sua intrinseca e complessa identità oltre alla sua sostanziale diversità (per caratteristiche personali e circostanze esterne) può consentire di individuare quel filo conduttore che potrebbe essere espli- 7 Per il testo completo, cf. http://www.nd.edu/~kmukhopa/cal300/sen/amartya InNewsMedia.htm. Per un esame della motivazione del Premio Nobel, cf. J.J. SPILLANE, «Amartya Sen: premio ‘Nobel’ per l’economia», in La Civiltà Cattolica 150 (1999) II, 362-371. 8 In particolare, cf. A. SEN, Etica ed economia, Economica Laterza, Roma-Bari 2002. 9 In questo senso condividiamo la critica fatta da T. M. Reali e rivolta al curatore italiano del testo Laicismo indiano, a cui ci siamo già richiamati, in particolare, perché forse non rende ragione della più ampia prospettiva di pensiero in cui leggere l’opera seniana. Su questo aspetto, cf. M.T. REALI, Elementi di morale economica. L’atto umano e la libertà nel pensiero di Amartya Kumar Sen e nella prospettiva cristiana, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, 27. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 419 citato e messo a fuoco nella dimensione etica fondamentale con cui Egli si richiama ai principali valori della libertà individuale e della giustizia globale, nel rispetto della pluralità delle identità culturali di ognuno a qualunque gruppo sociale appartenga10. Questa caratterizzazione del contributo seniano emerge e può ben applicarsi all’ambito di ricerca dedicato dall’Autore ai temi della povertà, dello sviluppo globale e alla connessa crescente diseguaglianza, di cui cercheremo ora di mostrare l’originale impostazione e il suo personale merito scientifico. 2. La globalizzazione secondo l’Autore Opulenze e agonie. “Una miseria degradante e una prosperità senza precedenti interrogano la globalizzazione”11: ma quale concezione di globalizzazione ha Sen? Nel parlare di globalizzazione, intesa come crescente integrazione ed interdipendenza, l’Autore ne offre una valutazione positiva, in quanto opportunità di sviluppo, “perché favorisce un maggiore movimento di beni e di persone, di tecnologia e di conoscenza”, precisando però che ciò che si richiede è “una visione più nitida della globalizzazione che non è un male assoluto né un ideale senza rischio”12. In particolare nel testo Globalizzazione e libertà, l’Autore evidenzia che la “globalizzazione non è un fatto nuovo e non può essere ridot- 10 Questi aspetti emergono, in specie, alla luce della sua ultima produzione scientifica, su cui, cf. A. SEN, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano 2004; ID., L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2005; ID., Razionalità e libertà, a cura di L. Zarri, Il Mulino, Bologna 2005; ID., Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006; P. FASSINO – S. MAFFETTONE – A. SEN, Giustizia globale, Il Saggiatore, Milano 2006. Da ultimo, A. SEN, The Idea of Justice, Allen Lane, Harvard University Press & London 2009. 11 ID., Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, 3. 12 ID., in “La Croix”, 29 giugno 2000, cit. in J. VILLAGRASA, Globalizzazione. Un mondo migliore?, Logos Press, Roma 2003, 70. 420 DOMENICO SANTANGELO ta a occidentalizzazione”13, ed inoltre, “la globalizzazione di per sé non è una follia”14, o un fenomeno solo negativo, ma al contrario è un fenomeno razionale molto complesso, con una molteplicità di aspetti, alcuni positivi, altri negativi. In ogni caso è un processo pressoché irreversibile, ma non ineluttabilmente proteso alla moltiplicazione dei profitti dei pochi ricchi a danno dei tanti non ricchi. Per il nostro Autore, “il tema centrale, direttamente o indirettamente, è la diseguaglianza”15, le diseguaglianze inter/intra-nazionali di ricchezza, le notevoli asimmetrie del potere politico, sociale ed economico, e quindi la condivisione dei potenziali benefici della globalizzazione tra Paesi ricchi e poveri e tra i diversi gruppi all’interno di uno stesso Paese. Non basta convenire sul fatto che i poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione almeno quanto i ricchi, bisogna anche assicurarsi che ottengano ciò di cui hanno bisogno. Bloccare la globalizzazione significherebbe fare un grosso danno alla/e civiltà. Gli esatti opposti della globalizzazione sarebbero il separatismo persistente e l’inesorabile anarchia16. In causa sono chiamate le istituzioni politiche, economiche, sociali e giuridiche per facilitare l’impiego giusto ed equo delle risorse: ciò potrebbe richiedere una profonda riforma istituzionale, da affrontare nel momento stesso in cui si assumono le difese della globalizzazione; si garantirebbe così quello sviluppo umano da perseguire attraverso l’ampliamento delle diverse libertà coinvolte (temi tutti sotto i nostri occhi e in agenda nel dibattito internazionale). Centrale per comprendere la posizione di Sen è la sua convinzione che “benché vi siano sufficienti motivi per sostenere la globalizzazione, nel senso migliore del termine, è necessario al contempo affrontare i temi etici e pratici di cruciale importanza – che ne derivano”17. In altri termini, si comprende come la globalizzazione sia da 13 A. SEN, Globalizzazione e libertà, 4. Ibidem, 4. 15 Ibidem, 5. 16 Cf. Ibidem, 17. 17 Ibidem, 9. Inoltre: “Non è facile, infatti, dissipare i dubbi senza aver seriamente discusso le preoccupazioni che li motivano”. 14 AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 421 giudicare per le questioni che solleva, in particolare, per i molti dubbi che problematizzano le questioni ‘globali’. Tra queste assume prioritaria rilevanza proprio la povertà, su cui ora ci soffermiamo. 3. La povertà: concetti e approcci delle scienze economiche Contestualizziamo in primo luogo il discorso come è impostato nelle scienze economiche, per comprendere poi la posizione del Nostro Autore. Un’analisi scientificamente corretta della povertà dovrebbe interrogarsi almeno su questi aspetti18: • ‘concettualizzazione’: cos’è la povertà? • ‘misurazione’: quanti sono i poveri e quanto grave è la loro condizione? • ‘poverty profile’: chi sono i poveri? • ‘determinanti della povertà’: perché sono poveri? • ‘public action’: quali strategie per alleviare o risolvere la povertà? Limitandoci solo al primo aspetto, chiediamoci: cos’è la povertà? Non è semplice fornire una definizione compiuta di tale concetto19. 18 Per sviluppi, cf. J. SACHS – P. LARRAIN, Macroeconomia e Politica Economica, Il Mulino, Bologna 1995; F.C. BAGLIANO – G. BERTOLA, Models for Dynamic Macroeconomics, Oxford University Press, Oxford 2004; G. QUARANTA – G. QUINTI, Esclusione sociale e povertà, Cerfe, Roma 2005; D. ROMER, Advanced Macroeconomics, McGraw-Hill, New York 2006; M. WIKENS, Macroeconomic Theory: A Dynamic General Equilibrium Approach, Princeton University Press, OxfordPrinceton 2008. 19 Cf. R. HAVEMAN – A. BERSHADKER, «Self-Reliance as a Poverty Criterion: Trends in Earnings-Capacity Poverty – 1975-1992», in The American Economic Review 88 (1998) 342-347; E.J. O’BOYLE, «Toward an Improved Definition of Poverty», in Review of Social Economy 57 (1999) 281-301; M. RAVALLION, «Growth, Inequality and Poverty: looking beyond averages», in World Development 29 (2001) 1803-1815. Tra gli studi più recenti che prendono in considerazione le diverse teorie esistenti in tema di povertà e le sue definizioni e concettualizzazioni, cf. R. KANBUR – L. SQUIRE, «The Evolution of Thinking about 422 DOMENICO SANTANGELO Pensando alla povertà, viene alla mente, innanzitutto, la scarsità dei mezzi di sussistenza, l’impossibilità di soddisfare i bisogni primari. La povertà è, senz’altro, la mancanza di qualcosa di importante e, talvolta, di fondamentale nella vita di una persona. Povero è chi non ha, o non ha abbastanza, o ha meno rispetto ad altri, ma la controversia è oltre al soggetto, anche sull’oggetto stesso dell’avere (chi non ha che cosa). Qui si gioca la differenza tra due metodi di rilevazione e misurazione, da cui la conseguente valutazione della povertà20: a) il metodo più tradizionale è l’approccio unidimensionale. Esso è basato essenzialmente sulla definizione e misurazione della povertà a partire da un’unica variabile, sia essa il reddito o la spesa. Da qui deriva l’identificazione della povertà come mancanza di benessere economico, ossia come la caduta di un indicatore monetario al di sotto di una soglia oggettiva: la linea di povertà (poverty line). In questo contesto, insomma, i numerosi concetti di povertà formulati sono tutti riconducibili alla tradizionale distinzione tra povertà assoluta e relativa21: il primo concetto è legato al livello di vita minimo accettabile ed è, quindi, indipendente dal contesto sociale e temporale22; il se- Poverty», in G. MEIER – J. STIGLITZ (eds), Frontiers of Development Economics, Oxford University Press, Oxford 2000; S. AMINUL ISLAM, «Sociology of Poverty: Quest for a new Orizon», in Bangladesh e-Journal of Sociology 2 (2005/1) 1-8. 20 Cf. C.F. CITRO – R.T. MICHAEL (eds), Measuring Poverty: a New Approach, National Academy Press, Washington DC 1995; D. JOLLIFFE, «Measuring Absolute and Relative Poverty: the Sensitivity of Estimated Household Consumption to Survey Design», in Journal of Economic and Social Measurement 27 (2001) 1-23. 21 Cf. J.E. FOSTER, «What is Poverty and who are the Poor? Redefinition for the United States in the 1990’s: Absolute versus Relative Poverty», in AEA Papers and Proceedings 88 (1998) 335-341; D. MADDEN, «Relative or Absolute Poverty Lines: a New Approach», in Review of Income and Wealth 46 (2000) 181199. Per una dettagliata bibliografia sugli studi in tema di povertà assoluta e povertà relativa, cf. M. RAVALLION, «Growth, Inequality and Poverty». 22 Tra i contributi più noti sulla povertà assoluta rimane quello pionieristico di B. Seebohm Rowntree, su cui cf. B. SEEBOHM ROWNTREE, Poverty: a Study of Town Life, MacMillian & Co., London 1901, a cui seguirono altre due indagini rispettivamente nel 1941 e nel 1951. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 423 condo si basa, invece, sull’assunzione che la condizione sociale di un individuo non può essere definita se non a partire dall’ambiente nel quale vive, per cui persone, famiglie, gruppi di popolazione possono essere considerati poveri quando mancano di risorse per raggiungere quei tipi di alimentazione, partecipare a quelle attività ed avere quelle condizioni di vita e comodità che sono abituali o almeno largamente incoraggiati ed approvati nella società alle quali appartengono23; b) il metodo più recente è l’approccio multidimensionale. Esso estende il numero di dimensioni definendo e misurando la povertà su una molteplicità di variabili24. Il reddito, dunque, è solo una delle dimensioni della povertà. Questo approccio focalizza l’attenzione sulla qualità della vita più che sulla ricchezza posseduta, permettendo, oltre ad una descrizione più attenta del fenomeno, una spiegazione più appropriata delle cause. In questo approccio si distinguono molte analisi e modelli ‘multivariati’: l’approccio dell’‘esclusione sociale’ di René Lenoir (1974)25, l’Indice sulla povertà umana del Rapporto sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite26, le ‘teorie fuzzy’ applicate 23 Circa i classici lavori in materia, cf. P. TOWENSEND, Poverty in the United Kingdom, Penguin Books, London 1979; T. CALLAN – B. NOLAN, «Concepts of Poverty and the Poverty Line», in Journal of Economic Surveys 5 (1991) 243-261; S. SALLILA – H. HIILAMO – R. SUND, «Rethinking Relative Measures of Poverty», in Journal of European Social Policy 16 (2006/2) 107-120. 24 Sui più qualificati, cf. J. FRIEDMAN, «Rethinking Poverty: Empowerment and Citizen Rights», in International Social Science Journal 148 (1996) 161-172; M. COSTA, A Multidimensional Approach to the Measurement of Poverty, IRISS Working Paper Series, 2002; A. FUSCO, On the Definition and Measurement of Poverty: the Contribution of Multidimensional Analysis, CEMAFI, Université Nice-Sofia Antipolis, 2003; M. SZELES, Multidimensional Poverty comparison within Europe-evidence from the European Community Household Panel, IRISS Working Paper Series, 2004. 25 Cf. R. LENOIR, Les exclus: un français sur dix, Éditions du Seuil, Paris 1974, 19892. 26 Cf. UNDP, Human Development Report 1990, New York 1990, e le relazioni degli anni successivi, soprattutto degli anni 1996 e 1997. Tra gli ultimi Rapporti globali che si soffermano in maniera dettagliata su aspetti connessi al 424 DOMENICO SANTANGELO alla povertà27 e l’approccio dei “functionings” e delle “capabilities” di cui l’Autore, A. K. Sen, ne parla per la prima volta in un saggio del 1980 intitolato: “Equality of what?”28. 4. Functionings e capabilities Nel suo interesse per l’economia dello sviluppo (welfare economics), A. K. Sen mette a punto una serie di indicatori economici che si riferiscono allo stato di povertà e di benessere di un sistema sociale: il suo pensiero è che non i beni in quanto tali creano benessere (la sua concezione di bene-essere è più ampia del puro benessere economico: si parla di stare-bene: well-being), ma l’attività in forza della quale essi sono acquisiti, così come le opportunità (meglio da lui chiamate “capacità”, o capabilities) che le risorse economiche creano29. I suoi studi sui fenomeni della povertà ed in particolare le carestie30 co- le problematiche della povertà, cf. ID., Human Development Report 2006. Beyond Scarcity: Power, Poverty and the Global Water Crisis, New York 2006; ID., Human Development Report 2007/2008. Fighting Climate Change: Human Solidarity in a Divided World, New York 2007. 27 Cf. E. CHIAPPERO MARTINETTI, «A New Approach to Evaluation of WellBeing and Poverty by Fuzzy Set Theory», in Giornale degli Economisti e Annali di Economia 53 (1994) 367-388; B. CHELI – A. LEMMI, «A Totally Fuzzy and Relative Approach to the Multidimensional Analysis of Poverty», in Economic Notes 24 (1995) 115-134 ; E. CHIAPPERO MARTINETTI, «A Multidimensional Assessment of Well-Being based on Sen’s Functioning Approach», in Rivista Internazionale di Scienze Sociali (2000/2) 207-239. 28 A. SEN, «Equality of What?», in S. MCMURRIN (ed.) Tanner Lectures on Human Values, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1980, 195-220; ristampato in A. SEN, Choice, Welfare and Measurement, Blackwell-MIT Press, Oxford-Cambridge (MA) 1982, 353-372. 29 Essenzialmente, cf. ID., «Capability and Well-Being», in M.C. NUSSBAUM – A. SEN (eds), The Quality of Life, Clarendon Press, Oxford 1993, 30-53. Per approfondimenti, cf. nota 32 di questo articolo. 30 Le analisi di Sen sulle carestie hanno indotto una vera e propria svolta, non solo nella interpretazione di questo fenomeno, ma anche nella scelta delle politiche per contrastarle. Per sviluppi, cf. A. SEN, Povertà e carestie, dove Egli AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 425 stituiscono un passo obbligato per chi si occupa di ‘economia del benessere’: Sen è stato, infatti, il primo a mostrare, dati alla mano, che non la scarsità di cibo (o altri fattori puramente quantitativi), ma vincoli formali al suo accesso sono più spesso stati causa di morte per migliaia di persone, nonché a suggerire l’inadeguatezza della variabile reddito quale unico indicatore del livello di sviluppo di un Paese o del grado di povertà della popolazione31. Per comprendere questi aspetti soffermiamoci sull’approccio multidimensionale elaborato da Sen32, per poi applicarlo al tema della povertà qui dibattuto. si è sforzato di comprendere questo problema in termini ‘ampi’: ad esempio, su come le persone si procurano il cibo, o altrimenti hanno titolo per acquisirlo, piuttosto che in termini di fornire un quadro indifferenziato dell’offerta di cibo per tutto il sistema economico. 31 Questo emerge, in particolare, dai suoi studi sulle catastrofi in India, Bangladesh, Etiopia e Africa Sahariana. Cf. ID., «Ingredients of Famine Analysis: Availability and Entitlements», in The Quarterly Journal of Economics 96 (1981) 433-464; ID., Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 1992; ID., Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, a cura di L. Piatti, Marsilio, Venezia 1993; ID., «Alcuni problemi sociali ed economici contemporanei», in PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Aspetti sociali ed etici dell’economia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, 111-119; ID., «Food, Economics and Entitlements», in J. DRÈZE – A. SEN – A. HUSSAIN (eds), The Political Economy of Hunger – Selected Essays, Clarendon Press, Oxford 1995; J. DRÈZE – A. SEN, India. Economic Development and Social Opportunity, Clarendon Press, Oxford 1995; A. SEN, «Cibo e azione pubblica», in Politica Internazionale 24 (1996/6) 15-22; ID., Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Oscar Saggi Mondadori, Milano 2001, 163-191; J. DRÈZE – A. SEN, India. Development and Participation, Clarendon Press, Oxford 20022. Il nostro Autore, insieme all’economista pakistano Mahbub ul Haq, ha contribuito a formulare dapprima il noto “Indice dello Sviluppo Umano” (ISU), che è alla base dei “Rapporti sullo Sviluppo Umano” pubblicati a cominciare dal 1990 dall’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), e al quale dal 1998 si è aggiunto un “Indice della Povertà Umana” (IPU). Sul contributo di Sen alla formulazione di questi indici, cf. S. BALDI, «L’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Vantaggi e limiti della misurazione sintetica dello sviluppo», in Affari Sociali Internazionali 26 (1998/3) 109-123. 32 Principalmente, cf. A. SEN, La diseguaglianza. Più estensivamente, cf. ID., Commodities and Capabilities, North-Holland, Amsterdam 1985; ID., «Justice: 426 DOMENICO SANTANGELO L’Autore parte dall’idea che la vita umana possa essere letta come un insieme di funzionamenti (functionings) interrelati, consistenti nelle diverse possibilità che un individuo riesce ad essere e a fare (beings and doings)33. Essere adeguatamente nutriti, godere di buona salute, evitare la morte prematura, essere felici, l’avere e prestare rispetto, partecipare alla vita della comunità, sono tutti esempi di funzionamenti. Essi sono distinti dai beni: questi ultimi sono oggetti che gli individui possono utilizzare, mentre i primi sono aspetti della vita34. In sostanza, Sen distingue tra: • beni; • caratteristiche; • funzionamenti; • utilità. Per illustrare sinteticamente le relazioni che intercorrono tra un bene ed un individuo, Egli prende come esempio una bicicletta: si può distinguere il bene (la bicicletta), dalla sua caratteristica (il trasporto). Il funzionamento, che è collegato all’utilizzo personale della caratteristica, diventa la possibilità di spostarsi, mentre infine l’utilità è collegata al piacere o desiderio di farlo35. La ricchezza dell’approccio di Sen (appellabile anche come ‘economista della povertà’) sta nell’aver focalizzato l’attenzione sulla categoria dei “funzionamenti”, ossia sulla “libertà effettivamente goduta di scegliere la vita che si ha motivo di apprezzare”36 (e la possibilità di fare le più svariate attività, sul desiderare di essere o di fare ciò Means versus Freedom», in Philosophy and Public Affairs 19 (1990/2) 11-121; ID., «Well-being, Capability and Public Policy», in Giornale degli Economisti e Annali di Economia 53 (1994) 333-348; ID., «Freedom, Capabilities and Public Action: a Response», in A. BALESTRINO – I. CARTER (eds), «Functionings and Capabilities: Normative and Policy Issues», in Notizie di Politeia 12 (1996/2) 107-125. 33 Cf. A. SEN, La diseguaglianza, 39. 34 “Un funzionamento è un conseguimento [...]. I funzionamenti sono, in un certo senso, più direttamente collegati alle condizioni di vita, dal momento che essi costituiscono diversi aspetti delle condizioni di vita” (ID., Il tenore di vita, 86). 35 Cf. ID., Scelta, benessere, equità, Mondadori, Milano 2006, 29. 36 ID., La diseguaglianza, 117. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 427 che sviluppa l’individuo). L’insieme delle combinazioni alternative dei funzionamenti è la capability di un individuo. Più che analizzare tutti i funzionamenti possibili, l’Economista si sofferma principalmente sulla capability di un individuo di “funzionare” in un certo modo, anche se quest’ultimo dovesse poi scegliere di non farlo. La capability diventa una sorta di libertà sostanziale di realizzare tutte le combinazioni possibili di funzionamenti. Potremmo tradurre il termine capabilities come un ‘mettere in grado di essere capace’: cap – abilities, scindendo la parola in due, e dove quell’ability si può intendere come “la libertà di acquisire in generale e la capacità di funzionare in particolare”37, una sorta di libertà di agency, ossia di dar forma a obiettivi, impegni e valori. 5. Capabilities e povertà Avendo definito il concetto di capability, Sen intende la povertà come mancanza di capability (incapacità di funzionare), vale a dire, assenza della capacità di appagare le libertà di base, da cui l’attenzione nei suoi studi alla diseguaglianza nella genesi e nell’incidenza della deprivazione, come alla conseguente ‘adeguatezza’ di distribuzione del reddito e degli altri indicatori sociali e nella diseguaglianza fra i poveri, ed in specie, ai più poveri fra di essi38. La povertà è, dunque, legata all’accesso delle risorse, non alla loro esistenza o meno, alla capacità e possibilità di poter disporre di beni necessari, piuttosto che alla semplice disponibilità di risorse di un Paese39. La 37 Ibidem, 182. In termini simili: “... una capacità è l’abilità di conseguire [...]. Le capacità invece sono nozioni di libertà, nel senso positivo del termine: quali opportunità reali si hanno per quanto riguarda la vita che si può condurre” (ID., Il tenore di vita, 87). 38 Su questi aspetti, in particolare, cf. ID., Lo sviluppo è libertà, in specie, 92-115. 39 Riferendosi a questi ambiti essenziali del vivere umano, negli scritti del professore di Harvard ricorrono espressioni come “primary capabilities” (ID., «Capability and Well-Being», 40-41) e “capacità fondamentali” (ID., Scelta, benessere, equità, 356-359). 428 DOMENICO SANTANGELO mancanza di capability di base può, infatti, dar luogo a mortalità prematura, denutrizione, condizioni di salute carenti, analfabetismo, mancanza di alloggio, ma anche altri mali tipici delle società più opulente come disoccupazione, criminalità e terrorismo, violenza, insicurezza per il futuro, esclusione sociale, relazioni familiari negative, ecc.40. Seguendo tale impostazione, l’economista indiano sfida la visione comune secondo cui la crescita economica – generando ricchezza, conduce inevitabilmente alla riduzione della povertà41. Da qui anche l’approccio ‘umano’ del progetto di Sen: non basta la crescita economica, o lo sviluppo economico – anche globale; è necessario un approccio integrato di crescita umana sui più vari fronti: spostando il concetto dallo spazio del ‘reddito’ a quello delle ‘capacità’, i poveri per Sen non si sentono tali perché confrontati con i redditi delle clas- 40 L’Autore (in particolare, cf. ID., Commodities and Capabilities) ha dimostrato che nonostante il Pil pro-capite di Brasile e Messico sia più di sette volte il Pil pro-capite di India, Cina e Sri Lanka, gli indicatori di speranza di vita e di mortalità infantile sono i migliori proprio nello Sri Lanka, e sono più elevati in Cina che in India, e in Messico piuttosto che in Brasile. Inoltre, se si esaminano le discriminazioni di genere in India, si giunge alla conclusione che le donne raggiungono livelli più bassi degli uomini per quanto riguarda alcuni funzionamenti, quali i tassi di mortalità per classe di età, la morbilità e la malnutrizione. L’approccio seniano, anche nel caso in cui si basi su un limitato numero di funzionamenti, mostra senza ambiguità come il Pil pro-capite sia un indicatore non adeguato di sviluppo umano, fornendo un ordinamento degli stati di benessere decisamente meno preferibile rispetto a quello condotto sulla base degli indici di sviluppo. Su questi aspetti, essenzialmente, cf. R. TARGETTI LENTI, «Dallo sviluppo economico allo sviluppo umano. Misurazione della povertà e politiche di intervento», in Aggiornamenti sociali 47 (1997) 787-792. 41 Cf. A. SEN, «Rational Fools: a Critique of the Behavioural Foundations of Economic Theory», in Philosophy and Public Affairs 6 (1977) 317-344; A.K. GIRI, «Rethinking Human Well-Being: a Dialogue with Amartya Sen», in Journal of International Development 12 (2000) 1003-1018; D. GASPER, «‘Development as Freedom’: Moving Economics Beyond Commodities – The Cautious Boldness of Amartya Sen», in Journal of International Development 12 (2000) 9891001; M. DESAI, «Amartya Sen’s Contribution to Development Economics», in Oxford Development Studies 29 (2001/3) 213-223. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 429 si più opulente, ma sono oggettivamente poveri in quanto hanno limitate capacità. Più nello specifico, l’impostazione in questione prevede un’analisi della povertà condotta secondo tre direttrici42: 1) un elenco non esaustivo dei funzionamenti basilari43; 2) una definizione della relazione tra risorse disponibili e mezzi necessari a soddisfare i bisogni; 3) una definizione dei modi alternativi per soddisfare tali bisogni. Il terzo punto è l’elemento caratterizzante l’approccio basato sulle capacità44. La povertà consiste, pertanto, nell’impossibilità del soddisfacimento dei bisogni umani perché situati nell’incapacità di realizzarli: nel senso seniano, ciò si verifica quando le persone sono private o 42 Cf. S. ALKIRE, Operationalizing Amartya Sen’s Capability Approach to Human Development, Oxford University Press, Oxford 1999. Altresì, cf. ID., Valuing Freedoms. Sen’s Capability Approach and Poverty Reduction, Oxford University Press, Oxford 2002; D. BANIK, Starvation and India’s Democracy, Routledge, London-New York 2007; N. KAKWANI – J. SILBER (eds), The Many Dimensions of Poverty, Palgrave Macmillan, New York 2007. 43 In particolare su questo punto si colloca la differenza con l’approccio delle capabilities della filosofa statunitense Martha C. Nussbaum, su cui, in lingua italiana, cf. M.C. NUSSBAUM, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, Bologna 2001; ID., Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna 2002; ID., Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, a cura di C. Faralli, Il Mulino, Bologna 2007. 44 In sintesi, per una pregevole ricostruzione e valutazione dell’approccio seniano alle capabilities, cf. S. PRESSMAN – G. SUMMERFIELD, «Sen and Capabilities», in Review of Political Economy 14 (2002) 429-434; D. GASPER, «Is Sen’s Capability Approach an Adequate Basis for Considering Human Development?», in Review of Political Economy 14 (2002) 435-461. Più ampiamente, oltre a quanto riportato nella nota n. 42, cf. A. KAUFMAN (ed. by), Capabilities Equality: Basic Issues and Problems, Routledge, London-New York 2005; S. ALKIRE – M. QIZILBASH – F. COMIM (eds), The Capability Approach: Concepts, Measures and Applications, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2008. In lingua italiana, si segnalano: F. BIONDO, Benessere, giustizia e diritti umani nel pensiero di Amartya Sen, Giappichelli, Torino 2003; M.T. REALI, Elementi di morale economica; F. CASAZZA, Sviluppo e libertà in Amartya Sen. Provocazioni per la teologia morale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2007. 430 DOMENICO SANTANGELO hanno comunque minori possibilità di percepire il ‘titolo/entitlement di acquisizione’45. Da qui, minori possibilità di essere. In effetti, la conseguente irrealizzazione dipende dalla mancanza delle capacità di base nel raggiungere quei funzionamenti che – rispetto alle condizioni economiche, politiche, giuridiche e sociali di una società – sono considerati imprescindibili. Esiste, allora, un insieme di funzionamenti che può essere ritenuto la soglia minima al di sotto della quale l’individuo versa in stato di indigenza46. Questa soglia è una linea di povertà multidimensionale, non caratterizzata esclusivamente dal reddito, ma appunto da un insieme di ‘dimensioni’ proprie di ciascuna società, il cui non perseguimento impedisce all’individuo di pervenire a situazioni accettabili di well-being47. Sen stesso, poi, suggerisce 45 Cf. A. SEN, Povertà e carestie; ID., Risorse, valori e sviluppo; J. DRÈZE – A. SEN, The Political Economy; A. SEN, «Food security and entitlement», in Politica Internazionale 29 (2001/3-4) 19-25; ID., La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Roma-Bari 20035. Per un giudizio su questi aspetti del pensiero seniano, cf. M. LEACH – R. MEARNS – I. SCOONES, «Environmental Entitlements: Dynamics and Institutions in Community-Based Natural Resource Management», in World Development 27 (1999) 225-247; J. CAMERON, «Amartya Sen on Economic Inequality: the Need for an Explicit Critique of Opulence», in Journal of International Development 12 (2000) 1031-1045; S. DEVEREUX, «Sen’s Entitlement Approach: Critiques and Counter-Critiques», in Oxford Development Studies 29 (2001/3) 244-263. 46 È una concezione che troviamo anche in scritti più lontani nel tempo, ma molto validi anche oggi, cf. A. SEN, «Poverty: An Ordinal Approach to Measurement», in Econometrica 44 (1976) 219-231; ID., «Poor, Relatively Speaking», in Oxford Economic Papers 35 (1983) 153-169. Tra gli ultimi, cf. A. SEN – S. ANAND, «Concepts of Human Development and Poverty: A Multidimensional Perspective», in UNDP, Poverty and Human Development: Human Development Papers 1997, United Nations Development Programme, New York l997, 1-20; A. SEN, «Conceptualizing and Measuring Poverty», in D.B. GRUSKY – R. KANBUR (eds), Poverty and Inequality, Stanford University Press, Stanford (CA) 2006, 30-46. 47 Oltre agli scritti di Sen di cui alla nota che precede, ci riferiamo ad alcuni autori che si ispirano al pensiero seniano: ad esempio, cf. A.J. BEBBINGTON, «Capitals and Capabilities: a Framework for Analyzing Peasant Viability, Rural Livelihoods and Poverty», in World Development 27 (1999) 2021-2044; A. BRANDOLINI – G. D’ALESSIO, Measuring Well-Being in the Functioning Space, Banca d’Italia Reseach Department, Roma 2000; J. CAMERON – D. GASPER, «Amartya AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 431 che l’approccio delle libertà di acquisire e raggiungere determinate capacità rappresenta la base più appropriata per la definizione di una adeguata teoria della giustizia. In particolare, Egli fa notare che è più proficuo pensare alla giustizia in termini di capacità degli individui, che in termini d’utilità che sperimentano o di risorse di cui dispongono48. 6. Alcune implicazioni etiche del criterio seniano 6. e confronto con la Cv Per mostrare la rilevanza etica delle questioni qui tematizzate e come l’approccio del Premio Nobel indiano aiuti ad affrontare queste problematiche globali basta domandarsi: le persone – nel caso di specie, i poveri – hanno la/le capacità di eliminare le principali fonti di illibertà, tipo l’analfabetismo e la malattia, “l’esclusione sociale, l’insicurezza economica e la negazione di libertà politiche”49? Hanno la capacità di istruirsi? Si comprende come ciò dipende non soltanto dall’aspetto monetario degli ambiti implicati, ma anche da variabili più propriamente globali, quali il sistema sociale, la cultura, i sistemi politici e ordinamentali, quelli economici. Ancora: le persone – i poveri – hanno la possibilità di accedere facilmente alle strutture sanitarie? Anche in riferimento a ciò, la globalizzazione ed il modo in cui essa è condotta rileva direttamente50: ciò non solo a motivo dell’esiSen on Inequality, Human Well-Being, and Development as Freedom», in Journal of International Development 12 (2000) 985-1045. 48 In particolare, cf. A. SEN, «Justice: Means versus Freedoms», in Philosophy and Public Affairs 19 (1990) 111-121; ID., «Social Justice and the Distribution of Income», in A.B. ATKINSON AND F. BOURGUIGNON (eds), Handbook of Income Distribution, 59-85. Tra gli ultimi scritti, cf. ID., «What Do We Want from a Theory of Justice?», in Journal of Philosophy, 103 (2006/5) 215-238; ID., The Idea of Justice. 49 A. SEN, Globalizzazione e libertà, 20; cf. ID., Lo sviluppo è libertà, 21-23. 50 Tra i più interessanti testi di riferimento circa i vantaggi e gli svantaggi della globalizzazione, soprattutto per i delicati rapporti in termini di inclusione ed esclusione, cf. L. ALLODI, Globalizzazione e relativismo culturale, Studium, Roma 2003; E. ORSENNA, Voyage aux Pays du coton. Petit précis de mondialisation, Fayard, Paris 2006; D. DEL PISTOIA, Globalizzazione, neorazzismo e ‘scontri cultu- 432 DOMENICO SANTANGELO stenza di presìdi e ambiti organizzativi necessari ai più diversi fini, ma in termini più generali per la necessaria influenza che i governi, le economie e i sistemi finanziari, le società e i loro livelli istituzionali (e non) nei vari continenti hanno sulle questioni di cui sopra, interessando la vita di tutti i popoli, proprio partendo dai più poveri (pensiamo, ad esempio, ai prezzi dei farmaci o alle politiche agricole non eque rispetto ai Paesi ricchi)51. Nei termini di Sen, possiamo chiederci: qual è il titolo valido (entitlement) per mettere in grado di essere capace, ossia, ciò che favorisce la libertà di star bene/facoltà di agire e, quindi, di uscire dalla povertà? In altre parole, qual’è l’insieme di tutti i panieri di stati di vita che l’individuo è in grado di ottenere avvalendosi delle opportunità legali, economiche, sociali e politiche di cui dispone? Ancora, quali rali’. Quando la cultura divide, Armando, Roma 2007. Più in generale e limitandoci solo ai libri, sul rapporto globalizzazione-povertà, essenzialmente cf. M. CHOSSUDOVSKY, La globalizzazione della povertà: l’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, Gruppo Abele, Torino 1998; D. DEMICHELIS (ed.), No Global: gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, Zelig, Milano 2002; P. COLLIER – D. DOLLAR, Globalizzazione, crescita economica e povertà. Rapporto della Banca mondiale, Il Mulino, Bologna 2003; R. KAPLINSKY, Globalization, Poverty and Inequality, Polity Press, Cambridge (UK) 2005; K.S. JOMO – J. BAUDOT (eds), Flat World, Big Gaps: Economic Liberalization, Globalization, Poverty and Inequality, Zed Books Ltd., London 2007. 51 La vera partita per una ‘globalizzazione dal volto più umano’ si giocherà innanzitutto sul campo delle politiche commerciali e, in secondo luogo, su quello dei movimenti di capitale (per tanti motivi il capitale e il mercato dei capitali sono divenuti nella globalizzazione più intensi e prevalenti della stessa economia reale), sia quelli di breve periodo sui mercati finanziari, sia quelli di lungo, legati a progetti d’investimento che possono aumentare le capacità produttive e di creazione di impiego delle economie dei Paesi poveri. Tra gli altri, cf. N. CHOMSKY – S. VANDANA – J.E. STIGLITZ, La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, Mondadori, Milano 2004; E. SANTARELLI – P. FIGINI, «Does Globalization Reduce Poverty? Some Empirical Evidence for the Developing Countries», in E. LEE – M. VIVARELLI (eds), Understanding Globalization, Employment and Poverty Reduction, International Labour Office, Geneva 2004; H. DISNEY, No al protezionismo! Idée per una globalizzazione migliore, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2004. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 433 sono i fattori che determinano l’‘insieme attribuzione’ o entitlement? Sicuramente sono da comprendere e valutare le diverse caratteristiche e identità personali ed insieme le diverse condizioni a livello globale del mercato del lavoro (ad esempio, le opportunità di occupazione, il saggio di salario), il sistema dei prezzi, le possibilità di produzione-distribuzione e scambio, la struttura politico-sociale, la presenza o meno di sistemi di sicurezza sociale, ecc. Da quanto siamo venuti dicendo, la chiave della proposta seniana per uscire dalla povertà nel contesto della globalizzazione è individuata dall’Autore nella libertà52, una libertà che chiameremmo ‘globale’: ‘development as freedom’ reca il titolo originale di un suo libro53, vale a dire, lo sviluppo globale richiede una libertà globale, libertà di acquisire, scegliere e ottenere ciò cui si attribuisce valore, una libertà intesa sia come fine che come principale mezzo di sviluppo – nel senso che quest’ultimo si può promuovere solo attraverso il rispetto e la tutela interconnessa delle libertà fondamentali degli esseri umani: politiche, economiche, culturali, le opportunità sociali predisposte dallo Stato e dalle società pubbliche e private. Solo attraverso queste reali ed effettive libertà una società, per di più se globale, può intraprendere con successo la strada dello sviluppo e questo dopo aver garantito l’eguaglianza in termini di capacità, ossia di possibilità concrete da parte degli individui di perseguire i loro scopi: caratteristiche intrinseche della persona, come l’età, il sesso, le condizioni fisiche e psichiche, le abilità e i talenti, i desideri e 52 Si è liberi nella misura in cui si è dotati della capacità di fare una certa cosa (reali opportunità), dotati del “potere effettivo di acquisire ciò che si sceglierebbe” (A. SEN, La diseguaglianza, 101). Riprendendo la divisione proposta da I. Berlin, Sen insiste molto sulla concezione positiva di libertà, come “libertà di”, la quale “riguarda ciò che, tenuto conto di tutto, una persona può o meno conseguire” (ID., La libertà individuale come impegno sociale, 8). “Il futuro del mondo, ritengo, è intimamente connesso al futuro della libertà nel mondo” (ID., Globalizzazione e libertà, 133). 53 Cf. nella traduzione italiana, ID., Lo sviluppo è libertà. Sulle ambiguità del traduttore italiano nel titolo (“as” con “è”), cf. F. CASAZZA, Sviluppo e libertà in Amartya Sen, 25. 434 DOMENICO SANTANGELO le aspettative, insieme al contesto sociale ed economico, l’ambiente naturale, la famiglia, le norme sociali, gli assetti istituzionali, i fattori culturali e molto altro ancora concorrono a delineare gli spazi di capacità e condizionano le evidenti possibilità di compiere scelte libere, e perciò, fautrici di well-being. Da tutto ciò emerge chiaramente come nell’opera seniana la dimensione etica fondativa può costituire un’opportuna e valida mediazione nella progressiva ricerca – condotta secondo la specifica sapienzialità – di un superiore punto di incontro tra i diversi ambiti scientifici coinvolti nella ricerca promotrice di autentico sviluppo globale. Se questa è l’ottica ermeneutica di riferimento (e l’Autore di cui abbiamo presentato il pensiero ne è esempio significativo) chi ha una diversa impostazione (per formazione, per convinzione ideologica, per strumenti usati, finanche per obiettivi conseguiti) può ritrovarsi e richiamarsi – per individuare più elevate ed inclusive sintesi sullo stesso tema – all’importanza dei valori umani, alla qualità di vita delle persone, al loro bene-essere (o conseguentemente alla loro privazione), al diritto che ogni essere umano ha di godere di rispetto e di disporre di reali opportunità nel poter vivere una vita degna di essere vissuta. In questo senso, la dsC si propone come un valido strumento di dialogo con i diversi saperi che riguardano l’uomo e, in particolare, con le scienze sociali, economiche, politiche, filosofiche e teologiche54. Di in54 A questo riguardo, l’Enciclica di Giovanni Paolo II Centesimus annus (13.05.1991) afferma che “la dottrina sociale [...] ha un’importante dimensione interdisciplinare. Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l’unica verità dell’uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell’uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola persona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua vocazione” (n. 59). A queste parole fa eco il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (su cui, cf. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004), ricordando che “La dottrina sociale della Chiesa si giova di tutti i contributi conoscitivi, da qualunque sapere provengano, e possiede un’importante dimensione interdisciplinare” (n. 76 – il corsivo è del testo). Un momento importante di tale dialogo interdisciplinare è stato rappresentato, tra l’altro, da un Seminario organizzato dal AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 435 dubbio valore è qui il riferimento all’ultima enciclica sociale di Benedetto XVI, la Cv55, che rileva (proprio per una comprensione ed un confronto interdisciplinare sulle principali questioni del vivere umano) come la dsC sia una sapienza ricca di molteplice sapere (teologico, filosofico, scientifico) a servizio dell’uomo: esercizio di un “amore ricco di intelligenza” e di “intelligenza piena di amore”, sollecitando a tal fine “una interdisciplinarità ordinata” (n. 30) tra la ricerca scientifica e le valutazioni morali fatta “di unità e di distinzione” (n. 31). Nello specifico, in confronto a Sen (sollecitati anche dalla felice comunanza del tema oggetto dell’enciclica, lo sviluppo umano integrale)56, degno di nota è quel passaggio nel testo papale dove si afferma – riprendendo il documento di cui vuole essere un approfondimento ed una attualizzazione, più che solo una commemorazione, la Populorum progressio (26.03.1967): “la Populorum progressio merita di essere considerata come «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea», che illumina il cammino dell’umanità in via di unificazione” (n. 8). Almeno due riferimenti densi di significato mostrano la stretta atPontificio Consiglio della Giustizia e della Pace il 5 novembre 1990 in occasione del centenario dell’Enciclica leonina Rerum novarum (13.05.1891), a cui lo stesso prof. A.K. Sen ha offerto il suo prezioso contributo, su cui cf. A. SEN, «Alcuni problemi sociali». Sull’importanza di questi aspetti, cf. l’interessante studio di G. CREPALDI – S. FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa. Uno studio sul magistero, Cantagalli, Siena 2006. 55 Per sviluppi, cf. BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, intr. di G. Crepaldi, Cantagalli, Siena 2009; S. BERETTA ET AL., Amore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica ‘Caritas in veritate’ di Benedetto XVI, Paoline, Milano 2009; F.G. BRAMBILLA et AL., Carità globale. Commento alla Caritas in Veritate. Con il testo integrale di Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana – Ave, Roma 2009; M. COZZOLI, «Caritas in veritate. Il nesso tra carità e verità», in Studia Moralia 47 (2009) 459-472; Forum «Caritas in Veritate. La speranza di un mondo giusto, solidale e fraterno», in Rivista di Teologia Morale 41 (2009) 509-563; «Numero monografico sull’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI», in Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa 5 (2009/3); M. TOSO, La speranza dei popoli. Lo sviluppo nella carità e nella verità, Las, Roma 2009. 56 Per una trattazione più ampia del tema oggetto del testo magisteriale, cf. D. SANTANGELO, «I diversi aspetti dello sviluppo umano integrale», in Rivista di Teologia Morale 41 (2009) 521-526. 436 DOMENICO SANTANGELO tinenza e convergenza della dsC col pensiero di Amartya Sen sulla povertà e lo sviluppo umano, prima di evidenziare un limite importante che caratterizza quest’ultima impostazione, come ci sembra emerga alla luce della concezione qui presentata, riletta in ottica magisteriale. Ecco i due richiami nella Cv: 1. riferendosi alla libertà necessaria per conseguire lo sviluppo, al n. 17 si legge: La vocazione è un appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana. Di seguito aggiunge: “«...i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza»”57 e continua: Anche questo è vocazione, un appello rivolto da uomini liberi a uomini liberi per una comune assunzione di responsabilità. Fu viva in Paolo VI la percezione dell’importanza delle strutture economiche e delle istituzioni, ma altrettanto chiara fu in lui la percezione della loro natura di strumenti della libertà umana. Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata. 2. L’altro riferimento, da cui emerge una intensa convergenza con l’economista indiano è al n. 21, dove si afferma: Paolo VI [come Sen, ci permettiamo di aggiungere] aveva una visione articolata dello sviluppo. Con il termine «sviluppo» voleva indicare l’obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dal57 Qui Benedetto XVI riprende il n. 3 dell’enciclica paolina, non riportando in aggiunta però quella bellissima espressione di Paolo VI: “La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Evidente è il riferimento al classico studio dell’Autore indiano, su cui, cf. A. SEN, Povertà e carestie. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 437 le malattie endemiche e dall’analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace. Dopo aver annotato queste convergenze, vorremmo riferirci ad almeno una lacuna esistente nella concezione del professore di Harvard, che emerge dalla lettura di Cv al n. 18, quando oltre al punto debole si evidenzia anche la possibile soluzione, precisando che: Oltre a richiedere la libertà, lo sviluppo umano integrale come vocazione esige anche che se ne rispetti la verità. La vocazione al progresso spinge gli uomini a «fare, conoscere e avere di più, per essere di più». Ma ecco il problema: che cosa significa «essere di più»? Alla domanda Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale dell’«autentico sviluppo»: esso «deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». [...] La fede cristiana [...] conta [...] solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano integrale. Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo». Ammaestrata dal suo Signore, la Chiesa scruta i segni dei tempi e li interpreta ed offre al mondo «ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità». Proprio perché Dio pronuncia il più grande «sì» all’uomo, l’uomo non può fare a meno di aprirsi alla vocazione divina per realizzare il proprio sviluppo. La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo [qui è il punto debole di Sen] e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo. Questo è il messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre. Lo sviluppo umano integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore, domanda il proprio inveramento in un «umanesimo trascendente, che [...] conferisce [all’uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale». La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda dunque 438 DOMENICO SANTANGELO sia il piano naturale sia quello soprannaturale; motivo per cui, «quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire». In Sen manca questo riferimento ad una piena integralità dell’humanum e del suo bene oggettivo, quella verità che non è solo dell’uomo, ma è anche di Dio, ribadisce il n. 79 della Cv, quando ancora nota che lo sviluppo: ... è dell’uomo, perché l’uomo è soggetto della propria esistenza; ed insieme è di Dio, perché Dio è al principio e alla fine di tutto ciò che vale e redime: «Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3, 22-23). Inoltre, “Non ci sono sviluppo plenario e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza di anima e corpo” (n. 76). In conclusione, l’approccio qui presentato, pur trattandosi di una concezione laica che si mostra aperta al contributo delle religioni, in realtà, lascia poco spazio al Trascendente, vero e autentico principio e telos ultimo di significato58 (ed, in effetti Sen, da non credente, se non lo esclude apriori, neanche lo ammette in maniera esplicita). Ciononostante, il pensiero del professore indiano merita di essere conosciuto per il suo apprezzato e meritorio sforzo di riflessione culturale finalizzata soprattutto a un discernimento che ha favorito negli ultimi decenni una proposta di ripensamento degli stessi attuali modelli e categorie di sviluppo economico e sociale, oltre allo stesso significato dell’economia e dei suoi fini. 58 In questo senso, cf. M. TOSO, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Las, Roma 2006, 59-66, 96-97. AMARTYA KUMAR SEN E LA POVERTÀ GLOBALE 439 SUMMARIES In dealing with questions that touch the lives of people today, there is always the risk of not paying adequate attention to their points of view, their actual real-life conditions and their personal well-being together with that of their family members. This calls for an authentic discernment. This manner of speaking is more especially called for when one is dealing with growing poverty in the context of present-day globalization. We are dealing with a question today regarding which there is no lack of ideological stands; and they are not fully attentive to considerations of a moral nature that, properly understood, can contribute to a true development of ‘the whole man’, embracing the entire human family. The contribution offered here aims to focus on some of the principal nuclear themes relating to global human poverty with reference to approaches commonly employed in the economic sciences. From here, in particular, the presentation proposes to clarify and to articulate what a richness of contribution can be brought to the theme under discussion by those conceptual tools that allow themselves to be recaptured from the approach of “capacities” and of “functionings” worked out in the original version of the Indian economist Amartya K. Sen, Nobel Prize Laureate for Economics in 1998. The truth will be evident in that way of how, for a more correct approach to the questions mentioned above, it is fitting to join scientific research with moral evaluations, by putting to full use for that purpose the fruitfulness of interdisciplinary dialogue – and this is precisely what the Social Doctrine of the Church promotes. A comparison between the two perspectives in their essential lines of thought will bring the presentation to an end by re-reading the thought of A. K. Sen in the light provided by the latest social encyclical Caritas in veritate of Benedict XVI. *** En los asuntos que conciernen a la vida de los hombres en la sociedad, está siempre presente el riesgo de no tener debidamente en cuenta los aspectos, las condiciones y directrices que puedan favorecer un auténtico discernimiento, orientado al bienestar de cada uno y todos los miembros que a ella pertenecen. Este discurso es especialmente cierto si se lo refiere a la creciente pobreza en el contexto de la globalización, tema de actualidad en torno al cual no faltan posiciones ideológicas no totalmente atentas a las consideraciones morales que, bien entendidas, pueden llevar a un verdadero desarrollo de ‘todo’ el hombre hasta de toda la familia humana. El aporte que se presenta aquí se centrará en algunos de los principales núcleos temáticos relacionados con el tema de la pobreza humana global, refiriéndose a los plan- 440 DOMENICO SANTANGELO teamientos de uso común en las ciencias económicas. Para ello, de modo particular, se buscará destacar y articular el significativo aporte que puede resultar de introducir en el tema en discusión aquellas herramientas conceptuales que nos remiten al enfoque de las «capacidades» y de los «funcionamientos» elaboradas en versión original por el economista indio Amartya K. Sen, premio Nobel de Economía en el 1998. Para un enfoque más correcto de las cuestiones mencionadas anteriormente, se mostrará cuán conveniente sea combinar las investigaciones científicas y las valoraciones morales, valorando para este fin la fecundidad del diálogo interdisciplinar promovido por la Doctrina Social de la Iglesia. Una confrontación entre las dos perspectivas, en sus líneas esenciales, concluirá la presentación, releyendo el pensamiento seniano a la luz de la última Encíclica social de Benedicto XVI, Caritas in veritate, sobre en el desarrollo humano integral. *** Nelle questioni che riguardano il vivere degli uomini in società è sempre presente il rischio di non tener conto adeguatamente di aspetti, condizioni e orientamenti che ne possono favorire un più autentico discernimento orientato al vivere bene di ciascuno e di tutti i membri che ne fanno parte. Questo discorso è tanto più vero se lo si riferisce alla crescente povertà nel contesto dell’attuale globalizzazione, questione attuale attorno a cui non mancano posizioni ideologiche e non pienamente attente a quelle considerazioni di natura morale che, adeguatamente comprese, possono favorire un vero sviluppo di ‘tutto’ l’uomo fino all’intera famiglia umana. Il contributo qui presentato intende mettere a fuoco alcuni dei principali nuclei tematici relativi al tema della povertà umana globale, riferendosi agli approcci comunemente usati nelle scienze economiche. Da qui, in particolare, si propone di evidenziare ed articolare quale ricchezza di contributo possono apportare al tema in discussione quegli strumenti concettuali che si fanno risalire all’approccio delle “capacità” e dei “funzionamenti” elaborati nella versione originale dall’economista indiano Amartya K. Sen, Premio Nobel per l’economia nel 1998. Si verificherà in tal modo quanto, per un più corretto approccio alle questioni di cui sopra, sia opportuno unire ricerca scientifica e valutazioni morali, valorizzando a tal fine la fecondità di dialogo interdisciplinare promossa dalla Dottrina sociale della Chiesa. Un confronto tra le due prospettive nelle sue linee essenziali concluderà la presentazione, rileggendo il pensiero seniano alla luce dell’ultima enciclica sociale sullo sviluppo umano integrale, la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Reviews / Recensiones / Recensioni FANTON ALBERTO, Metodologia per lo studio della teologia. Desidero intelligere veritatem tuam, (= Sophia Didaché / Manuali 4), Edizioni Messaggero Padova e Facoltà Teologica del Triveneto, Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 2009, 154 p. Preceduta da una breve introduzione, l’opera del professore Fanton viene disposta in sette capitoli e due appendici. Avendo il genere letterario di un manuale, viene destinata specialmente agli studenti di teologia. Nel primo capitolo, intitolato “Lo studio della teologia”, l’autore indica la fede, la tradizione ecclesiale e la scienza come i tre architravi che costruiscono l’impianto teologico (p. 8). Poi aggiunge i quattro aspetti che guidarono il teologo svizzero Karl Barth e che ancora possono stimolare coloro che insegnano o ricercano in ambito teologico: a) il luogo della teologia; b) l’esistenza teologica; c) i pericoli della teologia, e d) il lavoro teologico. Questo capitolo breve, ma ben articolato, costituisce una buona motivazione per gli studiosi della teologia, nella quale sono consigliate quattro virtù: preghiera, studio, servizio e amore (p. 16-17). Riguardo lo studio, scrive Fanton: «Lo studio in teologia non è finalizzato unicamente al conseguimento di un voto d’esame o di un grado accademico, né è il dazio dovuto per accedere agli ordini sacri. È il momento in cui si amplifica l’orizzonte della propria identità, rendendola più libera e più attenta all’agire di Dio» (p. 16). E sul servizio, afferma: «Il “lavoro” del teologo è un ministerium, un servizio reso a favore della comunità cristiana e di Dio. Difficilmente una corretta teologia può rimanere rinchiusa in una gnosi astratta e ricevere forma solo per un piacere intellettuale ed estetico del teologo» (17). Dal secondo al settimo capitolo e nei due appendici, l’autore affronta temi scelti di metodologia: “Studiare con metodo” (cap. II), saper usa- 442 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI re “Le fonti del sapere teologico” (cap. III), “La raccolta del materiale di ricerca” (cap. IV), “Documentare le proprie fonti: le citazioni” (cap. V), “La stesura di un testo: criteri generali e tipologie di lavoro scritto” (cap. VI), “la teologia in biblioteca” (cap. VII); appendice I: tavole di esempi; appendice II: abbreviazioni. Accompagnato da molti esempi, il manuale procede dalle pratiche che sembrano più ovvie (saper leggere, studiare in gruppo, prendere appunti, consultare on-line...), a quelle più complesse ed esigenti (accedere alle fonti, documentare le proprie fonti, fare le note a piè di pagina e le bibliografie, comporre tesi...). È particolarmente illustrativo il capitolo sulle fonti del sapere teologico: la Sacra Scrittura, la Tradizione, e il Magistero. Oltre alla definizione di fonte, l’autore dedica ben 50 pagine (p. 27-77) a elencare diverse fonti e sussidi con delle opportune spiegazioni. In riferimento al CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, n. 24 ricorda agli studiosi che la teologia si basa sul «fondamento perenne della parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le Sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia» (p. 28, nota 4). Nel parlare delle citazioni (capitolo V), Fanton ricorda che la coerenza, la chiarezza e la completezza sono i tre criteri fondamentali nella metodologia e aggiunge esempi ed indicazioni precise su come citare. C’è un opportuno collegamento col capitolo VI, nel quale presenta i criteri per la stesura di un testo. Siccome lo studente, quando arriva a questo livello trova grandi difficoltà sulla forma di procedere, l’autore gli indica l’applicazione metodologica come passo essenziale, se ne vuole ottenere ottimi frutti. Il lavoro preparatorio, le indicazioni tipografiche, i diversi tipi di elaborati scritti e la composizione dei testi sono i punti principali offerti allo studioso, perché possa comporre i testi in maniera scientifica. Anche gli appendici orientano in questo senso. Il volume, nonostante sia indirizzato agli studenti di teologia, è raccomandato ai professori e studenti di qualsiasi altra facoltà. ÁLVARO CÓRDOBA CHAVES, C.SS.R. REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 443 GARCÍA MAESTRO JUAN PABLO, La Teología del Siglo XXI. Hacia una teología en diálogo, PPC, Madrid 2009, 319 p. El autor de La Teología del Siglo XXI es Sacerdote Trinitario, de nacionalidad española, con títulos universitarios en Filosofía y Teología por la Universidad Gregoriana y de Sto. Tomás, de Roma; es profesor en el Instituto Superior de Pastoral de la Pontificia Universidad de Salamanca en Madrid; autor, además, de numerosas obras y artículos. La obra que se intenta presentar en esta recensión está compuesta de cuatro partes, precedidas por el prólogo y la introducción; se cierra con la conclusión y la bibliografía en 4 páginas. Cada una de las partes propone un tema específico: 1. la teología fundamental en diálogo con la increencia; 2. el diálogo ecuménico e interreligioso; 3. el pluralismo teológico y 4. la iglesia en el umbral del siglo XXI. El prólogo a esta obra, escrito por Heleno Saña, además de estimular a una lectura atenta del libro, afirma que éste “contiene una exposición a fondo de las principales corrientes teológicas del siglo XXI, desde las europeas y estadounidenses a las latinoamericanas, Asia y África. Lejos de reproducir mecánica e impersonalmente las ideas de los demás, el autor toma partido sobre ellas, sea en un sentido positivo o negativo, lo que a veces hace hablando por su cuenta y otras por medio de teólogos afines a él. No se trata de un simple tratado erudito o académico, sino de una obra en la que en cada línea vibran sentimientos y emociones personales del autor, uno de cuyos rasgos esenciales es el saber armonizar su alto nivel cultural e intelectual y sus vastos conocimientos con un lenguaje directo y sencillo y un aparato conceptual capaz de ser comprendido por el más humilde de los lectores” (p. 11). Queriendo hacer un juicio sencillo, no exhaustivo, de cada una de ellas, García Maestro, a propósito de la primera parte, relieva que “la reflexión teológica debe ser crítica y no simplemente dogmática” (p. 21), que esté dispuesta a dar razón de nuestra esperanza, “pero con dulzura y respeto”. El cometido de la primera parte versa sobre el desafío de la increencia a la teología, es decir, cómo ser creyente en una sociedad increyente. 444 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI Es posible preguntarse como lo hace el autor: “si la teodicea se cuestiona ante tanto mal si existe Dios (como ya lo hacía Epicuro), ahora desde la antropodicea, hay que preguntarse si existe de verdad la especie humana ante tanta barbarie” (p. 35). A esto responde con el pensamiento de M. Horkheimer: “teología (y religión) significa la conciencia de que este mundo es un fenómeno, que no es la verdad absoluta, que no es lo último”. En la segunda parte se propone afrontar el desafío del pluralismo religioso y cultural a la teología cristiana; en esta parte incluye el tema del Ecumenismo intracristiano, pero sin olvidar que el pluralismo religioso está exigiendo que se atienda al deseo de Jesús de Nazareth: “Que todos sean uno, como Tú y Yo somos uno, para que el mundo crea”. Al desarrollar el tema del Ecumenismo y del diálogo interreligioso, afirma que entre estas dos líneas de reflexión hay una diferencia: “la metodología en el diálogo interreligioso no puede partir, como en el diálogo ecuménico, de una visión común de lo divino-humano centrada en Cristo, sino que tendrá que recurrir al horizonte teocéntrico que reagrupa a los creyentes en la trascendencia” (p. 48). Respecto del Ecumenismo, el autor se limita a exponer la apertura de la iglesia católica al Ecumenismo a partir de Juan XXIII y del decreto conciliar Unitatis redintegratio. En cuanto al diálogo interreligioso, centra la reflexión en torno a algunos temas claves como son la relación entre la Biblia y las demás religiones, el concepto de ‘salvación’, la sentencia controvertida ‘fuera de la iglesia no hay salvación’, el diálogo con el Islam y la postura de Juan Pablo II y de Benedicto XVI de cara a este tipo de diálogo. La tercera parte, más extensa que las otras, afronta la pregunta: ¿qué significa hacer teología desde la otra espalda del mundo, desde el reverso de la historia? Hoy ya no se puede seguir haciendo teología desde un contexto meramente eurocéntrico. Por lo que respecta a la tercera parte, el autor asume el quehacer de la teología con la teología de la liberación en América Latina, en África y acerca de los desafíos de la teología asiática a la teología universal. En la última parte, la más breve de todas, el autor subraya ‘la dimensión eclesiológica’: “la iglesia, a pesar de no ser bien vista hoy, puede ser signo de credibilidad en nuestro siglo si de verdad se hace ‘sa- REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 445 maritana’, especialmente de las víctimas de nuestro mundo”. En cuanto a esta cuarta parte, García Maestro acentúa un aspecto novedoso: “el principio misericordia” a partir de la parábola evangélica del ‘Buen Samaritano’; desde esta perspectiva “una iglesia verdadera es una iglesia que se parece a Jesús. Parecerse a Jesús es reproducir la estructura de su vida según los evangelios; esto significa encarnarse y llegar a ser carne real en la historia real (...) El principio misericordia apunta a una apuesta por el valor de la persona y no tanto de las normas y leyes religiosas que acaban asfixiando el verdadero sentido de la religión” (p. 288). Si se trata de evaluar la obra de García Maestro, hay que anotar dos aspectos: uno un poco negativo, pues al lector le habría complacido encontrar un desarrollo más amplio de la tercera y cuarta partes que hacen relación a dimensiones muy actuales de la teologia; igualmente, en la segunda parte al tema del Ecumenismo le falta una mayor actualización. En cuanto al aspecto positivo, se debe reconfirmar la valoración que de ella ha hecho Heleno Saña en el prólogo: “convencido de la necesidad de recuperar la humildad de los orígenes, su defensa del cristianismo no es apologética sino interrogativa, como se apresura a señalar en la introducción: la reflexión teológica debe ser crítica, no simplemente dogmática” (p. 9). La postura de García Maestro en este libro es la de apertura audaz, decidida, de frente al futuro, y no tanto con una mirada al pasado; como afirmaba otro autor español, se trata de ‘hacer la verdad, no sólo decir la verdad’. La lectura del libro se hace con la expectativa de encontrar a cada momento una nota sugestiva que lleva a pensar en la riqueza de la teología del siglo XXI cuando apenas está comenzando. J. SILVIO BOTERO G., C.SS.R. GROCHOLEWSKI ZENON Cardinal, Universitatea Azi – Universität Heute, Editura Fundatiei Pentru Studii Europene, Cluj-Napoca 2010, p. 181. This book is the fruit of a number of visits by Cardinal Grocholewski to various universities in Rumania. Lectures given either in 446 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI French or German, are published here with a Rumanian translation. The book includes a brief Preface in English by Andrei Marga and is edited by Fr. Friedrich Bechina and Monica Merutiu. The unifying theme, as the title suggests, is the role of the university today. Accordingly, some of the pieces focus more specifically on the university as a structure while others focus on the relationship between the university and the broader social setting, both local and global. Given the Cardinal’s position as Prefect of the Congregation for Catholic Education, it is not surprising that the role of theology within universities is particularly prominent. Few academic structures, in fact, have insipired and continue to inspire so much reflection as that of the university. Perhaps because the term itself is so much used in contemporary culture, we tend to forget just what an ambitious project it is to found and run a ‘university’. Within the contemporary European context, the so-called Process of Bologna has put this theme not just on the academic but also on the political agenda. This work can be understood as an authorative explanation of the self-understanding of Roman Catholic Theology within the university setting. As is to be expected, it touches on a wide range of specific themes of a cultural, philosophical and theological nature. Among these, three receive particular attention: the idea of a university, the role of theology within the university and the relationship between a theology faculty and its broader cultural setting. On various occasions in the course of these different lectures the Cardinal returns to the underlying question concerning the very nature of the university. Alongside many interesting historical considerations concerning the origins of the universities in Europe, this central theme is handled most fully in the 2009 conference entitled “Welche Universität braucht Europa heute?” (“What kind of university does Europa need today?”). Here the Cardinal insists that the very term “university”, from the Latin adjective universus, brings out its central function: to be a centre where forms of knowledge can be brought together (137). Clearly, what this meant in 13th Century Paris and what it means in the modern metropolis is a complicated question, but the fundamental aspiration of this institution does not REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 447 change. This is put more strongly in the following pages where the author explains that the university can best be understood as an expression of the aspiration of the human spirit toward order and wholeness (141). Only if this key point is clearly understood is it possible to appreciate the importance of the other two central themes concerning the place of theology within the university and the relationship of the theology faculty to broader society. As regards the role of theology within the university, the Cardinal delivered a conference at the University of Bucharest in 2006 on the occasion of receiving a doctorate honoris causa. He finds this setting particularly suited to the theme because the University has no less that three theology faculties: Orthodox, Roman Catholic and Baptist. Drawing on the thinking of the Apostolic Constitution of John Paul II, Sapientia Christiana, 1979, the piece draws out the implications of the fundamentally ecclesial nature of theology as a discipline. Perhaps the key thesis of this lecture and the whole book could be summarized in the following terms: if the contemporary university is to remain faithful to its vocation to bring together all forms of knowledge, then theology cannot be excluded from this undertaking. Put negatively, a university which programmatically excludes theological reflection risks falling into self-contradiction in that it is not open to a key form of knowledge. The Cardinal is fully aware of the different kinds of methods appropriate to different disciplines, but repeatedly insists that the human spirit is in deep need of the kinds of knowledge which theology alone can supply. If all of this is accepted then particular problems arise in the relationship between the theology faculty within the university and the broader social and cultural setting. In many places this setting is characterized by a secularised culture which for historical and ideological reasons is fundamentally closed to the insights of faith. There is a marked tendency, particularly in globalized society, to limit university education to technical preparation. In the various lectures the Cardinal insists that such an approach is reductive and ultimately damaging to the human person and to human society. He places a particular emphasis on the responsibility of theology faculties to promote the moral education of their own members and of the societies 448 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI in which they are located. It is a paradox of contemporary culture that, while the need for ethics is keenly felt, theology is not recognised as one of the key sources of this kind of reflection in the course of European history. Taken together, these lectures cover the main intellectual, cultural and political themes which arise when one considers theology within the university. Delivered during specific visits to existing universities, it is most opportune that these reflections be made available in a single volume to a wider public. MARTIN MCKEEVER, C.SS.R. KOWALSKI EDMUND, Osoba i bioetyka. Zagadnienia biomedyczne dla duszpasterzy i katechetów [Persona e bioetica. Questioni biomediche per i pastori e catecheti], Prefazione di Card. Z. Grocholewski (Con CD: 19 Programmi Audio-Visuali), Homo Dei, Kraków 2009, 438 p. Tutti i temi delle encicliche sociali di Giovanni Paolo II, e la maggior parte dei suoi insegnamenti, hanno come oggetto la riflessione sull’uomo come persona e sul suo destino. Giovanni Paolo II con forza ha ricordato che quelle scienze ed ideologie che sviluppano una dottrina di alienazione dell’uomo, commettono un’“errore antropologico” e sono in contempo invitate a cercare la verità sull’uomo. Questa espressione è stata usata per la prima volta nel 1991 nell’enciclica Centesimus annus (n. 37), in relazione all’analisi della cosiddetta “questione ecologica”. Di fatti però, anche se non espressa in precedenza in questi termini, essa come concetto basico è presente in tutte le sue encicliche antecedenti. Il filo conduttore dell’insegnamento del Papa polacco potremmo dire che è stata la frase: “l’uomo è la via della Chiesa”. L’uomo cioè nella tutta sua concretezza come l’individuo. Il Papa ricordava che il cristianesimo è lo stupore sull’uomo letto alla luce di Cristo. Grazie a questa fondamentale verità egli preparava il terreno per la nuova riscoperta dei fondamenti culturali dell’identità europea perduta a cau- REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 449 sa delle diversi correnti del pensiero moderno. Di conseguenza, egli ha confermato l’unità, logica e conseguente, tra l’antropologia cristiana e la contemporaneità. Il crollo del sistema comunista era non solo l’abolizione di uno degli sistemi totalitari più duri e duraturi, ma ha avuto anche il carattere universale di “lezione dell’umano”. Le domande sull’uomo si sono mostrate importanti. Esse si sono mostrate come domande senza le quali la controversia sull’uomo resterebbe una questione non risolta (cfr. Laborem Exercens, 26). Nella corrente del pensiero di Giovanni Paolo II si inscrive l’eccellente studio e in qualche modo il pionieristico lavoro del padre Edmund Kowalski, redentorista e professore dell’Accademia Alfonsiana, pubblicato da Homo Dei (Casa Editrice dei Redentoristi della Provincia di Varsavia). Esso è una proposta di manuale per chi lavora nella pastorale e nella catechesi dove si riscontra un’ottima analisi e delle concrete riflessione sulle questioni biomediche. L’Autore unisce la ricca e professionale interdisciplinarità scientifica dal punto di vista della biologia, della medicina, della genetica e soprattutto della bioetica con il personalismo cristiano. Il punto di partenza per la costruzione e dell’elaborazione del manuale in questione è la risposta alla domanda iniziale: di quale uomo sta parlando la bioetica? E la risposta a questa domanda, alla luce del personalismo cristiano, è l’indicazione per una metabioetica, una più profonda base filosofica – antropologica dalla quale risultano altre, più dettagliate indicazioni ed implicazioni bioetiche. La corretta lettura di questa base teoretica decide di cosa si intende con il concetto di “bioetica”. Come termine è stato usato per la prima volta nel 1927 da Fritz Jahr, ma il significato attuale è stato coniato da parte di V. R. Potter, solamente negli anni ’70 del XX secolo. Il breve periodo dello sviluppo della bioetica come scienza, esposto dall’Autore in modo preciso, la quale nella sua complessità fa riferimento anche alle sorgenti etiche, mediche e filosofiche antiche, rinascimentali, medievali o moderni (ad esempio l’etica medica di Pio XII), giustifica il porsi queste domande fondamentali. In un certo senso nel nostro oggi noi siamo i testimoni del pionieristico periodo dello sviluppo della bioetica in quanto rispetto al passato con riflessioni più articolate poniamo domande fondamentali a cui rispondere. 450 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI La bioetica degli inizi della vita e poi di fronte ai problemi della salute, della malattia, della sofferenza, della dipendenza e anche al morire e alla morte dell’uomo, è presentata conseguentemente nella versione della “bioetica religiosa”, cioè dalla posizione della visione integrale e cristiana dell’uomo. In quest’ottica la bioetica è una proposta per trovare soluzioni a questioni difficilissimi della vita umana, in accordo con la coscienza morale retta, cioè con la natura razionale umana. L’importanza di questa proposta per i pastori, i catechisti, gli insegnanti e le comunità dei credenti, che nel loro servizio professionale o nella loro esperienza esistenziale, affrontano problemi bioetici come difficile dovere da compiere, è stata menzionata da parte del cardinale Zenon Grocholewski nella Prefazione. “Persona e bioetica è (...) l’elaborazione delle fondamentali questioni bioetiche in base alla fondazione della concezione personalistica dell’etica e dell’antropologia” (Prefazione, p. 5). Il contenuto dell’elaborazione del prof. E. Kowalski è divisa in modo chiaro – tale da poter essere usato anche come testo di studio a livello didattico – in tre parti, le quali richiamano rispettivamente le tre fasi della vita umana: gli inizi della vita umana, la sua duratura e la sua fine. L’Autore tratta anche un’interessante questione, spesso evitata nelle pubblicazioni dei temi ecologici, cioè la differenza tra l’etica biocentrica, essendo l’etica antiantropologica, e l’etica antropocentrica che manifesta la faccia opposta, cioè più umana. Questo tema è uno dei contributi più importanti nell’attuale panoramica del dibattito sulla postmoderna come visione del mondo e dell’uomo. Un altro contributo della presente pubblicazione, che aumenta il suo valore come sussidio nel processo didattico, è l’elaborazione di due dizionari pratici: uno con termini biologico-medici e il secondo con termini filosofici-teologici. Essi mettono in ordine le tappe dell’indagine dell’Autore e del Lettore indicando il contenuto e l’importanza delle concezioni più notevoli utilizzati nella pubblicazione. Anche un prezioso aiuto nel faticoso lavoro pedagogico – didattico è dato dall’aggiunta del CD contenente i programmi audio-visuali preparati per eventuali presentazioni durante la catechesi o l’incontro formativo-pastorale. Il libro, al di là dell’aiuto che può offrire a livello pastorale, è utile anzitutto come sussidio didattico, in quanto aiu- REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 451 ta a formare il lettore o lo studioso circa l’attuale ruolo dell’uomo nell’etica contemporanea, concepita alla luce delle più importanti questioni biomediche. Il libro è anche una importante voce nella discussione sull’“errore antropologico” nel pensiero sociale contemporaneo riletto alla luce dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. ANDRZEJ ZWOLIŃSKI MACHINEK MARIAN, Spór o status ludzkiego embrionu [Controversia sullo status dell’embrione umano], Wydawnictwo Uniwersytetu Warminsko-Mazurskiego (UWM), Olsztyn 2007, 401 p. L’Autore, nato nel 1960 in Polonia, è sacerdote della Congregazione dei Missionari della Santa Famiglia (MSF) dal 1986. Ha studiato in Polonia, Austria (Vienna) e Germania (Augsburg). Attualmente oltre ad essere professore e decano della Facoltà di Teologia Morale nell’Università statale a Olsztyn in Polonia ricopre anche l’incarico di redattore capo della rivista “Forum Teologiczne” della stessa facoltà. Nella sua ricerca scientifica si occupa dei temi salienti nel campo della bioetica, dell’ethos matrimoniale e familiare. Ha pubblicato numerosi libri ed articoli in polacco, tedesco e inglese. Il presente libro è una sintesi completa dei diversi approcci allo status dell’embrione umano strutturato in cinque capitoli. Nel primo capitolo è presentato l’Aspetto storico della controversia sullo status embrionale a partire dal pensiero classico greco-romano, per poi esaminare il dato biblico e patristico, per poi continuare attraverso la riflessione teologica sviluppatasi dal medioevo fino all’epoca contemporanea. Il secondo capitolo riassume tutte le fasi dello sviluppo embrionale alla luce dei più recenti ricerche scientifiche. In questo capitolo l’Autore mette l’accento sull’impiego degli embrioni umani all’interno della procreazione assistita e sul suo aspetto eticamente rilevante. La Discussione etica contemporanea sullo status dell’embrione è il tema centrale del terzo capitolo e risulta essere la parte più importante del libro. L’Autore prende in considerazione le antiche e nuove concezioni della dignità della persona per esaminare le argomentazioni 452 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI pro e contro dello statuto dell’embrione umano. Alla luce di questa ricerca molto approfondita risulta che gli argomenti di tipo pragmatico, persuasivo e politico come dissertazione pre o postetica ed anche gli argomenti che utilizzano i “valori indebitati” non costituiscono un’adeguata trattazione da cui possiamo constatare ed indicare il valore unico e proprio dell’embrione umano come valore-bene in se stesso. La discussione vera e propria sullo status dell’embrione deve concentrarsi dunque sugli argomenti che partono dall’embrione stesso, che “parlano” direttamente di lui e costituiscono la sua propria portata e forza argomentativa. Secondo l’Autore si tratta di quattro tipi di argomentazione (SCIP): l’appartenenza alla specie umana (Species), la continuità dello sviluppo (Continuity), l’identità individuale (Individuality) e la capacità-potenzialità dello sviluppo (Potentiality). Il capitolo quattro presenta gli Aspetti teologici della controversia sullo status dell’embrione umano. L’Autore sostiene che gli argomenti provenienti da una confessione religiosa non possono essere esclusi dal dibattito pubblico in quanto la maggior parte della popolazione europea confessa la propria fede in Gesù Cristo. Allo stesso tempo fa notare come la maggior parte dell’argomentazione utilizzata nel dibattito pubblico è di tipo pragmatico, persuasivo e politico. Dopo aver indicato i fondamenti teologici dello statuto dell’embrione umano come la “creazione dell’uomo ad immagine di Dio”, la “redenzione dell’uomo da parte di Gesù Cristo” e la “predestinazione dell’uomo alla vita eterna” – argomentazioni sulle quali si fonda l’innata e inalienabile dignità dell’uomo come persona e il suo irrinunciabile diritto alla vita –, l’Autore presenta la posizione della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane (ortodossa e protestante) ed anche le posizioni delle più grande religioni del mondo. Il quinto ed ultimo capitolo compendia la legislazione dell’Unione Europea e di altri paesi europei non appartenenti all’unione circa l’embrione umano. Grazie allo studio sulla legislazione dei vari Stati si comprende come paradossalmente la maggior parte della giurisprudenza europea si occupa soprattutto della regolazione delle procedure della procreazione umana assistita e per conseguenza sottomette lo statuto dell’embrione umano agli scopi scientifici (ricerche, sperimenti), ai cosiddetti scopi “terapeutici” o procreativi (tecniche in vitro, crioconservazione). REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 453 La grande diversità degli approcci e dei livelli della riflessione, presentati dal prof. M. Machinek nella sua ben curata ricerca scientifica, non soltanto introducono il lettore nella problematica molto complessa dello statuto dell’embrione umano, permette particolarmente un approccio multidimensionale dei fatti, delle opinioni e delle diverse posizioni. Accanto all’informazioni e alle riflessioni molto dettagliate dal punto di vista medico, filosofico, storico, teologico e giuridico, la lettura del testo permette di investigare criticamente l’ampiezza degli argomenti sia di coloro che aderiscono allo “status ridotto” dell’embrione umano sia dei propagatori del suo “pieno statuto” come essere umano individuale, in continuo sviluppo delle sue capacità, potenzialità e facoltà tipicamente e che partecipa all’inalienabile dignità della persona umana. EDMUND KOWALSKI, C.SS.R. TREMBLAY RÉAL, François-Xavier Durrwell teologo della Pasqua di Cristo (= Memoria viva, volume 7), Lateran University Press, Città del Vaticano 2010, 271 p. [con Bibliografia durrwelliana a cura di J. Mimeault]. La teologia morale postconciliare si è impegnata a mettere in evidenza il volto propriamente teologico della propria disciplina, secondo il noto auspicio del Concilio Vaticano II (OT, n. 16). L’istanza della teologicità rimane però anche oggi un compito fondamentale per il teologo morale che non può essere svolto, se non attraverso una continua frequentazione delle altre discipline teologiche, specialmente della teologia biblica e di quella dogmatica. Trovare dei validi interlocutori in questi campi, anzi dei veri e propri maestri dai quali attingere contenuti e prospettive per la propria riflessione, è un grande dono, specialmente in un tempo nel quale le diverse discipline teologiche tendono a specializzarsi in modo esagerato, facendo perdere facilmente la visione d’insieme e i nessi tra i diversi saperi. In questo senso il volume di Réal Tremblay, pubblicato in occasione del quinto anniversario della morte del teologo redentorista François- 454 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI Xavier Durrwell (1912-2005), rappresenta un invito per la teologia morale ad incontrare e conoscere un vero maestro di teologia, come Durrwell, che sa trasportare i suoi lettori in modo sicuro e coinvolgente al centro di ogni riflessione teologica, il mistero vivente del Cristo crocifisso e risorto. Il libro è un omaggio del prof. Tremblay al «grande teologo del mistero pasquale » (p. 7) e non è ovviamente diretto in modo esclusivo alla comunità dei teologi morali, quanto piuttosto a quanti hanno interesse per l’imponente opera del P. Durrwell e la volessero studiare più a fondo, grazie anche ad una minuziosa e molto utile «bibliografia durrwelliana» (pp. 212-266), a cura del prof. Jules Mimeault e che raccoglie non solo i suoi numerosi scritti, ma anche le recensioni e la letteratura prodotta sul suo pensiero. Coloro che coltivano però la teologia morale possono trovare nelle pagine del volume particolare profitto, perché esso si presenta come un percorso attraverso gli studi che Tremblay ha dedicato per un arco di quasi tre decenni al pensiero di Durrwell. È lo stesso periodo, infatti, in cui l’Autore si è impegnato ad elaborare una fondazione cristologica della teologia morale, nella quale diverse intuizioni dell’opera durrwelliana sono state messe a frutto. Diviso in sette capitoli, il volume raccoglie altrettanti saggi che l’Autore ha pubblicato tra il 1987 e il 2009, in francese, su alcune riviste scientifiche e opere collettive, presentandoli qui in ordine cronologico e tradotti in italiano, con qualche aggiunta di novità bibliografiche e piccole correzioni stilistiche. Vengono così presentati i temi più rilevanti di Durrwell, sia nell’insieme del suo pensiero, che alla luce più dettagliata di alcune sue opere maggiori, come avviene in alcuni capitoli. Si tratta di argomenti centrali non solo del suo pensiero, ma anche della riflessione teologica in sé: la teologia della croce e della morte di Cristo (capp. 1 e 2); il mistero del Padre e della nostra filiazione (cap. 3 e 6); l’eucaristia (cap. 4); la cristologia pasquale e il suo impatto sull’antropologia (cap. 5), come anche sull’escatologia e sulla protologia (cap. 7). L’accostamento al teologo francese non è semplicemente illustrativo, ma anche critico: Tremblay offre l’esempio di un confronto intellettuale, sincero e appassionato, «per chiedere ragione, chiarimento e precisazione – come scrive nell’introduzione – per proporre altri punti di REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 455 vista, per edificare e approfondire» (p. 8). Anche laddove emergono «certe riserve» (p. 64) o «perplessità» (p. 207) rispetto alla visione durrwelliana, nonché «difficoltà» già segnalate nelle sue stesse opere (pp. 44-46), Tremblay non nasconde la sua ammirazione per « un teologo della statura di Durrwell » (p. 163), un «grande maestro» (p. 160) che ha voluto ricostruire la bellezza del mistero rivelato come una cattedrale, a cui era stata strappata nel passato – per usare la stessa immagine di Durrwell – la chiave di volta, il Cristo risuscitato nella sua morte. Di questo progetto di ricostruzione, «largamente realizzato» (p. 159), l’Autore si lascia «rapire dalla sua coerenza e dal suo splendore, e soprattutto dal senso che riveste – la vera teologia è sempre al servizio della vita – per l’esistenza cristiana» (p. 159). Le domande che Tremblay rivolge con acutezza, come ad esempio circa l’unità-differenza tra l’ordine della redenzione e quello della creazione (pp. 207-210), o il confronto a cui sottopone il pensiero durrwelliano con i testi patristici e del Magistero circa la concezione dell’eucaristia come «presenza sacrificale del Risorto» e « luogo del nostro sì al Padre» (cap. 4), divengono così occasione per interloquire con il suo « confratello e amico» (p. 8), precisando aspetti della sua opera e mettendone in risalto la sua peculiarità. Inoltre, l’Autore mostra di conoscere l’ormai ampia letteratura secondaria riguardo agli scritti di Durrwell, dialogando criticamente con quanti hanno approfondito il suo pensiero (come ad esempio G. Remy e J. Mimeault), ne hanno intuito il suo grande valore (H.U. von Balthasar o H. de Lubac) oppure lo hanno criticato in modo ingiustificato (J.-H. Nicolas, pp. 106-111). In una prospettiva teologico-morale sono diverse le pagine di questo volume che spingono ad ulteriori riflessioni. In ogni capitolo, l’Autore trova il ponte tra il pensiero di Durrwell e la concezione della vita cristiana, sotto il profilo morale e antropologico. Così ad esempio viene sviscerata nella sue implicazioni spirituali ed etiche l’idea della nostra filiazione-generazione in Dio Padre, attraverso il realismo dell’essere impiantati in Cristo (pp. 78-86). Anche nel capitolo dedicato all’opera-sintesi di Durrwell, Cristo nostra Pasqua, Tremblay fa emergere quale tipo di morale risulta dallo scritto esaminato: una morale di «natura escatologica», animata dallo Spirito Santo «che spinge, chiama alla comunione finale con il Figlio morto e risorto» (p. 147) e con- 456 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI ferisce alla vita cristiana il dinamismo delle «virtù teologali». La teologia del Padre suscita poi considerazioni eticamente dense sulla paternità umana che nei nostri giorni vive una sua evidente crisi (pp. 186187). Lo stesso arricchimento teologico-morale si può ravvisare nella proposta durrwelliana di superare definitivamente in teologia la separazione tra ordine della creazione e quello della redenzione per una concezione della persona umana «non come una realtà statica, ma come una realtà in movimento, presa in una forza di attrazione che la spinge» (p. 207), il mistero vivente del Cristo pasquale. Una particolare attenzione della teologia morale merita il tema della morte redentiva di Cristo, che ritorna continuamente in tutto il volume, specialmente però nei primi due capitoli. Qui l’Autore ricostruisce il pensiero di Durrwell, ne coglie l’impatto per la vita morale e lo confronta anche con le sue domande critiche. Infatti, il capitolo secondo, «La morte di Cristo, una nascita filiale», riproduce l’inizio di un dibattito tra Tremblay e Durrwell che i lettori di Studia Moralia possono ricordare, svoltosi sulla rivista tra il 1988 e il 1989. Durrwell è stato impegnato a superare un concetto della morte espiatrice di Gesù che ancora oggi non appare del tutto sconfitto, falsificando l’immagine della paternità di Dio: è l’idea che Cristo avrebbe pagato a Dio Padre il prezzo della riconciliazione con gli uomini, attraverso il suo sangue. Ne risulterebbe un’immagine malvagia del Padre, un Dio che reclama da Gesù un pagamento cruente per colpe non sue. Con la Scrittura, Durrwell corregge questa distorsione, facendo capire che un grande prezzo è stato effettivamente pagato per la nostra redenzione, un « sangue prezioso, quello dell’Agnello» (1Pt 1, 18), ma nell’ordine dell’amore e del dono di sé non solo del Figlio, ma anche del Padre: «la passione è dunque vissuta nella relazione di Gesù con suo Padre. In compenso, essa si integra nel mistero del Padre che genera suo Figlio» (p. 58). Morte e risurrezione non sono giustapposti né due momenti contrapposti, ma in stretta relazione, anzi « si deve constatare che c’è coincidenza della morte e della gloria» (pp. 36-37), in quanto «la morte come espressione compiuta del Figlio incarnato che si dona non esiste che nella risurrezione mediante cui il Padre lo genera di nuovo» (pp. 41-42). Nell’unico evento di morte-risurrezione, il Padre può abbracciare il Figlio REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 457 con lo Spirito Santo, facendo di Cristo morto-risorto la sua immagine perfetta: « tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato» (Sal 2, 7; At 13, 33). Superando la concezione giuridico-espiatrice della morte di Cristo e affermando l’unità del mistero della morte-risurrezione del Figlio di Dio, Durrwell preferisce sottolineare l’aspetto della « solidarietà» della croce e ricorda come « la morte di Cristo resta eternizzata nella gloria» (p. 30). Nella morte sulla croce, Gesù fa dono di sé a Dio Padre, dono che porta a compimento umanamente il suo essere-Figlio: il suo «morire per noi» significa che egli vive totalmente per noi, a nostro vantaggio, in piena solidarietà con gli uomini, non in sostituzione nostra o per pagare una semplice somma che rimarrebbe « una realtà estrinseca al Figlio» (p. 66), quindi fuori dall’orizzonte dell’amore trinitario. Tale concezione della morte di Cristo, fa emergere l’obiezione di Tremblay: « Durrwell non riesce ad introdurre nella morte di Cristo la morte-separazione di Dio che è connessa al peccato del mondo come al suo frutto e che Cristo porta in sé in virtù di una misteriosa solidarietà chiaramente affermata dalla Scrittura e recepita dalla grande Tradizione della Chiesa» (p. 64). Il teologo francese conosce la morte-separazione da Dio come conseguenza del peccato, ricorda Tremblay, ma sembra non riuscire ad applicarla a Gesù « per paura che Cristo appaia come colui che è rigettato dal Padre » (p. 66). La morte-rottura può però trovare accoglienza nella concezione durrwelliana della croce, annota Tremblay, « senza che l’impronta originale e positiva del suo pensiero sia modificata» (p. 66): Gesù non muore certamente separato dal Padre, ma in comunione assoluta con lui. Tuttavia « Dio ha dato a suo Figlio [...] di sperimentare la terrificante conseguenza del peccato» (p. 66), che rimane sempre esperienza di rottura del rapporto tra l’uomo e Dio, affinché Cristo potesse raggiungere veramente la conseguenza di questa rottura e distruggere il peccato per sempre con il suo sì filiale. La morte non è quindi più la punizione, ma « il luogo in cui si dispiega la piena verità filiale di Gesù» (p. 41) e dove « la sua gloria si eternizza »: ne consegue che il Risorto non è « al di là o al di fuori dell’umanità, ma in comunione con essa» (p. 46). La teologia morale che è chiamata a riflettere teologicamente le esperienze-limite come la morte, può trovare in questa concezione non poche chiavi di lettura. Lo riconosce anche l’Autore quando scrive che « l’inclusione del- 458 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI la morte nella risurrezione ha infinite conseguenze capitali sulla costituzione della vita morale dei cristiani» (p. 48): legati sacramentalmente a Cristo, anche i cristiani hanno la possibilità di divenire nell’ora della morte ciò che già sono, figli di Dio nel suo Figlio, vivendo il pieno dono di sé, raggiungendo con la propria morte Gesù nella sua morte-gloria e concependo la morte non più come maledizione, ma come «luogo della piena filiazione», dove si accetta pienamente la « condizione di creatura filiale che si riceve da Dio» (p. 206). VINCENZO VIVA Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale Resoconto del VII Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale Cadine -Trento (Tn), 21-24 luglio 2010 Enrique López, C.Ss.R. – Gabriel Witaszek, C.Ss.R. Nei giorni dal 21 al 24 luglio 2010 si è tenuto a Cadine (Tn) presso il Centro Mariapoli “Parola di Vita”, un importante Congresso redentorista: Le fonti classiche e contemporanee della teologia morale, organizzato dal Governo Generale dei Redentoristi. Per quattro giorni, i redentoristi provenienti da ogni parte del mondo si sono scambiati informazioni e riflessioni su questo tema veramente attuale e talvolta controverso. Le sette relazioni che sono state tenute nell’arco del Congresso, hanno consentito di individuare, anche attraverso la partecipazione diretta dei congressisti e l’esposizione di esempi concreti, il significato delle fonti della teologia morale e gli orientamenti che possono essere riscoperti e valorizzati per una vita evangelica. Il Congresso si è aperto con l’introduzione di Enrique López, Vicario Generale, e nello stesso tempo, organizzatore del Congresso assieme a Raymondo Douziech. Egli ha brevemente tracciato la storia dei congressi redentoristi precisando che a seguito dei suggerimenti emersi durante il Sesto Congresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale svoltosi a Bogotà in Colombia nel 2006, il Consiglio Generale ha costituito una Commissione di Teologia Morale. La Commissione nell’organizzare VII Congresso Internazionale ha proposto come tema Le fonti classiche e contemporanee della teologia morale. Padre López ha sottolineato che lo scopo di questo Congresso è di evidenziare le pietre miliari della teologia morale fondamentale per poter avviare, a livello redentorista, un dibattito sul piano scientifico e pastorale. Tale dibattito sembra essere necessario e quanto mai attuale, addirittura sollecitato dall’odierna situazione pa- 460 ENRIQUE LÓPEZ – GABRIEL WITASZEK storale. In questo Congresso, con l’aiuto di relatori, si è cercato di riscoprire, alla luce delle fonti classiche e contemporanee, la ricchezza teologica della morale fondamentale. La prima sessione moderata dal Prof. Martin McKeever (Accademia Alfonsiana, Roma) è stata aperta dal Prof. Anthony Kelly (Università Cattolica, Australia) con il tema The resurrection of the Crucified: what differences does it make? Oggetto della riflessione era il rapporto della risurrezione di Cristo ai fondamenti metodologici della teologia morale. Per il carattere “indefinibile” l’avvenimento della risurrezione è spesso trascurato nei metodi teologici, anche quando i teologi analizzano i valori positivi e negativi che riguardano la condizione umana. La risurrezione ha un effetto di speranza specialmente per le vittime della storia e nell’ispirare ed esprimere i valori trasformativi della nostra partecipazione nell’amore del Dio. La relazione Una moral « más nutrida de la doctrina de la Sagrada Escritura» è stata affidata al Prof. Alberto de Mingo (Istituto Superiore delle Scienze Morali, Madrid) che ha analizzato il tema della Bibbia quale fonte della teologia morale di ieri, di oggi e del futuro. All’inizio, il relatore ha spiegato come questo tema fosse visto nel passato, riferendosi al decreto del Concilio Vaticano II, sulla formazione sacerdotale Optatam Totius 16 che ha anche indicato la direzione da seguire nel rinnovamento della teologia morale. Il Concilio Vaticano II ha riorientato pienamente questa disciplina facendo rincontrare la morale con la Bibbia, pilastro di tale cambiamento. La redazione del testo di OT 16, che definisce la teologia morale nello spirito del Vaticano II, si deve anche a Bernhard Häring che ha posto teologia morale nella nuova luce. Al rinnovamento della teologia morale ha fortemente contribuito anche il movimento biblico dopo la pubblicazione dell’Enciclica Divino Afflante Spiritus nel 1943. Dopo tali iniziative, nei moralisti è nato l’interesse per una morale della rivelazione, concentrata soprattutto sulla storia della salvezza e sulla persona umano. Dopo il Vaticano II, in contatto con la Bibbia, la teologia morale è stata ripensata. L’avvicinamento alla Bibbia e la nuova comprensione della rivelazione hanno gettato le nuove fondamenta per comprendere la vita e la missione dei cristiani nella Chiesa. L’etica cristiana, come auspica il Concilio Vaticano II (OT 16), si ap- VII CONGRESSO INTERNAZIONALE REDENTORISTA DI TEOLOGIA MORALE 461 poggia da un lato sulla rivelazione di Dio, realtà “teandrica” perenne, ma in continuo divenire quanto alla comprensione e all’espressione da parte degli esseri umani, dall’altro lato sull’antropologia e le scienze umane in genere, che giustamente sono in continua evoluzione, anche sotto la spinta di fatti storici non prevedibili. Il materiale normativo offerto dalla Scrittura appare spesso inadatto, troppo condizionato culturalmente, inapplicabile in una situazione profondamente mutata; in ogni caso insufficiente, visto che molti ambiti della riflessione etica oggi per noi fondamentali (politica, lavoro, economia, amore e sessualità, etica biomedica e ricerca scientifica), nella Scrittura semplicemente non compaiono. Possono derivarne due conseguenze quasi opposte, ugualmente errate e cariche di rischi: quella di ritenere la Bibbia ininfluente o quasi, ai fini della vita morale o, al contrario, di ritenere immediatamente e universalmente valido il contenuto etico che è affermato nei vari libri biblici o che da essi sembra deducibile. In realtà anche nei libri della Bibbia, che in apparenza non hanno nulla di prescrittivo, c’è una portata etica; ma certo essa non può essere affrontata come una raccolta di indicazioni per l’agire, universalmente valide e pronte all’uso. Tali norme non sono mai isolate, a sé stanti, bensì si riferiscono sempre a un determinato contesto. Nell’antropologia biblica ciò che è primario e fondamentale è l’agire di Dio, che previene quello dell’uomo, i suoi doni di grazia, il suo invito alla comunione. Il complesso normativo è una conseguenza per indicare all’uomo quale sia il modo adeguato di accogliere il dono di Dio e di viverlo. Nella prospettiva biblica un discorso sulle norme morali non può essere ristretto ad esse, analizzate in maniera isolata, ma deve essere sempre inserito nel contesto della visione biblica dell’esistenza umana. Alla base di questa concezione biblica c’è la visione della persona umana così come è stata creata da Dio: essa non è mai un essere isolato, autonomo, svincolato da tutto e da tutti, ma si trova in un rapporto radicale e essenziale con Dio e con la comunità dei fratelli. Dio ha creato l’uomo secondo la propria immagine: la stessa esistenza dell’uomo è il primo e fondamentale dono che egli ha ricevuto da Dio. Un nuovo impulso al rinnovamento della teologia morale si è avuto con L’Enciclica Dei Verbum. Già nel primo capitolo (DV 2) si dice: 462 ENRIQUE LÓPEZ – GABRIEL WITASZEK “Dio ha rivelato se stesso e ha dato conoscere il mistero della sua volontà”. Da quel momento e in poi, nella teologia in generale, prevale una determinata concezione della rivelazione. Il Concilio di Trento e il Vaticano I intendevano la rivelazione, soprattutto, come iniziativa di Dio, che ha dato alla Chiesa il deposito delle verità dogmatiche e morali. La Chiesa come custode di tali verità e norme doveva proteggerle e assicurarsi che nessun errore dell’epoca le distruggesse. I fedeli non erano costretti a conoscerle teoreticamente, ma erano soltanto obbligati a comportarsi nella vita concreta secondo tali norme. Il precedente modello della rivelazione di carattere normativo è stato sostituito dal Vaticano II con il modello di carattere personalista. Secondo Dei Verbum, Dio non si è limitato a rivelare le verità della fede, ma ha rivelato se stesso. Dunque la Sacra Scrittura non soltanto presenta la prospettiva teologico – fondamentale, ma è luogo dove si può incontrare Dio. Essa riporta tutta la viva storia delle relazioni fra Dio e il suo popolo ed è strumento per un’incontro con la Trinità. Questa nuova impostazione della Rivelazione determina anche un nuovo modo di vedere la morale. Se oggetto della rivelazione è Dio che rivela se stesso e che vuole installare una relazione personale con ogni uomo, nel centro dell’attenzione della Teologia Morale deve esserci ogni persona nel suo dinamismo storico e nella sua relazionalità. De Mingo parlando della relazione fra Bibbia e morale, si è riferito anche al Documento della Pontificia Commissione Biblica: Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano1. Il documento si articola attorno a un’intuizione fondamentale: l’attività morale del cristiano è la risposta al dono di Dio che prende l’iniziativa offrendo la salvezza. Il cristiano, da parte sua, risponde non soltanto con una fede teoretica, ma con tutta la vita. La base del documento si sviluppa attorno all’idea che il comportamento morale cristiano si esprime tramite la re- 1 Il documento della Pontificia Commissione Biblica è stato pubblicato l’11 maggio 2008 nella solennità di Pentecoste. La Pontificia Commissione Biblica (PCB) già nel 2002, ha voluto affrontare il rapporto Bibbia e morale, ponendosi di fronte alla seguente domanda: “Qual è il valore e il significato del testo ispirato per la morale nel nostro tempo?”. VII CONGRESSO INTERNAZIONALE REDENTORISTA DI TEOLOGIA MORALE 463 lazione attiva “chiamata – risposta”. Si può dire che la morale è il desiderio di agire secondo la volontà di Dio, che gratuitamente dona delle norme che impegnano e chiamano in causa la libertà dell’essere umano. Per i cristiani la Sacra Scrittura non è soltanto la fonte della rivelazione, la base della fede, ma anche l’imprescindibile punto di riferimento della morale. I cristiani sono convinti che, nella Bibbia, si possono trovare indicazioni e norme per agire rettamente e per raggiungere la vita piena. Possiamo dire ancora una volta che la Bibbia è un luogo valido e utile di dialogo con l’uomo contemporaneo sulle questioni che toccano la morale. Il terzo relatore della prima giornata del Congresso è stato il Prof. Terence Kennedy (Accademia Alfonsiana, Roma) che ha parlato sul tema “Lavori in corso” sulla tradizione in Teologia Morale. Egli ha illustrato la storia della formazione della tradizione e il suo significato per la teologia morale. La tradizione, ha detto il relatore, “è un concetto che ha avuto un periodo estremamente burrascoso nel corso degli ultimi anni”, e continuando la sua introduzione ha aggiunto: “I termini della discussione che hanno diviso la cultura della modernità sono stati: ragione contro tradizione. Alla fine il fatto che la razionalità delle tradizioni fosse contestata porta solo ad un discernimento critico sulla loro necessità nella trasmissione della verità e della sua giustificazione”. Kennedy ha esaminato il concetto di tradizione nella filosofia e nella teologia con un riferimento al Concilio Vaticano II. Il Concilio dichiarò che la Sacra Scrittura, la Tradizione ed il Magistero della Chiesa sono inscindibilmente legati (DV 8): La Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo. Cresce la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano, sia attraverso la predicazione di coloro che con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende alla pienezza della verità divina, perché in essa vengano a compimento le parole di Dio. Inoltre, la nuova impostazione del Concilio in materia della rivelazione cambiò il modo di concepire le fonti della teologia. Il relatore ha strutturato l’analisi del concetto di tradizione nella cultura e nella filosofia riferendosi a di- 464 ENRIQUE LÓPEZ – GABRIEL WITASZEK versi autori come Edward Shills, Michael Polany, Karl Popper, Immanuel Kant, Hayek e Burke, Newman, Blondel e tanti altri. Per i filosofi, la tradizione nella misura in cui ha un contenuto razionale, da una parte significa un insieme di credenze condivise con le generazioni passate e tramandate a quelle successive e dall’altra parte essa è il processo attraverso cui vengono trasmesse queste credenze. La seconda sessione del Congresso, presieduta dal Prof. Gabriel Witaszek (Accademia Alfonsiana, Roma) è stata arricchita con quattro relazioni. Marciano Vidal (Istituto Superiore delle Scienze Morali, Madrid) ha parlato sul tema Las dificultades y las oportunitades de una “etica mundial”. Da molti decenni viene posta la domanda sull’esistenza dell’etica universale, ma nello stesso tempo non si nascondono delle difficoltà legate a tale concetto. Come ha accennato il relatore, numerose persone e tanti gruppi di ricerca sono d’accordo con la necessità di elaborare i valori etici universali. L’universalismo della qualità del pensiero nel campo morale è uno dei problemi attuali sia nell’ambito etico che sociale. A tal proposito ci sono state molte proposte provenienti dalle correnti filosofiche (Kant) come pure da altre religioni. Vidal nel suo discorso, si è concentrato sul supporto teologico nell’elaborazione della proposta dell’etica globale. Per essere più comprensibile egli si è riferito a certe prospettive prese dalla tradizione biblica e dalla storia della teologia, prospettive che giustificano il ruolo dei singoli progetti salvifici, anche nel campo della teologia morale. Il relatore come sommario al suo intervento ha citato il testo di Paolo dalla lettera ai Filippesi 4, 8: “In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri”. Nella sua riflessione sulla fondazione dell’etica globale Vidal ha illustrato alcuni punti chiave riferendosi al Medioevo che ha integrato insieme “ordine della natura” con “ordine della grazia”. Essenzialmente fu San Tommaso ad offrire anali molto accurate sulla questione. Si è riferito poi all’Enciclica Veritatis Splendor e alcuni discorsi di Giovanni Paolo II, come pure ai documenti della Commissione Teologica Internazionale. Nella mattinata ha anche preso la parola Mark Miller (Consigliere bioetico ospedaliero, Canada) che ha parlato dell’esperienza come VII CONGRESSO INTERNAZIONALE REDENTORISTA DI TEOLOGIA MORALE 465 fonte della teologia morale, riferendosi alla sua esperienza di lavoro in veste di consigliere bioetico ospedaliero. La sua relazione intitolata Experience as a Source of Moral Theology. What makes for Expertise? Who is an Expert? Notes from a Clinical Bioethicist ha riportato nel contesto fortemente accademico del Congresso, l’aspetto pratico. Egli ha scelto un metodo fenomenologico per descrivere la decisione morale centrando l’attenzione sull’atto della decisone come proprio atto riflessivo. Miller ha sottolineato la necessità di fare attenzione alla situazione nella quale viene presa la decisione morale. Dall’auto-riflessione siamo in grado di conoscere il ruolo fondamentale dell’esperienza umana nella scelta morale. Il Prof. Aristide Gnada (Accademia Alfonsiana, Roma) nella sua relazione Il dono come principio dell’agire morale ha inizialmente posto la domanda: “Quale è il principio, cioè l’origine, la norma e la finalità dell’agire morale?”. Come risposta ha presentato i risultati della riflessione in tema del dono come principio dell’agire morale. Alla luce del dono come esperienza fondamentale della persona umana, la vita morale può essere compresa come un donarsi all’altro in analogia con il donarsi divino all’umanità e il dono stesso come quel principio dell’agire morale. L’agire morale, che si identifica con il dono nella sua duplice forma ontica ed educativa, si radica nel dono ontologico, o dell’essere donato a se stesso, la cui origine è Dio-Amore. Nella sua realtà concettuale e formale, il dono si rivela come una norma etica che orienta l’uomo nel suo agire ed esprime il precetto fondamentale della legge morale naturale: fare il bene ed evitare il male, donando. Il dono, in quanto bene che si comunica, si presenta come una realtà antropologica e teologica che dà senso all’agire dell’uomo chiamato a realizzarsi secondo il proprio essere dono. Il dono, poiché spiega l’agire morale nella sua fonte, norma e finalità, può servire da criterio per un discorso teologico-morale nella prospettiva dell’etica universale e nella stretta fedeltà all’etica cristiana, che è essenzialmente un’etica d’amore sull’esempio di Gesù Cristo e ad immagine di Dio Uno e Trino. L’ultima relazione della seconda sessione è stata aperta da Brian Dolan (Dottorando dell’Accademia Alfonsiana) con il tema In the light of our teaching and pastoral experiences, what future do we see for the 466 ENRIQUE LÓPEZ – GABRIEL WITASZEK concept of Natural Law? Egli ha illustrato le difficoltà nel definire la legge naturale e il suo ruolo nella riflessione teologico-morale. La terza, e ultima, sessione moderata da Brian Dolan ha cercato di offrire una panoramica riguardante le fonti classiche e contemporanee di teologia morale di cui si è parlato e discusso assai durante il Congresso. Ordo caritatis e fragilità umana Cronaca del XXIII Congresso dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) Pietralba - Nova Ponente (Bz), 22-24 luglio 2010 Giovanni Del Missier Dal 22 al 24 luglio si è tenuto, presso il Santuario di Pietralba – Nova Ponente (Bz), il XXIII congresso nazionale dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) intitolato Ordo caritatis e fragilità umana e dedicato all’approfondimento delle differenti forme di fragilità emergenti nell’attuale contesto socio-culturale, nei vissuti personali e inter-soggettivi.1 La prima sessione si è aperta con la relazione L’incerto volere. La fragilità dei processi decisionali personali, nella quale Sergio Bastianel (Pontificia Università Gregoriana – Roma) ha inquadrato le attuali evidenti difficoltà nel maturare, prendere e mantenere scelte di vita e decisioni impegnative all’interno del limite creaturale dell’umano e dell’esercizio colpevole della libertà responsabile. È stato messo in evidenza che la capacità di maturazione morale della coscienza risulta influenzata inevitabilmente dai criteri di giudizio e dalle interpretazioni della realtà veicolati dalla cultura, ed è limitata dal peccato presente nella storia che ostacola e rende difficile «l’attuazione di un vivere umano sensato e compiuto». Ciò nonostante si è sottolineato con forza come ogni persona goda di uno spazio effettivo di libertà che rende possibile il riconoscimento di ciò che fa vivere e di ciò che mortifica, che abilita a scegliere il bene attraverso decisioni persona- 1 Sede, data e durata del congresso ATISM sono state scelte opportunamente per favorire la partecipazione dei soci anche all’evento internazionale Catholic Theological Ethics in the World Church – “In the Currents of History: from Trento to the Future”, tenutosi a Trento dal 24 al 27 luglio. 468 GIOVANNI DEL MISSIER li e che permette di dilatare le possibilità positive in senso liberante per noi e per gli altri. In questo risiedono la fragilità e la grandezza dell’istanza etica: infatti, la sincera ricerca del bene possibile e la sua attuazione non garantiscono nulla, «tranne l’onestà e il senso della vita», ma rappresentano la via per trascendere il limite e il male, il nucleo stesso della dignità propria del soggetto morale. Essa si concretizza in una reale solidarietà nel bene che vive nella storia e che ci raggiunge attraverso la comunità credente che, senza essere esentata dal limite, porta in sé «il dono esplicito di una speranza fondata in Cristo, per portare frutti di umanità redenta».2 La seconda sessione del convegno ha approfondito il tema L’incerto patire. La fragilità personale nel tempo della malattia, attraverso un’ampia relazione di Maurizio Chiodi (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano) nella quale si è cercato di dimostrare che «la fragilità vissuta nel tempo difficile della malattia è una categoria sintetica dell’umano». Al fine di evitare interpretazioni riduttive e ingenue della fragilità del soggetto provato dalla malattia e dalla sofferenza, si è abbozzata una fenomenologia ermeneutica delle esperienze fondamentali del vivere che sempre risulterebbero «legate a una promessa, e dunque a un dono, che si origina in una relazione e che annuncia un compimento al quale l’uomo non accede però se non grazie alla sua libera decisione, nella quale egli è chiamato ad auto-disporsi, in forma responsiva». Il tempo della malattia si configura come una “prova paradigmatica” per l’esperienza umana tutta: essa è abitata da un desiderio che suscita la decisione e l’agire, e che al tempo stesso rivela la radice ultima della fragilità umana nella sproporzione tra l’aspirazione infinita e il suo compimento limitato. La malattia “costringe” il soggetto a prendere coscienza di questo scarto e lo spinge ad avviare un processo di reinterpretazione di sé e del senso complessivo della sua esistenza. Posto di fronte alla propria radicale vulnerabilità l’esse2 In qualità di discussant sono intervenuti Carla Corbella (Torino) e Pietro Cognato (Palermo). Ci sembra di dover mettere in evidenza il primo contributo su Opzione irrevocabile di vita tra opportunità e scacco che ha riproposto in modo efficace e sintetico i contenuti della pubblicazione CORBELLA C., Resistere o andarsene? Teologia e psicologia di fronte alla fedeltà nelle scelte di vita, EDB, Bologna 2009. XXIII CONGRESSO NAZIONALE DELL’ATISM 469 re umano scopre che la questione sottesa alla malattia non è tanto e solo quella della guarigione, ma quella ancor più radicale della «salvezza, e cioè di una vita compiuta, felice, piena». Se, da un lato, tale processo di coscientizzazione può risultare ostacolato dall’attuale clima culturale in cui si colloca l’agire medico – fortemente segnato da riduzionismo e tecnicismo esasperato, da attitudini individualistiche, da relazioni contrattualiste e da ingenti interessi economici –, dall’altro esso pone in questione la totalità dell’esperienza umana: il rapporto con sé (la pazienza come ricerca di senso nella sofferenza), con gli altri (l’alleanza di cura come primo dovere etico), con Dio (la speranza come affidamento religioso al di là dell’apparente fallimento della promessa della vita). Ed è su questa dimensione antropologica universale che si innesta l’esperienza cristiana e, in particolare, l’attitudine di Gesù nei confronti dei malati. In essa si svela il rapporto complesso che intercorre tra recupero immanente della salute e dono divino della Salvezza (come anche tra colpa morale e condizione patologica – cfr. Gv 9, 2-5) che sempre implica l’appello alla libera decisione dell’interlocutore «che attende, invoca, spera, crede e si affida… Il miracolo non produce la fede, quasi determinando la ‘necessità’ di credere, ma la suppone, perché possa accadere ed essere riconosciuto» (cfr. Mc 10, 46-52). In tal modo appare evidente che «nel tempo della prova, il malato è chiamato a decidere di sé, e cioè a credere che la promessa della vita non è stata vana», anche grazie alla presenza di coloro che si prendono cura di lui, testimoni efficaci della sua incommensurabile dignità e annunciatori di una Speranza che coincide con l’abbandono fiducioso in Dio.3 3 In qualità di discussant sono intervenuti Andrea Vicini (Napoli) e Giovanni Del Missier (Roma – Udine). Ci sembra di dover mettere in evidenza il primo contributo Per una lettura teologico-morale nella malattia: fragilità e vulnerabilità nel quale è stata offerta una riflessione concreta e pratica sulla fragilità nella malattia, con un approccio attento al vissuto delle persone sofferenti, mettendo in luce la vulnerabilità intrinseca alla condizione umana (che implica sempre un appello alla responsabilità morale), quella drammatica prodotta dalla malattia (che richiede una ricerca personale del senso e una solidarietà interpersonale e globale) e quella propria di Gesù di Nazareth e dei suoi discepoli (che chiede di 470 GIOVANNI DEL MISSIER La terza sessione è stata inaugurata dalla relazione L’incerto legame. La fragilità affettiva e delle relazioni interpersonali, nella quale Salvatore Cipressa (Istituto Superiore di Scienze Religiose – Lecce) ha tratteggiato un quadro piuttosto fosco della cultura contemporanea, profondamente segnata da inquietudine, ambiguità e nichilismo, generatori di un disagio pervasivo che coinvolge «la vita affettiva e relazionale, distrugge prospettive ed orizzonti, confonde i pensieri, intristisce le passioni, riconduce il comportamento umano alle sue basi istintuali, destituendolo della sua specificità umana, e dunque della sua valenza propriamente morale». Come rimedio è stata prospettata una visione integrale della persona che, attraverso la formulazione di una antropologia relazionale e dialogica, recuperi il senso autentico delle relazioni interpersonali e attribuisca valore morale adeguato alla vita affettiva. In tal modo, l’incontro con l’altro diventa epifania e traccia dell’Infinito, appello alla responsabilità nell’amore e impegno etico nella fedeltà. Su questo sfondo si è auspicata l’elaborazione di percorsi educativi capaci di unificare la persona nonostante le sue fragilità e di abilitarla al dono di sé, integrando positivamente relazioni e corporeità, affettività e sessualità in vista di una sempre maggiore maturità nei rapporti interpersonali.4 improntare l’azione alla logica evangelica «che è fragile e vulnerabile, non potente, non aggressiva e violenta, pura negli intenti e povera nei mezzi»). 4 In qualità di discussant sono intervenuti Giampaolo Dianin (Padova) e Tiziana Giuffrè (Lecce). Ci sembra di dover mettere in evidenza il primo contributo che, attraverso una serie di «domande radicali che non si possono eludere» nella riflessione teologico-morale, ha cercato di offrire piste di approfondimento sulla prassi affettiva e relazionale. Dianin si è chiesto: come riproporre il nesso tra sessualità, amore e procreazione, il cui significato è messo radicalmente in discussione dalla cultura contemporanea? Come le grandi aspettative riposte oggi nell’esperienza affettiva possono strutturarsi in una donazione personale e in un impegno duraturo, all’interno di un legame forte che le sottragga all’instabilità delle semplici emozioni? Come superare il narcisismo che tende a porre l’accento sulla libera espressione di sé e sull’autorealizzazione, relegando in secondo piano il “bene comune” della coppia-famiglia, superiore alla somma aritmetica degli interessi individuali? come superare il paradosso contenuto nell’opinione dominante riguardo all’indifferenza pubblica delle scelte private, quando le loro XXIII CONGRESSO NAZIONALE DELL’ATISM 471 Nella quarta e ultima sessione Francesco Compagnoni (Pontificia Università San Tommaso – Roma) ha tenuto la relazione intitolata L’incerto potere. La fragilità del sistema democratico. In prima istanza ha espresso una preoccupazione metodologica riguardo alla peculiare prospettiva dell’etica sociale, distinta dalla politologia, dalla storiografia e dalla sociologia, e l’ha identificata nella valutazione delle esistenti forme di convivenza alla luce dei diritti umani,5 per rispondere alle domande morali fondamentali sulla capacità reale della democrazia di umanizzare i rapporti sociali, di incrementare i valori morali dei singoli e di farsi carico dei cittadini più svantaggiati. A tal fine ha offerto come criteri di verifica di una “vera democrazia”: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la possibilità di concorrere liberamente al governo della cosa pubblica; la garanzia effettiva delle libertà fondamentali; la sussistenza di un sistema giudiziario equo e indipendente basato sulla leggi stabilite a maggioranza, insieme alla effettiva esistenza di un pubblico dibattito libero e di istituzioni capaci di assicurare lo svolgimento di tale confronto. All’opposto, come pericoli del sistema democratico attuale, sono stati messi in luce e analizzati: la dipendenza dal sistema di informazione mass-mediale e digitale; il ruolo dei centri di potere industriale, economico, finanziario, ideologico e malavitoso; la disaffezione dei cittadini nei confronti della partecipazione e la capacità di comprensione sostanziale delle questioni in gioco; l’influsso di teorie circa le élites governanti; conseguenze ricadono pesantemente sulla vita sociale, come nel caso delle separazioni coniugali, della sofferenza arrecata a figli, della violenza di genere, della denatalità? Come tematizzare adeguatamente la continuità e la rilevanza che caratterizza l’evento cristiano di “sposarsi nel Signore” rispetto all’esperienza umana del matrimonio? 5 ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, 10 dicembre 1948, art. 21: «1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. 2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio Paese. 3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione». 472 GIOVANNI DEL MISSIER il fondamentalismo, il terrorismo, il populismo e la tendenza innata dell’uomo ad essere gregario, lasciandosi facilmente comandare da un capo carismatico. Infine, sono state solo menzionate alcune problematiche riguardanti la presenza dei cristiani nella società e in politica dopo la stagione delle “democrazie cristiane”; la posizione della Chiesa nelle società pluraliste e democratiche; la tensione tra globalizzazione e particolarismi locali; i reciproci rapporti tra partecipazione, potere e bene comune.6 Nell’ambito del convegno ha avuto luogo anche l’assemblea elettiva dei soci con il rinnovo delle cariche per il quadriennio 20102014. Il nuovo Consiglio di Presidenza risulta composto da: Sergio Bastianel s.j. (presidente); Pierdavide Guenzi (vicepresidente); Salvino Leone (segretario); Renzo Pegoraro (delegato per la sezione settentrionale); Paolo Carlotti s.d.b. (delegato per la sezione centrale); Vincenzo Viva (delegato per la sezione meridionale); Alessandro Rovello (delegato per la sezione siciliana). È stata inoltre confermata la nomina di Andrea Gaino a delegato presso il CATI. 6 In qualità di discussant è intervenuto Giulio Parnofiello (Napoli). Egli ha amplificato la questione dell’effettività della democrazia in riferimento alla fragilità che si introduce nel sistema attraverso le manipolazioni del consenso, le proclamazioni solo formali dei diritti umani, le reazioni discriminanti collegate all’immigrazione, indicando nell’universalità dell’esperienza cristiana un apporto originale per una equilibrata gestione del potere e per la stabilizzazione delle relazioni sociali in contesti ad elevata pluralità etnico-culturale. Chronicle / Crónica / Cronaca ACCADEMIA ALFONSIANA Cronaca relativa all’anno accademico 2009-2010 Danielle Gros* 1. Eventi principali 1.1. Inaugurazione dell’anno accademico Il 9 ottobre 2009 è stato inaugurato l’anno accademico. La concelebrazione eucaristica, celebrata nella Chiesa di S. Alfonso, è stata presieduta dal Rev.mo Padre Serafino Fiore, Vicario Generale della Congregazione del Santissimo Redentore, che ha tenuto anche l’omelia (cf. Inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010, Roma, Edacalf, 2009, pp. 5-8). La messa solenne è stata concelebrata anche dal Preside, Prof. Martin McKeever, dal Vicepreside, Prof. Bruno Hidber, dal Rettore della Comunità Redentorista, R. P. Luciano Panella e da numerosi professori e studenti. Al termine della celebrazione, nell’aula magna dell’Accademia si è svolto l’atto inaugurale articolato in due momenti: • il primo, sostanziatosi nella Relazione del Preside sull’anno accademico 2008-2009 (cf. ibidem, pp. 9-20), durante il quale sono stati richiamati gli avvenimenti più significativi avvenuti durante lo scorso anno accademico; • il secondo, marcato dalla prolusione Questo è il momento di agire. La priorità della Chiesa nella tutela dei minori, tenuta dal Prof. * Segretaria Generale dell’Accademia Alfonsiana. 474 DANIELLE GROS Seán Cannon, Professore dell’Accademia Alfonsiana (cf. ibidem, pp. 21-45). Come ogni anno, l’atto accademico, conclusosi con un rinfresco, è stato occasione per uno scambio di idee tra professori, ufficiali e studenti. Per la prima volta, la Concelebrazione della Santa Messa per l’inizio dell’anno accademico 2009-2010 dei Pontifici Atenei Romani è stata sostituita da una Udienza particolare con il Santo Padre Benedetto XVI, tenutasi giovedì 19 novembre 2009 alle ore 12.00 nell’Aula Paolo VI in Vaticano, alla quale hanno partecipato il Preside dell’Accademia, Prof. Martin McKeever, nonché alcuni docenti e numerosi studenti dell’Accademia. 1.2. Nomine Quest’anno accademico ha fatto registrare alcune nuove nomine da parte: • del Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Agostino Vallini, che con decreti del 22 ottobre 2009 ha nominato rispettivamente come professori ordinario e consociato dell’Accademia Alfonsiana il Professor Martin McKeever e il Professor Sebastiano Viotti; • del XXIV Capitolo Generale della Congregazione del Santissimo Redentore che, riunitosi a Roma, il 4 novembre 2009 ha eletto il Rev.mo P. John Michael Brehl, già Superiore Provinciale della Provincia di Edmonton-Toronto, come 17° Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore. Secondo gli Statuti dell’Accademia Alfonsiana, il Rev.mo P. Brehl diventa automaticamente anche il nuovo Moderatore Generale della stessa; • del Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, Rev.mo P. Michale Brehl, che il 3 febbraio 2010, su designazione del Consiglio dei Professori, ha rinnovato per un ulteriore triennio il mandato al R.P. Alfeo Prandel, C.Ss.R., quale Economo dell’Accademia; • del Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, S.E.R. Mons. Rino Fisichella, che in data 15 febbraio 2010 ha CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 475 nominato tre nuovi professori invitati per l’anno accademico 2010-2011: il Prof. Nestor Basunga, C.Ss.R., per la sezione di teologia morale sistematica speciale, il Prof. Antonio Gerardo Fidalgo, C.Ss.R., per la sezione di antropologia sistematica e il Prof. Stefano Zamboni, S.C.J., per la sezione di teologia morale fondamentale; • ancora del Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Agostino Vallini, che con decreto del 25 maggio 2010 ha confermato il Professor Martin McKeever quale Preside dell’Accademia Alfonsiana per il triennio 2010-2013; • del Santo Padre Benedetto XVI, che il 30 giugno 2010 ha nominato Presidente del neo Pontificio Consiglio per la promozione della nuova Evangelizzazione S.E.R. Mons. Rino Fisichella, allora Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. È stato chiamato a succedergli alla guida dell’Università il Rev.mo Don Enrico dal Covolo, S.D.B. 1.3. Attività accademiche, avvenimenti ed incontri 1.3.1. Incontro Preside/studenti Il mercoledì 7 ottobre 2009, durante il consueto incontro d’inizio anno tra il Preside, la Segretaria Generale ed i nuovi studenti, questi ultimi sono stati informati su diversi aspetti riguardanti la struttura dell’Accademia e la vita accademica in generale. Al termine dell’incontro, i Consulenti accademici hanno ricevuto i nuovi studenti appartenenti ai rispettivi gruppi linguistici, per poterli orientare verso una programmazione sistematica dei corsi e seminari del biennio per la licenza. 1.3.2. Presentazione del libro Psicologia e formazione. Principi 1.3.2. psicologici utilizzati nella formazione per il Sacerdozio 1.3.2. e la Vita consacrata, del Prof. José Rafael Prada Ramírez Il libro è stato presentato il 29 ottobre 2009 nell’aula magna dell’Accademia Alfonsiana. L’autore del libro, attuale Superiore Provin- 476 DANIELLE GROS ciale della Provincia di Bogotà, è stato professore invitato all’Accademia Alfonsiana dal 2000 al 2008. Relatori: i Professori José Silvio Botero Giraldo e Stephen Rehrauer, entrambi professori dell’Accademia Alfonsiana. 1.3.3. Elezione dei Rappresentanti degli studenti Il 16 novembre 2009 l’assemblea degli studenti, presieduta dal Preside, Prof. Martin McKeever, ha eletto, quali propri rappresentanti, Sr. Hwa Soon Kim, f.s.p., Coreana, e P. Wilfredo Corniel Castellanos, s.c.j., Venezuelano, entrambi studenti del primo anno di licenza. Questi rappresentanti, con la loro elezione, diventano membri del Consiglio Accademico, e fungono da portavoce degli studenti presso le autorità accademiche ed amministrative dell’Accademia. 1.3.4. Inaugurazione dell’anno accademico alla Pontificia 1.3.4. Università Lateranense Il 2 dicembre 2009, il Preside ha rappresentato l’Accademia all’atto d’inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Università Lateranense, svoltosi, come ogni anno, alla presenza di numerose autorità ecclesiali e civili. 1.3.5. Festa degli studenti I Rappresentanti degli studenti hanno organizzato, mercoledì 16 dicembre 2009, una festa per celebrare il Natale. Alla celebrazione eucaristica ha fatto seguito un momento di festa con canti tipici dei diversi paesi di appartenenza. 1.3.6. Assemblea degli studenti Gli studenti si sono riuniti in assemblea ordinaria il 18 febbraio 2010, nell’aula magna dell’Accademia. L’incontro è stato presieduto dai loro Rappresentanti, ed ha permesso ai partecipanti di formulare alcune proposte da sottoporre al Consiglio Accademico. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 477 1.3.7. Convegno “La crisi economica globale. I cristiani hanno qualcosa da 1.3.7. dire?” Nei giorni 22 e 23 marzo 2010 si è tenuto nell’aula magna dell’Accademia il Convegno in titolo al quale hanno partecipato, in qualità di relatori, il Professor Stefano Zamagni, dell’Università di Bologna, il Dottor Lucio Lamberti, Capoufficio nell’Istituto per le Opere di Religione, la Professoressa Helen Alford, Decana della Facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università San Tommaso, nonché i Professori Raphael Gallagher, Martin McKeever, Sebastiano Viotti e Andrzej Wodka dell’Accademia Alfonsiana. Hanno moderato i Professori Alfonso Amarante, Seán Cannon, Bruno Hidber e Stephen Rehrauer. Gli atti del Convegno saranno pubblicati come supplemento alla rivista Studia Moralia. 1.3.8. Festa di S. Alfonso e gita degli studenti Come ogni anno, il Preside ha invitato le autorità della Pontificia Università Lateranense, dell’Accademia Alfonsiana ed i Rettori dei collegi, seminari e convitti che affidano i loro studenti al nostro Istituto, ad un pranzo festivo che si è tenuto il 21 aprile 2010. In questo giorno, in segno di ringraziamento, l’Accademia invita tutti coloro che, in vari modi, le sono vicino condividendo l’impegno per la formazione teologico-morale dei giovani. Nel medesimo giorno, gli studenti dell’Accademia hanno organizzato una gita al santuario di Pompei e a Pagani. 1.3.9. Riunione annuale dell’ATISM Il 27 aprile 2010 si è tenuta, nei locali dell’Accademia, la riunione annuale dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale), sezione centro. Argomento dell’incontro: Fragilità e passioni dell’uomo del terzo millennio. Relatore: Prof. Tonino Cantelmi, dirigente psichiatra per il Servizio Sanitario Nazionale, fondatore della Prima Scuola di Spe- 478 DANIELLE GROS cializzazione in Psicoterapia ad orientamento Cognitivo-Interpersonale in Italia. 1.3.10. Tavola Rotonda Il 30 aprile 2010, nell’aula magna dell’Accademia, gli studenti hanno organizzato una tavola rotonda sul tema Come insegnare la teologia morale a livello istituzionale? I relatori hanno trattato i seguenti temi: • Come scegliere il contenuto che è essenziale per strutturare un corso programmatico di teologia morale fondamentale? (Prof. Livio Melina, Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia); • Alla luce del pensiero di S. Alfonso, come insegnare la teologia morale oggi? (Prof. Sabatino Majorano, c.ss.r., professore dell’Accademia Alfonsiana); • Come strutturare oggi un corso base di bioetica? (Prof. Maurizio Faggioni, o.f.m., professore dell’Accademia Alfonsiana). La tavola rotonda ha visto la partecipazione di numerosi studenti sia dell’Accademia che dell’Istituto Giovanni Paolo II. 1.3.11. Workshop didattico Nei giorni 8 e 15 maggio 2010 si sono svolti due workshop didattici riservati agli studenti dell’Accademia Alfonsiana. I titoli: Come insegnare la teologia morale fondamentale a livello istituzionale? e Come insegnare la bioetica a livello istituzionale? I workshop, diretti rispettivamente dal Prof. Vincenzo Viva (il primo) e dai Proff. Martin McKeever, Maurizio Faggioni e Edmund Kowalski (il secondo), hanno riscosso molto successo tra gli studenti. 1.3.12. Celebrazione in suffragio di S.E.R. Mons. Luigi Padovese Venerdì 18 giugno il Preside e altri membri dell’Accademia Alfonsiana hanno partecipato alla solenne celebrazione in suffragio di S.E.R. Mons. Luigi Padovese, o.f.m.cap.. La cerimonia, tenutasi a CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 479 Roma, presso la Basilica di Sant’Antonio, era presieduta da S.E.R. Mons. Rino Fisichella, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense (Cfr. 5.2.). 2. Consiglio dei Professori I professori invitati si sono riuniti l’8 ottobre 2009 per eleggere i loro Rappresentanti per il Consiglio dei Professori e per il Consiglio Accademico. Sono stati eletti: i Professori Álvaro Córdoba e Raphael Gallagher, per il Consiglio dei Professori, e i Professori Giovanni Del Missier e Vincenzo Viva, per il Consiglio Accademico. Durante l’anno accademico 2009-2010, il Preside ha convocato 5 volte il Consiglio dei Professori, che ha potuto così deliberare su numerosi temi attinenti alla vita dell’Accademia: preventivo, varie questioni accademiche, programmazione per il biennio 2010-2012, promozione dei docenti, relazioni annuali delle commissioni permanenti, valutazione dell’anno accademico, ecc. 3. Consiglio Accademico Il Preside ha convocato il Consiglio Accademico tenutosi il 25 febbraio 2010. Tema principale: la discussione sulla programmazione accademica e la designazione dei tre candidati per l’ufficio di Preside. 4. Assemblea annuale Il Preside ha convocato per il 5 novembre 2009 l’assemblea annuale di tutti i professori e ufficiali maggiori dell’Accademia Alfonsiana. Temi principali dell’incontro: l’evoluzione delle iscrizioni nell’ultimo anno e alcune problematiche didattiche. 480 DANIELLE GROS 5. Corpo docente 5.1. Stato attuale In questo anno accademico, l’Accademia Alfonsiana si è avvalsa della collaborazione di 31 professori, di cui 6 ordinari, 5 straordinari, 3 associati, 16 abitualmente invitati, ed 1 emerito. Tra questi, 30 hanno svolto 33 corsi e diretto 18 seminari e numerose tesi di licenza e di dottorato. Altri ancora, in qualità di professori invitati, hanno anche insegnato presso diversi centri ecclesiastici romani e partecipato a numerosi convegni e congressi. 5.2. In memoriam Il 3 giugno 2010 è stato barbaramente ucciso a Iskenderun (est dell’Anatolia) S.E.R. Mons. Luigi Padovese, o.f.m.cap., Vicario Apostolico dell’Anatolia e Presidente della Conferenza Episcopale Turca, già professore invitato dell’Accademia Alfonsiana. Il Prof. Padovese era nato a Milano il 31 marzo 1947 e ha insegnato presso l’Accademia Alfonsiana dal 1995 all’anno della sua nomina episcopale avvenuta l’11 ottobre 2004, nel campo della morale patristica. 5.3. Pubblicazioni dei Professori Da evidenziare che molti docenti, oltre alla loro principale attività didattica e di assistenza agli studenti, hanno anche pubblicato diverse opere, offrendo in tal modo un utile contributo alla ricerca scientifica (Cfr. Inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011, Roma, Edacalf, 2010). 5.4. Collegialità accademica Durante l’anno accademico, al fine di promuovere la collegialità tra i professori dell’Accademia, sono stati organizzati dal Preside diversi incontri per discutere temi attinenti alle diverse discipline dell’Istituto. Tema principale di quest’anno: la legge naturale. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 481 6. Studia Moralia L’impegno della Commissione per Studia Moralia e la collaborazione dei Professori interni ed esterni, hanno permesso la regolare pubblicazione dei due fascicoli della rivista Studia Moralia, per l’anno 2009. Da segnalare che con il primo volume è uscito anche il quarto supplemento dedicato agli atti della Giornata di Studio Parola di Dio e Morale, tenutasi all’Accademia Alfonsiana il 20 novembre 2008. 7. Studenti Nell’anno accademico 2009-2010, gli studenti sono stati 303 (276 uomini e 27 donne), di cui 281 ordinari (108 del secondo ciclo e 173 del terzo ciclo) che si sono preparati per conseguire i gradi accademici, 14 straordinari e 8 ospiti. La provenienza degli studenti è riferita a tutti i continenti: 129 dall’Europa, 54 dall’Asia, 79 dall’America, 40 dall’Africa, ed 1 dall’Australia. Divisi per appartenenza religiosa, 175 sono del clero secolare, 110 tra religiosi e religiose appartengono a 60 diversi ordini, mentre 18 sono i laici. Durante l’anno accademico 2009-2010 sono state difese con successo 18 tesi di dottorato e 18 studenti, dopo la pubblicazione delle loro rispettive tesi, sono stati proclamati dottori in teologia della Pontificia Università Lateranense, con specializzazione in teologia morale. Inoltre, 50 studenti hanno conseguito la licenza in teologia morale. Da segnalare i numerosi incontri avvenuti tra il Preside e i Rappresentanti degli studenti, che hanno consentito di deliberare su varie questioni riguardanti gli studenti stessi. 482 DANIELLE GROS 8. Informazioni sugli ex-studenti 8.1. In memoriam Durante l’anno accademico 2009-2010 sono deceduti 4 ex-studenti dell’Accademia Alfonsiana: • Patrick Carroll, o.s.m, deceduto all’età di 58 anni. P. Carroll era iscritto all’Accademia negli anni accademici 1979-1980 e 19801981 al programma di licenza; • Anthony Joseph Smith, deceduto all’età di 55 anni. È stato studente dell’Accademia dal 1994 al 2000, conseguendo la licenza nel 1996 e il dottorato nel 2000; • Joannes (Michael Dana) Sweetser, o.f.m., deceduto il 22 settembre 2009 dopo una lunga malattia, all’età di 43 anni. P. Sweetser era iscritto all’Accademia negli anni accademici 20042005 e 2005-2006 al programma di licenza; • Octavio Vilches Landin, s.j., deceduto all’età di 45 anni. P. Vilches Landin era iscritto all’Accademia negli anni accademici 1995-1996 e 1996-1997 al programma di licenza. 8.2. Nomine Durante l’anno accademico 2009-2010, 11 ex-studenti dell’Accademia Alfonsiana sono stati elevati alla dignità episcopale (o, se già Vescovi, hanno ottenuto incarichi superiori): • S.E.R. Mons. Eliseo Antonio Ariotti, finora Nunzio Apostolico in Camerun e in Guinea Equatoriale, nominato Arcivescovo titolare di Vibiana. È stato studente dell’Accademia dal 1972 al 1974 e dal 1982 al 1984; • S.E.R. Mons. Francisco Antonio Ceballos Escobar, c.ss.r., finora Pro-Vicario di Puerto Carreño (Colombia), nominato Vicario Apostolico della medesima circoscrizione ecclesiastica. È stato studente dell’Accademia dal 1996 al 1998; • S.E.R. Mons. Giovanni D’Ercole, finora Capo Ufficio della Prima Sezione della Segreteria di Stato, nominato Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di L’Aquila (Italia). È stato studente dell’Accademia dal 1974 al 1976 e dal 1984 al 1986; CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 483 • S.E.R. Mons. Mário Antônio da Silva, finora Cancelliere e Parroco nella Diocesi di Jacarezinho (Brasile), nominato Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di Manaus (Brasile). È stato studente dell’Accademia dal 1996 al 1998; • S.E.R. Mons. Gianfranco Agostino Gardin, o.f.m.conv., finora Arcivescovo titolare di Torcello e Segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, nominato Arcivescovo-Vescovo di Treviso (Italia). È stato studente dell’Accademia dal 1970 al 1972 e dal 1976 al 1978; • S.E.R. Mons. Raúl Gómez González, finora Vicario Generale della diocesi di San Juan de Los Lagos (Messico), nominato primo Vescovo di Tenancingo (Messico). È stato studente dell’Accademia dal 1987 al 1989; • S.E.R. Mons. Magnus Henrique Lopes, o.f.m.cap., finora Vicario conventuale ed Economo del Convento “Santo Antônio” a Natal (Brasile), nominato primo Vescovo della diocesi di Salgueiro (Brasile). È stato studente dell’Accademia dal 2007 al 2009; • S.E.R. Mons. Carlos Germán Mesa Ruiz, finora Vescovo di Arauca, nominato Vescovo di Socorro y San Gil (Colombia). È stato studente dell’Accademia dal 1974 al 1976; • S.E.R. Mons. Constancio Miranda Weckman, finora Vescovo di Atlacomulco, nominato Arcivescovo Metropolita di Chihuahua (Messico). È stato studente dell’Accademia dal 1987 al 1989; • S.E.R. Mons. Luigi Moretti, finora Arcivescovo titolare di Mopta e Vicegerente del Vicariato di Roma, nominato Arcivescovo Metropolita di Salerno-Campagna-Acerno (Italia). È stato studente dell’Accademia dal 1973 al 1976; • S.E.R. Mons. Stephen Thottathil, finora professore di teologia morale e decano di teologia al Malankara Seminary, nominato Vescovo Ausiliare dell’Arcieparchia di Tiruvalla (India). È stato studente dell’Accademia dal 1985 al 1990. 484 DANIELLE GROS 9. Gradi accademici conferiti 9.1. Dottori designati Nel corso dell’anno accademico 2009-2010, 18 studenti hanno difeso pubblicamente la loro dissertazione dottorale: AROCKIA DASS, Mangalam David (India – diocesi di Vellore-Tamilnadu): The Compatibility of Development in the Writings of Amartya Sen and in the Social Teachings of the Church – 16 ottobre 2009; Moderatore: Prof. Vimal Tirimanna. There are solid reasons to explore Sen’s approach to development from the perspective of moral theology, particularly in relation to the Catholic social teaching on development. Sen’s approach is very much compatible with the church’s social teaching. Sen promotes a view of development that is not concentrated exclusively on material or economic factors but rather increasing the “capabilities” or the “freedoms” of individuals as the basic building blocks of development. Thus he proposes that development policy has to be focused on the expansion of the capabilities of persons to lead the kind of lives they value or have reason to value. In the same way the Catholic church plays an important role in the development of the human person. Pope John Paul II asserts that human development should stress the priority of persons over things, of the spirit over matter, and above all, of ethics over technology. He stresses that development should respect and promote all the dimensions of human persons. So there are striking convergences between Sen and Catholic social teaching. These two approaches have something to learn from each other. I am impressed by Sen’s approach to see development as human freedom and in the same way I admire the church’s teaching on authentic human development. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 485 CUNEO, María Martha (Argentina – h.m.r.): Limitación del esfuerzo terapéutico en Terapia Intensiva Neonatal. El caso de los extremadamente prematuros – 30 giugno 2010; Moderatore: Prof. Giovanni Del Missier. Esta investigación busca aportar e integrar, desde la Teología Moral, criterios de resolución en el caso de los prematuros en Terapia Intensiva Neonatal. Parte de un estudio comprensivo de la práctica médica-ética actual, tratando de dilucidar cuáles han sido y cuáles son los criterios de decisión más utilizados en la limitación del esfuerzo terapéutico. Luego confronta esta práctica con los criterios enunciados por la Teología Moral, articulados en una propuesta procedimental adaptable al caso de la neonatología que permita tomar decisiones desde el respeto de la persona del prematuro. Propone, finalmente, algunos elementos para que la práctica se conforme cada vez más con un perfil ético cristiano. A este fin, a partir de tres casos concretos, se pone en acto el método de discernimiento que expresa la propuesta. IMMIG, Claudio Vicente (Brasile – diocesi di Novo Hamburgo): A presença profética das pessoas com deficiência no atual contexto cultural. Questões antropológicas, éticas e sociais – 24 febbraio 2010; Moderatore: Prof. Giovanni Del Missier. A presença profética das pessoas com deficiência no atual contexto cultural exige uma antropologia de fundo que ultrapasse os conceitos utilitaristas e contratualistas, colocando sérias questões éticas e questionando conceitos como “qualidade de vida” e o “uso de meios científicos e tecnológicos” quando os mesmos abrem as portas para a morte. Requer uma postura concreta da sociedade que deve interagir com os verdadeiros interlocutores que vivem este drama existencial na carne. Desafia o homem a repensar o seu ser e estar no mundo. Esta presença profética abre perspectivas para uma significativa reflexão ético-moral em diferentes campos das ciências: filosóficas, teológicas, antropológicas, sociológicas e bioéticas na descoberta de novas dimensões do homem e da pessoa, como detentor a pleno título de direitos garantidos pela sua dignidade intrínseca. 486 DANIELLE GROS LE, Ngoc Dung (Vietnam – diocesi di Nha Trang): L’atto coniugale, unitivo e procreativo nel matrimonio. Una visuale storica, dottrinale e pastorale – 25 maggio 2010; Moderatore: Prof. José Silvio Botero Giraldo. La ricerca investiga il significato profondo dell’atto coniugale come unitivo e procreativo. La tradizione agostiniana dal V secolo sottolinea il significato procreativo e vede il matrimonio come rimedio della concupiscenza. L’evoluzione della dottrina del XX secolo, particolarmente nella Gaudium et spes, sviluppa la visione personalistica, sottolineando che l’unione d’amore coniugale è unione totale delle persone. In risposta all’insegnamento della Humanae vitae sulla paternità responsabile, i vescovi nel mondo offrono le direttive pastorali che rispettino l’inscindibilità fra significato unitivo e procreativo dell’atto coniugale. LÓPEZ CERDÁN, Francisco Javier (Spagna – o.f.m.): Hacia una nueva comprensión del noviazgo en la sociedad postmoderna. Retos éticos y pastorales – 8 febbraio 2010; Moderatore: Prof. José Silvio Botero Giraldo. La comprensión del noviazgo hoy se ve afectada por el Postmodernismo que ha propiciado un cambio profundo en la manera de entender la relación amorosa en los jóvenes. Por esta razón, en nuestro estudio, dividido en cuatro capítulos, pretendemos responder a los retos éticos y pastorales más urgentes que plantea a la Iglesia el pensamiento postmoderno respecto al noviazgo. Urge, por un lado, un nuevo discurso ético-teológico centrado en el amor-ágape como experiencia humana que se abre al designio divino sobre la pareja; y, por otra parte, debemos ofrecer a los novios un acompañamiento pastoral con itinerarios de fe que propicie un status eclesial propio y que garantice la fe cristiana del futuro matrimonio. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 487 LOREFICE, Corrado (Italia – diocesi di Noto): La Chiesa e il mistero di Cristo nei poveri. G. Dossetti e la formazione del discorso sulla povertà tenuto al Concilio Vaticano II dal Card. Giacomo Lercaro – 9 dicembre 2009; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano. Il tema dei poveri nella Chiesa e della povertà della Chiesa, nel circuito di ripensamento e di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano II, ha avuto un posto di sicuro non secondario – nonostante la scarna ma comunque vincolante recezione dei documenti finali – e questo grazie anche alla riflessione e all’opera del card. Giacomo Lercaro supportate da don Giuseppe Dossetti. La ricerca riporta alla luce tale angolazione conciliare (cfr. LG 8,3). Il Cristo, vocazione dei cristiani, è il Servo obbediente che si è abbassato per condividere la finitudine della condizione umana, «venuto nel mondo – come suggerisce GS 3 – a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito». E se il Cristo povero rivela il mistero di Dio, se egli è il luogo teologico per eccellenza, i poveri diventano, teologicamente, un luogo etico originario e la povertà dei singoli discepoli e dell’intera fraternità cristiana assurge a qualità teologale. MISTERMAN, Volodymyr (Ucraina – diocesi di Kolomyja-Černivci): Il fenomeno dell’abuso di sostanze psicotrope in Ucraina. Valutazioni bioetiche, proposte educative e interventi di prevenzione – 28 ottobre 2009; Moderatore: Prof. Giovanni Del Missier. Lo scopo di questa dissertazione è stato quello di andare alla radice del motivo per cui molte persone in Ucraina ricorrono all’uso di sostanze psicotrope. La divisione della tesi in quattro parti ci ha permesso di fare del lavoro uno studio multidisciplinare. La prima parte è stata dedicata alle spiegazioni e chiarificazioni terminologiche. Nella seconda parte sono state analizzate le reazioni a livello internazionale ed europeo, nonché dello Stato ucraino e della Chiesa alle conseguenze che derivano dall’abuso di diverse sostanze psicotrope. Nella terza parte è stata fatta la valutazione etica del fenomeno dell’abuso (ubriachezza) nel percorso storico e sono state fatte alcune riflessioni bioetiche. Nella parte conclusiva si è cercato di andare alla 488 DANIELLE GROS ricerca della radice e della prima causa del problema, proponendo i giusti criteri di risoluzione, puntando, così, a un “risanamento alla radice” del problema della tossicodipendenza. NICOLOSI, Vincenzo Savio (Italia – diocesi di Catania): La carità pastorale come comunione presbiterale. L’identità presbiterale in risposta alle sfide attuali – 24 maggio 2010; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano. L’argomento della tesi ha riguardato la carità pastorale all’interno di un’ottica di comunione (nel significato di koinonia). Concretamente la carità pastorale va vissuta dal presbitero all’interno del proprio presbiterio, pertanto, la comunione presbiterale è la condicio sine qua non per un’autentica carità pastorale. In concreto si potrebbe dire che la preoccupazione primaria di un presbiterio non deve essere l’organizzazione pastorale, ma la cura delle relazioni umane ed ecclesiali. Infatti, le relazioni di comunione presbiterali non sono solo il contesto dell’esercizio della carità pastorale, ma ne costituiscono una concretizzazione essenziale e inalienabile. Occorre pertanto, per un’effettiva e fruttuosa carità pastorale, porre segni tangibili e credibili di comunione ad intra del presbiterio e solo poi ad extra. Certamente la comunione presbiterale non può essere solo comunione di affetti e d’intenzioni, legata alla disposizione d’animo e alla volontà dei singoli, ma è prima di tutto comunione fondata sul sacramento dell’ordine e, in quanto tale, è una dimensione dell’esistenza del presbitero che non si è data da se stesso, per questo, quindi, deve avere la responsabilità di accoglierla, custodirla, viverla. PAULA DE MORAES, Carlos (Brasile – o.s.m.): Movimento extrativista do alto Acre e Purus. Uma proposta de bioética ambiental personalista – 12 aprile 2010; Moderatore: Prof. Edmund Kowalski. O movimento extrativista, nascido da união entre índios e seringueiros, do Alto Acre e Purus (Amazônia) na década de 70 possuía um caráter ambiental e social, que ligava a defesa dos povos da floresta com a defesa da própria floresta. A Igreja, por meio dos missionários Servos de Maria, foi decisiva para o nascimento desse movimento. A partir dessa realidade é apresentada uma leitura dos princí- CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 489 pios de defesa da vida física, totalidade ou terapêutico, liberdade e responsabilidade, sociabilidade e subsidiariedade, como proposta de uma bioética ambiental numa perspectiva personalista, onde seja assegurado ao ser humano o sujeito moral, mas se reconheça o valor intrínseco dos outros seres. POLISETTI, Innaiah (India – o.f.m.cap.): The Ironic Imagination: A Source for Christian Moral Life. Contribution of William F. Lynch, s.j. – 29 maggio 2010; Moderatore: Prof. Stephen Rehrauer. William F. Lynch, S.J. takes into account the individual’s awareness of the combination of divine grace and human nature as an ironic condition of human existence. As humanity is gifted with the unique capacity of imagining, man/woman reflects the imagination of God when s/he tries to be co-creator in the plan of God. The term “Ironic,” according to Lynch means, besides the Greek nuance (saying one thing but meaning the opposite), holding of the opposites together. The thesis focuses on the five significant hinges of human life: God, Self (human being), Love, Spirit and the ironic imagination at the center, the basis for the interrelatedness among these multi-dimensional centers. The thesis investigates the role of the ironic imagination in living the three theological virtues of love, faith, and hope. Key words: Faith, God-experience, Hope, Image, Images of God, Imagination, Irony, Language, Love, Moral discernment, Prayer, Self-image, Self-esteem, Spirituality. POOVAMNILKUMTHOTTIYIL, Joseph (India – h.g.n.): Fundamentalism and Freedom of Religion in the Secular State of India: A Study of the Hindutva Movement in the Light of Dignitatis Humanae – 27 ottobre 2009; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher. This dissertation illustrates how the Hindutva Movement in India is a threat to and violation of the right to religious freedom affirmed, defended and promoted by the teachings of Dignitatis Humanae. The Catholic Church’s notion of religious freedom in Dignitatis Humanae and the legal provisions for the exercise of this right in the Constitution of India are presented in the first two chapters. 490 DANIELLE GROS The Hindutva Movement is studied and the moral challenges to religious freedom are exposed in the third chapter. The concluding chapter reflects on the moral theological perspectives in support of religious freedom as a human right, criticising it in the light of Dignitatis Humanae, and proposes certain areas of the Church’s involvement for the fulfilment of the ethical task of living, defending, and promoting religious freedom. QUINTERO MONCADA, Ever Manolo (Venezuela – diocesi di San Cristobal): Entre ensañamiento terapéutico y eutanasia. Los cuidados paliativos una alternativa – 7 aprile 2010; Moderatore: Prof. Edmund Kowalski. Esta tesis tiene lugar en el marco del análisis de la situación moderna del mundo y la sociedad acerca de las perspectivas humanas y morales planteadas en relación con los fenómenos de la eutanasia y del ensañamiento terapéutico o clínico, y sobre lo que muchos insisten en llamar calidad de vida y autonomía personal, pero que atendiendo a los distintos enfoques genera igualmente el mismo resultado de vulneración flagrante al valor de la vida, vulneración representada en los mecanismos de reanimación artificial y tecnología terapéutica. Este primer escenario genera la necesidad de un segundo, constituido por mecanismos dignificantes de acompañamiento y estimulación de vida en los momentos finales (cuidados paliativos), como un imperativo naturalmente impreso en el ser humano y como una buena práctica médica, social, humana y espiritual, presentándolos bajo una perspectiva humana de respeto a la vida y a la muerte estrictamente natural. RAFFERTY, James (U.S.A. – diocesi di Scranton): Moral Epiclesis – A Liturgical Hermeneutic for Moral Theology: A Study of the Pneumatological Aspects of Yves Congar, Jean Corbon, and Edward Kilmartin – 28 aprile 2010; Moderatore: Prof. Bruno Hidber. The Eastern patristic sources offer moral theology a rich description of the role of the Holy Spirit in the moral life through the paradigm of liturgy. Jean Corbon provides a Trinitarian theology of liturgy that eloquently indicates that the goal of the economy of sal- CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 491 vation is the divinization of human persons. Emphasizing the essential unity of liturgical celebration and daily life, Corbon gives the foundations for a view of the Holy Spirit as moral agent in synergy with the human person. Yves Congar shows that the Eastern patristic vocabulary still serves Western theology, while Edward Kilmartin adds a personal dimension in the Spirit’s action to unite the believer to Christ through memory and imagination. SÁNCHEZ PÉREZ, José Alexis (Venezuela – diocesi di Ormil): Humanización de la sexualidad como lenguaje del amor. Una perspectiva educadora para el Joven de Hoy – 4 giugno 2010; Moderatore: Prof. José Silvio Botero Giraldo. La situazione che vive la società attuale nella quotidianità non pone dubbi che la sessualità è una realtà poco studiata e poco compresa. Esiste un’evidente contraddizione tra il senso originale della sessualità umana e ciò che si vive e si pratica nella realtà concreta. È per questo motivo che diventa urgente un’umanizzazione della sessualità; cioè, riconoscere che l’amore è la base fondamentale della sessualità; che è necessario dare al pudore ed al dominio di sé il valore fondamentale che essi hanno nell’esercizio della sessualità. La realizzazione di questo delicato lavoro dipende dall’impegno e dalla presa di coscienza che assumono i responsabili della formazione dei giovani. SESAY, Francis M. Sehdu (Sierra Leone – diocesi di Makeni): The Vice of Greed in the Ethical Vision of Ambrose of Milan – 26 maggio 2010; Moderatore: Prof. Martin McKeever. The problem of greed, we can say, is as old as humanity. Far back in the history of the early church – to be precise during the time of Ambrose of Milan – the church experienced similar ungodly attitudes in the lives of her members. Ambrose confronted the problem in his De officiis, a special treatise directed to the clergy of his time. In this text, his message can be deduced perfectly well: Pagan onlookers and Christians are to appreciate that Christian charity is interested in gentlemanly behaviour, but that it consciously pursues far higher goals besides, for it knows that its duty is owed in the first instance 492 DANIELLE GROS to God. This dissertation reads the address of Ambrose to the clergy and other listeners of his time and examines how this teaching can be interpreted in a manner appropriate to the life-style of all believers today. It intends breaking the silence and – rather than concur with those who extol greed as good for everyone in the world – tries to show that Ambrose considered it a vice, not a virtue. TELLIS, Ronald (India – diocesi di Jhansi): Interreligious Dialogue: A Possible Response to Ram Janmabhumi Mandir-Babri Masjid Issue – 1 febbraio 2010; Moderatore: Prof. Vimal Tirimanna. The most conspicuous bone of contention between the Hindus and the Muslims in India for the past three decades has been a mosque-structure, Babri masjid in Ayodhya; a town traditionally considered the birthplace of one of the Hindu gods, Ram. The Hindus claim that the Muslim emperor Babar demolished a pre-existing Ram-temple to build a mosque; thus, the Hindus demand it be rebuilt. Communal harmony between the Hindus and the Muslims has dropped to its lowest level since the demolition of the disputed mosque by Hindu activists in December 1992. The Muslims deny all Hindu claims and want the mosque rebuilt. This complex and serious cause of disagreement has resulted in much communal antagonism and violence. Because only one side can be victorious, any archaeological, historical or judicial solution to this problem will undoubtedly result in bitterness and frustration to large segments of either the Hindu or the Muslim communities. Consequently, resolution of this controversy will not guarantee an end to the Hindu-Muslim communal conflict in India. Therefore, interreligious dialogue emerges as the best possible response to this controversial issue. UNAEZE, Charles Chukwuka (Nigeria – diocesi di Orlu): The Problem of Access to Health Care Services in Nigeria: Solutions Based on the Catholic Principles of Common Good and Distributive Justice – 22 aprile 2010; Moderatore: Prof. Vimal Tirimanna. A new understanding of health care as a common good and its distribution according to the principle of distributive justice is advoca- CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 493 ted as a panacea to the perennial problem of health care in Nigeria. Nigeria is one of the countries in the world that has poor access to health care services. In Nigeria, access to health care services is available to some people, and overtly or covertly denied to others. There is the belief that health care is a private affair as promoted by the libertarian philosophy that sees it as any other commodity in the market, obtainable to whoever can afford it. Under this arrangement, the rich who can conveniently pay (hospital bills, buy drugs/medicines, health insurance) live while the poor, the rural dwellers, and the geographically cut-offs who cannot, suffer the debilitating consequences of disease and illness. This thesis argues that ability to pay or privilege of place and position should not be the standards of access to health care services. It rather considers health care as a common good, and based on the principle of the common good, every person in the society should have equal access to it. It calls for improved stewardship role of the government in health care and in all aspects of its social obligation. VOLAREVIĆ, Marijo (Croazia – diocesi di Split-Makarska): “Nuovo femminismo” secondo Giovanni Paolo II: la donna nella costruzione di una nuova etica per un nuovo mondo – 21 maggio 2010; Moderatore: Prof. Edmund Kowalski. Obiettivo di questo studio sono i concetti del “nuovo femminismo” e di una “nuova etica” al femminile, nella visione di Giovanni Paolo II. Giovanni Paolo II, infatti, rivolgendosi alle donne affinché si rendano “promotrici di un nuovo femminismo” non ha fatto nient’altro che invitarle a riscoprire la propria originalità come esseri umani creati a immagine e somiglianza di Dio. Così descritto, il nuovo femminismo ha anche la sua esigenza etica come conseguenza diretta della vocazione antropologica della donna. Il “nuovo femminismo” proposto da Giovanni Paolo II è il risultato della sua lettura dei segni dei tempi, da cui trae la visione di una femminilità come ricchezza universale e che, pertanto, dovrebbe trasformarsi in dono per l’intera umanità. 494 DANIELLE GROS 9.2. Dottori proclamati Durante l’anno accademico 2009-2010, 18 studenti, ai quali è stato conferito il titolo di dottore in teologia con specializzazione in teologia morale, hanno pubblicato, alcuni in versione integrale, la loro tesi dottorale: AROCKIA DASS, Mangalam David, The Compatibility of Development in the Writings of Amartya Sen and in the Social Teachings of the Church. Roma 2009, 201 pp. CARLIN, Paolo, Etica e informazione giornalistica nel telegiornale. Excerpta. Roma 2009, 233 pp. IKPENWA, Albert, Economic Emancipation: The Crisis of a Christian Value System and the Alienation of the Human Person in a Globalised Economy. Excerpta. Roma 2009, 179 pp. IMMIG, Claudio Vicente, A presença profética das pessoas com deficiência no atual contexto cultural. Questões antropológicas, éticas e sociais. Excerpta. Roma 2010, 113 pp. KHONDE, Godefroid, Inculturation chrétienne du mariage au Congo. Problèmes et perspectives. Excerpta. Roma 2010, 150 pp. LE, Ngoc Dung, L’atto coniugale, unitivo e procreativo nel matrimonio. Una visuale storica, dottrinale e pastorale. Excerpta. Roma 2010, 131 pp. LÓPEZ CERDÁN, Francisco Javier, Hacia una nueva comprensión del noviazgo en la sociedad postmoderna. Retos éticos y pastorales. Murcia 2010, 332 pp. LOREFICE, Corrado, La Chiesa e il mistero di Cristo nei poveri. G. Dossetti e la formazione del discorso sulla povertà tenuto al Concilio Vaticano II dal Card. Giacomo Lercaro. Excerpta. Roma 2010, 125 pp. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 495 MISTERMAN, Volodymyr, Il fenomeno dell’abuso di sostanze psicotrope in Ucraina. Valutazioni bioetiche, proposte educative e interventi di prevenzione. Excerpta. Roma 2009, 122 pp. OFODUM, Anselm Ifeanyichukwu, The Hermeneutics of Human Freedom as the Basic Attribute of Moral Responsibility. Moral Responsibility as the Ethical Implication of an Adequate Concept of Human Freedom. Excerpta. Roma 2009, 123 pp. PAULA DE MORAES, Carlos, Movimento extrativista do alto Acre e Purus. Uma proposta de bioética ambiental personalista. Excerpta. Roma 2010, 112 pp. QUINTERO MONCADA, Ever Manolo, Entre ensañamiento terapéutico y eutanasia. Los cuidados paliativos una alternativa. Excerpta. Roma 2010, 121 pp. RAFFERTY, James, Moral Epiclesis – A Liturgical Hermeneutic for Moral Theology: A Study of the Pneumatological Aspects of Yves Congar, Jean Corbon, and Edward Kilmartin. Roma 2010, 335 pp. SESAY, Francis, The Vice of Greed in the Ethical Vision of Ambrose of Milan. Excerpta. Roma 2010, 159 pp. TELLIS, Ronald, Interreligious Dialogue: A Possible Response to Ram Janmabhumi Mandir-Babri Masjid Issue. Excerpta. Roma 2010, 104 pp. TENG, Woon Pheng, Be Merciful: The Tragedy and Productive Power of Suffering Humanum in E. Schillebeeckx and the Analects of Confucius. An Ethical Analysis of Themes on Being Human. Excerpta. Roma 2009, 242 pp. VOLAREVIĆ, Marijo, “Nuovo femminismo” secondo Giovanni Paolo II: la donna nella costruzione di una nuova etica per un nuovo mondo. Roma 2010, 201 pp. 496 DANIELLE GROS VULETIČ, Suzana, La sfida della salute e il personalismo medico con particolare riferimento alla situazione croata. Excerpta. DiakovoOsijek, 2009, 137 pp. 9.3. Licenziati in teologia morale Durante l’anno accademico 2009-2010, 50 studenti hanno ottenuto la licenza in teologia morale: AGUILAR SERRATO, J. Rosario (Messico – o.s.a.): El cuerpo humano en la postmodernidad. La valorización de la corporeidad. AHOHAKO, Soane Pelenisi (Tonga – s.m.): Generating Human Life: Marriage and the New Reproductive Technologies, a Catholic Perspective. ALMAZAN ESTEVEZ, Leobardo (Messico – o.p.): A comparison of the Operational Concept of Justice in Rerum Novarum and Centesimus Annus: An Analysis Based on MacIntyre’s idea of “Rationality of Traditions”. AMANDU, John Avua (Uganda – a.j.): The War in Northern Uganda in the Light of the Social Doctrine of the Church. AMBROZ, David (Repubblica Ceca – diocesi di Brno): Forza della Parola di Dio nel dinamismo della morale cristiana. ANTONISAMY, Selvaraj (India – s.a.c.): Morality of a Canonical Engagement and the Culture of Prenuptial Cohabitation in the Catholic Church. CINQUEMANI, Mariano Daniel (Argentina – diocesi di Mendoza): La corresponsabilidad presbiteral en la formación de la conciencia. DA SILVA, Reginaldo Albuquerque (Brasile – diocesi di Palmas): A educaçao familiar como prevençao das situaçoes de risco na adolescência. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 497 DE OLIVEIRA, Adenis Roberto (Brasile – s.d.p.): O debate ético-jurídico sobre o embrião humano no contexto brasileiro. DONATO, Antonio (Italia – c.ss.r.): La vocazione: chiave interpretativa della ricerca di senso nel catechismo dei giovani. DUEÑAS PÉREZ, Mauricio (Colombia – diocesi di Bogotà): Las uniones consensuales hoy. Acompañamiento pastoral. EKOUEREMBAHE, Roch (Congo – o.f.m.): Vers la communauté sponsale fondée sur l’amour fidèle et le don réciproque. Perspectives pour un agir éthico-conjugal au Congo. FORSTER, Magnus (Germania – diocesi di Regensburg): Die Notluge als moraltheologisches Problem. GUNCAGA, Jozef (Slovacchia – diocesi di Mosca): Aborto in Russia. HAN, Jianfu (Cina – diocesi di Handan): La responsabilità educativa della famiglia nella cultura in Cina alla luce del documento “Familiaris consortio”. HENZL, David (Repubblica Ceca – diocesi di Ceske Budejovice): L’ingegneria genetica può cambiare la vita? HOUNLIHO, Magloire D. O. (Bénin – m.i.): Fede e carità nel rinnovamento della teologia morale alla luce di “Veritatis Splendor”, di “Deus Caritas Est” e di “Caritas in Veritate”. IANNO, Antonino (Italia – diocesi di Reggio Calabria-Bova): L’azione della Chiesa calabrese nella formazione della coscienza in un contesto mafioso. L’opera e la figura di don Italo Calabrò. INGUSCIO, Giorgio (Italia – diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca): “Se il chicco di grano muore, produce molto frutto”. Sequela e gioia. Analisi esegetica e teologico-morale di Gv 12,25-26. 498 DANIELLE GROS JOHN, Shiny (India – s.v.m.): Self-Esteem of Women: Its Relationship to the Moral Development of Women in the Indian Environment. KABWANSONGO, Nkwar-Mur Alexis (Repubblica Democratica del Congo – diocesi di Roma): Le SIDA: une question de bioéthique sociale en Afrique Centrale. Cas de la République Démocratique du Congo. Analyse politico-sociale et éthico-morale. KOSMANN, Jochen (Germania – diocesi di Munster): Kritische Theorie und Theologie des Rechts. Darstellung und Diskussion des rechtsethischen Beitrags von Wolfgang Huber. KRAVTSIV, Volodymyr (Ucraina – diocesi di Sambir-Drohobych): L’omosessualità. Approccio antropologico, etico, psicologico e pastorale. LACERENZA, Gianpaolo (Italia – o.f.m.cap.): Il recupero della persona che delinque nel contesto attuale: una lettura teologico morale. LIZANO CARMEN, Lázaro Elías (Perù – diocesi di Chulucanas): Humanización del medio ambiente, un desafío al sentido cristiano de la vida. MARTYNYUK, Yuriy (Ucraina – diocesi di Sambir-Drogobych): La “terapia embrio-fetale” in Ucraina. Approccio antropologico, giuridico ed etico. MBESSA MBOUI, Marie Madeleine (Camerun – a.v.): “Ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1, 48). MUPA, Raymond Tapiwa (Zimbabwe – c.ss.r.): Redressing an Old Injustice by Creating a New Injustice? A case study of Zimbabwe’s land reform programme. NGUYEN, Huu Quang (Vietnam – c.ss.r.): The Moral Foundation of Democracy in Jacques Maritain. CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA 499 NIMENYA, Léopold (Burundi – diocesi di Civitavecchia/Tarquinia): Binomio giustizia-carità per una proposta morale della speranza in Burundi alla luce delle encicliche di Benedetto XVI. O’MAHONY, Colm (Irlanda – o.s.a.): Pastoral Care for Long Term Patients in a Hospital Setting. ORDÓÑEZ MÁRQUEZ, Antonio José (Spagna – s.j.): Jóvenes en riesgo social: aproximación sociológica, moral y educativa. ORREGO MOSCOSO, Jorge Weimar (Colombia – diocesi di Apartadó): La caridad, virtud primordial del sacerdote en su relación con la familia, el presbiterio y la comunidad confiada. PEDDIS, Alberto (Italia – diocesi di Cagliari): Solidarietà, un percorso storico. L’imporsi del principio di solidarietà nella Dottrina sociale della Chiesa. PEDROZA SORIA, Jorge Humberto (Messico – diocesi di Aguascalientes): La Pastoral Matrimonial, iluminación doctrinal y pastoral de las parejas infértiles. PISCITELLI, Antonio (Italia – diocesi di Crotone): Il transessualismo. Aspetti etici, antropologici e giuridici. PULLATTU CHACKO, Roy (India – m.s.t.): Ecology in the Indian Context: The Moral Challenge of Development and Population. REYNA FÉLIX, Héctor Manuel (Messico – diocesi di Zacatecas): La conversión moral en “Método en teología” de Bernard Lonergan. RIGGIO, Barbara (Italia – diocesi di Pescara): La coscienza coniugale: fondamento e criteri alla luce della “Gaudium et spes”. ROMO VÁZQUEZ, José Efraín (Messico – diocesi di Guadalajara): Cambio de paradigma en la ética sexual. En búsqueda de una nueva postura. 500 DANIELLE GROS SALDAÑA MÁRQUEZ, Rolando Javier (Messico – diocesi di Valle de Chalco): El cónyuge inocentemente abandonado. Un problema que no ha merecido una justa atención. SANTORO, Chiara (Italia – diocesi di Roma): Il corpo in adolescenza: interpretazioni, rilievi etici e prospettive educative. SARANIERO, Enzo (Italia – diocesi di Roma): Dalla rivelazione all’annuncio della carità. SERRONE, Giuseppe (Italia – diocesi di Cività Castellana): L’insegnamento istituzionale della teologia morale oggi: Analisi critica di “Liberi e fedeli in Cristo” di Bernard Häring. STALNIK, Peter (Slovacchia – diocesi di Nitra): L’insegnamento del Magistero postconciliare sulla penitenza. THOMAS, Seena (India – m.s.m.i.): The Moral Dignity of Marriage and Marital Fidelity among Married Christians: With special Reference to Indian Families. TREVISAN, Maurizio (Italia – diocesi di Modena): La formazione della coscienza dei giovani in Italia alla vita matrimoniale. VICENTE ORELLANA, Julio Adinel (U.S.A. – diocesi di Boise): Euthanasia, a Compassionate Death or the Death of Compassion. YOUKHANNA, Amer Najman (Irak – diocesi di Mosul): La dottrina della guerra giusta cattolica e la gihad islamica. ZANOM, Eduardo Augusto (Brasile – diocesi di Palmas): O Espirito Santo e a proposta moral à luz de “Veritatis splendor” e “Deus caritas est”. Books Received / Libros recibidos Libri ricevuti ABBÀ GIUSEPPE, Costituzione espistemica della filosofia morale, (=Ricerche di filosofia morale 2), LAS, Roma 2009, 367 p. ANTONINO ROMANO, Madagascar. Autenticità “in transizione” tra cultura e inculturazione della fede, (=Convegni – Ricerche – Atti 21), Coop. S. Tom, a. r. l. – Messina 2010, 278 p. BODÉÜS RICHARD, La filosofia politica di Aristotele, (=Collana “Saggi” 2), EDUSC, Roma 2010, 204 p. BRESCIANI CARLO – EUSEBI LUCIANO (a cura di), Ha ancora senso parlare di guerra giusta? Le recenti elaborazioni della teologia morale, EDB, Bologna 2010, 153 p. CACCIAPUOTI PIERLUIGI, Roma e Lutero. Cristologia e ontologie a confronto, (=Letture Teologiche Napoletane, Nuova Serie 4), Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Sezione S. Tommaso d’Aquino – Napoli, Campania Notizie Srl, Editoriale Comunicazioni Sociali, Napoli 2010, 152 p. CHIMIRRI GIOVANNI, Psicologia della nudità: l’etica del pudore fra esibizionismi e intimità, (=Biblioteca di filosofia e scienze umane 12), Bonomi Editore, Pavia 2010, 125 p. CIPRESSA SALVATORE, Bioetica per amare la vita, EDB, Bologna 2010, 183 p. 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Principi psicologici utilizzati nella formazione per il Sacerdozio e la Vita Consacrata. J. SILVIO BOTERO G., Un nuevo libro al servicio de la formación sacerdotal y religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253-258 STEPHEN T. REHRAUER, Effective Religious Formation – A Psychological Guide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259-264 JOSÉ RAFAEL PRADA RAMÍREZ, Psicologia e formazione . . . 265-267 LORENZO ROSSETTI CARLO, La civiltà dell’amore e il senso della 268-273 storia. Presentazione del libro, Réal Tremblay . . . . . . . . . . International Conference / Congreso Internacional Congresso Internazionale LÓPEZ ENRIQUE – WITASZEK GABRIEL, Le fonti classiche e contemporanee di teologia morale. Resoconto del VII Con- 459-466 gresso Internazionale Redentorista di Teologia Morale DEL MISSIER GIOVANNI, Ordo caritatis e fragilità umana 467-472 Cronaca del XXIII Congresso dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) . . . . . . . . . . . . . . . Chronicle / Crónica / Cronaca 473-500 GROS DANIELLE, Cronaca dell’Accademia Alfonsiana relativa all’Anno Accademico 2009-2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 501-503 Books Received / Libros recibidos / Libri ricevuti 505-507 Index of volume 48 (2010) / Índice del volumen 48 (2010) / Indice del volume 48 (2010) . . . . . . . . . . Realizzazione editoriale SERVIZI INTEGRATI PER LA GRAFICA, LA STAMPA E L’EDITORIA [email protected] Stampa Tipografia Mancini s.a.s. - 2010