una questione di famiglia? - Gli amici di Eleonora ONLUS

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una questione di famiglia? - Gli amici di Eleonora ONLUS
AUTORI VARI
UNA QUESTIONE
DI FAMIGLIA?
Calata San Marco 4 · 80133 NAPOLI
Tel. 081 5513233 · Fax 081 5518092
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Edizione fuori commercio · Finito di stampare nel Maggio 2010
Progetto grafico e stampa
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Gli autori
Margherita Rocco
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Una questione di famiglia?
Presidente Degli Amici di Eleonora Onlus, è nata in Provincia di Napoli.
Laureata in Sociologia alla Federico II di Napoli.
Dopo anni di lavoro nella ricerca e nel marketing si è avvicinata al mondo del volontariato, insieme al marito Claudio Lunghini, oggi Segretario
dell’Associazione, dopo la morte della figlia Eleonora.
Collabora all’elaborazione dei testi per le Pubblicazioni dell’Associazione
che si materializzano nei “Quaderni di Eleonora”.
Quelli che vengono affrontati sono temi delicati come quello dell’accanimento terapeutico, le dichiarazioni di volontà, le cure palliative e l’assistenza alle famiglie.
Nadia Angelucci
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Laureata in Storia ha poi conseguito specializzazioni in Pari Opportunità e Cooperazione Internazionale. Giornalista pubblicista collabora alla
storica testata NOIDONNE, si occupa soprattutto di temi legati alla politica estera e alla cooperazione internazionale; ha vissuto in vari paesi
del Sud America collaborando con la FAO, ONG, Università, Istituti di
cultura. Ha maturato una lunga esperienza lavorando in differenti realtà
del Terzo Settore in particolare con le persone disabili. Scrive su varie testate e siti web e cura la trasmissione ‘Bucanero’ su Radio Popolare Roma.
Iolanda Chiuchiolo
32 anni, laureata in Lettere presso l’Università Federico II di Napoli, è
giornalista professionista. Ha iniziato a lavorare a Benevento presso un
quotidiano locale e un mensile socio-culturale. Dopo i primi anni di esperienza si è trasferita a Caserta dove tuttora vive e lavora per i quotidiani
Corriere di Caserta e Cronache di Napoli.
Una questione di famiglia?
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Introduzione
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Una questione di famiglia?
Un anno di lavoro si conclude per noi Amici di Eleonora, avendo
portato a termine il nostro primo Percorso di ascolto di alcune famiglie con pazienti in coma e stato vegetativo.
Quando nel 2003 sono successi i fatti che portarono nostra figlia
in coma, non si parlava ancora apertamente di tante problematiche
così delicate. Come si dice più comunemente oggi “Etiche”, quali
l’Accanimento terapeutico o le Dichiarazioni anticipate di volontà
ed i problemi dell’assistenza ai pazienti in coma e stato vegetativo.
Continua ad essere dominante una certa mentalità che prevede la
fuga o il far finta che il problema non esista.
Ignorare per esorcizzare il dolore, la sofferenza e la morte.
Per fortuna qualcosa si sta muovendo nelle coscienze di tutti, anche grazie a persone che non hanno nascosto il loro dolore, risolvendo la questione nel privato, come spesso avviene, ma chiedendo (ed
ottenendo) dalla Magistratura, dalla politica e dalla gente comune la
dovuta attenzione, facendo nascere a volte un dibattito, anche duro,
ma necessario.
Lo studio che presentiamo con questo libro vuole essere l’esposizione dei risultati di una ricerca medico sociale e nello stesso tempo
un mezzo per dare voce alle famiglie che affrontano il problema del
coma; lo facciamo, nella seconda metà del testo, con scritti e poesie
di mamme, papà, zii, sorelle, di quelle persone che non solo assistono
i loro cari ma che hanno deciso di trasmettere anche agli altri la loro
esperienza.
Il grande lavoro che stanno portando avanti Gli Amici di Eleonora è supportato sempre più dalle istituzioni, infatti questo Progetto,
chiamato “Percorso di Cittadinanza attiva degli Amici di Eleonora”
si prefigge di conoscere lo stato dell’assistenza domiciliare attuale e
di aiutare la famiglia ad accogliere a casa il paziente in stato vegetativo, sostenendola nell’imparare a convivere e gestire il lungo periodo
della sofferenza, è stato finanziato dall’Assessorato ai Servizi Sociali
della Regione Campania e sarà presentato a tutte le Istituzioni competenti.
Il coma è una malattia che colpisce la famiglia tutta, con gravi
conseguenze per la vita sociale e di relazione dei suoi membri.
Cerchiamo di individuare le maggiori difficoltà quotidiane e la
via da seguire, i suggerimenti da dare alle istituzioni per permettere
a tutti di avere la giusta assistenza e considerazione, per evitare la solitudine e l’esclusione sociale che è oggi la vera emergenza del nostro
tempo.
Margherita Rocco
Presidente Associazione
Gli Amici di Eleonora Onlus
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Claudio Lunghini
Segretario Associazione
Gli Amici di Eleonora Onlus
Iª PARTE
Il progetto “Percorso di cittadinanza attiva
per Gli Amici di Eleonora”
Denominazione progetto:
Percorso di cittadinanza attiva de Gli Amici di Eleonora
Ente Committente:
Regione Campania
Assessorato ai Servizi Sociali
Associazione proponente:
Gli Amici di Eleonora Onlus
Enti Partner:
Province, Enti Locali, Aziende Ospedaliere
Tipologia progetto:
Servizi Sociali
Descrizione della parte progettuale che gestiamo come Onlus:
Descrizione Progetto
L’Associazione “Gli Amici di Eleonora” nasce per volontà di una
coppia di genitori che hanno conosciuto uno dei dolori più grandi
che si possano provare: la nascita, in situazione disperata, della loro
piccola Eleonora (praticamente asfissiata), l’accanimento terapeutico
- nonostante il parere contrario della famiglia - inutile e doloroso, la
morte di Eleonora.
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Una questione di famiglia?
Soggetti di volontariato partecipanti:
Associazione Amici dei Cerebrolesi Telese (BN),
Associazionismo locale (TDM - Cittadinanzattiva)
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Il progetto, è rivolto ai familiari di pazienti in stato vegetativo,
coma o pre-coma, per cercare di preparare la famiglia ad accogliere
il paziente nel proprio domicilio successivamente ad una dimissione o, nei casi di prolungata degenza ospedaliera, a saper convivere
e gestire emotivamente per lungo tempo la sofferenza. Il progetto
non è assolutamente di carattere sanitario, quanto piuttosto sociale o
socio-assistenziale nell’ottica di un modo di intendere la malattia ed
il carico di dolore ad essa legato come questione che investe - oltre
che, naturalmente, il paziente - le persone più care, coloro che sono
chiamati a gestire un rapporto emotivo con sé stessi difficile e problematico, il quale ha sicure e pesanti ricadute sul mondo allargato
degli affetti familiari attraverso una serie di quotidiani ed impalpabili
microtraumi, di situazioni giornaliere stressanti.
La legge Regionale n° 16/08 della Regione Campania ha individuato tre unità dei risvegli in varie strutture pubbliche regionali. Si
tratta dell’A.O. Rummo di Benevento, del “Da Procida” di Salerno e
dell’A.O. Santobono - Pausilipon di Napoli.
Obiettivi
Il progetto mira a fornire un aiuto concreto a chi, come i genitori
di Eleonora, si trova a vivere momenti lunghissimi e tremendi, in
uno stato di assoluta impotenza, umiliazione di fronte a personale
medico spesso chiuso nel suo sapere tecnico, indifferente, non abituato a quella minima capacità di umano sentire che si suole chiamare empatia, trovandosi, quindi, indifesi in uno stato di totale impotenza e di depressione.
L’associazione “Gli Amici di Eleonora” ritiene che sia di fondamentale importanza trovare un luogo dove non solo poter comunicare il proprio dolore, la propria sofferenza, dove poter esprimere le
proprie emozioni, i propri sentimenti, ma anche di poter ascoltare e
di saper accogliere il dolore, la sofferenza, le emozioni, i sentimenti
degli altri.
Quindi allorché esistesse un elenco continuo e puntualmente aggiornato delle persone nello stato sopra descritto, si potrebbe formulare una soluzione assistenziale dedicata per ogni famiglia.
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Una questione di famiglia?
L’obiettivo è, quindi, quello di rendere capaci le persone di convivere con la persona cara che si trova in uno stato di ‘sospensione’
attraverso il recupero, l’esplicitazione, l’appropriazione e l’elaborazione dei propri vissuti aiutandosi ed aiutando.
Lo strumento operativo consiste nella costruzione di mutualhelp-group, guidati da un esperto psicologo in funzione assolutamente non direttiva, bensì capace di costruire un contesto facilitante.
I gruppi che si pensa di formare saranno costituiti da non più di 10
persone, la cui composizione sarà determinata sulla scorta dei seguenti parametri:
• cause che hanno portato al determinarsi della situazione comatosa o vegetativa. Infatti, si sa che soggetti che entrano in
stato vegetativo in seguito a lesioni traumatiche hanno una
probabilità maggiore di recuperare la coscienza rispetto a chi
si trova in questa situazione per altra causa;
• durata (pregressa) dello stato vegetativo;
• strutture residenziali frequentate.
Lo scopo è di costituire gruppi “chiusi” per quanto possibile bilanciati ed equilibrati.
I partecipanti verranno inseriti sulla base di un colloquio-intervista preliminare che attraverso il parlare, il discutere, il trattare insieme lasci intera libertà di indagine all’operatore e di espressione
del soggetto. La scelta di un metodo ‘aperto’, ma semistrutturato è
correlata alla conoscenza del vissuto soggettivo, alla esplorazione del
problema dalla sua (della persona) prospettiva: il motivo per cui vuole entrare nel gruppo, il tipo di aiuto che si aspetta, il concetto che ha
di sé, della malattia, del personale medico, le sue modalità di interazione e il cambiamento che eventualmente si attende.
Le sedute (1 a settimana) si svolgeranno con metodo non direttivo. Il facilitatore eviterà di dare consigli, formulare domande, di
lodare o biasimare. I partecipanti non verranno mai interrotti.
Durante i loro interventi, alla comunicazione non verbale del facilitatore è affidato il compito di trasmettere attenzione e partecipazione.
Attraverso il dialogo, l’interazione tra i partecipanti in aggiunta con la
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non frequente interlocuzione del facilitatore, si mira a restituire quanto
detto dall’“altro”’, a fornire un “contenitore”, a riformularlo, a rassicurare
la persona sulla comprensione del suo discorso. La riformulazione verrà
sottoposta alla reazione emotiva e cognitiva del gruppo affinché si eviti
una forma di surrettizia manipolazione e soprattutto affinché il gruppo,
la persona, percepisca di essere il reale protagonista del percorso.
Le sedute verranno registrate: i volontari provvederanno alla sbobinatura, trascrivendo in maniera fedele, senza alcuna alterazione di
contenuti e di forma quanto detto dai partecipanti al gruppo. Il materiale verrà sottoposto alla discussione del gruppo su base mensile.
Il risultato atteso è un cambiamento inteso come empowerment
personale insieme con il recupero di energie, forze interiori che permettano un riequilibrio individuale e collettivo. Il che, si badi, non
significa nella maniera più assoluta rimuovere, dimenticare, accantonare il dolore, la sofferenza propria ed altrui, ma un nuovo modo
di accoglierla dentro di sé per trovarsi pronti ad offrire sostegno in
una accettazione non passiva della malattia, ma in qualche modo più
serena a tal punto da rafforzare la propria capacità di lotta, di mobilitazione, interna ed esterna.
Al termine del complesso degli incontri ai partecipanti verrà sottoposto un questionario in forma semi strutturata, che possa rilevare
i mutamenti lungo 5 assi prioritari:
• il concetto che la persona aveva ed ha di sé;
• il concetto che la persona aveva ed ha della malattia;
• le sue modalità di interazione che aveva e che ha con il familiare in stato vegetativo;
• le sue modalità di interazione che aveva e che ha con gli altri
familiari;
• il concetto che la persona aveva ed ha degli altri e le sue modalità di interazione che aveva ed ha con essi.
Inoltre, si chiederà ai partecipanti di scrivere un proprio elaborato
(più o meno una storia di vita) su quanto esperito e vissuto lungo
tutto il tempo trascorso insieme. Gli elaborati - redatti in forma anonima- saranno oggetto di una comune riflessione.
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Una questione di famiglia?
Alla fine dell’esperienza l’associazione “Gli amici di Eleonora”
raccoglierà - in forma anonima e comunque con il consenso delle
persone interessate - tutto il materiale prodotto nelle sedute in una
pubblicazione commentata.
La presentazione dei risultati ottenuti avverrà attraverso l’organizzazione di una giornata-convegno che andrà anche a costituire
un momento di sensibilizzazione verso il problema sia nei confronti
di coloro che sono coinvolti, vuoi a livello professionale vuoi perché
familiari di persone in coma, sia nei confronti delle istituzioni pubbliche e, infine, sia nei confronti della comunità intera.
3. Aspetti innovativi del progetto
Il progetto, se solo si consideri che NON esistono ancora in
Campania Unità del Risveglio, è di per sé fortemente innovativo. Se,
infatti, la metodologia rientra nel novero di approcci “consolidati” è
il contesto, i beneficiari, gli obiettivi che ci si propone che sono per la
Campania, qualcosa di assolutamente nuovo.
4. Destinatari finali
5. Numero dei destinatari
Quaranta persone, circa, divise in quattro gruppi da 10.
6. Numero di volontari impegnati
10: un sociologo, un medico, uno psicologo, quattro assistenti, un
elaboratore di dati, un addetto alle pubbliche relazioni, un referente
con le istituzioni socio-assistenziali (Provincia, Comuni, ASL).
7. Personale non volontario coinvolto
2: uno psicologo, un assistente sociale.
8. Reti di collegamento
Altre associazioni, cooperative sociali, Onlus, Enti locali.
9. Ambito Territoriale
Regione, Provincia, Comune.
10. Durata del Progetto (in mesi) 12
TEMPI E FASI
Il progetto risulta così articolato:
1 Fase: Pubblicizzazione del progetto - Durata: 1 mese.
2 Fase: Individuazione dei potenziali soggetti destinati a costituire i gruppi di mutuo-aiuto. Durata prevista: 2 mesi.
3 Fase: Colloqui preliminari - Durata:1 mese.
4 Fase:
Sedute di gruppo: 1 seduta a settimana. L’ultima seduta
di ogni mese è dedicata alla discussione del materiale
prodotto nelle precedenti sedute - Durata: 6 mesi.
5 Fase: Somministrazione del questionario semi strutturato.
6 Fase: Elaborazione delle “storie di vita”: sedute conclusive di
riflessione sul percorso effettuato - Durata: 1 mese.
7 Fase: Studio e restituzione dei risultati: organizzazione della
giornata-convegno - Durata 1 mese.
11. Data prevista di avvio
Maggio 2009.
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Relazione del gruppo di lavoro
“Percorso di cittadinanza attiva degli Amici di Eleonora”
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Una questione di famiglia?
Incidenza dello stato vegetativo
In Campania a tutt’oggi non esistono strutture sanitarie specifiche per il trattamento riabilitativo di pazienti in coma.
Solo nel 2005 è stato elaborato dal Ministero della Salute uno
studio sul “problema coma” da parte di una Commissione di Consulenti. In tale documento è riportato che in Italia ogni anno circa
20mila persone entrano in coma. Più di un terzo ne esce indenne,
altri riportano danni più o meno gravi e per più di 500 di loro il
coma evolve in stato vegetativo, che può durare più o meno a lungo
e talvolta permanente.
I dati provenienti della letteratura ripor­tano un’incidenza dello
stato vegetativo a sei mesi dall’evento per le­sione cerebrale acuta che
varia da 0.5 a 4/100.000 abitan­ti, mentre i dati relativi alla prevalenza sono ancora più va­riabili (da 0.6 a 10/100.000 ab) a causa della
diversità dei criteri di arruolamento adottati, situandosi nella maggior parte dei casi sui 2-3 casi ogni 100.000 abitanti.
L’incidenza dello Stato Vegetativo è in gradua­le crescita in tutti i
paesi occidentali, di pari passo con i progressi della scienza medica,
in par­ticolare con l’evoluzione delle tecniche rianimatorie, che mantengono in vita soggetti che in passato sa­rebbero deceduti.
Circa un terzo degli stati vegetativi è di origine traumatica. Dei
2/3 di origine non traumatica (ictus cerebrale ischemico o emorragico, encefalite, anossia) quasi il 50% è costituito dalle anossie cerebrali.
Questo fenomeno pone interroga­tivi sulle modalità di gestione
di situazioni di tale disabilità gravissima, le cui caratteristi­che sono
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l’andamento cronico, il profondo impatto psico­logico ed operativo
sulla famiglia e sul team di assistenza, e la persistenza per tempi lunghi di problemi assistenziali complessi.
L’aspettativa di vita di questi pazienti è in progressivo aumento:
la stima di 2-5 anni di sopravvivenza media di pazienti in stato vegetativo conseguente a le­sione cerebrale acuta riportata dalla “Multi
Society Task Force on PSV” del 1994 è nettamente superata, essendo attualmente presenti casi di so­pravvivenza oltre i 10-15 an­ni
dall’evento acuto.
In Campania il fabbisogno stimato è pari a circa 100-150 posti
letto a fronte di un’offerta pari a zero. Lo studio ministeriale ha censito appena 330 posti letto disponibili per la cura di pazienti in stato
vegetativo dislocati su sole sei regioni.
Ciò determina un flusso migratorio di pazienti campani su strutture extra-regionali con spese a carico della stesso SSR, oppure come
accade nella maggior parte dei casi una impossibilità a trovare risposte
al fabbisogno a causa del ridotto numero di posti letto su tutto il territorio nazionale con un incredibile aggravio di spese e disagio sociale.
I progetti e i programmi di cura e riabilitazione di questi pazienti
devono invece essere connotati in modo specifico e dovranno essere
diversificati non solo per una intensività di trattamento, ma per una
specificità individuale che consideri come primaria la particolarità
socio-familiare in cui il soggetto è inserito e da cui proviene.
I familiari del paziente
Non sono molti gli studi che hanno indagato le reazioni emotive,
il distress psicologico ed il sovraccarico psicofisico dei familiari di
pazienti in stato vegetativo.
L’esperienza clinica puntualizza l’enorme diffi­coltà ad accettare
la diagnosi ed i vissuti di shock, ansia, senso di colpa, depressione,
rabbia e aggressività verso lo staff sanitario.
La maggior parte dei familiari, nei mesi immediata­mente successivi all’evento, tende a negare l’accaduto o sviluppa fantasie riguardo lo stato di consapevolezza del paziente, rinforzati dai movimenti
spastici o riflessi inter­pretati come segni di miglioramento.
Lo stato vegetativo
I pa­zienti in stato vegetativo non sono pa­zienti terminali: l’attesa
di vita può essere di molti anni per la relativa conservazio­ne delle
funzioni troncoencefaliche ed ipotalamiche che spiegano il persistere delle funzioni vegetative ed in parti­colare la respirazione spontanea, la termoregolazione, il controllo dell’attività cardiocircolatoria,
nonché alcuni ri­flessi.
La cura di tali malati è al momento attuale caratterizzata da un
alto grado d’inappropriatezza, per la permanenza per tempi lunghi
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Una questione di famiglia?
La speranza di una ripresa con il tempo si trasforma in rassegnazione che però non sempre si traduce in elaborazione dell’evento
traumatico.
Il protrarsi dell’assistenza causa disturbi psicosomatici, insonnia
ed inappetenza.
È accertato che lo stato vegetativo è da considerare un paradosso
emotivo per i familiari perché non permette ad essi di giungere ad
una elaborazione del lutto, non essendo il paziente morto e presentando movi­menti involontari ed una maggior autonomia dagli ausili
rispetto a quando si trovava in terapia intensiva.
Qualche familiare fugge per sempre da questa situazione; pochi
sono coloro che riescono ad integrare nella propria vita l’e­vento traumatico che li ha colpiti. Per lo più la famiglia resta accanto ai propri
cari, conformandosi alla staticità della loro condizione clinica in una
sorta di “simbiosi vegetati­va”.
Molti familiari realizzano un accudimento che risulta frustrante
perché qualsiasi sforzo non sarà sufficiente a migliorare la condizione clinica del paziente. Si resta intrappolati in una non elaborazione,
in un non reinvestimento emotivo, bloccati in un limbo in­definito
come quello dei loro congiunti in stato vegetativo.
Il ritorno alla vita per il familiare sembra che possa av­venire solo
quando la vita-non vita dei propri cari finisce per sempre, ma allora tutto diventa un vita mea mors tua inaccettabile e la rabbia, la
frustrazione e l’ambivalenza rispetto ai propri sentimenti diventano
sempre più pesanti.
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all’interno di strutture ospedaliere in reparti per acuti, oppure per il
ricovero in casa di riposo dove i livelli assistenziali non sono in alcun
modo in grado di prevenire i danni terziari.
Questi pazienti pongono problematiche assistenziali a relativamente modesto contenuto tecnologico, ma ad elevato impegno
umano ed assistenziale mirate alla prevenzione dei danni terziari
(decubiti, retrazioni muscolo-tendinee, calcificazioni para-articolari,
infezioni bronco-polmonari ed urinarie, trombosi, ecc.) e all’eventuale recupero funzionale.
Manca in generale una gestione coordinata mediante progetti e
programmi di cura e riabilitazione connotati in modo specifico e diversificati per una specificità individuale che consideri anche la particolarità socio-familiare in cui il soggetto è inserito.
L’assistenza ai malati attraverso una possibilità assistenziale adeguata al loro bisogno deve pertanto prevedere:
1. sorveglianza medica attiva;
2. nursing assistenziale;
3. sorveglianza e igiene personale, mobilizzazione e posizionamento diurno in sistemi posturali;
4. trattamento riabilitativo svolto dal team multidisciplinare
volto alla prevenzione del danno terziario, al recupero della
possibile funzionalità residua e alla stimolazione sensoriale,
alla rieducazione della deglutizione, alla mobilizzazione, alla
rieducazione cognitiva, agli aspetti affettivo-relazionali;
5. interventi psicologici con funzioni di attività clinica ed attività
di supporto ai familiari.
A queste difficoltà gestionali si aggiunge la difficoltà nello stabilire una rela­zione tra operatori sanitari e i familiari dei pazienti in qualità di congiunto, ma anche in qualità di tutore legale del paziente.
In questo scenario non è inoltre semplice per gli operatori sanitari decidere se e quando un determinato interven­to si configura come
accanimento o no.
Ricerche internazionali hanno indagato l’opinione di medici di
base e medici specialisti che seguono questi pazienti in strutture o
Il progetto
L’Associazione “Gli Amici di Eleonora” Onlus, costituitasi il 1°
marzo 2006, ha ritenuto nel progetto “Percorso di Cittadinanza Attiva degli Amici di Eleonora” di rivolgersi ai familiari dei pazienti in
stato vegetativo, coma o post-coma finalizzando lo stesso alla preparazione delle famiglie ad accogliere il paziente nel proprio domicilio
alla dimissione o nei casi di prolungata degenza ospedaliera a convivere e gestire la sofferenza.
Come tale il progetto è di contenuto sociale ed è indirizzato pertanto all’analisi ed all’elaborazione del dolore, ricercando un spazio
in cui:
• comunicare il dolore e la sofferenza;
• esprimere le emozioni ed i sentimenti;
• ascoltare ed accogliere il dolore, la sofferenza, le emozioni ed i
sentimenti degli altri;
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Una questione di famiglia?
presso il proprio domicilio; è emerso un panorama eterogeneo: 88%
dei medici belgi ritiene che le infezioni acute non an­drebbero trattate; dello stesso parere sono il 90% dei medici inglesi, mentre solo il
30% dei medici giappo­nesi ritengono che non si dovrebbero somministrare antibiotici quando il paziente sviluppa infezioni polmona­ri.
Quasi tutti i sanitari americani (89%), inglesi (65%), e belgi (56%)
e molto meno i giapponesi (3%) ritengono che per i pazienti in stato
vegetativo conclamato (tra­scorsi cioè almeno dodici mesi dall’evento
traumatico e dall’evento a eziologia anossica) potrebbe essere appropriata la sospensione dell’alimentazione e idratazione.
In Italia non è ancora stata svolta un’analoga ricerca e non ci sono
dati rispetto alle inclinazioni dei medici che si occupano di questi
pazienti.
Alle incertezze vissute dai sanitari si aggiungono i dram­matici vissuti dei familiari coinvolti emotivamente nell’assi­stenza al paziente e
generalmente poco e male informati ri­spetto all’argomento. I mass
media non aiutano a fare chia­rezza nel differenziare ciò che si intende
per accanimento te­rapeutico e per eutanasia, alimentando paure e fantasie o ri­chieste improprie ai sanitari e agli organi giuridici.
• sviluppare il dialogo tra le famiglie ed il personale medico ed
assistenziale per la comprensibilità del percorso medico di
cura e la preparazione all’integrazione nella fase del recupero
da parte della famiglia.
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Tutto questo con lo scopo di rendere possibile la convivenza famiglia – paziente attraverso il recupero, l’esplicitazione, l’appropriatezza e l’elaborazione dei propri vissuti aiutandosi ed aiutando.
Si è considerato punto cruciale iniziale la comunicazione
dell’evento da parte del medico in un luogo quale una terapia intensiva in una condizione sicuramente priva di un rapporto armonico bilaterale, spingendo i familiari ai margini del sistema rianimazione in
un sistema informativo parzialmente comprensibile anche in senso
prognostico e con la sensazione di ritrovarsi “in fondo ad un pozzo”.
Lo strumento operativo del progetto ha previsto nella durata di
un anno un mutual–help–group polispecialistico (assistente sociale,
sociologo, psicologo, medico) con la funzione di costruire un contesto facilitante per quattro gruppi omogenei non eccedenti ciascuno le dieci persone al fine di provvedere ad un cambiamento inteso
come empowerment personale insieme al recupero di energie e forze
interiori che permettano un riequilibrio individuale e collettivo, non
per rimuovere il dolore e la sofferenza, ma per accoglierli dentro di
sé, offrendo sostegno in una accettazione non passiva della malattia,
ma in qualche modo più serena al punto da rafforzare la propria capacità di lotta e di mobilitazione, interne ed esterne.
Materiale e metodo
Il progetto ha coinvolto 40 familiari di pazienti con grave cerebrolesione acquisita; tutti i partecipanti (100%) assi­stevano il loro
congiunto a cui era stato diagnosticata una condizione di stato vegetativo.
I pazienti in stato vegetativo rispondevano ai criteri in­dividuati
dalla Multi-Society Task Force:
•nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente;
•nessuna risposta comportamentale finalistica;
•nessuna evidenza di espressione o di comprensione del linguaggio;
•presenza del ciclo sonno-veglia;
•completa o parziale conserva­zione delle funzioni ipotalamiche
e del tronco-encefalo.
Prima della somministrazione del questionario si è chiarito che
le cure prestate ai pazienti non sarebbero cambiate qualsiasi risposta loro fornivano e che tale risposta doveva indicare solo una loro
opinione.
Il progetto si è avvalso del contributo di figure professionali (uno
psicologo, un assistente sociale) e dell’aiuto di volontari (un sociologo, un medico, due assistenti).
Risultati
Dalle interviste e dai colloqui effettuati è emerso che la cura
di tali malati è al momento attuale caratterizzata da un alto grado
d’inappropriatezza per la permanenza per tempi lunghi all’interno
di strutture ospedaliere in reparti per acuti, oppure per il ricovero in
casa di riposo dove i livelli assistenziali non sono in alcun modo in
grado di prevenire i danni terziari.
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Una questione di famiglia?
A tutti i partecipanti è stato somministrato un colloquio – intervista preliminare ad orientamento medico – sociologico, semistrutturato ed indirizzato a conoscere:
•il grado di parentela del partecipante;
•l’adeguatezza all’assistenza istituzionale alle esigenze;
•i cambiamenti delle abitudini e dei ritmi familiari;
•i cambiamenti delle abitudini di vita del partecipante;
•necessità di assistenza (materiale/sanitaria istituzionale, psicologica istituzionale, gruppi di colloquio, religiosa, supporto
di amici e parenti) al partecipante;
•cambiamenti dei rapporti con parenti/amici/vicini da parte
del partecipante;
•adeguatezza della sistemazione del familiare del partecipante.
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Questi pazienti hanno posto problematiche assistenziali a modesto contenuto tecnologico, ma ad elevato impegno umano ed assistenziale mirate alla prevenzione dei danni terziari (decubiti, retrazioni muscolo-tendinee, calcificazioni para-articolari, infezioni
bronco-polmonari ed urinarie, trombosi, ecc.), e all’eventuale recupero funzionale.
È emerso inoltre che la gestione era abitualmente priva di progetti e programmi di cura e riabilitazione connotati in modo specifico e
diversificati per una specificità individuale che consideri soprattutto
il coinvolgimento e l’utilizzazione della peculiarità socio-familiare
tali da permettere nuovamente l’integrazione con il nucleo familiare
in cui era inserito.
Tanto premesso va considerato che le considerazioni sulla qualità
di vita di un paziente soffrono di un’intrinseca mancanza di oggettività, in particolare agli occhi di chi valuta dall’esterno.
La discussione sulla qualità di vita nasconde infatti un tipo di
valutazione tipica delle relazioni interpersonali della nostra società,
basata sulla capacità di produrre e di essere utile. In questa società
non solo le vite dei pazienti in stato vegetativo, ma anche quelle dei
pazienti gravemente disabili e di ogni persona che vive al margine
del sistema produttivo sono considerate di minor valore.
Questo riguarda anche l’uso delle risorse sanitarie, che si considerano ben spese se riportano il paziente ad una vita produttiva
o almeno indipendente, ma sono considerate sprecate quando prolungano soltanto una cronicità dipendente. Ciò è vero in particolar
modo per le nostre società occidentali dove ogni incremento della
spesa sanitaria è posto sotto accusa, ma anche per i paesi ricchi con
porzioni significative di popolazione prive di qualsiasi tipo di assistenza sanitaria.
L’attuale tendenza a valutare in termini economici e secondo la
quale le risorse dovrebbero essere utilizzate solo per risultati clinici
dimostrabili, lascia la persona disabile dipendente non solo dall’aiuto, ma anche dalla buona volontà delle persone sane.
Questo atteggiamento provoca nelle persone con gravi invalidità
neurologiche preoccupazione per il peso economico che causano alla
Discussione
Obiettivo dell’iniziativa è stato di monitorare i comportamenti e
fornire aiuto concreto alle famiglie delle persone che vivono momenti lunghissimi, a volte di molti anni, accanto ad un familiare colpito
dal coma o caduto in stato vegetativo, rendendole capaci di convivere
con la persona cara, che si trova in uno stato di ‘sospensione’, facendo
leva sulla possibilità di accogliere dentro di sé la sofferenza propria
ed altrui e imparando a viverla con serenità ed equilibrio.
L’assistenza alle famiglie di persone in stato vegetativo è un argomento tanto vasto quanto complesso. Negli ultimi anni se ne è
parlato molto, soprattutto da parte dei mass media, con argomenta­
zioni o troppo complesse o superficiali e sem­plicistiche al punto da
risultare fuorvianti. Attualmente non esistono linee guida specifiche
per la gestione dei pazienti in stato vegetativo, ma sono maturi i
tempi per una riflessione che abbia anche ricadute operative sulle
scelte da operare.
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Una questione di famiglia?
società o peggio alla famiglia soprattutto in quelle società che non
offrono un aiuto sufficiente a sopportare il peso dell’invalidità.
I problemi etici dell’handicap cronico non hanno a che fare tanto
con la gravità della invalidità fisica, quanto con la capacità di accettare l’handicap risultante da una menomazione e con il condizionamento derivante dall’atteggiamento della società, spesso negativo,
verso l’invalidità. Ciò richiede come emerso dal progetto che si compiano tutti gli sforzi necessari per creare servizi che migliorino la
qualità di vita delle persone colpite dallo stato vegetativo.
I pazienti in stato vegetativo hanno sempre l’opportunità di vivere oppure le famiglie sono sotto pressione per porre fine ad una
vita considerata, dalla società di cui fanno parte, non degna di essere
vissuta?
Potremmo anche chiederci: è il “trattamento” gravoso o sono semplicemente questi pazienti ad essere un peso per le nostre società e per
le limitate risorse economiche che investiamo nei sistemi sanitari?
30
La con­dizione psico-emotiva dei familiari del pazienti spesso
rende difficile per gli operatori portarli a una decisione condivisa
rispetto alle scelte da operare.
Dalla ricerca condotta emerge che la totalità dei familiari (100%)
ritiene che:
•la cura dei malati in stato vegetativo è al momento attuale
caratterizzata da un alto grado di inappropriatezza, per la permanenza per tempi lunghi all’interno di strutture ospedaliere
in reparti per acuti, oppure per il ricovero in casa di riposo
dove i livelli assistenziali non sono in alcun modo in grado di
prevenire i danni terziari;
•questi pazienti pongono problematiche assistenziali ad elevato impegno umano ed assistenziale mirate alla prevenzione
dei danni terziari e all’eventuale recupero funzionale attraverso progetti e programmi di cura e riabilitazione connotati in
modo specifico e diversificati per una specificità individuale
che consideri anche la particolarità socio-familiare in cui il
soggetto è inserito;
•manca un’efficiente assistenza domiciliare di carattere sociosanitario con supporto psicologico.
Dai dati raccolti però è stato inoltre possibile evidenziare una contraddizione nelle opinioni dei familia­ri sull’accanimento terapeutico:
su un piano teorico nessuno desidera l’accani­mento, ma quando si
passa ad un piano di concretezza tutti i familiari sembrano compat­ti
nel ritenere che ogni intervento sia dovero­so e non eccessivo, né tanto meno sproporzionato. È da segnalare come non la pensino nello
stesso modo i familiari che as­sistono il proprio congiunto in stato
vegetativo al domici­lio, questi ritengono che l’uso del respirato­re sia
una forma di accanimento.
Nei casi in esame i familiari hanno ritenuto inoltre di non voler
esplicitare pubblicamente le problematiche dei propri congiunti in
stato vegetativo e pertanto non si è potuto provvedere alla costituzione di mutual-help-groups, anche per l’impossibilità di procedere ad
un temporaneo affidamento dei pazienti ad altra persona.
Dott. Luigi Foggia
Coordinatore del Gruppo di lavoro
31
Una questione di famiglia?
La riflessione generale che sta interessando gli operatori del settore rispetto all’accanimento terapeutico e di cui abbiamo avuto ampie dimostrazioni da parte degli ultimi fatti di cronaca non dovrebbe
prescindere dal riconoscere l’impreparazione dei familiari di fronte
a questi argomen­ti, la necessità di una formazione e una comunicazione adeguata, di un supporto psicologico che aiuti a riconosce­re
come i propri vissuti emotivi possano influenzare anche le richieste
di cure mediche.
Attraverso il servizio di assistenza si è inteso affrontare le pesanti
situazioni emotive e psicologiche che le famiglie devono sostenere
quando si trovano ad accudire un malato in coma nella fase successiva alla dimissione dall’ospedale e la proposta è stata volta ad ascoltare, accogliere e saper gestire il carico di dolore che tale problematica
situazione produce, considerato che i familiari, vissuto in solitudine il
dramma e la fatica dell’assistenza a malati gravissimi, sono stati chiamati a gestire un difficile rapporto emotivo con sé stessi oltre a continui ed impalpabili microtraumi e situazioni giornaliere stressanti.
Il risultato ottenuto è stato il recupero di forze interiori che hanno permesso un riequilibrio individuale e collettivo. Non si è trattato
di dimenticare o accantonare il dolore, ma di trovare un nuovo modo
per accoglierlo dentro di sé in una accettazione non passiva della
malattia.
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Relazione progetto “Percorso di cittadinanza attiva”
con finanziamento della Regione Campania ai sensi
dell’art.10 L.9/93.
Descrizione dei dati della ricerca pilota.
33
Una questione di famiglia?
Introduzione
Il progetto “Percorso di Cittadinanza Attiva” si è svolto, secondo
la tempistica scandita dal cronogramma previsto dalle linee programmatiche elaborate dal comitato tecnico-scientifico dell’Associazione
“Amici di Eleonora”, con la partecipazione dell’Associazione dei familiari “Amici dei Cerebrolesi Campania”, nel periodo che va da maggio
2009 ad aprile 2010. Il progetto in questione, è stato concepito con le
caratteristiche e le modalità di una ricerca-azione, prevedendo, infatti,
fasi congiunte di studio e d’interevento vero e proprio sui fenomeni
oggetto d’interesse, declinate secondo diversificate tipologie di attività,
volte a modificare la condizione osservata. In linea generale, l’ideazione del progetto è animata dall’intento di fornire un aiuto concreto a coloro i quali si trovano a vivere situazioni di grande sofferenza
a causa della presenza di un familiare che, in conseguenza di gravi
cerebrolesioni acquisite, è stato colpito da disordini della coscienza,
(stato vegetativo; stato di coscienza minima; Laureys, 2007), e versa
in una condizione di grave disabilità. Più in particolare, il progetto ha
tentato di perseguire due obiettivi principale: 1) la descrizione delle
problematiche psicologiche e delle condizioni socio-assistenziali che
caratterizzano l’esperienza delle famiglie che sventuratamente devono far fronte alle vicissitudini che la presa in carico di una persona
con grave cerebro lesione acquisita comporta; 2) l’organizzazione e lo
svolgimento di attività di supporto ed assistenza di tipo psicologico
ai familiari dei pazienti con gravi cerebrolesioni acquisite, mediante
34
la costituzione di mutual-help-group condotti da psicologi esperti.
Il razionale che ha motivato l’individuazione del primo obiettivo è
rappresentato dalla necessità di fotografare lo scenario di problematiche che caratterizzano l’esperienza dei familiari di queste persone,
nell’ambito del territorio della Regione Campania, documentando ed
evidenziando le problematiche specifiche, le necessità e le carenze del
sistema socio-assistenziale. Il secondo obiettivo, invece, è motivato dal
convincimento che è importante garantire a queste persone la possibilità di con-dividere assieme ad altre persone che vivono situazioni
simili, le proprie angosce e le proprie ansie, in modo tale da favorire
l’elaborazione dei propri vissuti nel duplice ruolo di agente e destinatario dell’intervento di aiuto. Numerosi autori, infatti, hanno evidenziato
l’importanza per i familiari di pazienti colpiti da grave trauma cranico
o da cerebro lesioni acquisite di poter partecipare a terapie psicologiche di supporto, non solo nella fase precoce (Basaglia, 2002), ma anche
nella fase della cronicità (Saviola, 2008).
Fasi del progetto e destinatari
Il progetto è stato articolato nelle seguenti fasi: Il primo periodo
della durata di circa un mese è stato impiegato per individuare e prendere contatto con le famiglie destinatarie del progetto. Il contatto con
le persone coinvolte nello studio è avvenuto sostanzialmente attraverso due canali principali: il primo è rappresentato dal numero verde
dell’associazione “Amici di Eleonora” a cui molti familiari di pazienti
con disordini della coscienza hanno chiamato per avere informazioni,
utili a scegliere i percorsi di cura opportuni; il secondo è, invece, costituito dalle varie strutture sul territorio, dislocate nelle diverse provincie
della Campania, che si occupano di pazienti con gravi cerebrolesioni
acquisite, contattate direttamente dall’associazione. Dopo la prima fase
di pubblicizzazione del progetto è seguito un periodo di circa 2 mesi
in cui il gruppo di lavoro delle associazioni coinvolte ha provveduto ad
individuare e reclutare i casi a cui destinare gli interventi previsti. In tal
modo, nel progetto sono state incluse 40 famiglie afferenti dalle varie
provincie Campane ad eccezione della provincia di Avellino, dove non
si è riusciti a coinvolgere persone. Le famiglie, in base all’appartenenza
territoriale, sono così distribuite nel seguente modo: 12 provenienti da
Napoli; 10 da Salerno; 6 da Benevento; 12 da Caserta.
Salerno
Benevento
Napoli
Caserta
Grafico 1.Distribuzione dei partecipanti in base all’ appartenenza territoriale.
I gruppi di mutuo-aiuto
Dagli anni ’50, negli Stati Uniti, le tecniche di gruppo rivolte ai familiari di pazienti con gravi disabilità acquisite (Stecchi, 1999) hanno
conosciuto una notevole diffusione, estendendosi a diversi contesti di
cura, con intento educazionale, psicoterapico e di sostegno (Spigel,
2003). La famiglia nel suo insieme rappresenta un gruppo naturale, la
sorgente primitiva di ogni forma di supporto, ma in presenza di eventi
che ne sconvolgono pesantemente le dinamiche interne, questo gruppo va incontro ad una sofferenza che, in alcuni casi, può determinare
cambiamenti importanti per l’intero nucleo familiare. L’idea, quindi, di
garantire degli spazi di confronto e di supporto come aiuto alle famiglie,
come è stato detto sopra, ha rappresentato, nell’ambito del progetto, uno
degli obiettivi principali. Purtroppo, e con rammarico, va segnalato che
non è stato possibile realizzarlo. Sorprendentemente, e nonostante la
35
Una questione di famiglia?
In una fase successiva, all’interno delle 40 famiglie destinatarie del
progetto, attraverso una serie di colloqui preliminari svolti dagli psicologi incaricati, sono stati individuati i membri delle famiglie più disponibili ad entrare all’interno del programma di formazione dei gruppi
di mutuo-aiuto, che sono stati intervistati ed hanno completato il questionario semistrutturato elaborato dal comitato tecnico-scientifico
dell’associazione.
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dichiarata volontà di partecipazione e l’accoglimento entusiastico di un
tale dispositivo terapeutico, lo svolgimento dei gruppi di mutuo-aiuto è
stato ostacolato da numerosi impedimenti di vario ordine. Le ragioni,
almeno nelle dichiarazioni esplicitate dai familiari, sono da ascrivere da
un lato a problemi essenzialmente di tipo logistico-organizzativo. Nonostante, infatti, l’assoluta disponibilità e flessibilità da parte dell’equipe di psicologi coinvolti nel progetto, che hanno cercato di trovare dei
luoghi e dei tempi il più possibile adeguati a conciliare le esigenze dei
potenziali partecipanti agli incontri di gruppo, il carico assistenziale che
grava sull’organizzazione familiare in cui sono presenti pazienti con livelli così severi di disabilità, è tale da assorbire in modo quasi completo
il tempo libero disponibile. Dall’altro lato, invece, è stato probabilmente
determinante il contributo di fattori inerziali al servizio di modalità difensive che spingono permanere in una sorta di condizione di sospensione e di isolamento, facilitando la negazione di quegli aspetti psichici
connessi all’esperienza traumatica, che richiederebbero un lavoro psichico di elaborazione del lutto che per certi aspetti potrebbe risultare molto
doloroso. Probabilmente la disfunzionale associazione tra componenti
di ordine materiale e componenti difensivi di ordine psichico hanno impedito di realizzare quella che a parere del comitato tecnico-scientifico
dell’associazione, in linea con la letteratura scientifica, dovrebbe rappresentare una opportunità preziosa e vitale per socializzare la sofferenza
uscendo da un isolamento spesso mortifero e depressogeno. Ciò che è
stato, invece possibile, nell’ambito di incontri individuali avvenuti, con
cadenza mensile, tra lo staff degli operatori delle due associazioni ed i
familiari dei casi selezionati sul territorio, avvenuti, per le ragioni sopra
indicate, esclusivamente al domicilio degli stessi, si è data la possibilità
di raccogliere le numerose e dettagliate testimonianze delle esperienze
relative al travagliato percorso di cura del loro familiare colpito da disordini della coscienza.
Strumento utilizzato: breve descrizione del questionario
Lo strumento utilizzato per la raccolta delle informazioni più rappresentative degli aspetti socio-psico-sanitari del campione destinatario del progetto, è un questionario semistrutturato elaborato ad hoc
37
Una questione di famiglia?
dal comitato tecnico-scientifico dell’associazione. La sua costruzione
è articolata sulla scansione del percorso di assistenza e di cura del paziente con disordini della coscienza, in tre fasi principali: la fase acuta;
la fase riabilitativa; la fase della cronicità.
Nella prima parte (la fase dell’acuzie), oltre alla raccolta dei dati demografici del paziente e del suo gruppo familiare, si indagano le caratteristiche dell’esperienza relativa all’evento che ha portato al disordine
della coscienza e le modalità che hanno caratterizzato il contatto con il
reparto di rianimazione o per acuti (i.e. eziologia, modalità di comunicazione da parte dei medici, chiarezza della comunicazione, assistenza
psicologica, durata della degenza, eventuali indicazioni per il percorso
da intraprendere per il prosieguo della terapia riabilitativa, modalità di
scelta del percorso riabilitativo).
La seconda parte (la fase riabilitativa), invece, indaga il percorso
effettuato, dal paziente e dai suoi familiari, dopo le dimissioni dal reparto di rianimazione o altro reparto per acuti. In particolare si valuta
il tipo di struttura presso la quale viene trasferito (riabilitazione intensiva, struttura per lungodegenza, RSA) e le caratteristiche dell’esperienza vissuta presso tale struttura (i.e. spiegazioni sulle attività svolte,
spiegazioni sull’organizzazione del reparto, progetto riabilitativo, chiarezza sul ruolo svolto dalle diverse figure professionali, partecipazione
dei familiari nel progetto riabilitativo, elementi negativi dell’esperienza
con tale struttura, comunicazione con i medici, assistenza psicologica,
pratiche burocratiche svolte dall’assistente sociale).
La terza parte (la fase della cronicità), infine, è dedicata alla descrizione della situazione attuale del paziente, sia al momento dell’intervista
che rispetto agli aspetti connesi al ritorno al proprio domicilio (i.e. eventuale attivazione del servizio di assistenza domiciliare, le figure professionali che se ne occupano, frequenza e tipo di attività di queste figure,
presenza di altre persone che assistono il paziente, frequenza e tipo di
attività di queste figure, contatti con il centro inviante, supporto psicologico, frequenza degli incontri, modalità incontri, visite specialistiche al
paziente in casa o spostamenti, frequenza visite). In questa sezione del
questionario, inoltre, vengono valutati gli aspetti economici legati all’assistenza del familiare colpito da disordini della coscienza; l’intervento o
le attività delle associazioni di volontariato e la stima della qualità della
vita del caregiver in termini d’impegno necessario per l’assistenza (i.e.
contributo economico percepito per le cure del paziente, tipo di contributo, adeguatezza del contributo,appartenenza ad associazioni di volontariato, partecipazione alle attività dell’associazione).
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Risultati
I 40 questionari raccolti ed esaminati sono relativi ad altrettanti
gruppi familiari. L’età media delle persone colpite da disordini della
coscienza è di (media=40,2; range 1-74). Dal punto di vista eziologico
abbiamo la seguente distribuzione (35,4% anossici; 40,1% traumatici;
25,5% emorragici). Nelle situazioni esaminate in 8 (20%) casi la persona colpita è un figlio a carico, mentre in 25 (62,5%) casi è un membro
della coppia genitoriale, mentre in 7 (17,5%) casi è un genitore a carico
dei figli. L’analisi delle risposte ai questionari, come atteso, ha messo in
evidenza tutti gli aspetti esperenziali, sia di tipo materiale che emotivo,
che caratterizzano il percorso della famiglia alle prese con l’assistenza
di una persona con grave cerebrolesione, a partire dalla rianimazione
fino al domicilio.
Genitore a
carico dei figli
Figlio/a a carico
dei genitori
Genitore
con coniuge
Emorragici
Anossici
Traumatici
I grafici 2 e 3 mostrano rispettivamente la posizione familiare del paziente (a sinistra) e
l’eziologia (a destra).
39
Una questione di famiglia?
La fase acuta: La rianimazione
I primi momenti dell’evento drammatico, che nella quasi totalità
dei casi, in modo completamente inatteso, sconvolge gli equilibri di
intere famiglie, segnando pesantemente la loro vita, vengono trascorsi nel reparto di Rianimazione. Quest’ultimo, pertanto, rappresenta
un luogo in cui vengono vissuti momenti di intenso “dolore psichico”, con sentimenti di smarrimento, sospensione ed incredulità, con
livelli di ansia che nella maggior parte dei casi superano la soglia di
attenzione clinica. Questi momenti sono spesso caratterizzati da un
tremendo sentimento di impotenza e di dipendenza dagli operatori
della struttura Ospedaliera. I dati emersi rivelano che durante queste
fasi, che rappresentano la fase dell’acuzie, dell’emergenza, difficilmente il bisogno di contenimento emotivo e le richieste, sul piano
cognitivo, di informazioni chiare e dettagliate, trovano le risposte
adeguate. La quasi totalità, infatti, circa il 92,5% del campione intervistato, riferisce di non aver ricevuto alcun tipo di supporto psicologico e che la comunicazione con il personale medico è stata vissuta
in modo, non solo insoddisfacente dal punto di vista della chiarezza
esplicativa riguardo alle condizioni cliniche del familiare, ma addirittura come spiacevolmente marcata da un traumatizzante cinismo.
Molti intervistati sono rimasti dolorosamente colpiti dal distacco
emotivo e dalla leggerezza con cui gli sono state fornite le informazioni cliniche, spesso foriere di previsioni nefaste. Sicuramente, di per
sé l’esperienza di giornate trascorse in un reparto di rianimazione in
attesa di conoscere le sorti di una persona cara, che improvvisamente
è stata travolta dall’imponderabile fatalità di un evento che l’ha messo in rischio di vita, non può che essere rappresentata mentalmente,
e nei propri discorsi, come qualcosa dalla valenza altamente negativa.
Spesso, infatti, in queste condizioni altamente traumatiche, in cui la
portata emotiva di ciò che è accaduto soverchia drammaticamente
le capacità elaborative delle persone coinvolte, le quote di ansia e di
angoscia sono davvero insopportabili. Queste famiglie sono state, per
così dire, catapultate in una realtà, spesso fino ad allora, sconosciuta
che ha sconvolto completamente la quotidianità di tutti, ritrovandosi
40
a confronto con un mondo, quello sanitario, per molti nuovo, vivendo una condizione emotiva che non aiuta a essere lucidi e razionali.
Ecco che le diagnosi e le spiegazioni dei medici, quando fuori dalla
terapia intensiva cercano di far comprendere le condizioni del paziente, sono percepite come ostiche, poco chiare o drammaticamente
crudeli. Ne nasce, spesso, una contrapposizione che porta con se pesanti ripercussioni anche a lungo termine: rabbia, sfiducia e insoddisfazione. Probabilmente la vera causa di questo disagio è da ricercarsi
proprio nel vissuto di queste persone, nella tempesta emotiva che li
ha travolti e che impedisce loro di ascoltare e comprendere realmente le risposte a tutte quelle domande che si affollano nella loro mente
(Chiambretto, 2005). Sarebbe pertanto necessario che in tali contesti
si prevedesse un percorso specifico di assistenza psicologica orientato
all’accoglienza delle problematiche descritte e che facilitasse anche
la mediazione con il personale medico impegnato nel trattamento in
acuto del paziente, un personale medico sicuramente non immune
dagli effetti patogeni del contatto quotidiano con la dimensione della fragilità umana e della morte.
Un altro aspetto importante della problematica comunicativa ed
informativa riguarda, in alcuni casi, circa il 57,5% del campione intervistato, la mancanza di indicazioni chiare da parte dello staff sanitario, per il prosieguo del percorso di cura dei pazienti in stato vegetativo. È emerso, infatti che queste famiglie hanno dovuto trovarsi da
sole le informazioni necessarie per scegliere i centri o le strutture di
cura dove portare il proprio congiunto nella fase post-acuta. I canali
informativi che hanno indirizzato queste famiglie sono essenzialmente il web ed il numero verde delle associazioni.
La fase post-acuta o riabilitativa: La riabilitazione intensiva e
la lungodegenza
Dopo la fase dell’acuzie che dura all’incirca 15-30 giorni, con tutte le problematiche che sono state descritte, si aprono per i pazienti
in stato vegetativo nuovi scenari di cura, rappresentati essenzialmente dalle unità di Alta Specialità Riabilitativa (Codice 75 o Unità di
41
Una questione di famiglia?
risveglio). In queste strutture comincia la fase riabilitativa vera e propria in cui si cerca di assistere il paziente con tutte le cure del caso,
tentando di favorirne il recupero. In questa fase, dopo aver vissuto
momenti angoscianti, di tensione e paura di perdere il proprio caro,
il familiare mette in moto le proprie speranze, cercando di comprendere cosa sta succedendo, di prevedere come sarà, di controllare ciò
che viene fatto, di rendersi utile. Tutti i soggetti del campione di
familiari intervistati nel presente progetto hanno riferito che il proprio congiunto è stato ricoverato presso un centro di riabilitazione
intensiva (ubicati in Italia centrale e meridionale). Queste strutture
vengono frequentate dalle famiglie per diversi mesi (in media 4 mesi;
3-6 mesi) finendo per entrare a pieno titolo nella loro routine quotidiana, sostituendosi in alcuni casi ai luoghi e alle abitudini che precedentemente scandivano le loro giornate. In questi centri le famiglie
hanno raccontato di aver vissuto delle condizioni migliori rispetto a
quelle vissute nella rianimazione, il 77.5% degli intervistati ritiene di
aver avuto un rapporto di costante contatto con i medici del centro,
ricevendo informazioni sufficientemente chiare riguardo alle condizioni cliniche del congiunto. Il restante 22,5%, invece, ha espresso
un giudizio negativo sull’esperienza vissuta, giudicando il personale
sanitario incontrato come “incompetente ed inadatto a quel tipo di
situazioni”. L’80% del campione ha avuto la possibilità di parlare
con i medici del reparto tutti i giorni ed una volta a settimana con
il primario. Il restante 20%, invece, ha dichiarato di non aver avuto
colloqui frequenti con il personale medico ed il 5% di questo sottogruppo ha parlato con il primario solo due volte durante la degenza.
Soltanto nel 12,5% dei casi è stata fornita una spiegazione sull’organizzazione del reparto e sulle attività specifiche dei vari operatori,
membri dell’equipe di lavoro. Inoltre, solo il 17,5% dei familiari è
stato coinvolto nel progetto riabilitativo del proprio caro da parte
dello staff sanitario.
In questo fase della cura comincia a gravare sul sistema familiare un duplice onere: oggettivo, derivante dai compiti assistenziali,
in quanto comincia l’addestramento specifico del caregiver, e sog-
42
gettivo, derivante dal carico psicologico individuale di ciascun famigliare, con aumento di livelli d’ansia, di stress psicofisico, depressione dell’umore, disturbi psicosomatici. Gli esiti delle gravi cerebro
lesioni acquisite possono arrivare a provocare anche l’interruzione
dell’intero ciclo di vita della famiglia stessa. Condividere problemi
con persone che hanno subito esperienze analoghe si rivela di estrema utilità e sovente è di per sé terapeutico (Saviola, 2005). Lo strumento grazie si potrebbero prevenire tali conseguenze è sicuramente
rappresentato dalle varie forme di supporto psicologico, che vanno
dalla formazione di gruppi di auto-aiuto (De Boskey, 1995) fino alla
soluzione di percorsi di supporto psicologico individuali, o in taluni
casi psicoterapici. Purtroppo solo il 30% dei familiari intervistati, ha
riferito di aver avuto assistenza psicologica nella forma di incontri
individuali (30% del sottogruppo) e di incontri di gruppo con altri
familiari dell’unità per stati vegetativi. Queste persone riferiscono,
inoltre, di aver avuto un effettivo beneficio in termini di riduzione
dei livelli di ansia e di depressione e di aver affrontato con maggiore consapevolezza e preparazione tutte le problematiche relative al
ritorno a casa, avendo imparato ad elaborare strategie di coping più
adeguate e funzionali ai compiti da sostenere.
Fase della Cronicità: Il domicilio
Dopo aver trascorso molti mesi nei centri di riabilitazione intensiva, destrutturando tutte le organizzazioni di vita precedenti
all’evento, ed aver ri-accomodato tutte le proprie abitudini sintonizzandosi su quelle che sono le atmosfere e le cadenze dell’unità
di riabilitazione, i familiari di pazienti in stato vegetativo, o più in
generale con disordini della coscienza, opportunamente istruiti, entrano in programmi per la riabilitazione estensiva, andando, perciò
necessariamente incontro ad una nuova organizzazione di vita. Questa fase può essere trascorsa nelle strutture di lungodegenza dedicate
oppure al domicilio in programmi di assistenza “protetta”, come nel
caso di tutti le persone partecipanti al presente progetto. Spesso queste persone, dopo tanti mesi passati in giro a frequentare strutture
43
Una questione di famiglia?
ospedaliere, ricostituiscono nelle loro abitazioni il nucleo familiare
originario sperimentando quel ritorno a casa che, se da una parte li
alleggerisce di una certa quota d’impegni dovuti ai continui spostamenti vero il centro di riabilitazione, dall’altra parte li confronta con
l’ evidenza del drammatico cambiamento delle condizioni del nucleo
familiare, comportando la necessità di ristabilire una nuova organizzazione. Alcuni studi, ad esempio, che hanno indagato le reazioni dei
familiari dei pazienti in stato vegetativo, hanno descritto, non solo,
le difficoltà connesse con l’accettazione della diagnosi di stato vegetativo, ma anche i vissuti di shok, ansia, senso di colpa, depressione,
rabbia e aggressività verso lo staff sanitario e il paziente stesso (Tzidkiahu et al., 1994; Jacobs et al., 1986). Dal punto di vista emotivo,
il percorso dei familiari dei pazienti in stato vegetativo, è in parte
assimilabile a quello di chi deve elaborare il lutto per la perdita di una
persona cara (Bowlby, 1983); ma come afferma Stern (1988) lo stato
vegetativo rappresenta un sorta di “paradosso emotivo” perché il fatto
che il paziente non sia morto e che presenti movimenti involontari
ed una maggiore autonomia dagli ausili rispetto a quando si trovava
in terapia intensiva, non permette l’elaborazione del lutto (Chiambretto, 2005). Nonostante la gravità della condizione clinica, infatti,
il corpo sopravvive, rendendo socialmente inaccettabile l’elaborazione del lutto (Lezak, 1988) e un allontanamento dal paziente. Alcune
ricerche hanno rilevato che molti familiari di pazienti in stato vegetativo rimangono intrappolati per molto tempo in una condizione
emotiva di non elaborazione e non re-investimento, bloccati in un
condizione di indefinitezza che drammaticamente riflette quello del
paziente. Né vivo né morto, né moglie né vedova, né figlio né orfano.
Per queste persone al limite dell’ossessione, la quotidianità ha il ritmo di un rituale che si deve svolgere sempre uguale a se stesso, senza
gradi di libertà. Come spesso capita nei pazienti ossessivi il rituale
imprigiona, ma protegge dal rischio di essere travolti dalle emozioni,
così per molti di questi familiari accanitamente impegnati a negare ogni desiderio o aspirazione personale lo spettro è quello del distacco, del fuggire una situazione insopportabile, del rifarsi una vita
44
(Chiambretto, 2004). Il sovraccarico emotivo e il distress psicofisico
dovuto all’assistenza continua ha una forte ricaduta sulla qualità della vita e delle relazioni sociali, con una conseguente riduzione degli
interessi personali e dei momenti di svago. L’analisi qualitativa delle
risposte ottenute ai questionari somministrati al nostro campione,
mostra chiaramente, che la malattia del proprio congiunto ha profondamente modificato lo stile di vita e l’organizzazione della routine
quotidiana. Il 75% dichiara di occuparsi del proprio caro per l’intera
giornata e che l’assistenza diurna dura in media dalle 8 alle 12 ore.
Sono, inoltre, numerosi i casi (il 20%), quando è il figlio o la figlia a
richiedere assistenza, in cui uno dei coniugi ha scelto di rinunciare
alla propria attività lavorativa per poter garantire la piena assistenza
domiciliare. Spesso, vale a dire in circa l’80% del campione totale,
il carico assistenziale incide negativamente sulle attività ricreative
dei membri della famiglia che finiscono per dover completamente
rinunciare a vacanze (100%), alle uscite con gli amici (80%), conservando soltanto quelle attività di svago che possono essere coltivate
nel chiuso della propria abitazione, quali la lettura (70%), il computer (50%) e la televisione (100%). Va ricordato che le ASL prevedono
per questi pazienti degli operatori che prestano assistenza domiciliare, in media per 3-6 ore settimanali, una quota di tempo ritenuta
assolutamente insufficiente a rispondere al fabbisogno assistenziale
del paziente, che in molti casi (70%) viene assistito da operatori non
esperti del campo inviati da centri privati convenzionati con le ASL.
Oltre a tutti questi aspetti evidenziati, un altro aspetto importante
che incide negativamente sulla qualità della vita di queste persone,
riguarda gli aspetti economici dell’assistenza. Tutte le famiglie che
assistono al domicilio il proprio caro usufruiscono di una pensione
di invalidità e di un assegno di accompagnamento percependo una
cifra complessiva che si aggira intorno ai € 700,00 mensili. Tale somma, che viene impiegata completamente per l’acquisto di medicinali
e per il trasporto del paziente presso i vari specialisti per le visite
mediche, è ritenuta assolutamente non sufficiente a coprire le spese
che l’assistenza richiede. Tutti questi fattori, quindi, non fanno altro
che gravare in modo pesante sulle condizioni di vita di chi si trova a
vivere simili circostanze.
Conclusioni
Anche se il progetto non è riuscito a realizzare tutti gli obiettivi
proposti, resta importante il contributo che ha consentito di portare alla comunità sociale, in termini di conoscenza ed informazione
ulteriori dell’ampia gamma di problematiche che affliggono le vite
di coloro i quali si trovano a lottare contro sofferenze e difficoltà di
enorme impatto psicofisico. Appare chiaro che per incidere positivamente sulla qualità della vita di queste famiglie e dei loro congiunti
affetti da grave disabilità, è necessario un intervento ad ampio raggio
che miri a sanare tutte le aree del percorso descritto in cui si evidenziano servizi carenti.
Dr. Furlan Tullio
Presidente Associazione Amici dei cerebrolesi Campania
Dr.ssa Estraneo Anna
Vice-Presidente Associazione Amici dei cerebrolesi Campania
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Una questione di famiglia?
Dr. Moretta Pasquale
Psicologo- Associazione Amici dei cerebrolesi Campania
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Chiambretto P., La valutazione della qualità in un reparto per pazienti in stato vegetativo. Psicologia della Salute, 2002, 2:56-61.
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Compositori, Bologna, pp. 199-203.
Tzidkiahu T. – Sazbon L. – Solzi P. (1994), Characteristics reactions of relatives of
post-coma unawareness patients in the process of adjusting to loss. Brai Injury, 8, 159165.
Aspetti sociologici del “Percorso di Cittadinanza attiva
per gli Amici di Eleonora Onlus”
47
Una questione di famiglia?
A conclusione del primo Progetto di ascolto delle famiglie della
nostra Associazione, cerco di dare un quadro di quelle che sono le
osservazioni della varie situazioni prese in esame.
In un anno di lavoro, che come si può immaginare non è stato
semplice, né dal punto di vista strettamente tecnico, inteso come metodologia da usare nell’ascolto, né psicologico, per me personalmente,
per la mia esperienza personale che mi rende, comunque, fragile ed
emotiva e dei miei colleghi che hanno partecipato alla realizzazione
di questo Progetto.
Mi sono subito resa conto che non era possibile seguire alcuno
schema o metodo predefinito.
Ogni caso è particolare ed ogni famiglia affronta la situazione in
modo diverso, essendo ogni famiglia un mondo a sé.
Quello della famiglia è sempre un argomento difficile da affrontare, da analizzare, se c’è un campo in cui la teoria e la realtà divergono in maniera impressionante quello è la famiglia e la definizione o
il tentativo di definizione di essa.
La famiglia resta e continua ad essere l’istituzione che regge la
nostra società, un modello a cui aspiriamo, avendone fatta una certa
proiezione, direi utopica. Anche la nostra Costituzione ribadisce che
la famiglia è il primo nucleo sociale dove l’individuo viene formato
e viene riconosciuta come la base della nostra collettività, ma nel
pratico non c’è modo di classificarla, oggi più che mai.
La famiglia, come noi la immaginiamo, al di là delle definizioni
che noi sociologi tentiamo di dare, non esiste nella realtà.
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Esistono vari modi di stare insieme che dovrebbero essere prese
in considerazione, con più attenzione, sia dalla politica che dalle altre
istituzione che hanno come scopo il miglioramento della condizione
umana e della qualità della vita.
Quello che è certo è che la combinazione umana che chiamiamo
“famiglia” resta il paracadute che, tutti o quasi tutti, hanno nella vita, è
quel gruppo di persone che crescono e sono cresciute con noi e che ti
accolgono e supportano, nell’assenza quasi totale di un’organizzazione
sociale allargata che si prenda cura della persona, non solo quando si è
in salute ed in grado di produrre reddito, ma anche e soprattutto quando non si è più capaci di far parte dell’ingranaggio della società “sana”.
La mia sarà un’osservazione generale dei fatti, per cercare di dare
un quadro delle condizioni delle famiglie quando si trovano ad affrontare il coma ed un successivo stato vegetativo, per quanto possibile esaustivo, tentando di individuare gli aspetti comuni delle condizioni e nello stesso tempo sottolineando come non è possibile chiuderli in statistiche quantitative, visto la particolarità delle situazioni.
La prima difficoltà che ho dovuto affrontare è stata quella del
rifiuto, comprensivo, di riunirsi in gruppi di familiari, per parlare insieme dei loro problemi e delle loro ansie.
Le motivazioni sono molteplici, alcune delle quali possono essere
considerate anche da un punto di vista sociologico.
Il primo, più importante motivo è sicuramente quello dell’impossibilità di allontanarsi dalla persona assistita, per le difficoltà e le
carenze assistenziali di cui parlerò di seguito.
Ora la cultura del momento ci propone un modello sociale che è
quello della bellezza, dell’efficienza fisica, del successo economico, se
possibile veloce e senza fatica.
Quando ci si trova in una condizione di esclusione, come nel caso
del coma e dello stato vegetativo, ci si accorge di non poter far più
parte di quel grande circo, in cui si sta trasformando la nostra società,
circo che ti propone corpi belli e carriere fulminanti.
Un figlio bello, sano e che riesce nella vita è un sogno che si infrange per sempre.
Affrontiamo ora punto per punto, le osservazioni ed i commenti
che ho raccolto seguendo, come linea guida le domande del breve
questionario che ho approntato come strumento di lavoro.
Chi si occupa a tempo pieno della persona in cura?
Questo è un punto che evidenzia come nella nostra cultura tutto
cambia in apparenza, ma resta tutto uguale nella sostanza.
È sempre la mamma o la moglie o la figlia o la sorella, insomma,
nella maggior parte dei casi è sempre una donna che si fa carico
dell’assistenza del familiare. Sono le donne che curano materialmente, che nutrono, lavano, somministrano farmaci, assistono gli operatori che si recano a domicilio. I maschi svolgono quasi sempre un
ruolo di supporto esterno, di collaborazione, di intermediazione con
il fuori, con le istituzioni, per esempio. Non rinunciando quasi mai
al loro lavoro ed alle loro attività esterne. Ci sono casi in cui i padri
49
Una questione di famiglia?
Ed è un particolare che abbiamo notato, quanto più le famiglie
sono umili più riescono ad affrontare meglio la situazione e ad essere
più coùse delle famiglie medie o più agiate.
Purtroppo, questo è un problema che sta toccando anche altre
fasce della popolazione, con la situazione economica che stiamo vivendo, questo è uno status che colpisce disoccupati, cassa integrati,
lavoratori dei call center, genitori divorziati, madri sole.
Tutte persone, parti della nostra comunità che non si sentono più
membri della popolazione attiva, per cause che non dipendono da
loro, per motivi che non sono ascrivibili alla loro incapacità personale
ma solo perché il sistema non può o non sa come integrarli, esattamente come avviene per le persone che restano in stato vegetativo, in
coma o seriamente menomati.
Dovremo affrontare tutti insieme questa crisi di esclusione che
non è solo economica, perché manca un progetto sociale di integrazione.
Non si è più sani, non si è più produttivi, quindi si viene esclusi,
esiliati dalla vita sociale.
hanno deciso di occuparsi o sostenere anche materialmente, con il
loro impegno quotidiano il familiare, come nel caso di Stefano, ma
solo perché il tempo della pensione era arrivato. Ed il papà ha deciso
di non prolungare i tempi del pensionamento.
Il peso della cura della famiglia che sia “sana” o no spetta alle donne.
50
Pensa di ricevere un’assistenza istituzionale adeguata alle sue
esigenze?
Devo specificare che qui per istituzionale intendo “Pubblica”. In
Campania non esiste un’assistenza sociale degna di questo nome.
Le esigenze delle famiglie di fronte a situazioni gravi e gravissime,
(ricordo che una persona in stato vegetativo o celebrolesa è completamente dipendente ), l’immagine che spesso sento evocare dalle mamme e mogli è come il loro familiare sia tornato ad uno stato neonatale;
incapaci di fare alcunché. Scordatevi però la tenerezza che fa un neonato, vedrete solo corpi, spesso di adulti, che fanno stringere il cuore.
Le ore di assistenza sono molto poche, variano a seconda dei casi e
delle pressioni che riescono a fare le famiglie.
Asl e Comuni lamentano sempre un’insufficienza di fondi per poter accontentare le esigenze di tutti.
Il personale che mandano a casa non è all’altezza della situazione
che devono affrontare, non hanno mai visto persone in stato vegetativo
ed a volte bisogna spiegare loro cos’è. Manca totalmente una adeguata
formazione professionale.
I familiari che seguono il loro caro hanno acquisito, gioco forza, le
abilità e le capacità professionali di infermieri e fisioterapisti, a volte
migliori del personale che viene a domicilio, personale che come loro
non è stato preventivamente formato ed addestrato nelle specificità
dei casi che devono seguire. Le mamme seguono il personale e lo addestrano.
Come sono cambiate le abitudini ed i ritmi familiari?
Tutto cambia, e più passa il tempo, più ci si rende conto che è improbabile che le cose tornino com’erano prima dell’incidente o della malattia.
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Una questione di famiglia?
Nel momento in cui insorge la malattia o si verifica l’incidente,
tutto si ferma, si sta 24 ore su 24 vicino al familiare, anche perché
questi sono momenti in cui nessuno sa cosa succede e come si evolverà la situazione; si passano settimane o mesi in terapia intensiva.
Il tempo della vita quotidiana è scandito e organizzato attorno
agli orari di visita che sono molto limitati: l’attesa si fa più difficile
per chi non risiede nel posto dov’è ricoverato il proprio caro. E qui si
lamenta la mancanza assoluta di strutture preparate ad accogliere le
famiglie che hanno bisogno di un alloggio momentaneo.
Ci sono casi di persone costrette a dormire dove capita, nell’ospedale o in macchina perché non ci sono strutture di accoglienza,
quando va bene ci si appoggia a conoscenti ed amici. Questi periodi,
che possono essere brevi o lunghi a seconda dei casi, sfibrano, la stanchezza psicologica del dolore e dell’ansia si somma alla stanchezza
delle notti in bianco, alla stanchezza di non potersi lavare e di non
poter riprendere le forze per affrontare lunghe giornate di attesa nei
corridoi; quando va bene ci sono ospedali che hanno salette di attesa
un po’ più a livello umano.
Poi comincia la fase dei trasferimenti in strutture post terapia
intensiva.
Strutture che in Campania, purtroppo sono quasi inesistenti,
talvolta le terapie intensive, quando possono, cercano di allungare i
tempi delle dismissioni ma non è sempre possibile, vista la carenza
dei posti anche per questi reparti.
Ci si deve trasferire in regioni limitrofe come la Calabria o al
centro nord, come in Toscana ed Emilia, altri all’estero, cambiando
da 4/5 strutture fino a dieci, a seconda dei casi rilevati, con la concomitante successione di interventi chirurgici a cui sono sottoposti,
anch’essi in numero impressionante, a cominciare dalla tracheotomia
fino ad interventi come la PEG o neuro – chirurgici complessi.
Le famiglie devono fare scelte di vita che portano parte di esse
a seguire il familiare e parte a rimanere a casa, spesso questo lungo
periodo crea, come si può immaginare spese ulteriori per l’alloggio
ed i trasferimenti continui. La vita di coppia, le relazioni tra i figli ed
i genitori subiscono cambiamenti notevoli. Quando si può contare
su una famiglia coesa ed estesa i problemi vengono mitigati dalla
divisione dei compiti e delle responsabilità tra i membri disponibili.
I problemi maggiori sono per le famiglie piccole, i nuclei familiari
che non possono contare sulla solidarietà della parentela.
Alla fine si torna a casa, il paziente viene consegnato alla famiglia
che, da quel momento, si trova a gestire una situazione difficile a cui
nessuno e preparato. La famiglia deve organizzarsi attorno alla vita
e alle necessità del proprio caro dovendo far fronte, quasi da soli a
tutte le necessità.
Il tempo per le relazioni sociali e amicali non esiste più, tutto il
tempo libero serve per organizzare le necessità del paziente.
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In particolare, come sono cambiate le abitudini di chi cura e
segue la persona in coma o in stato vegetativo?
È inutile dire che la persona che si prende cura del familiare in
coma non ha più una vita sua, non può disporre di tempo libero, a
volte neanche per le cose necessarie, come gli affari di casa o la cura
della propria salute.
Cosa serve di più a chi assiste e si prende cura della persona in
coma o stato vegetativo?
Va da sé che al primo posto c’è l’esigenza di un’assistenza medico
– infermieristica professionale, ben preparata ed anche umanamente
disponibile, nel senso di un approccio umile ed un comportamento
più empatico, auspicabile, anche in mancanza di una grande esperienza professionale, mentre si lamenta a volte un atteggiamento di
non curanza e di frettolosità nel lavoro, teso a fare in fretta perché
passi l’ora del dovuto compito assistenziale.
Il familiare che assiste con continuità il paziente, come più volte
sottolineo, come un neonato, necessita di essere rassicurato anche
dalle qualità umane dell’operatore che viene assegnato loro.
Il rapporto di fiducia che si va a costituire è molto importante in
questi casi.
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Una questione di famiglia?
La sensazione di aver perso il diritto alla privacy è lamentato da
molti.
Arriva un estraneo, che entra nella tua casa, a cui devi affidare il
tuo caro.
Nasce subito un dubbio: posso lasciare mio figlio/a, marito/moglie ecc… nelle mani di questa persona?
Posso allontanarmi e uscire tranquilla, lasciando la casa in mani
ad estranei?
La casa è un luogo speciale per tutti, non è solo mura e suppellettili, è il posto dove siamo noi stessi, dove ci sentiamo sicuri. È difficile
esprimere cos’è la casa a livello emotivo.
Ora, improvvisamente non hai più il tuo personalissimo e privatissimo spazio di vita, ma un luogo aperto a tutti, dove la tua privacy
non solo non esiste più ma non viene presa in considerazione come
una necessità lecita e naturale.
Non puoi scegliere gli operatori, non puoi scegliere i tempi, non
puoi avere più quelle libertà a cui sei sempre stato abituato.
Queste possono sembrare delle paure da poco rispetto alla gravità
della situazione. Non è così: siamo degli animali sociali, che vivono
in gruppo, più o meno organizzato, ma nello stesso tempo restiamo
degli animali territoriali per i quali il territorio rappresentato dalla
propria casa è lo spazio vitale necessario dove sentirsi sicuri, protetti,
liberi di comportarsi nel modo che si ritiene giusto.
Tutto questo non esiste più nel momento in cui la tua casa diviene un porto di mare, dove va e viene gente “sconosciuta” e talvolta
impreparata e poco sensibile alle tue esigenze.
Un’assistenza psicologica sarebbe ben accetta, anche se è difficile
conciliare i tempi per andare presso lo studio di uno psicologo, dal
momento che sedute a domicilio non sono previste.
Quello che rilevo in quasi tutte le storie è l’importanza delle visite degli amici, amici con cui parlare e rilassarsi. Una necessità che
spesso viene prima dell’assistenza religiosa e dei gruppi di ascolto.
Mi ha subito colpito il rifiuto della possibilità di riunirsi in gruppo con altri familiari, trovando conforto maggiormente nel parlare
con me delle loro storie, per ore, entrando nei particolari più personali ed intimi del loro percorso fatto di dolore, speranza, delusioni,
ma non vogliono farlo in gruppo.
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I rapporti con i parenti/amici/vicini di casa sono cambiati?
Qui c’è stata una quasi divisione delle risposte.
Ci sono casi in cui la famiglia è rimasta con la sua rete di rapporti
familiari e amicali invariata, anche nella qualità delle relazioni ed una
parte che ha subito notato, come davanti al dolore, la gente tende
a scappare, chi può si allontana perché il dolore sconvolge, forse si
pensa di non essere capaci di dire o fare qualcosa di utile.
Conseguenza questa sicuramente dovuta al fatto che siamo disabituati a pensare che il dolore e la morte sono parte della vita.
La società tutta dovrebbe domandarsi come fare a riabituare le
persone ad affrontare le cose della vita, nelle quali rientrano anche i
momenti difficili.
Pensa che la sistemazione attuale del suo familiare sia quella
più adeguata?
La maggioranza delle famiglie ritiene che la sistemazione a casa è
sempre la migliore, per non vivere una vita completamente in ospedale, allontanandosi da tutto e tutti, magari fuori regione.
Per questo a casa è meglio.
Ma la sistemazione in casa necessita di un’assistenza migliore sotto il profilo qualitativo delle prestazioni e dei tempi dell’assistenza.
Serve anche, in caso di necessità la presenza sul territorio di strutture per degenze brevi o medie, per permettere alle famiglie di allontanarsi per necessità legate alla cura degli altri membri del nucleo
familiare e della propria salute fisica e mentale.
Proposte conclusive
Mi sento di riassumere, da un punto di vista strettamente sociologico, che le necessità di una famiglia con un paziente a carico
sono diverse, perché diverse sono le situazioni economiche, culturali
e sociali dei gruppi osservati.
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Una questione di famiglia?
Accomuna tutti un desiderio di essere meglio seguiti e non lasciati soli.
Quello che serve è un sistema integrato di Assistenza, immaginato come una catena in cui nessuna maglia manchi.
Partendo dalle Terapie Intensive in stretto collegamento, possibilmente nello stesso Ospedale, con reparti post fase acuta.
Questi reparti nominati in gergo comune come “Unità del Risveglio” devo affrontare il problema della intensa cura e terapia non
delegabile a strutture esterne, fino alla fase della stabilizzazione medica del paziente.
Solo successivamente si deve considerare una struttura in cui poter continuare le cure di routine, strutture altamente specializzate, in
cui siano presenti professionisti della cura alla persona e della riabilitazione.
Nei casi in cui è possibile, il paziente deve tornare a casa. Dove
è ormai risaputo, più e meglio, si può seguire il paziente, integrato
nella famiglia ed accudito con amore, dove l’atmosfera familiare fa
molto accanto alla riabilitazione. Serve, ripeto ancora, assistenza domiciliare ripensata e riorganizzata in termini di maggiore efficienza,
professionalità ed umanità.
La necessità di strutture anche a supporto dei familiari che seguono il paziente è importante. Prevedere Case per l’Accoglienza
dei familiari che risiedono in altri comuni è fondamentale per non
spezzare quella catena di assistenza di cui parlo e di cui auspico la
realizzazione.
Da un punto di vista strettamente assistenziale direi che è ora di
superare il vecchio schema dell’assistenza tramite assegni di invalidità e di accompagnamento, con somme irrisorie e passare a prendere
in esame un sistema di supporto diretto alla persona che si prende
cura del malato. Penserei ad una forma di reddito che, oltre a servire
per le necessità del paziente, gratifichi e non emargini le persone che
devono scegliere di restare in casa accanto ai loro familiari.
Non è un fatto privato, è una questione sociale che deve essere
affrontata al più presto, svolgendo queste persone un servizio utile
non solo per loro ma, che fatto bene, allevia, in parte, le istituzioni
dai compiti della cura diretta che costerebbero caro alle casse della
Sanità.
Margherita Rocco
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IIª PARTE
Le voci del cuore
La breve vita di Eleonora
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Una questione di famiglia?
Inserisco la breve storia, della breve vita, di Eleonora in questo lavoro per testimoniare la mia esperienza e quella di mio marito accanto
ad una piccola che non per sua colpa si è trovata ad affrontare tutte
le contraddizioni della nostra società. Tutte le contraddizioni sociali,
politiche, religiose, morali e altro, di cui Lei, piccolo essere a cui è stata
negata la vita, ha dovuto subire.
La mia è stata, si può immaginare, un’attesa piena di felicità, avevamo deciso di avere un figlio e con mia grande gioia è arrivata una
bambina. Una bambina che ha catturato e tenuto prigioniera la mia
fantasia di mamma per nove mesi. Pensavo a come l’avrei cresciuta.
La vedevo studiosa, libera, viaggiatrice.
Non le avrei mai detto “tu sei femmina, questo non lo puoi fare”.
La nascita di Eleonora, purtroppo, ha segnato l’inizio di un incubo.
Cinque mesi in cui il tempo si è fermato.
Perché quando si entra in coma il tempo non esiste più, tutti quelli
che si muovono intorno a te sembrano vivere una condizione ed uno
spazio che non ti appartengono, non riesci più a capire la frenesia,
lo stress della vita quotidiana, non capisci e non riesci più ad essere
partecipe dei problemi degli altri legati alla noia, alla solitudine, alla
depressione.
Tutte cose che ravvisi inutili, un inutile perdita di tempo, tempo
che si potrebbe usare per “vivere”.
Vorresti gridarlo a tutti: vivete, vivete! Non solo per voi stessi, ma
anche per gli altri!
La storia di Eleonora è breve da scrivere e proprio perché breve
difficile da mettere nero su bianco.
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Cinque mesi di vita passati in uno stato di coma estremo. Sempre
attaccata a delle macchine che la facevano respirare e che la nutrivano.
Era l’estate del 2003, un’estate particolarmente calda.
Finalmente, ai primi di agosto, si avvicinava il momento del parto.
La mia è stata una gravidanza a dir poco splendida, nonostante la mia
età. A trentanove anni non avrei mai immaginato di vivere un’attesa
così bella, senza nessun problema.
Il giorno del ricovero in clinica, era il 6 agosto, tutto era tranquillo,
io e lei stavamo bene e aspettavo solo il momento di vedere il suo volto
e tenerla in braccio.
Purtroppo, dopo una lunga notte di sofferenza è nata. No, è morta.
No, è in coma.
Io e mio marito non sapevamo cosa pensare.
Il tempo si è fermato ed è cominciata l’attesa.
Solo dopo qualche settimana un’ecografia cerebrale ci dice che il
suo piccolo cervello è stato assolutamente, irreversibilmente, devastato
dalla mancanza di ossigeno che ha subito nel travaglio e che non c’è
nulla da fare se non aspettare il momento in cui l’ago dell’elettroencefalogramma non si muoverà più per dichiararla ufficialmente e legalmente morta.
Questo non è successo subito, sono trascorsi cinque mesi. Cinque
mesi in cui passi le giornate a guardare l’orologio nell’attesa dell’ora
delle visite in cui puoi vederla nell’incubatrice. Potendola accarezzare
solo attraverso l’oblò della culla termica e guardarla avendo sotto gli
occhi una bellissima bambina inerme come una bambola.
Durante questo periodo, nell’assenza di una legislatura e di norme
che definiscono cos’è l’accanimento terapeutico e quali devono essere
i limiti degli interventi medici in questi casi estremi, i medici hanno
fatto e tentato di tutto per tenerla in vita. Hanno fatto quello che ritenevano il loro dovere, senza tenere assolutamente in considerazione la
volontà dei suoi genitori, mentre io ed il suo papà ci chiedevamo se era
giusto o no quello strazio.
All’ennesima richiesta di una nuova trasfusione di sangue a cui
sottoporla, ci siamo ribellati e impuntati chiedendo l’intervento della
magistratura e del famoso, o dovrei dire fantomatico Comitato Etico,
che si dovrebbe attivare in questi casi. Nessuno ha fatto o potuto fare
niente perché “non c’è una legge”.
Nella latitanza della legge, l’unica cosa che siamo riusciti a fare è
portarla via da Caserta e nell’Ospedale di Napoli dove è stata trasferita, finalmente, si sono limitati all’applicazione dei protocolli medici
che pure esistono, limitandosi a quella idratazione e nutrizione di cui
si parla tanto.
Eleonora si è spenta il 6 Gennaio 2004, il giorno della Befana.
Anche per lei era arrivato il dono dei Re Magi, la libertà da quelle
macchine che la tenevano legata ad una vita priva di vita.
Margherita Rocco
Una questione di famiglia?
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La mia vita? Nelle vostre mani.
Storia di Sofia
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Una questione di famiglia?
I suoi ricci castano chiaro scendono morbidamente su un golfino
rosa mentre il suo piccolo volto si poggia teneramente sulla spalla
della mamma. Illuminate entrambe dal primo caldo sole primaverile affrontano un’altra giornata. Una giornata di lunghe terapie e di
silenziosa sofferenza, cose che neanche un corpo adulto riuscirebbe
a sopportare e che invece Sofia, tre anni a settembre, supera quotidianamente. Una giornata di amorevole forza e costante tenacia per
la donna che dal 7 settembre 2007 ha imparato a essere mamma,
moglie, infermiera e specialista del dolore. Quel giorno avrebbe dovuto essere il secondo più bello della sua vita dopo la nascita della
prima figlia, invece è stato il primo di tanti altri lunghi e dolorosi.
Un giorno atteso per diciotto anni e che si preannunciava sereno così
come erano trascorsi i nove mesi di gravidanza durante i quali alcun
tipo di problema, né per la madre, né per la figlia, si era verificato.
Tanto è vero che, nonostante la donna avesse superato i quaranta
anni di età, la ginecologa ha fatto trascorrere per intero la quarantunesima settimana insistendo perché la piccola venisse al mondo con
un parto naturale, scelta rivelatasi azzardata ed infatti avversata da
tutti i protocolli correnti nei reparti di ginecologia. Il parto naturale
avrebbe richiesto quel costante monitoraggio e quella assistenza che
non c’è stata. Anzi, tutt’altro. Il parto naturale è diventato un cesareo d’urgenza al quale si è giunti dopo uno stato di abbandono della
gestante durato tre ore.
Non un vagito a rincuorarla che fosse nata sana e salva, non la
possibilità di una carezza al piccolo corpicino appena venuto al
64
mondo: perché Sofia è nata e morta lo stesso giorno. L’annuncio
ferale arriva da parte dei medici: la bambina non ce l’ha fatta. Dicono. Non sanno che Sofia è stata addirittura più forte dei loro errori.
Dopo una prolungata rianimazione il suo cuore inizia a ribattere lentamente. Sofia è viva e vuole vivere. È una bimba bellissima, ma i
suoi grandi occhi nascondo uno stato fragilissimo. Il suo calvario e
quello della sua mamma iniziano poche ore prima della nascita. È
da poco mattina quando la mamma di Sofia avverte i primi dolori.
Decide di recarsi in ospedale insieme al marito che nel frattempo avverte la ginecologa. Alle ore 8 le contrazioni diventano abbastanza
forti per comprendere che il momento del parto si sta avvicinando.
Quando i due varcano la soglia dell’ospedale civile di Caserta si fa
incontro loro il ginecologo, collega di studio della propria dottoressa. È un incontro che rasserena entrambi, tanto è che prima di essere
trasferita in sala travaglio le viene confermato il perfetto stato di
salute del feto dopo tutti gli esami di rito (ecografia, flussometria e
tampone vaginale e rettale nonché analisi generali). Ma tutto ciò non
basta a mettere al sicuro la gestante che viene portata in sala travaglio e abbandonata. La prassi viene seguita in maniera schematica.
La signora entra in sala travaglio per il tracciato. Alle 10,20 i primi
segni di sofferenza fetale. Sofia inizia a stare male ma nessuno lo
sa. Magari qualcuno se ne sarebbe accorto se solo non fosse stata
abbassato il volume della macchina perché dava fastidio ad un’altra
partoriente che stava ricevendo nel frattempo tutte le attenzioni del
caso dal proprio medico curante.
Dopo una fugace rassicurazione all’inizio della fase di travaglio
da parte di una delle ostetriche, nessun altro ha controllato l’evolversi della situazione, neanche nei momenti più critici, mentre la
vita della piccola Sofia si comprometteva sempre più ed in maniera
irreversibile. Della ginecologa e dell’unico vero sanitario chiamato
a presidiare la sala travaglio neanche una traccia.
Sarà forse solo l’occhio attento di una praticante a rilevare che
c’è qualcosa che non va. Prima delle 12,00 la macchina segna un altro momento di sofferenza. È a questo punto, evidentemente troppo
65
Una questione di famiglia?
grave perché passi inosservato, che qualcuno si accorge dello stato
in cui si trova Sofia. Arriva un’ostetrica che visita la donna; poi esce
ed entra la caposala che visita nuovamente la mamma e dopo pochi
minuti, uscita la caposala, rientra la prima ostetrica che rompe le
acque senza fornire alcuna plausibile spiegazione agli interrogativi
della donna. Pochi secondi dopo, quando ormai la povera mamma
inizia a rendersi conto dai loro volti cupi dell’approssimarsi di un
triste destino, è seguita dalla ginecologa (non in servizio) che accortasi dell’estrema situazione di pericolo spedisce in gran fretta la
gestante in sala operatoria. Serve un intervento immediato per salvare mamma e figlia. Sono le 12 e 35 quando nasce Sofia, ma per i
medici è morta. È in coma profondo e viene intubata per sette giorni.
Tutto questo mentre la mamma aveva il solo pensiero di dover
consegnare le tenere tutine rose, scelte con tanto amore, all’infermiera per farle indossare al suo scricciolo. Nulla di tutto questo è
mai accaduto. Le tutine sono rimaste ancora lì, raccolte e sistemate
con cura in una bustina insieme alle bomboniere ed i confetti che la
mamma avrebbe voluto distribuire ad amici e parenti che sarebbero
accorsi dopo la nascita. Le tutine non hanno mai potuto coprire quel
corpicino che era destinato a rimanere nudo per lunghi giorni in una
tristissima incubatrice nella quale il papà, la madre e la sorella quasi
diciottenne – segnata per sempre ed in maniera irreversibile da tale
triste vicenda – potevano solo allungare la mano per accarezzare
quella bimba destinata a vivere, a loro insaputa, in uno stato vegetativo.
Sofia non vede, non sente, non deglutisce, viene alimentata a
mezzo siringhe nelle sonde digiunali, ha delle vistose cataratte, un
corpicino flagellato dalle tantissime ferite, tracce indelebili delle
12 operazioni subite. Sofia non può reggere neanche il capo con
la propria forza. A questo dramma si sono aggiunte anche le crisi
epilettiche che spesso si accavallano ai suoi serissimi problemi respiratori che la costringono, giorno e notte, ad essere aspirata. Tutto
ciò mentre la mamma fissando quel volto tuttora angelico con i folti
riccioli castani continua a ripetere di averla concepita e portata in
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grembo bella e sana e a non trovare alcuna giustificazione a quelle
indicibili negligenze.
Negligenze che non potevano non avere un risvolto giudiziario.
Le denunce immediatamente rese ai carabinieri da parte del padre
di Sofia hanno portato a sei rinvii a giudizio. Quattro medici e due
ostetriche dovranno essere processati per lesioni colpose gravissime
e omissioni in atti di ufficio, mentre una delle dottoresse è stata rinviata a giudizio anche per interruzione di pubblico servizio. Prima
che intervenisse la giustizia era già intervenuto il direttore generale
che aveva sospeso tutti per un mese. I giudici chiariranno le responsabilità di coloro che, in maniera differente, avrebbero dovuto avere
un ruolo, che non hanno avuto, in tutta la fase che va dalle prime
contrazioni e passando per il travaglio arriva alla nascita di Sofia:
la dottoressa di turno nel blocco travaglio, ad esempio, che avrebbe
dovuto essere presente e che invece, secondo quanto dichiarato dalle
gestanti di quella mattinata non ha assistito nessuna di loro; l’intero
staff dei sanitari che non ha preso in cura la donna e non l’ha visitata
per molto tempo attendendo che arrivasse la ginecologa la quale,
avvertita costantemente dello stato della signora, è giunta in ospedale dopo quattro ore. Fino al momento tragico dell’estrazione del
corpicino di Sofia, a seguito del taglio cesareo d’urgenza, nessuna
della quattro puerpere che ha partorito quella mattina è stata mai
assistita dal sanitario responsabile del blocco travaglio, ma da altri
medici che avrebbero dovuto fare altro ed assistere altre pazienti in
altri luoghi.
La parentesi giudiziaria poco solleva la famiglia di Sofia dal calvario che è appena iniziato con la nascita. Dopo quaranta giorni nel
reparto di terapia intensiva neonatale viene trasferita al Tin del Santobono di Napoli dove viene rilevata l’insorgenza di un idrocefalo ex
vacuo ed un quadro di atrofia cerebrale post asfittica. La piccolissima
Sofia subisce cinque interventi chirurgici nel giro di quattro mesi.
Dalla nascita - 7 settembre 2007 – fino al 4 febbraio 2008 – data
di permanenza al Santobono a Napoli – i genitori e la sorella si sono
recati tutte le sere presso i reparti di Terapia Intensiva. Viaggio di
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Una questione di famiglia?
andata carico di speranza per condividere con Sofia l’unica ora che
era loro consentita e ricevere qualche segnale di ripresa. Cuori pieni
di sofferenza e testa piena di dubbi nel viaggio di ritorno. Ancora
un giorno a casa senza Sofia, ancora un giorno senza ricevere dai
medici una seria spiegazione sull’incerto futuro della piccola. E poi
lo strazio di dover lasciare quella piccola bambina in un reparto ove
veniva aspirata in maniera continuata da una macchina ed il pannolino non le veniva cambiato con la dovuta frequenza tanto è che
spesso la ritrovavamo con il sederino completamente rosso.
Il 4 febbraio i medici, facendo intravedere ai genitori una speranza, che poi si è manifestata meramente illusoria, decisero di trasferire la piccola Sofia all’istituto di neuroscienze Stella Maris di
Pisa dove viene constatata una motricità spontanea molto povera,
accompagnata da segnali di paresi facciale, e riscontrata una situazione critica anche dal punto di vista respiratorio. Nei freddi mesi di
febbraio e marzo la madre assiste costantemente la piccola Sofia e le
sue gravi ricadute per broncopolmonite. Sofia intanto necessitava di
cure cortisoniche e di somministrazioni di ossigeno. Quando si è temuto per il peggio fu trasferita all’Ospedale Santa Chiara di Pisa ove
furono praticati innumerevoli tentativi di voler intercettare le sue
deboli vene, che intanto collassavano senza dare quella risposta che
ci si aspettava. A dare conforto al cuore affranto della madre c’era
la splendida equipe dell’Istituto di Stella Maris che si è contraddistinta per umanità e per le professionalità esercitate ed offerte senza
che mai potesse sembrare uno sforzo o un peso. Le loro qualificate
concertazioni in equipe hanno evitato molte volte che la situazione,
sempre precaria, potesse irreversibilmente precipitare.
Durante questo arco temporale il padre e la sorella della piccola
Sofia percorrevano oltre 1000 Km in ogni weekend pur di condividere qualche ora con Sofia e per permettere alla mamma di fare due
passi o lavare i capelli, cose semplici che le potessero ancora far
credere di possedere quel minimo di dignità di donna e di madre.
In tutto questo non si contano i costi sostenuti dalla famiglia nonché il disagio sia del padre che della sorella. Sara, quasi diciottenne -
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all’ultimo anno di liceo - ha dovuto rinunciare a tanti giorni di scuola compromettendo inevitabilmente anche la votazione dell’esame
di maturità. Presa dal forte stress ha dovuto fare ricorso anche alle
cure di un cardiologo e, cosa che mai dimenticherà, ha dovuto rinunciare alla festa dei suoi diciotto anni che aveva organizzato in ogni
dettaglio da oltre un anno. Sara ha compiuto 18 anni due settimane
dopo la nascita di Sofia.
Il quadro clinico peggiora e Sofia viene trasferita all’ospedale
Santa Chiara e in seguito all’ospedale Bambin Gesù di Roma dove
subisce il sesto intervento.
Durante la degenza vengono riscontrati deficit neurologico e neuromotorio, insufficienza respiratoria, cataratta bilaterale, crisi convulsive e Ipoacusia bilaterale profonda al 90%. In pratica la bambina
non vede e non sente. È settembre del 2008 quando la bambina viene
sottoposta a un settimo intervento chirurgico e a breve distanza, fino
all’inizio di ottobre, altri tre.
Dimessa dal Bambin Gesù di Roma Sofia viene trasportata presso l’ospedale di Santa Maria Capua Vetere del tutto inadeguato ad
accogliere un caso grave come quello della piccola protagonista di
questa triste storia. Qui, anche a causa della non adeguata preparazione del corpo infermieristico a tale tipo di assistenza la madre ha
dovuto, terrorizzata da mille paure e distrutta dal dolore, imparare
a fare l’infermiera. Ha dovuto imparare ad aspirare la bimba nelle
frequenti crisi respiratorie. Sofia e la madre tornano a casa dopo un
mese, trascorso senza che la competente Asl Ce2 riuscisse a procurare la dovuta assistenza sanitaria, e durante il quale il padre ha
dovuto ricorrere alle denunce sui giornali locali per ottenere aspiratore, pompa per l’alimentazione enterale ed ossigeno, nonché saturimetro. Sofia è accolta dal calore della sua famiglia che sola, senza
aiuti delle strutture sanitarie, riesce a convivere con una dolorosa
esperienza. I giorni trascorrono alle prese con le sue cure. La vita del
nucleo familiare è cambiata dal giorno della nascita della piccola,
tutto avviene in sua funzione.
Anna, Mattia e Sara
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Una questione di famiglia?
La sorella pur avendo iniziato una brillante carriera universitaria al corso di laurea in matematica riportando eccellenti risultati
si vede costretta a cambiare Facoltà poiché la casa che si è ormai
trasformata in un ospedale da campo non le consente più di avere
quella serenità che quel tipo di studi richiede. Il povero padre, un
alto dirigente pubblico che governa da anni, alcune centinaia di dipendenti e questioni delicatissime vede il suo breve sonno notturno
interrotto dalle lancinanti crisi epilettiche e/o respiratorie che costringono ad accendere l’aspiratore che provoca un suono infernale
che deflagra nella notte muta ed affonda nei cuori della mamma e del
padre provocando profonde ed insanabili ferite.
“Una volta a casa, dopo tanto peregrinare, siamo stati abbandonati a noi stessi, al nostro disagio e alle nostre sofferenze. Abbiamo
dovuto imparare ad utilizzare tali attrezzature e a somministrare tanti farmaci (a volte 17 dosi di farmaci in un solo giorno) attraverso
la sonda digiunale. Sofia riceve tutto attraverso le sonde che sono
attaccate al suo pancino attraverso un foro. A cause delle sue crisi
respiratorie la piccola ha ingerito tutti tipi di antibiotici diventando, così come documentato dai numerosi antibiogrammi, immunoresistente a varie molecole. Solo dopo anni di battaglie si è riusciti
ad ottenere una assistenza infermieristica per non più di tre ore al
giorno”.
Tre anni, dieci delicatissimi interventi. Tre anni vissuti come un
lungo viaggio della speranza. Speranza di dare a Sofia quella vita
che la sola sua forza le ha donato, ma che l’inefficienza di un sistema
sanitario le ha tolto e le continua a togliere ogni giorno in cui non
riesce a garantirle un’adeguata assistenza.
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A Elena in coma
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Una questione di famiglia?
Elena è una giovane donna caduta in coma quattro anni or sono
per un misterioso arresto cardiaco.
Le sono rimasti vicino per seguirla ed assisterla lungo il suo percorso terapeutico i soli genitori e la sorella.
La sua mamma, attraverso le sue poesie, esprime tutto il loro
dolore e la loro disperazione per quella vita annullata. Ella grida al
mondo intero che sua figlia vive ancora: in un altro modo, forse in un
altro mondo, ma vive!
E resta viva la speranza in un ritorno ad un’esistenza, magari monotona, ma piena di quella pace e serenità che la tranquilla contemplazione della natura può donare.
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Poesie di Maria Rosaria Colicchio
AD ELENA IN COMA
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Una questione di famiglia?
Sei prigioniera nel giardino del silenzio,
sei relegata nell’incomunicabilità infinita,
eppure io non mi arrendo:
dò voce al tuo silenzio,
lacrime al tuo dolore,
carezze alla tua mano,
dolcezza al tuo viso.
Io vivo nel tuo Io, ormai annullato
E grido al mondo intero
che tu esisti ancora
in un altro modo,
in un altro mondo,
ma tu VIVI!
La tua mamma
LA SPERANZA
Nasciamo stringendo nei piccoli
pugni chiusi la speranza
Viviamo tenendola serrata
Moriamo, e dalla mani aperte,
essa vola per farsi serrare
in altre piccole rosee mani
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COMA
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Una questione di famiglia?
Non ci sono più lacrime da piangere
non c’è più emozione nel cuore
invecchiato e ferito.
Tutto è ormai finito
quel giorno di marzo
foriero di speranze
e colmo di odori primaverili.
Rimane solo il desiderio
ormai impossibile di una vita
sempre uguale, ma piena
di pace e serenità
agognate e perdute
FELICITÀ
Un cielo terso e chiaro,
un campo di girasoli,
un bacio su una guancia.
Nelle mani ciuffi d’erba
odorosa e fiori di campo.
Nella mente nuvole rosa
di pensieri cangianti e luminosi.
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La storia di Stefano si articola in tre parti.
La prima elaborata dalla sorella Filomena, percorre la vicenda dall’incidente al ritorno a casa.
La seconda nasce dall’incontro di Stefano con la giornalista Iolanda
Chiuchiolo, mentre la terza è stata scritta direttamente da lui, con il computer, a cui è molto legato e sottolinea, come scrive egli stesso, di essere rimasto
sempre quello di prima, come si dice a Napoli, “la capa è sempre 54”.
La storia di Stefano inizia il 22 Ottobre 2007. È stata una lunga vicenda umana di dolore, di lotta e di speranza, che ci ha sempre
accompagnato nel lungo calvario quale è stato. Stefano è un ragazzo
solare, allegro e contento della vita. Lo è sempre stato. Tutto è iniziato
quando all’età di 20 anni è stato vittima di un incidente stradale: era in
sella al motorino (che tanto adorava e adora tutt’ora!) quando da una
macchina si apre lo sportello e nell’impatto Stefano urta con il tronco
contro un palo. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Maddaloni gli
vengono asportate la milza e un rene. I medici non sapevano se avrebbe superato la notte. La situazione era troppo critica: sono state ore
stressanti quelle dell’attesa ma l’intervento riesce e Stefano supera la
notte. Successivamente la scoperta di una difficile realtà: stato di coma
per ipossia, una realtà a noi paurosa e difficile da capire, un “luogo” sconosciuto, mentre noi di qua ci preoccupavamo e coi disperavamo per
lui. È stato a Maddaloni per una quindicina di giorni sempre in coma
fino a che non avremmo trovato una clinica dove ci fosse il reparto
di Neurologia e dove potessero prendersi cura di lui adeguatamente.
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Una questione di famiglia?
Stefano, dall’incidente a Bologna la sua lotta per la speranza
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Abbiamo optato per il Neuromed di Pozzilli a Venafro in provincia
di Isernia. Sembrava l’unica soluzione, visto che non avevamo altre
alternative. Ma solo dopo quattro mesi di ricovero ci siamo resi conto
prima noi e poi i medici e tutta la troupe del reparto che non avendo
mai ricoverato un paziente in coma non avevano i mezzi idonei per
affrontarlo.
Ci ritrovammo disperati non solo dal dolore per le condizioni di
Stefano ma anche perché non sapevamo da che parte iniziare di nuovo
la ricerca di una struttura per lui, una struttura che potesse “riportarlo”
di nuovo tra noi. Stefano, sempre a letto 24 ore su 24, con gli occhi
aperti fissi nel vuoto, dimagriva sempre di più. Ha perso più di 30 chili.
Sempre più debilitato, disidratato e inattivo. I miei genitori moralmente e fisicamente erano a terra. Non sapevamo a chi rivolgerci, a chi
chiedere aiuto: avevamo bisogno di qualcuno che potesse darci conforto nel sostenere la nostra speranza. Meno male che c’erano i suoi
amici che non lo avevano mai abbandonato e che numerosi a gruppi
venivano a trovarlo. La famiglia e gli amici ci hanno dato grande fiducia e tranquillità. Così cominciammo la nostra ricerca e un giorno,
durante le festività natalizie, navigando su Internet trovammo il centro
di Bologna: “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”.
Sembrava il luogo perfetto, la struttura perfetta per noi, ma soprattutto per Stefano. La nostra speranza stava tutta lì. Mandammo un’email. Dopo qualche giorno la risposta: chiesero del ragazzo,
dell’incidente, del suo stato. Non sapevamo cosa rispondere perché
al Neuromed non davano informazioni sulla terapia di medicine che
somministravano a Stefano né sulla fisioterapia. Nulla: il silenzio.
Abbiamo dovuto combattere per avere la cartella clinica per inviarla
al dottor Piperno, direttore del reparto di Riabilitazione funzionale
dell’Ospedale Maggiore di Bologna e della Casa dei Risvegli. Ci siamo
ritrovati a combattere oltre con lo stato di coma di Stefano anche con
il personale di quella clinica e con la loro “inumanità” e ignoranza. Con
lo zio Michele, sempre presente e pronto a far valere i nostri diritti, ci
mettemmo in contatto con l’associazione “Gli Amici Di Luca”, con
Maria Vaccari, la presidente, tramite il telefono con Comaiuto e da
79
Una questione di famiglia?
lì, dopo un po’ di giorni, ci ritrovammo in viaggio per Bologna. Un
viaggio che sembrava infinito, ma con l’entusiasmo e la speranza di
potercela fare. Il viaggio procede bene, la mamma sta accanto a Stefano nell’autoambulanza e il resto dietro con la macchina, in prima fila
il papà. Dopo quasi cinque ore ci ritrovammo davanti all’Ospedale
Maggiore di Bologna. Enorme, ci sembrava tutt’un altro mondo. Eravamo sempre più convinti che stavamo nel posto giusto! Appena Stefano mise piede in Ospedale tutto cambiò. In pochi giorni gli hanno
fatto ciò che in quattro mesi non gli hanno mai fatto.
Come di prassi per i pazienti in stato comatoso, dopo una quindicina di giorni Stefano è passato alla Casa dei Risvegli. Non sappiamo
ancora oggi chi ringraziare per aver permesso che fosse ricoverato a
Bologna. Una mano Santa dal cielo. Lì è difficile che vengono ricoverati pazienti non residenti in Emilia Romagna. Ma prima di tutto
la Signora Vaccari che con il figlio Luca ha vissuto il nostro stesso
dramma. Lei ha insistito perché questo ragazzo di 20 anni non fosse
in giro per l’Italia parcheggiato chissà dove alla ricerca di un posto
adeguato per essere curato, perché a qualsiasi malato, qualunque sia la
sua malattia, spetta di diritto essere curato dignitosamente!
La “Casa dei risvegli” è una struttura con dieci moduli, ognuno dei
quali accoglie dieci pazienti con a fianco una persona che possa prendersi cura di loro. Ovviamente nel nostro caso è la mamma che viveva
con Stefano e che non l’ha mai lasciato nemmeno un momento: cucinava con lui, dormiva con lui, si svegliava con lui. Sempre tutto assieme
a lui. Come se stessero a casa. Di diverso c’erano solo i mobili, l’arredo
ma l’ambiente era quello di casa. Sono infatti moduli abitativi in cui
tutto ruota intorno alla famiglia e agli affetti che circondano il paziente e che sono indispensabili per una migliore ripresa. Ma nemmeno il
papà lo ha mai lasciato, lui che per fortuna, essendo Carabiniere, faceva
un lavoro che gli permettesse il trasferimento a Bologna, altrimenti
data la sua fragilità e la disperazione sarebbe stato addirittura disposto
a lasciare il lavoro pur di stare vicino al figlio. Purtroppo noi fratelli,
visti gli impegni lavorativi e scolastici, non abbiamo avuto la possibilità di vivere quotidianamente la nostra famiglia, ma appena potevamo
salivamo su a Bologna con la speranza che la nostra presenza potesse
essere d’aiuto al risveglio di Stefano. Giorno dopo giorno Stefano mostra sempre importanti segni di ripresa.
Stefano ce l’ha fatta e oggi sta a casa con noi. Ha ancora bisogno di
un lungo percorso riabilitativo ma noi abbiamo fortunatamente superato quest’esperienza. Ma quante famiglie si ritrovano spaesate e non
sanno dove indirizzarsi alla ricerca di strutture del genere dove portare
i propri cari? Non è giusto. Non a tutti nella sfortuna capita la fortuna
che è capitata a noi.
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Stefano, Facebook e la vita di un ragazzo della sua età
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Una questione di famiglia?
Facebook è diventato la sua nuova passione. Te ne accorgi subito.
Sono le 10 di domenica mattina e lui è già davanti al suo pc da un pezzo. Tante finestre aperte per comunicare con amici, soprattutto amiche,
vicini e lontani. Chatta, tagga e lascia i commenti sulle bacheche come
amano fare oggi tutti i ragazzi della sua età. Perché Stefano vive come
loro. Accenna un saluto e un timido ciao. I suoi ridenti e profondi
occhi marroni raccontano il resto. Raccontano di come è bella la vita.
Ridono all’alba di ogni nuovo giorno. Sono lucidi di gioia per ogni
esperienza nuova che gli si fa incontro. Si sgranano e danno al ragazzo
il volto di adulto quando con forza e responsabilità dice: voglio camminare. La sua giornata non inizia e finisce davanti a un computer. Da
quando le cure della Casa dei risvegli di Bologna lo hanno riabilitato
Stefano riempie ogni giorno di tante cose da fare, tanti piccoli grandi
obiettivi da raggiungere con le sue care e vecchie abitudini. Cose banali per chi le fa con naturalezza. Cose importanti per chi da piccoli passi
deve imparare a tornare a camminare da solo. Accoglie l’invito della
mamma e si allontana dal computer, si avvicina alla tavola e accavalla
la gamba. C’è qualcosa che lo rende irrequieto. Sembra pensieroso, in
realtà è solo la voglia di fare qualcosa. Basta un attimo. Si alza dalla
sedia a rotelle con l’impeto di chi vuole scappare. Testa alta e via. Si
parte. Anche questa mattina Stefano vuole provarci. Prima accenna
pochi passi. Poi più forte. Con più voglia. Con più gioia. È la gioia di
sapere che può tornare a correre. E non importa se c’è ancora bisogno
di papà e mamma intorno a parare eventuali cadute. Perché Stefano
va dritto per la sua strada. Del resto è uno che dalle cadute ha imparato pian piano a rialzarsi. Quando il perimetro della cucina diventa
troppo stretto bisogna fare altro. Basta camminare avanti e dietro, ora
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si deve uscire. “Mamma, dammi il giubbino” dice aspettando che il
padre lo accompagni. È domenica e come tutti i ragazzi della sua età si
prepara per raggiungere i suoi amici in piazza. Vestito di tutto punto,
come sempre. Maglia e pantalone alla moda, i dettagli scelti con cura
e i capelli in ordine. Tutto uguale a prima. La testa di Stefano non
è cambiata, le esperienze motorie e tattili, quelle sì. Gravemente ma
non irreversibilmente. Lui ne è lucidamente consapevole e combatte
ogni giorno perché anche il suo corpo possa tornare a essere quello di
prima. Lo vuole fermamente. Lo ripete a voce alta, non tanto per convincere se stesso, quanto per ricordare a tutti che ogni mese potrebbe
avere una scadenza utile per tornare a correre, parlare e cantare. Una
tappa che lui si prefigge e che vuole raggiungere, con le sue forze e con
la sua volontà. Mancarla oggi, a due anni dall’incidente, vorrebbe dire
aspettare che i progressi diventino più grandi. Ma come tutti i ragazzi
della sua età è difficile colmare con la propria determinazione uno spazio vuoto chiamato pazienza. E come tutti i ragazzi della sua età è difficile capire perché non esiste in maniera proporzionale a tanta e tale
determinazione un utile e concreto impegno delle istituzioni, sanitarie
innanzitutto. Con un’assistenza diversa oggi Stefano saprebbe parlare
e camminare meglio di quanto già faccia. Qui, per ora, non può che
affidarsi alle cure della famiglia e a quelle del centro che gli consentono
di continuare a fare quello che già fa. Lasciare Maddaloni per Bologna
e la Svizzera vorrebbe dire recuperare il tempo perduto con terapie
poco efficaci, probabilmente vorrebbe dire ritornare pienamente attivo.
Ma Stefano è così legato ai suoi spazi che fa fatica a immaginarsi in
un posto troppo lontano. Magari lo sogna di continuo, ma si arrabbia
se gli si dice di partire. Forse in cuor suo sa di potercela fare anche qui,
dove la famiglia e gli amici, ma anche Facebook e il negozio di fiducia,
sono diventati una calda tana in cui rifugiarsi. Stefano non si arrende.
Vuole il suo mondo a portata di mano. Perché Stefano, dal suo mondo,
non è mai fuggito. Il terribile incidente che lo ha spezzato dalla vita
cosiddetta normale non è bastato a togliergli la voglia di sorridere e
di camminare, di frequentare i suoi amici e di avere cura di sé. La sua
testa non è cambiata, ma Facebook non basterà ogni giorno a farlo
sentire veramente come un ragazzo della sua età.
“Io resto sempre Frizzantino con la capa 54”
83
Una questione di famiglia?
Guardare Stefano negli occhi vuol dire entrare nel suo mondo.
Basta osservarlo e stargli vicino pochi minuti per capire tutta la voglia che ha di esprimersi, di gridare al mondo che “la vita è bella e va
vissuta come viene” e che i suoi coetanei devono stare attenti quando
vanno sullo scooter perché “io sono stato fortunato e ce l’ho fatta, tanti
altri ragazzi no”. Pensieri lucidissimi e concetti maturi caratterizzano
il ragazzino già uomo che ha trovato il modo di superare le difficoltà
di espressione linguistica per farsi comprendere. Le sue condizioni
non gli consentono ancora di parlare bene, ma sa come comunicare,
sa rendere giustizia a quella vivacità d’animo e intellettuale che lo
caratterizzano. Lo fa scrivendo. Stefano ha recuperato pian piano
e con il sapiente aiuto della famiglia un buon uso delle tecniche di
scrittura. La riabilitazione, da questo punto di vista, può dirsi riuscita. La battaglia, per dimostrare ogni giorno che l’intelligenza di
un 22enne uscito dal coma è dinamica, è vinta. Che siano lettere o
brevi messaggi agli amici, utilizzando internet, il cellulare o carta e
penna, appena può Stefano cerca di comunicare nella maniera più
istintiva e naturale i suoi stati d’animo. Scrivendo si apre e parla di
sé, della sua vita e del suo mondo che forse neanche con un gran
discorso pronunciato a voce alta riuscirebbe a descrivere pienamente.
È un modo per vivere il presente e rimanere sempre in contatto con
il mondo reale, per prendere coscienza delle proprie sensazioni e per
rendere chiare le proprie idee, a se stesso e agli altri. Se per lui è solo
un sistema che lo aiuta ad esternare quello che prova, per chi legge
è un momento di riflessione e commozione. Le sue parole, come
pietre, si fissano nella coscienza. I suoi pensieri così profondi e veri
riempiono il cuore di speranza e fiducia, le stesse con le quali Stefano
e la sua famiglia vivono ogni giorno lo stato di disabilità. Per questo
abbiamo deciso di farci raccontare da Stefano come è Stefano, che fa
e cosa pensa. Come? Nel modo che gli è più congeniale: rispondendo
ad alcune domande via mail.
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Stefano, come trascorri la tua giornata?
“La mattina mi sveglio presto, se sono le sette e un quarto aspetto un
altro quarto d’ora e faccio la colazione, poi mamma mi prepara, cioè mi
lava, e faccio tutti i fatti miei. Poi direzione Sant’Agata, al centro, perché
devo imparare ancora a camminare e parlare. Tutto questo me l’ ha causato l’incidente. Al centro mi diverto perché deve passare la giornata dalle
dieci e mezzo alle dodici e mezzo. Aspetto con ansia che cammino, l’importante è camminare, a volte mi chiedo perché mi doveva capitare proprio a
me, a me che dove mi metti là mi trovi. È meglio a me, si vede che le cose
non andavano bene. Mi potevano fermare solo così, ma fortunatamente
non ce l’hanno fatta. Vengo dal centro e arrivo a casa verso l’una, il mio
paese è distante da Sant’Agata solo mezz’ora. Mangio e aspetto che si fanno le quattro per uscire, se non piove altrimenti…! Oggi piove e quindi…
speriamo domani è una bella giornata, che Dio ce la mandi buona. A volte
te le trovi addosso delle cose che non ti saresti mai aspettato, anzi non le
pensavi più, se mi sbaglio correggetemi. Oggi piove e non posso uscire, però
devo andare a cambiare delle maglie in un negozio di solo firme, non vedo
l’ora…! Sta finendo la giornata, questo è fino alle due e mezzo e basta…
Non manca occasione per chattare anche con i miei amici su Facebook. Ne
ho tanti. Di sera vado a letto tardi e domani è un altro giorno. Dopo la
cena vado giù da me al bar che frequento da una vita e dove ci sono i miei
amici..a volte ci scappa pure un giro in macchina con loro. Soprattutto col
mio amico Salvatore detto “a Padana “ ce ne andiamo in giro a fare la
pusteggia con le ragazze di Maddaloni e di Santa Maria a Vico”.
Quale è la cosa più bella a cui stai pensando in questo momento?
“In questo momento vorrei camminare e andare al futuro, a vedere
cosa sta nascosto per me, sicuramente delle sorprese…”.
85
Una questione di famiglia?
La tua vita dopo l’incidente è cambiata, ma tu sei rimasto lo
stesso ragazzo allegro di sempre. Che cosa vorresti dire ai ragazzi
della tua età? “Lo so che è cambiata la mia vita. La mia esperienza non la augurerei
a nessuno, anzi la farei un’altra volta io pur di non farla fare agli altri.
Parlando dei miei amici, io non è che ero uno calmo, anzi mi chiamavano
e mi chiamano ancora “FRIZZANTINO” ma il destino ha voluto che…
Mi sto mangiando le mani, perché perché…
A volte penso che la vita è bella e va vissuta come viene. Pure io sono
stato un ragazzo come loro perché pure io ci sono stato in mezzo a loro,
pure io ho fatto il birbantello e forse un po’ troppo. Voglio dire ai miei amici e a tutti i ragazzi della mia età andate piano con il motorino e con le
macchine. Io sono stato molto fortunato perché io ce l’ho fatta pure se sono
ancora sulla sedia a rotelle ma ci sono tanti altri ragazzi che non ce l’hanno fatta. Se potessi ritornare indietro ci penserei due volte a comprarmi il
motorino. Ma nonostante tutto Frizzantino è vivo con la “capa” sempre
54! Anzi se prima era 54 ora è 70!”
La storia di Raffaele: la parola allo zio
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Ho raccolto personalmente la storia di Raffaele; dalle parole della
mamma Patrizia e del Papà Claudio, ho riassunto il resoconto dei fatti
come si sono svolti, dal momento dell’incidente all’attuale, che è fatto
di giorni di intensa terapia riabilitativa.
Un incidente di moto porta in coma un giovanissimo e atletico
ragazzo, bello, come continuano a ripetere, con orgoglio, i genitori e la
nonna materna, presente anche lei all’incontro, “sempre presente” mi
sottolinea.
Per questa storia preferisco non ripetere tutto quello che scriverei
di risaputo e ripetitivo, triste copione che conosciamo tutti: incidente,
interventi chirurgici, terapia intensiva, viaggi della speranza e ritorno a
Salerno,dove vive la famiglia.
Con la speranza di recuperare sempre più e meglio questa giovane
vita lascio alle parole dello zio l’esposizione dei fatti con l’uso di un
linguaggio tra la cronaca e la fantasia, il reale e l’immaginario.
Margherita Rocco
Quel giorno
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Una questione di famiglia?
Il 6 Gennaio 2009 l’Aprilia 125 di Raffaele alle 21,20 sbatte contro una macchina e lui viene catapultato dalla sella colpendo prima il
vetro e poi cadendo a terra sull’asfalto.
Mi rendo conto che non so nemmeno che macchina era, né il colore o a che velocità andasse; la moto l’ho vista a terra per un attimo
mentre passavo in macchina dopo che Patrizia mi aveva telefonato
per urlarmi che Raffaele era all’Ospedale.
Di quelle ore non ho ricordi molto chiari, il che non è strano, fa
parte del mio essere distratto, ma lungo il corridoio del Pronto Soccorso, mentre aumento il passo dietro la barella di Raffaele che viene
portato verso la Sala Operatoria, mi chiedo che cazzo stessi facendo
di così importante al posto di essere su quell’Aprilia 125 e fiutare il
pericolo di quell’incrocio e dire a Raffaele di prendere un’altra strada
e tornare a casa.
Ma eravamo tutti lì, in quell’enorme stanza di passaggio vicino
alla rianimazione, con un viavai di medici, infermieri, pazienti, visitatori, noi della famiglia, amici di Raffaele, tutta una vita che si agitava
e agiva e operava e dibatteva, inquietandosi, calmandosi, turbandosi,
mentre una patina di assurdo si attaccava su ogni persona, su ogni
cosa, sull’aria stessa, pesando l’angoscia di qualsiasi avvenimento che
non accadesse in quella sala operatoria dov’era Raffaele.
Canto per Raffaele
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In questa cattedrale nel deserto
non sento il sole che mi batte in testa
nemmeno la sabbia che sprofonda
non ho sete non ho paura
Ho messo un camice verde
una maschera sul viso
poi sono entrato in una stanza enorme
e ti ho sentito senza che tu ti esponessi
poi ci siamo guardati
e tu avevi gli occhi chiusi
ci siamo presi la mano
e tu non ti muovevi
ci siamo parlati
e tu non hai aperto bocca
Quando io lentamente
mi sono accorto
che quel bambino
che non si esponeva
che aveva gli occhi chiusi
che non si muoveva
che non apriva bocca
Era un uomo e non un uomo qualunque
ma l’uomo che diceva
esponiti
alza gli occhi
muoviti
apri la bocca e vivi
Perché se io non sono forte
e se tu non sei forte
a che vale essere nel deserto
E io finalmente piango
semplicemente perché ora sono un uomo
poi la pioggia cade silenziosa
purificando l’aria
e la cattedrale del deserto sonnecchia
piena di uomini e donne
che pur vivono e lottano
e si contorcono per respirare
Ma io sono qui nella stanza dell’attesa
che aspetto la tua vittoria
che diventa anche la mia
visto che è te che sto aspettando
il resto del mondo non me ne voglia
89
Una questione di famiglia?
E poi cammino nel corridoio e sento il tuo passo
ascolto i rumori dei neon elettrici
e sento battere il tuo cuore
odo voci lontane nel cortile
e le tue parole rimbombano
mi fermo alla finestra solitario
e la tua mano mi tocca
Come potrei ora soltanto pensarti
senza averti vicino
carne della mia carne
sangue del mio sangue
sogno del mio sogno
pensiero del mio pensiero
Vita la tua che ormai si è intrecciata con la mia
vita della mia vita che tramite te si espande
popolando qualsiasi deserto
Amici
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Forza Raff… siamo tutti con te!!!
Centinaia di persone ci ritroviamo la mattina, il pomeriggio, la
sera nel cortile davanti lo stanzone di attesa della rianimazione, richiamati da un appello su Facebook, tanto che le guardie di sorveglianza e alcuni dirigenti dell’Ospedale intervengono per verificare
se stiamo cercando di organizzare una protesta o di sabotare qualcosa, se abbiamo quindi intenzione di fare delle azioni di forza.
Come non capire che era proprio la nostra debolezza nei confronti di quello che stava accadendo a costringerci a cercare delle
corazze con cui difenderci.
Sognando
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Una questione di famiglia?
La guerra è scoppiata alle ventuno e venti del sei gennaio millenovecentonove.
Il Guerriero era seduto nella sua navicella A125 per un giro di
ricognizione.
Bello come il sole, forte, con i muscoli dei bicipiti che rigonfiano
la tuta troppo stretta, sicuro nella sua accelerazioneluna che lo porta
cinque secondi vicino alla frontiera.
Ma il nemico era in agguato ed è entrato in azione senza che il
Guerriero potesse rendersi conto di cosa stava accadendo.
Un punto nero si affacciò una frazione di secondo sul monitor,
tanto da lasciarne traccia nella memoria, ma insufficiente per permettere una qualsiasi manovra.
L’impatto fu tremendo.
Il Guerriero è sbalzato fuori dalla navicella dopo aver sfondato il
vetro, e cade, precipitando e impattando violentemente sul terreno.
Il sistema d’allarme funzionò alla perfezione e le squadre di soccorso erano lì in pochi minuti.
Il Guerriero viene letteralmente preso di peso da due energumeni
che lo stendono posizionandogli il respiratore e urlando al guidatore
di ripartire subito.
Il suono della sirena prima lontano iniziò a penetrare dalle lamiere della navicella di soccorso per poi raggiungere e superare la parete
cranica fino a diventare un rumore talmente assordante da provocare
un silenzio assoluto.
Nell’attimo in cui il Soccorso imboccò la salita del Primo Intervento il Guerriero è in coma.
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Nella nottata il lettino su cui era adagiato il corpo del Guerriero
fu spinto nei corridoi dell’Ospedale: dritto nella sala del Pronto Soccorso, di corsa in Radiologia per la TAC, su con l’ascensore verso la
Sala Operatoria, di nuovo giù alla TAC, e ancora in ascensore verso
la Sala Operatoria, infine di corsa verso la Rianimazione.
Tubi, flebo, aghi per siringhe, garze, monitor, drenaggi, mascherine per la respirazione, tanto che il Guerriero lì disteso su quel lettino
sembra diventato una macchina alimentata da un’energia esterna.
Gli occhi sono chiusi, il capo è completamente bendato per proteggere la parte del cranio aperta.
Il Comandante del Gruppo D2O era seduto affianco al lettino
nel momento in cui una infermiera arrivò con una cannula che introdusse nella trachea facendo sobbalzare violentemente il Guerriero
che sembrò urlare e contorcersi anche rimanendo immobile, così che
il Comandante afferrò la ricetrasmittente urlando qualcosa.
Immediatamente si sentì un frastuono assordante: vetri infranti,
grida, alcuni spari ovattati, urla di comando.
Il box del Guerriero fu circondato da cinque o sei membri della
D2O armati fino ai denti.
-Due di voi prendano possesso della Sala Operatoria. Faccio io
l’intervento. Gli inserirò il chip di potenziamento.Il Comandante non aveva ancora terminato l’operazione quando
il Guerriero gli afferrò il polso con una tale forza da paralizzarlo.
-Comandante il suo compito è finito. Ora tocca a me.-Cosa hai deciso di fare?-Smantellerò questo posto centimetro per centimetro.-Ma…-Niente ma, la mia mente è perfettamente lucida. La guerra è
appena cominciata.Il Guerriero si alzò dal letto strappandosi i tubi dal braccio, sentiva un’inossidabile sapore di vita.
Imbracciò il fucile e uscì dalla Sala Operatoria.
Mauro Francolini
La Via Crucis della famiglia Varone
L’incidente
24 marzo 2007, ore 7.30, pioggia battente. Mio padre si trovava
a Napoli, sulla Tangenziale, in direzione Capodichino. Era con mio
fratello e stavano soccorrendo la fidanzata di quest’ultimo che aveva
l’auto in panne. Le sue ultime parole sono state: “Non preoccuparti
Anna, metto il triangolo e ce ne andiamo”. Ha fatto qualche passo
e mio fratello all’improvviso non l’ha visto più. È stato investito da
un’automobile che ha perso il controllo sulla strada bagnata ed è stato
colpito alla testa. È arrivato in ospedale, il San Giovanni Bosco, in
Ogni anno, in Italia, circa 20mila persone entrano in coma per incidenti stradali o sul lavoro,
ictus, arresti cardiaci, aneurismi, intossicazioni. Più di un terzo ne esce indenne, altri riportano
danni più o meno gravi e per più di 500 il coma evolve in stato vegetativo, che può durare più
o meno a lungo, talvolta permanente.
1
93
Una questione di famiglia?
2 anni e una settimana
Simona Varone si è trovata a vivere l’esperienza del coma prima,
e dello stato vegetativo permanente poi, di un proprio caro. La storia
di suo padre e della sua famiglia non è molto differente da quelle di
innumerevoli altre famiglie, si stima 20.0001 in Italia, che si incontrano
con la sospensione del tempo, l’incomunicabilità, l’incomprensione, il
dolore. Persone che avevano una vita normale e che, in seguito ad incidenti o malattie, cominciano un percorso attraverso la sofferenza del
proprio caro ma anche un viaggio attraverso l’Italia delle mancanze e
della delega delle responsabilità.
Ci racconta la sua storia.
pochi minuti perché il caso ha voluto che passasse un’ambulanza che
l’ha immediatamente soccorso. Io l’ho saputo alle 9.
Adesso, con il senno del poi, mi rendo conto che quel giorno intraprendemmo un percorso di sofferenza e angoscia che solo chi lo ha
vissuto può capire. Giorni sempre tutti uguali, scanditi dai ritmi e dalle
vicissitudini tragiche che si alternavano nell’ospedale, una vita stravolta
all’improvviso con la forza, la pazienza e la volontà di doverla accettare
per quello che era diventata, essendo noi nell’impossibilità di cambiare
la realtà.
La rianimazione
Le prime parole che ci disse il medico sono state “Tuo padre è entrato in
coma dall’istante dell’impatto. La sua situazione è molto critica. Non sappiamo neanche se ce la farà a superare le prossime 24 ore. Potrebbe morire
da un momento all’altro”.
94
Quando sono arrivata lui era in camera operatoria dove è rimasto
almeno 10 ore. Durante questo tempo, per noi infinito e sospeso, è
iniziato il nostro contatto con il mondo dell’ospedale: con le sue regole,
dette e non dette, con il personale medico e paramedico che spesso si
rifugia nella durezza per sostenere le tragiche situazioni che ha sotto
gli occhi, con gli altri familiari straziati come noi dal dolore e a volte
euforici per una piccola speranza. All’inizio, pur sapendo che le condizioni di papà erano gravi, nessuno di noi aveva realizzato cosa stesse
davvero accadendo; quando capitano cose come questa ci vuole del
tempo, molto tempo, per comprendere davvero la situazione. Ci sarebbe bisogno di qualcuno che sostenga questo processo di acquisizione
di coscienza, che è anche acquisizione di un dolore, e che sappia far
accettare la situazione. Invece non c’è nessuno: i familiari sono soli.
L’unica relazione è con i medici. Ma non è una relazione paritaria
perché il personale dell’ospedale tende solo a trasferire delle notizie, a
volte non del tutto comprensibili.
Quando papà è uscito dalla sala operatoria era irriconoscibile, gonfio e fasciato. E incosciente. Dopo 4 giorni gli hanno fatto la trache-
95
Una questione di famiglia?
otomia e hanno cominciato a nutrirlo con un sondino naso-gastrico.
Durante i tre mesi di rianimazione ha aperto gli occhi, ha ricominciato ad avere dei riflessi se sottoposto a degli stimoli, ma la coscienza
non l’ha mai riacquistata. Praticamente è diventato un’altra persona,
che abbiamo dovuto imparare a conoscere e riconoscere. È stato un
trauma, uno sconvolgimento grandissimo. Anche qui ci sarebbe stato
bisogno di un sostegno per elaborare il lutto della scomparsa di una
persona che non c’è più ma che è ancora presente; avremmo avuto
necessità di un appoggio per riconoscere la sua nuova nascita che corrispondeva purtroppo anche con il suo declino.
Ogni giorno alle 14.00 c’era il colloquio con lo staff, che chiamavamo ‘la sentenza’. La maggior parte dei medici è sempre stata molto
chiara con noi, in alcuni momenti addirittura crudele. Per tre mesi
abbiamo avuto un colloquio giornaliero. In quel momento le speranze
prendevano vigore oppure si affievolivano donandoci un sorriso oppure ennesime lacrime che si andavano a sommare a quelle già spese
e che poi, me ne rendo conto solo ora che racconto, non ci avrebbero
più lasciato. La situazione della rianimazione non aiutava poi ad essere
ottimisti: morivano 1-2 persone ogni giorno.
L’unico sollievo in quei mesi era la visita quotidiana: mezz’ora al
giorno in cui una sola persona poteva entrare e stare con lui mentre
gli altri seguivano quanto accadeva attraverso una postazione video. Il
contatto con papà ci riportava finalmente ad una dimensione di quotidianità. Eravamo fiduciosi che tutto sarebbe tornato a posto; durante
quelle mezz’ore non smettevo un attimo di parlargli.
In quei momenti il solo conforto l’abbiamo avuto dalla religione.
Nell’ospedale c’era una piccola Cappella. Don Carmine era una presenza per tutte le famiglie; un aiuto costante, l’unico, che non è mai
venuto meno. L’altra forza l’abbiamo tratta dagli altri parenti con i
quali c’era uno scambio sincero e profondo. Per le famiglie c’era una
stanza che noi stessi insieme ai parenti degli altri ricoverati abbiamo
provveduto ad attrezzare con brandine e divanetti e passavamo a turno
la notte lì. Le giornate di tutta la nostra famiglia oramai si svolgevano
nella sala di attesa, lì mangiavamo, lì dormivamo, lì ci svegliavamo,
attendendo un qualsiasi segno, un gesto, una parola e la cosa che più
mi colpi in quei giorni era che non eravamo soli ma condividevamo la
stanza con altre persone, che come noi stavano vivendo i loro drammi
personali.
Aspettavamo i famosi 40 giorni, quelli in cui, ci avevano detto, era
possibile un risveglio. Il dottore ci aveva spiegato che lo stato di coma
può durare un massimo di 8 settimane; se non c’è un risveglio durante
questo periodo, il paziente passa gradualmente allo stato vegetativo
permanente in cui si hanno dei riflessi ma non la coscienza. Ma papà
non si è mai svegliato.
Il 7 giugno mio padre, sempre nelle stesse condizioni, è stato dimesso.
96
L’epoca delle illusioni
A maggio, quando la situazione di mio padre è diventata stazionaria, c’è stato un momento in cui eravamo ottimisti. Pensavamo che le
sue condizioni potessero solo migliorare. Ricordo che un giorno ci dissero che avevano provato a dargli dell’acqua con il cucchiaino e aveva
deglutito. Per noi è stata una festa. In questo periodo lo staff medico
ha cominciato a parlare di dimissioni e della collocazione di papà in
un centro di riabilitazione. Trovare un posto in uno di questi centri è
difficile e noi ci siamo affidati allo stesso reparto di rianimazione. Le
prospettive erano il San Raffaele di Cassino o la Fondazione Salvatore Maugeri di Telese, che sono comunque molto distanti dalla nostra
residenza. Alla fine si è liberato un posto a Telese. Eravamo molto
ottimisti; pensavamo di uscirne fuori nel giro di qualche mese, di poter
riportare papà a casa.
I primi problemi sono cominciati dal punto di vista logistico. I miei
genitori vivevano a Napoli, mio fratello vive a Siena, io a Roma e mia
sorella a Torre del Greco. È stato quindi indispensabile trovare una sistemazione per mia madre a Telese perché non poteva fare ogni giorno
avanti e indietro con Napoli. E lei ha dovuto radicalmente cambiare
vita. Adattarsi a vivere fuori dalla sua casa, in un appartamento in affitto, ammobiliato, lontano dalle sue conoscenze, dalla sua famiglia,
dalla sua vita. In più ti accorgi di cosa vuol dire essere lasciato solo dal-
97
Una questione di famiglia?
le istituzioni; i prezzi delle case erano assolutamente incontrollati, gli
affitti altissimi e le strutture fatiscenti. Per fortuna mio padre aveva la
sua pensione di carabiniere e ci siamo potuti permettere di pagare 600
euro al mese di affitto. Ma in quel momento eravamo contenti perché
pensavamo che avrebbero curato papà e avremmo potuto riportarlo a
casa nel giro di qualche mese.
Nel centro di riabilitazione di Telese la cosa positiva è stato il cambiamento di rapporto con nostro padre con cui potevamo stare tutto
il giorno e non vedere solo attraverso un vetro. Dopo qualche tempo
i medici hanno deciso di togliere il sondino naso-gastrico e hanno
sottoposto mio padre ad un piccolo intervento per mettere la PEG
(Gastrostomia Endoscopica Percutanea) cioè la nutrizione enterale.
La situazione si era stabilizzata e quindi la mattina lo vestivamo, lo
mettevamo in poltrona; poteva uscire a fare una passeggiata con noi,
venire al bar. Insomma, non una vita normale ma almeno un coinvolgimento nelle attività quotidiane più semplici. Si è così ristabilita una
relazione con lui. Abbiamo però ugualmente sentito la mancanza di
comunicazione con lo staff medico e infermieristico e un’assenza di
coinvolgimento nelle attività di riabilitazione che, se ci avessero insegnato, avremmo potuto potenziare, dato che era prevista una sola ora
giornaliera. Quando hai una persona cara in quelle condizioni è difficile stare con le mani in mano, noi avremmo voluto fare di tutto, ma
spesso le nostre attività entravano in conflitto con gli orari e le regole
del centro. Qualche volta avevamo la sensazione che la nostra presenza
fosse quasi fastidiosa, un controllo sulle attività del malato spesso mal
tollerato dal personale.
Altro discorso è quello relativo alla comunicazione con i medici.
È comprensibile un loro distacco rispetto alle situazioni drammatiche
che si trovano a vivere ogni giorno per lavoro, però esiste una giusta
misura con cui relazionarsi ai familiari. Più di una volta il personale
medico e paramedico si è rivolto a noi in maniera crudele e spersonalizzante nei confronti del malato.
Poi a dicembre sono cominciati nuovi problemi di salute per papà.
Il declino
A dicembre la febbre che ha sempre accompagnato il percorso del
malato è peggiorata. Mio padre aveva un’infezione al cervello e si era
formato del liquido infetto che andava drenato. Non sapendo cosa
fare, e senza indicazioni da parte del centro di Telese che l’aveva in
cura, l’abbiamo riportato al San Giovanni Bosco, a Napoli. Ovviamente abbiamo dovuto organizzare tutto noi: dai contatti con l’Ospedale
al pagamento dell’ambulanza. E ci siamo presi pure la responsabilità
del trasferimento perché dalla Fondazione Maugeri di Telese è uscito
con una lettera di dimissioni. Arrivati al San Giovanni Bosco, dove
ci avevano assicurato che lo avrebbero operato immediatamente, non
c’era neanche il posto letto e mio padre, in quello stato, è rimasto 5
ore in attesa. L’intervento è stato realizzato dopo 3 giorni solo grazie
all’insistenza di mio marito. È durato 12 ore. Alla fine dell’operazione
ci hanno comunicato che le speranze di sopravvivenza erano minime.
Era il 13 dicembre. Il 23 dicembre mio padre è stato dimesso e, sempre
a carico nostro, nuovamente trasferito a Telese.
Da questo momento in poi è iniziata una serie di operazioni per
tenere sotto controllo questo liquido infetto prodotto dal cervello; ne
ho contate 6 tra dicembre 2007 e maggio 2008. In marzo, inoltre, per
un rigurgito notturno sono stati intaccati i polmoni ed è stato necessario un nuovo ricovero presso una struttura ospedaliera: 50 giorni a
Piedimonte Matese.
Nel frattempo mio padre era nuovamente regredito; ormai stava
solo a letto, non lo alzavano più. Le degenze negli ospedali, in reparti
non specializzati, avevano fatto si che i benefici iniziali della riabilitazione motoria fossero completamente cancellati; era pieno di piaghe
e in condizioni fisiche estreme. A quel punto, secondo me, è mancata
anche la tenacia da parte del personale, la voglia di crederci. Dopo
il trasferimento a Telese c’erano stati dei miglioramenti ma al primo
cedimento è come se tutti si fossero persi d’animo; la forza di insistere
e di sacrificarsi è venuta a mancare; non c’è stata la possibilità di dare
tempo all’ammalato.
Al ritorno a Telese, dopo l’ennesima operazione (maggio 2008), il
primario ci comunicò che a luglio sarebbe scaduto l’anno della riabilitazione e che quindi avremmo dovuto cercare un altro posto.
Un luogo ‘giusto’ per noi
Avremmo voluto riportarlo a casa. Stavamo preparando il ritorno da mesi ma mancavano ancora tante cose da sistemare compreso
il tema dell’assistenza che dipende dalla ASL e quindi è soggetto a
lungaggini burocratiche. I contatti con le istituzioni e con l’ASL sono
completamente delegati ai familiari; persone che non hanno mai maneggiato temi come assistenza, lungodegenza, riabilitazione si trovano in un circuito burocratico in cui devono apprendere velocemente e
sapersi ‘imporre’ con le istituzioni altrimenti c’è anche il caso di non
venire ascoltati. È assurdo che la soluzione di una situazione di questo
genere dipenda più dalla decisione e dalla capacità dei familiari di interagire con le istituzioni che da regole precise e tempi certi. Così, autonomamente, sono cominciati i nostri contatti con le associazioni di
volontariato e con altri centri di riabilitazione. Abbiamo scoperto che
strutture non ce ne sono, perlomeno al sud. Il nostro paese è spaccato
a metà e ci sono regioni italiane i cui centri di riabilitazione accolgono
solo i residenti perché le ASL pagano solo per i residenti.
Dopo una infinità di telefonate e e-mail, ci hanno chiamato da
una struttura all’Impruneta in provincia di Firenze e ci hanno detto
che, se la nostra ASL, Napoli 5 di Torre Annunziata, avesse pagato,
avrebbero potuto accogliere papà in 5 giorni. Qui avemmo a che fare
con il muro di gomma della burocrazia italiana fatto di incomprensioni, inefficienze ed incompetenze che ci provarono a tal punto da farci quasi rinunciare. Non tutto però si doveva abbandonare alle prime
difficoltà, quindi con tanta ostinazione combattemmo fino a riuscire
ad ottenere quello che ci eravamo prefissati e cioè un’autorizzazione ai
pagamenti da parte dell’Asl nei confronti della struttura di Impruneta
per far in modo di poter lì trasferire mio padre. Per far firmare i documenti necessari ci abbiamo messo 2 mesi; 900 euro di ambulanza per
portare papà da Telese a Firenze, a Villa delle Terme; 700 euro al mese
100
la casa per mia madre nei pressi della struttura. A nostre spese, durante
questo percorso, ci siamo resi conto che il nostro paese si regge anche
sull’indotto ‘al nero’ del ‘turismo ospedaliero’.
La struttura di Firenze è stata finalmente accogliente, il personale disponibile, pieno di amore; la dottoressa che seguiva papà non ci
ha mai nascosto le sue condizioni disperate ma ci ha sempre trattato
con umanità. In questa struttura portavo i miei bambini a conoscere
nonno Ciro perché sentivo che era il luogo giusto, in cui c’era la serenità necessaria per fargli avere un ricordo di questa persona per me
così speciale. Gli ultimi giorni ci hanno permesso anche di rimanere
la notte per accompagnarlo fino alla fine. Ci hanno fatto sentire che
erano li per aiutarci a risolvere il nostro problema. Abbiamo trovato
un luogo per noi. L’assistenza era perfetta e si cercava di conciliare le
esigenze del reparto con quelle dei parenti. Tutte le mattine i pazienti
erano visitati, lavati, medicati e avevano la fisioterapia. Gli infermieri
entravano continuamente nella stanza per controllare le condizioni.
Mio padre è arrivato nella struttura di Firenze pieno di paghe da decubito e dopo qualche mese era notevolmente migliorato perché veniva
medicato e girato spesso. Pur essendo tutti coscienti che lo stavamo
accompagnando alla fine, il suo percorso a Firenze è stato in ripresa.
Lo percepivamo anche come più sereno.
L’ultima fase di una malattia così grave di una persona cara porta ad
interrogarsi profondamente sul senso della vita. I due anni e una settimana che abbiamo passato accanto a mio padre, sospeso in un’altra dimensione, hanno fatto entrare anche noi in una dimensione differente.
Chi non vive questa esperienza non dovrebbe neanche parlarne. L’idea
che papà fosse imprigionato nel suo corpo, che stesse soffrendo ci faceva impazzire. Un’esperienza come quella che ha vissuto la mia famiglia,
al di là della sofferenza fisica e psicologica che abbiamo provato, cambia la vita. Mette a confronto con la parte di umanità più profonda che
ci appartiene. Alla fine bisogna anche scendere a patti con se stessi. Da
una parte c’è la voglia di rimanere attaccati ad una persona che abbiamo amato tanto, dall’altra c’è la persona cara in condizioni estreme. Gli
ultimi giorni il cuore di mio padre aveva 40 battiti al minuto.
La parola percorso ricorre spesso quando racconto questa storia.
Il percorso è un viaggio con varie soste che servono a riposarsi ma
anche a comprendere meglio; bisogna aiutare chi si trova a fare questo
viaggio a trovare il senso. Quando papà se ne è andato è stato un dolore indicibile ma abbiamo avuto la fortuna, almeno nell’ultima fase, di
avere accanto medici, infermieri, psicologi che ci hanno accompagnato
in questo percorso, ci hanno aiutato a trovare il luogo ‘giusto’ in cui
incontrarci.
***
Testimonianza raccolta da
Nadia Angelucci
101
Una questione di famiglia?
Come conclusione di questa testimonianza vorrei sottolineare alcune cose che sono fondamentali per una famiglia che si trova a vivere
questo dramma: c’è bisogno di luoghi specializzati e di personale in
grado di gestire emergenze di questo tipo. Il coma, lo stato vegetativo
sono patologie che coinvolgono tutto il nucleo familiare e come tali
vanno trattate. Non si può pensare di curare solo un corpo, bisogna curare l’intera famiglia. Bisogna adattare le esigenze mediche a quelle del
malato e della sua famiglia. Le istituzioni si devono fare carico di queste situazioni, facilitando le pratiche e assumendosi le responsabilità
in tempi rapidi. Deve essere creato un percorso ad hoc che porti dalla
rianimazione alla riabilitazione alla lungodegenza che sia standard per
tutti e non affidato alla sorte del caso o alle conoscenze. E poi bisogna
capire che questi non sono percorsi solo sanitari ma sociali e umani.
102
INDICE
Gli autori
Margherita Rocco...................................................................................... Nadia Angelucci........................................................................................ Iolanda Chiuchiolo..................................................................................... 5
6
7
Introduzione . ............................................................................................. 11
Iª PARTE
15
16
19
19
19
19
19
19
19
19
19
20
Relazione del gruppo di lavoro “Percorso di cittadinanza attiva
de Gli Amici di Eleonora” . ........................................................................... Incidenza dello stato vegetativo.................................................................. I familiari del paziente ............................................................................. Lo stato vegetativo..................................................................................... Il progetto.................................................................................................. Materiale e metodo ................................................................................... Risultati . ................................................................................................. Discussione................................................................................................ 21
21
22
23
25
26
27
29
Relazione progetto “Percorso di cittadinanza attiva” con finanziamento
della Regione Campania ai sensi dell’art.10 L.9/93...................................... Descrizione dei dati della ricerca pilota........................................................... Introduzione ................................................................................................. Fasi del progetto e destinatari ........................................................................ I gruppi di mutuo-aiuto ................................................................................ Strumento utilizzato: breve descrizione del questionario ................................ Risultati ....................................................................................................... 33
33
33
34
35
36
38
103
Una questione di famiglia?
Il progetto Percorso di cittadinanza attiva per Gli Amici di Eleonora......... Descrizione Progetto.................................................................................. Obiettivi................................................................................................... Aspetti innovativi del progetto................................................................... Destinatari finali....................................................................................... Numero dei destinatari.............................................................................. Numero di volontari impegnati.................................................................. Personale non volontario coinvolto.............................................................. Reti di collegamento................................................................................... Ambito Territoriale.................................................................................... Durata del Progetto (in mesi) 12................................................................ Data prevista di avvio............................................................................... La fase acuta: La rianimazione ................................................................. La fase post-acuta o riabilitativa: La riabilitazione intensiva e
la lungodegenza ........................................................................................ Fase della Cronicità: Il domicilio ............................................................... Conclusioni . ............................................................................................. Riferimenti bibliografici ................................................................................ Aspetti sociologici del “Percorso di Cittadinanza attiva
per gli Amici di Eleonora Onlus”............................................................... 39
40
42
45
46
47
IIª PARTE
104
Le voci del cuore.......................................................................................... 57
La breve vita di Eleonora................................................................................. 59
La mia vita? Nelle vostre mani. Storia di Sofia........................................... 63
A Elena in coma............................................................................................... Poesie di Maria Rosaria Colicchio
Ad Elena in coma........................................................................................... La speranza................................................................................................... Coma............................................................................................................. Felicità........................................................................................................... 71
73
74
75
76
Stefano, dall’incidente a Bologna la sua
lotta per la speranza......................................................................................... 77
Stefano, Facebook e la vita di un ragazzo della sua età.................................. 81
“Io resto sempre Frizzantino con la capa 54” ................................................. 83
La storia di Raffaele: la parola allo zio............................................................ 86
Quel giorno................................................................................................. 87
Canto per Raffaele........................................................................................ 88
Amici........................................................................................................... 90
Sognando..................................................................................................... 91
La Via Crucis della famiglia Varone........................................................... 93