Idrogeologia - Museo di Storia Naturale

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Idrogeologia - Museo di Storia Naturale
UN PIANO PER LA PIANA: IDEE E PROGETTI PER UN PARCO
Atti del Convegno
IDROGEOLOGIA DELLA PIANA FIORENTINA
Giovanni PRANZINI
Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze
[email protected]
1. Inquadramento geologico e idrogeologico
La piana di Sesto-Campi-Signa fa parte della pianura alluvionale del Medio Valdarno, che è
l’evoluzione del bacino fluvio-lacustre originatosi nel Pliocene superiore a seguito dei movimenti
tettonici della fase distensiva dell’orogenesi dell’Appennino Settentrionale. La pianura alluvionale
si è formata nell’ultima fase geologica, che ha visto il prevalere della sedimentazione sulla
subsidenza, ma è anche il risultato dell’opera dell’uomo, che è intervenuto soprattutto per bonificare
le aree umide.
La storia sedimentaria del bacino è stata condizionata, oltre che dagli eventi tettonici e climatici,
dalla posizione degli immissari del bacino: in corrispondenza del loro sbocco troviamo i fan-delta
composti da sedimenti grossolani (ghiaie e ciottoli, più raramente sabbie). I principali immissari
erano l’Ombrone a Pistoia, il Bisenzio a Prato e il paleo-Ema a Firenze (Capecchi e al. 1976a;
Bartolini e Pranzini, 1981). E’ in loro corrispondenza che troviamo le falde idriche più importanti e
produttive.
Nelle aree più lontane da questi punti troviamo prevalentemente sedimenti fini, lacustri e palustri.
Tuttavia anche nel sottosuolo di queste aree possiamo trovare livelli acquiferi, con prevalenza delle
sabbie: questi corrispondono ai paleoalvei dei corsi d’acqua che hanno percorso il bacino nei
periodi in cui l’apporto sedimentario era prevalente rispetto alla subsidenza tettonica, e quindi i
fiumi e i torrenti avanzavano riducendo le aree ricoperte dalle acque lacustri.
Nell’attuale pianura compresa nei territori comunali di Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio e Signa,
un fan-delta di una certa importanza è quello formato dal Torrente Marina: lenti di ghiaie e ciottoli
si trovano in prevalenza in prossimità di Calenzano (Fig. 1), ma alcune si spingono anche fino a
Campi Bisenzio.
Fra Calenzano e Castello troviamo sedimenti meno permeabili, dato che i corsi d’acqua provenienti
dal Monte Morello, fra cui il principale è il Rimaggio, non hanno un bacino idrografico ampio.
La parte centrale e meridionale della Piana fiorentina è stata quasi sempre in condizioni lacustri e
palustri, quindi con sedimentazione fine, di limi ed argille.
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Fig. 1 – Sezione geologica Nord-Sud della Piana. 1: suolo agrario e terreno rimaneggiato. 2: ciottoli e ghiaia. 3: argilla e
limo. 4: detrito di versante. 5: rocce del substrato (Formazione di Monte Morello).
Nella prima fase sedimentaria del Bacino del Medio Valdarno, solo raramente, in corrispondenza
delle fasi climatiche più fredde e quindi con maggiore produzione di clasti, i corsi d’acqua
spingevano i loro sedimenti fino al centro del bacino. Da osservare che nell’area delle Officine
Galileo Galileo, presso il confine dei comuni di Calenzano e Campi, una perforazione è stata spinta
fino a 600 m di profondità senza raggiungere il substrato roccioso.
Nella Piana, l’Arno è un elemento relativamente recente, con riferimento ai tempi geologici: è nelle
ultimi fasi glaciali che il fiume ha prima scavato una valle poco profonda nei deposti lacustri e poi
ha deposto le sue ghiaie e sabbie. E’ il Sintema dell’Arno di Briganti e al., 2003. Nel XVI secolo
l’Arno aveva un andamento a meandri, come si vede nei disegni di Leonardo Da Vinci. Dopo la
rettificazione artificiale del corso dell’Arno, l’ultimo di questi meandri è ora percorso dal Bisenzio,
che lascia sulla sua sinistra la zona dei Renai, dove per anni sono state coltivate le sabbie e le ghiaie
deposte dall’Arno.
Un livello di ciottoli e ghiaia, sottostante alle alluvioni recenti dell’Arno e per lo più separato da
queste da un livello di argilla, si spinge più a Nord. Esso corrisponde all’Orizzonte Firenze 3 di
Capecchi e al. (1976b) e rappresenta il conoide del palo-Arno che sboccava nel lago presso le
Cascine, quando il sollevamento dell’area meridionale del bacino aveva portato i corsi d’acqua ad
erodere i sedimenti fluviolacustri di prima fase nella conca di Firenze.
Questo acquifero è quello sfruttato dai pozzi dell’Osmannoro, che forniscono acqua all’acquedotto
di Sesto Fiorentino.
Anche il percorso del Bisenzio è spostato ad Est rispetto a quello antico: infatti il Bisenzio era un
affluente dell’Ombrone, nel quale confluiva a NW dei Colli Alti (Bartolini e Pranzini, 1984). Lungo
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questo recente corso del Bisenzio è presente un acquifero in ghiaia e sabbia, di produttività
modesta.
La parte centrale della Piana è rimasta in condizioni lacustri o palustri fino ai tempi storici: lo stesso
toponimo di Padule è indicativo di questa condizione. E sarebbe ancora una palude se non ci fossero
state le opere di bonifica, iniziate forse dagli Etruschi, certamente condotte dai Romani ed infine dai
Lorena. Il reticolo delle acque basse e quello delle acque alte della bassa piana di Sesto è tuttora
gestito dal Consorzio di Bonifica della Piana. Quest’area è riconoscibile anche dalla topografia,
perché si presenta topograficamente depressa rispetto alle aree circostanti; ciò è conseguenza, oltre
che della situazione morfologica all’atto della sedimentazione, anche della maggiore compattazione
dei sedimenti argillosi rispetto a quelli macroclastici.
Conseguentemente, il sottosuolo della parte centrale della Piana è composto da argille palustri e
lacustri per varie decine di metri. Solo a profondità superiore troviamo qualche lente di sabbia, a
testimoniare l’avanzata degli antichi corsi d’acqua.
Fino ad oggi non è stata redatta una carta geologica della Piana con differenziazione litologica dei
terreni affioranti: nel Foglio 106 della Carta Geologica d’Italia, tutta la pianura è indicata con un
generico “depositi fluviali”, mentre nella Carta Geologica regionale sono cartografati solo i conoidi
alluvionali, come elementi geomorfologici.
Un’indicazione della litologia superficiale si può dedurre dalla Carta del Grado di Protezione degli
acquiferi del Valdarno Medio (Fig. 2). Il grado di protezione è calcolato sulla base del tempo di
arrivo al primo acquifero sotterraneo, ovvero il tempo necessario ad un inquinante idroveicolato a
raggiungere l’acquifero. Il calcolo è fatto in base alla permeabilità e allo spessore del terreno di
copertura dell’acquifero: passando dal rosso all’azzurro il tempo d’arrivo aumenta e quindi un
inquinante eventualmente disperso sulla superficie topografica ha probabilità via via minore di
raggiungere la falda e inquinarla. Siccome la permeabilità conta molto di più dello spessore, nel
calcolo di questo tempo, di fatto la Carta differenzia i terreni in base alla loro permeabilità: in
pratica, con una certa approssimazione, la Carta può essere vista come una carta litologica del
terreno, dove la granulometria media aumenta dall’arancione al rosso. Vediamo quindi che nella
fascia pedemontana dominano i colori rosso e arancio, che corrispondono alle ghiaie o sabbie dei
conoidi fluviali, mentre nel centro della piana il colore azzurro testimonia la presenza dei limi e
delle argille lacustri e palustri. La fascia con i colori rosso o arancio intorno all’Arno corrisponde ai
depositi alluvionali recenti del fiume, composti da ciottoli, ghiaie e sabbie.
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Fig. 2 – Carta del Grado di Protezione degli acquiferi del Medio Valdarno (da Gargini e Pranzini, 1995). Il grado di
protezione aumenta dal rosso all’azzurro.
2. Le falde idriche
La posizione e l’importanza delle falde idriche è in relazione con l’evoluzione sedimentaria del
bacino e quindi con la distribuzione dei sedimenti a diversa granulometria.
Presso il margine settentrionale della pianura c’è una falda libera nelle ghiaie dei conoidi fluviali,
più importante quella in corrispondenza del conoide del T. Marina. Questa è sfruttata soprattutto
dalle industrie di Calenzano, ma anche da qualche pozzo ad uso acquedottistico.
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Il livello freatico si trova spesso a pochi metri di profondità e la falda ha un flusso che segue la
pendenza regionale, quindi verso il centro della pianura (Fig. 3).
Fig. 3 – Carta piezometrica della piana di Sesto Fiorentino. 1: pozzi di misura del livello idrico. 2: isofreatiche, m s.l.m.
3: isopiezometriche, m s.l.m. 4: Direzioni di flusso dell’acqua; a, falda freatica, b, falda in pressione. 5: limite
comunale. 6: depositi alluvionali recenti. 7: depositi lacustri. 8: Formazione di Sillano (Cretaceo sup.). 9: Formazione di
M. Morello (Eocene). 10: Complesso caotico (Giurassico-Cretaceo).
In questa fascia pedemontana, alcuni pozzi sono stati spinti fino alle rocce del substrato, che sono
quelle della Formazione di Monte Morello costituita da calcari marnosi, marne, arenarie ed argilliti.
Si tratta di una formazione a permeabilità diversa nelle diverse zone, in relazione alla litologia
prevalente e alla densità di fratture, che possono essere allargate dalla corrosione carsica. Nella
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fascia suddetta, queste rocce sono in continuità con il rilievo di Monte Morello, dove le acque
meteoriche s’infiltrano ed alimentano la falda profonda. Alcuni pozzi perforati nell’area di Castello
producono anche 5-10 l/s.
Procedendo verso il centro della pianura, le ghiaie e le sabbie vengono progressivamente sostituite
da limi ed argille. Questa variazione di permeabilità fa risalire il livello freatico, tanto che nella
stagione umida l’acqua di falda affiora. Questo alto livello freatico non corrisponde più ad un
acquifero di qualche interesse, ma è solo il livello di saturazione nel suolo argilloso-limoso. Nella
Fig. 3 le isofreatiche sono state interrotte dove la falda superficiale diventa praticamente
improduttiva e sono state disegnate le isopieze degli acquiferi profondi, in pressione. Questa
superficie piezometrica indica un flusso centripeto verso l’Osmannoro, dove gli acquiferi profondi
sono sfruttati dalle industrie.
La Fig. 4 mostra la superficie piezometrica dell’intera Piana, ricostruita con i valori medi misurati
fra il 1986 e il 1997 (Pranzini, 2001). In questo caso le isopieze si riferiscono sia alla falda freatica,
dove presente, sia alle falde confinate, senza differenziare il tipo di falda.
Si nota bene l’alimentazione della falda freatica da parte del Bisenzio, che in quel tratto scorre
pensile sulla pianura.
Diversa è la situazione dell’Arno, che drena la falda delle proprie alluvioni. Questa è la
conseguenza dell’abbassamento dell’alveo per effetto delle estrazioni di inerti in alveo,
specialmente dall’ultimo dopoguerra fino ai primi anni ’70: in corrispondenza di Mantignano
l’alveo si è abbassato di 6 metri rispetto all’anteguerra.
Il ristretto cono di depressione che si osserva presso San Donnino è causato dal pozzo a raggiera di
Publiacqua, che produce circa 25 l/s e richiama acqua anche dall’Arno.
Dopo il 1997 non sono state più eseguite campagne piezometriche dell’intera Piana. La situazione
potrebbe essere cambiata a causa del cambiamento climatico in atto, che comporta minore ricarica
degli acquiferi, e dell’incremento dei pompaggi, specialmente quelli industriali. In effetti, nell’area
industriale di Calenzano si registra una subsidenza del terreno - evidenziata anche
dall’interferometria radar da satellite - a causa dell’estrazione d’acqua dalle falde, che produce una
compattazione dei sedimenti.
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Fig. 4 – Carta piezometrica media della Piana di Sesto F.no – Campi Bisenzio – Signa – Lastra a Signa - Scandicci (da
Pranzini, 2001)
Come detto al capitolo precedente, l’area dei Renai, nel comune di Signa, corrisponde ad un
paleoalveo dell’Arno: il nome deriva dal fatto che fin dal secolo XVIII vi si cavava la sabbia. Allora
la sabbia veniva scavata con la pala e caricata su barrocci trainati da ciuchi. Con l’avvento dei
mezzi meccanici, si è passati a metodi molto più produttivi. Con le ruspe veniva prima tolto il limo
argilloso di copertura, 1-2 m di spessore, che in parte era utilizzato per la produzione di laterizi. Poi
veniva scavata la sabbia, sempre con le ruspe, per uno spessore di un paio di metri, e poi la ghiaia
sottostante, fino al livello della falda, localizzata a 5-6 m dal piano campagna. In seguito fu trovato
anche il modo di estrarre tutta la ghiaia, fino alla profondità di 16-18 metri, dove si trova l’argilla
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lacustre. Il metodo consiste nell’appoggiare sul fondo di scavo delle potenti idrovore, capaci di
sollevare gli inerti immersi nell’acqua.
Con questo metodo furono creati i “laghetti” di Signa, che altro non sono che aree di affioramento
della falda freatica. Si è creata quindi una situazione di rischio d’inquinamento della falda stessa,
rischio di fatto materializzato perché nei laghetti venivano scaricati rifiuti solidi urbani e,
abusivamente, anche i liquami dei pozzi neri. Ciò nonostante, l’acqua contenuta nei laghetti permise
di superare la crisi idrica del 1985, quando la siccità aveva ridotto la portata dell’Arno ben al di
sotto delle necessità dell’acquedotto fiorentino. Il “tubone” costruito dalla Protezione Civile fra i
laghetti e Mantignano permise d’incrementare la produzione dell’acquedotto solo per un paio di
settimane, ma fu sufficiente per arrivare alle piogge autunnali che ridettero all’Arno la portata
necessaria.
Da almeno 15 anni si parla del Parco fluviale da costruire ai Renai: i lavori sarebbero fatti a spese
delle ditte che scavano gli inerti, in cambio della possibilità di estrarre altro materiale. Il progetto,
che prevede anche la costruzione di un bacino remiero, consentirebbe la rivalutazione e la fruizione
di quest’area, notevolmente degradata dal punto di vista ambientale.
3. La vulnerabilità e il rischio d’inquinamento degli acquiferi
Per quanto riguarda la vulnerabilità all’inquinamento degli acquiferi di sottosuolo, abbiamo già
visto la Carta del Grado di Protezione (Fig. 2). Questa mostra che il minore grado di protezione, e
quindi la maggiore vulnerabilità, riguarda la fascia alta della pianura, dove si trovano i depositi di
conoide alluvionale: qui l’acquifero freatico si trova a poca profondità ed il terreno di copertura è
piuttosto permeabile. A vulnerabilità alta è anche tutta la fascia dei depositi alluvionali recenti
dell’Arno: anche qui le ghiaie acquifere si trovano a scarsa profondità e sono poco protette dal limo
di esondazione, piuttosto sabbioso perché deposto a poca distanza dal fiume. Tutta la parte centrale
della Piana ha invece vulnerabilità bassa, perché il primo acquifero (costituito da lenti di ghiaia e
sabbia dei paleolavei) si trova protetto da un buon spessore di argilla e limo. E’ interessante
osservare che in questa condizione si trova la discarica di Case Passerini: è però probabile che
l’ubicazione sia stata scelta per altri motivi che non per l’ottimale ubicazione idrogeologica.
La Fig. 5 riporta una stralcio della Carta del rischio d’inquinamento degli acquiferi del Valdarno
Medio (Civita e al., 2003). In essa è valutato, per ogni elemento areale (n quadrato di 400 m di lato),
il rischio d’inquinamento del primo acquifero di sottosuolo, secondo la classica formula
Rischio = Vulnerabilità * Pericolo * Valore della risorsa
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Fig. 5 – Stralcio della Carta del rischio d’inquinamento degli acquiferi del Valdarno Medio (Civita e al., 2003). Il
rischio diminuisce dal rosso al violetto. I simboli non riportati in legenda sono i diversi centri di pericolo classificati in
base alla loro pericolosità.
Il grado di vulnerabilità è stato valutato con il metodo parametrico a punteggi e pesi SINTACS
(Civita, 1994; Civita e De Maio, 2003). Il pericolo è stato valutato tenendo conto dell’esposizione
dell’acquifero ai flussi di falda provenienti dai centri di pericolo, cioè le fonti potenziali
d’inquinamento (industrie, distributori di carburanti, pratiche agricole con uso di pesticidi,
diserbanti e concimi, ecc); questi centri sono stati classificati in relazione alla pericolosità delle
sostanze utilizzate e alla probabilità di una loro dispersione nell’ambiente. Infine, il valore della
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risorsa è stato calcolato considerando la qualità dell’acqua sotterranea e l’uso della stessa: l’uso
potabile è ovviamente valutato di più rispetto all’uso industriale e agricolo.
Osserviamo che la parte centrale della Piana è quella a rischio minore, sia per la minore
vulnerabilità intrinseca, sia per la scarsa presenza di centri di pericolo elevato, sia, infine, per lo
scarso valore dell’acqua di falda. Il rischio maggiore riguarda alcune aree della fascia pedemontana
(specialmente le aree industriali) e quella in destra d’Arno: in queste aree, l’elevata vulnerabilità si
combina con la presenza di molti centri di pericolo.
4. La qualità delle acque sotterranee
Fino ad oggi non sono stati eseguiti studi sistematici e completi sulla qualità delle acque sotterranee
della Piana fiorentina. L’ARPAT ha iniziato nel 2001 il monitoraggio qualitativo delle acque di
falda, in ottemperanza alla legge 152/1999, modificata dalla legge 152/2006. Ma i punti controllati
sono troppo pochi per fornire un quadro esauriente; infatti, la situazione rappresentata nella Fig. 6,
Fig. 6 – Qualità delle acque sotterranee della Piana (da Frullini e Pranzini, 2005).
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redatta da Frullini e Pranzini (2005) in base a detto monitoraggio (Regione Toscana, 2003) e
secondo la classificazione della legge sopra citata, sembra troppo ottimistica rispetto, ad esempio, a
quella che appare nella Fig. 7, che Frullini e al. (2004) hanno rappresentato in base ai dati analitici
storici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze.
Fig. 7 – Stralcio della Carta della qualità delle acque del bacino del Valdarno medio (da Frullini e al., 2004).
Consideriamo che la qualità dell’acqua dipende sia dalle caratteristiche chimiche naturali, cioè
legate alle rocce serbatoio e ai processi geochimici, sia all’inquinamento.
Per quanto riguarda il primo aspetto, in alcune zone della Piana le acque sotterranee presentano
concentrazioni elevate di ferro e manganese, legate all’ambiente riducente delle antiche paludi.
L’acqua emunta da alcuni pozzi di Publiacqua richiede per questo un trattamento di abbattimento di
questi metalli per rientrare nei limiti di potabilità.
Acque di pozzi profondi presentano in qualche caso elevate concentrazioni di cloruri, che sono
probabilmente dovuti alla risalita di acque profonde molto mineralizzate. Resta però inspiegata
l’alta concentrazione di cloruri in due pozzi profondi solo 40 m in prossimità di Campi Bisenzio; a
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meno che non sia una forma di contaminazione antropica (si è pensato al cloruro di sodio utilizzato
per ridurre la durezza dell’acqua).
Relativamente all’inquinamento, le tipologie più diffuse nella Piana sono quelle dei solventi
clorurati (trielina e simili) e dei composti azotati. Per quanto riguarda i primi, un accurato studio fu
eseguito da Garuglieri e al. (1990) nell’area di Firenze Ovest (Fig. 8): furono trovate concentrazioni
anche molto alte, che furono messe in relazione soprattutto con le lavanderie e le officine
meccaniche; ma anche con lo smaltimento doloso (leggi immissione nei pozzi) dei solventi usati.
Fig. 8 – Inquinamento da solventi clorurati dell’area ovest di Firenze (da Garuglieri e al., 1990)
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Questo inquinamento interessa anche una parte dei pozzi Publiacqua dell’Osmannoro: qui l’acqua
viene potabilizzata mediante lo strippaggio, cioè l’immissione di aria nell’acqua per liberare la
trielina nell’atmosfera. Negli ultimi anni le concentrazione è andata diminuendo, il che sembra
indicare che le sorgenti inquinanti non sono più presenti; ma il recupero della qualità originaria
dell’acqua di falda richiede tempi molto lunghi, dato il tempo necessario al ricambio delle acque
sotterranee.
Per quanto riguarda i composti a azotati (nitriti e nitrati), questi provengono sia dai concimi sia
dalle perdite delle fogne e dalle opere di smaltimento delle acque nere non allacciate ai sistemi
fognari.
5. Conclusioni
Gli studi eseguiti a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso forniscono un quadro abbastanza
esauriente dell’idrogeologia della Piana fiorentina. In particolare, la distribuzione degli acquiferi e
l’importanza delle falde è diversa nelle diverse zone, in conseguenza dell’evoluzione sedimentaria
del bacino fluvio-lacustre del Valdarno Medio.
La parte centrale della Piana si differenzia per la prevalenza di sedimenti fini, limi ed argille, nella
successione stratigrafica; gli acquiferi sono qui profondi e più protetti dall’inquinamento, ma le
acque sono piuttosto mineralizzate.
La fascia pedemontana e quella intorno all’Arno hanno acquiferi migliori, ma più esposti al rischio
d’inquinamento, per la maggiore vulnerabilità e per la concentrazione di centri di pericolo.
Le acque sotterranee sono sfruttate soprattutto nelle aree industriali di Sesto-Calenzano e
dell’Osmannoro. In sottordine l’uso agricolo, perché le aree irrigue sono poche. Infine, pochi sono i
pozzi degli acquedotti pubblici, sia per la produttività non elevata sia per la qualità scadente
dell’acqua.
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9-10 maggio 2008 – Polo Scientifico e Tecnologico di Sesto Fiorentino, Università di Firenze
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