I contadini a scuola. La scuola rurale in Italia dall`età

Transcript

I contadini a scuola. La scuola rurale in Italia dall`età
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
Theory, technology and history of education
CICLO XXV
I contadini a scuola.
La scuola rurale in Italia dall’età giolittiana
alla caduta del fascismo
TUTOR
Chiar.ma Prof.ssa Anna Ascenzi
DOTTORANDO
Dott. Luca Montecchi
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Roberto Sani
ANNO 2012-2013
2
Indice
Introduzione
5
Ringraziamenti
10
Elenco dei fondi e delle abbreviazioni
11
Parte prima
Scuola e campagne nell’Italia tra Otto e Novecento
Capitolo primo
Le origini della scuola rurale (1859-1898)
1. I primi provvedimenti previsti dalla Legge Casati
2. «La redenzione delle plebi agricole». L’azione svolta dalle associazioni
private per l’istruzione popolare e rurale nell’Italia post-unitaria
3. Tra avocazione allo Stato e rinnovamento della didattica:
la scuola rurale nell’età del positivismo
14
17
21
Capitolo secondo
«Educhiamo il popolo!»: il dibattito politico e pedagogico sulla scuola rurale dalla
crisi di fine secolo all’età giolittiana (1898-1921)
1. «Torniamo ai campi!»: il ministro Baccelli e il rilancio
dell’istruzione popolare e agraria
2. I filantropi entrano in azione: la stagione del riformismo liberale
3. Lo Stato e le riforme dell’istruzione rurale in età giolittiana
4. Il dibattito sulla scuola rurale nel primo dopoguerra
5. Una scuola per i contadini: le vicende dell’Ente contro
l’analfabetismo degli adulti
6. Il ministro Corbino e l’Opera contro l’analfabetismo
25
34
35
38
46
51
Capitolo terzo
La scuola rurale in camicia nera.
L’istruzione nelle campagne durante il fascismo (1922-1943)
1. Gentile e il Comitato contro l’analfabetismo
2. Il fascismo all’assalto della scuola rurale: da Fedele a Ercole
3. «Libro, moschetto e vanga»: la scuola rurale passa all’Opera Balilla
4. La scuola rurale nello Stato corporativo: l’istruzione nelle
campagne durante il ministero Bottai
60
65
81
97
3
Parte seconda
«Dalle stalle alle stelle»: come la scuola rurale diventa un mito pedagogico
Capitolo primo
Tra realtà e mito: una premessa
1. Lombardo Radice e la riscoperta della scuola rurale
105
Capitolo secondo
Alla ricerca della «scuola serena»: Giuseppe Lombardo Radice e la cultura
pedagogica italiana del primo novecento di fronte al mito della scuola della
Montesca
1. Premessa
2. L’incontro di Lombardo Radice con la Montesca
3. La Montesca ed i programmi del 1923
4. Polemiche e plausi al modello educativo della Montesca
5. Marcucci, Bettini, Predome, Padellaro: favorevoli e contrari
al «Calendario della Montesca»
108
110
119
120
126
Capitolo terzo
Il «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali»: Felice Socciarelli e la scuola di
Mezzaselva
1. Premessa
2. L’incontro con Lombardo Radice e la scoperta
dell’idealismo pedagogico
3. Socciarelli negli anni Venti: un maestro ammirato e osteggiato
4. Il tentativo di creare un’apposita didattica per le scuole rurali
5. L’apertura al realismo pedagogico degli anni Trenta
6. «Ritornare a Lombardo Radice». L’auspicio di Socciarelli
per rifondare la scuola dell’Italia democratica
7. Conclusioni
133
134
139
148
152
155
157
Capitolo quarto
«Un’esperienza di istruzione rurale integrale»: David Levi Morenos e le Colonie
dei Giovani Lavoratori
1. La Grande Guerra, i bambini profughi, gli orfani e le
colonie agricole: aspetti per una storia dell’educazione
2. David Levi Morenos: naturalista ed educatore
3. Le scuole per gli orfani dei marinai della laguna veneziana
4. I profughi, gli orfani e la guerra: nascono le tre Colonie
5. «La scuola integrale unitaria»
6. L’interesse pedagogico suscitato dalle Colonie
Capitolo quinto
159
112
161
163
165
170
174
4
Una scuola tra mito e realtà: spontaneismo, metodo didattico e propaganda
pedagogica a San Gersolè
1. Premessa
2. Alle origini di San Gersolè
3. Il mito della spontaneità: plausi e polemiche
4. San Gersolè: la costruzione del mito pedagogico
5. Una maestra «scomoda»: il fascismo e Maria Maltoni
Conclusioni
178
179
187
191
201
210
5
Introduzione
Era il 1952 quando Roberto Mazzetti pubblicava il «Manifesto per la scuola rurale», un
programma di intervento con cui il pedagogista bolognese avrebbe voluto apportare i necessari
miglioramenti alla scuola elementare allora diffusa nelle campagne italiane1. Al di là del contenuto
di tale manifesto e delle singole proposte in esso contenute, quel documento non può che balzare
all’attenzione degli storici a dimostrazione di quanto, nell’Italia che prendeva la via della
modernizzazione e dell’industrializzazione e in cui a maggior ragione la «scuola rurale» nemmeno
esisteva più a livello giuridico da qualche anno, fosse tutt’altro che archiviato il problema di come
fornire un’adeguata istruzione elementare ai bambini delle famiglie che vivevano in piccoli o
talvolta piccolissimi centri abitati, lontani dalle città e dai servizi che queste offrivano, in uno stato
di subalternità assai rilevante. Se dunque nel 1952 la dizione di «scuola rurale» poteva suonare
obsoleta e richiamare il passato, di certo era attuale la questione di come rispondere agli
accresciuti bisogni educativi delle popolazioni di campagna in un’Italia che viaggiava a due marce,
attraversata da profonde differenze che separavano il mondo rurale da quello urbano,
riproducendo a sua volta all’interno di essi ulteriori contraddizioni di ordine sociale.
Certo, alcuni miglioramenti si erano registrati rispetto ad un decennio prima: scuole
elementari erano state aperte anche nelle frazioni e nelle borgate di campagna, di collina e di
montagna; il corso elementare aveva visto diffondersi pressoché ovunque la quinta classe, che
fino ad un decennio prima era un privilegio per pochi. Tuttavia la portata del cambiamento era
stata assai limitata e non tale da giustificare un vero ottimismo. Rimaneva aperto innanzitutto
quello che era stato da sempre il problema intrinseco alle scuole rurali, vale a dire quello di riunire
bambini di diverse classi in un’unica aula e con un unico insegnante, pregiudicando in tal modo la
qualità della didattica. Al problema delle «pluriclassi», come da allora cominciarono ad essere
chiamate, si aggiungeva un altro di natura sociale e politica che si trascinava dal passato. Si
trattava del cosiddetto «pregiudizio anticontadino» che, come ha raccontato nelle sue memorie
Raffaele Rossi, maestro comunista nelle scuole della campagna perugina e dell’Appennino umbro
negli anni dell’immediato dopoguerra, era così diffuso tra i maestri ed i direttori didattici da far
apparire loro quel mondo come un’alterità da guardare con distacco, diffidenza e talvolta ostilità:
un sentimento che si manifestava in vario modo e che spesso era causa del facile ricorso alle
bocciature dei ragazzini «difficili», il più delle volte figli di braccianti e contadini costretti a
lavorare dopo le ore di scuola o con gravi problemi di natura familiare; o che creava situazioni
discriminatorie come quella vissuta nel 1947 da Rossi nella scuola pluriclasse di Ramazzano, un
borgo nella campagna di Perugia, frequentata da figli di mezzadri, di qualche bracciante e di
alcuni medi possidenti, quando si accorse che situato vicino alla cattedra c’era un piccolo banco a
un solo posto che era riservato alla figlia della contessa del paese, proprietaria di molti poderi e di
un tabacchificio2. Erano questi i sintomi di un clima sociale difficile dovuto all’asprezza nei
rapporti tra proprietari e mezzadri che caratterizzò l’immediato dopoguerra, in continuità con il
passato che troppo semplicisticamente si pensava sepolto con la caduta del fascismo e che invece
1
R. Mazzetti, Manifesto per la scuola rurale: guida per far meglio, Firenze, Marzocco, 1952.
R. Rossi, Volevamo scalare il cielo. Il Novecento dai luoghi della memoria, Perugia, Era Nuova, 1999, pp.
105-106.
2
6
era più presente che mai a dimostrazione di «come nella scuola fosse forte la resistenza al
rinnovamento democratico»3.
Tali considerazioni hanno costituito una sorta di filo conduttore lungo il quale è stata
imbastita la ricerca che in queste pagine viene presentata al lettore. Ricostruire la storia delle
scuole rurali nell’Italia tra Otto e Novecento, infatti, non significa solo contribuire allo studio di
un segmento della storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, ma anche leggere le
trasformazioni di ordine sociale, politico ed economico che hanno investito le campagne italiane
negli ultimi cento anni attraverso un osservatorio particolare e fortunato quale è stata la scuola
rurale. Una sorta di «Cenerentola» dell’istruzione elementare, per usare il linguaggio delle riviste
magistrali del tempo che più volte si fecero interpreti di battaglie in favore del miglioramento
delle condizioni in cui si trovavano le scuole di campagna, le più dimenticate dallo Stato e dai
Comuni, le meno ricercate dai maestri per i bassi stipendi e per la solitudine dei luoghi in cui
sorgevano. Destinatarie di poche attenzioni quando erano in vita, esse lo sono state di meno
quando hanno cessato la loro funzione da parte della storiografia che ha preferito concentrare
maggiormente il suo sguardo, a partire dagli anni Cinquanta, sul tema della «istruzione popolare»,
categoria omnicomprensiva sotto la quale è confluita indistintamente la scuola per i ceti popolari
della campagna e della città. Emblematico da questo punto di vista è stato il libro di Dina Bertoni
Jovine apparso nel 1953 con il titolo Storia della scuola popolare in Italia che, oltre a costituire un
punto di riferimento per gli studi di storia dell’educazione dei decenni successivi, ha decretato le
fortune della categoria storiografica dell’istruzione popolare, categoria destinata ad essere ripresa
da un numero considerevole di altri studiosi ma di cui spesso non ne è stata sottolineata in modo
opportuno la complessità implicita4.
3
Ivi, p. 104.
D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1953. Si citano, a titolo di
esempio, i seguenti lavori: G. Cives, Cento anni di vita scolastica in Italia: ispezioni e inchieste da Gino
Capponi a Giuseppe Lombardo-Radice, Roma, Armando, 1960; Id., Cento anni di vita scolastica in Italia:
ispezioni e inchieste dall’idealismo a oggi negli scritti di G. Lombardo Radice, G. Isnardi, G. Giovanazzi, F.
Bettini, A. Marcucci, L. Volpicelli, L. Borghi, A. Visalberghi, Roma, Armando, 1967; R. Fantini,
L’istruzione popolare a Bologna fino al 1860, Bologna, Zanichelli, 1971; T. Tomasi, Scuola e società nel
socialismo riformista (1891-1926): Battaglie per l’istruzione popolare e dibattito sulla “questione femminile”,
Firenze, Sansoni, 1982; A. Semeraro, L’istruzione popolare in Terra d’Otranto nelle relazioni degli ispettori
centrali e periferici e degli amministratori locali, Galatina, Congedo, 1983; E. Catarsi, L’educazione del
popolo: momenti e figure dell'istruzione popolare nell’Italia liberale, Bergamo, Juvenilia, 1985; S. Pivato,
Movimento operaio e istruzione popolare nella Romagna d'inizio novecento, Rimini, Maggioli, 1985; S.
Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nell'Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1986; E. De
Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; M. Cattaneo, L.
Pazzaglia (a cura di), Maestri, istruzione popolare e società in «Scuola Italiana Moderna» (1893-1993),
Brescia, La Scuola, 1997; M.C. Morandini, Scuola e nazione: maestri e istruzione popolare nella costruzione
dello Stato unitario (1848-1861), Milano, V&P, 2003; P. Causarano, Combinare l'istruzione
coll’educazione: municipio, istituzioni civile ed educazione popolare a Firenze dopo l’Unità (1859-1878),
Milano, Unicopli, 2005; F. Pruneri, Oltre l'alfabeto: l’istruzione popolare dall’unità d’Italia all’età
giolittiana: il caso di Brescia, Milano, V&P, 2006; G. Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte:
aristocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ‘800, Torino, SEI, 2007; G.
Inzerillo, V. Bonazza, La scuola con le grucce. L’istruzione elementare nel Basso ferrarese in età liberale,
Roma, Carocci, 2007.
Per un bilancio storiografico sul tema dell’istruzione popolare si rinvia alla sintesi di R. Sani,
Scuola e istruzione elementare in Italia dall’Unità al primo dopoguerra: itinerari storiografici e di ricerca, in R.
4
7
Se si prescinde dallo studio di Giacomo Cives sull’Ente nazionale di cultura apparso nel
lontano 19675, solo nell’ultimo decennio si è assistito al fiorire di un inedito interesse verso il
tema dell’istruzione rurale che ha prodotto ricerche su taluni personaggi o singole esperienze
aventi per oggetto l’educazione dei giovani contadini. Si può, ad esempio, citare la monografia di
Giovanna Alatri dedicata alla figura di Alessandro Marcucci, animatore delle scuole rurali
dell’Agro romano insieme ad altri intellettuali come Sibilla Aleramo e Giovanni Cena: un lavoro
che ha attinto ad una ricca documentazione archivistica che ha offerto interessanti spunti in
relazione alla comprensione del fenomeno dell’istruzione rurale durante il regime fascista6. Nella
stessa direzione si è mossa anche la ricerca di Maria Maddalena Rossi dedicata all’opera del
Gruppo d’azione per le scuole del popolo, l’associazione milanese sorta per fornire assistenza
morale e materiale agli insegnanti della scuole più disagiate e successivamente delegata dallo Stato
a gestire le scuole rurali uniche della Lombardia; anche in questa circostanza, l’autrice ha potuto
ricostruire l’operato del sodalizio ricorrendo a fonti archivistiche inedite, che hanno permesso di
comprendere meglio alcuni passaggi della storia della scuola rurale in Italia, soprattutto in
riferimento al periodo fascista7. Recentemente la storia di un’altra associazione benemerita
dell’istruzione popolare in generale e di quella rurale in particolare, l’Associazione Nazionale per
gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, è stata ripercorsa da Brunella Serpe e da Francesco Mattei
in distinti lavori che ne hanno ripercorso le vicende storiche e studiato l’aspetto didattico8. Si
segnala, infine, un altro lavoro che ha fatto luce su un fenomeno che presentava dei punti comuni
con quello trattato in questo studio, ma non sempre coincidenti: si tratta della ricerca di Elisa
Gori sulle scuole a sgravio, vale a dire su quelle scuole che tramite la sottoscrizione di una
convenzione venivano affidate ad enti o corporazioni dai Comuni prima e dallo Stato poi,
facendo in modo che questi ultimi fossero sgravati dall’onere di provvedere all’obbligo
scolastico9. Istituto giuridico previsto dalla metà dell’Ottocento, lo sgravio non va confuso con la
delega alle associazioni culturali che dal 1921 gestirono nelle campagne italiane le scuole rurali per
conto dello Stato. Le scuole a sgravio, infatti, costituirono una forma residuale di insegnamento
elementare (il loro numero non superò le poche centinaia10), diffuso in prevalenza nelle città e
non nelle campagne e animato in modo particolare da personale insegnante religioso.
Riconosciute dallo Stato secondo tale denominazione fino al 1935, le scuole a sgravio variarono
da allora il nome in «scuole parificate».
Sani, A. Tedde (a cura di), Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento: interpretazioni,
prospettive di ricerca, esperienze in Sardegna, Milano, V&P, 2003 , pp. 3-17.
5
G. Cives, L’attività dell’Ente di Cultura, in Ernesto Codignola in 50 anni di battaglie educative, Firenze,
La Nuova Italia, 1967.
6
G. Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli,
2006.
7
M.M. Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano (1914-1941), Brescia, La Scuola,
2004.
8
B. Serpe, La Calabria e l’opera dell’Animi. Per una storia dell’educazione nel Mezzogiorno, Cosenza, Jonia
editrice, 2004; F. Mattei, Animi: il contributo dell’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno
d’Italia alla storia dell’educazione (1910-45), Roma, Anicia, 2012.
9
E. Gori, L’istruzione in appalto. La scuola elementare a sgravio dall’Unità al fascismo, Milano, Franco
Angeli, 2007.
10
Nel 1929-30 le scuole a sgravio presenti in Italia erano 812, di cui 89 maschili, 550 femminili e
173 miste. Il dato è tratto da G. Chiaromonte, Le scuole a sgravio e i dati statistici del 1929-30, «Annali
dell’istruzione elementare», n. 2, marzo-aprile 1932, p. 24.
8
Pur tuttavia, se si prescinde da tali ricerche concentrate su singoli aspetti del problema,
molte questioni sono rimaste inevase dalla storiografia dell’educazione. Ci riferiamo alla
ricostruzione del dibattito su quale tipo di istruzione conferire ai giovani contadini e, dunque,
sull’idea di scuola rurale, la cui definizione è soggetta a mutare nel passaggio dall’Unità all’età
liberale fino al fascismo. Strettamente legato a ciò si pone il problema della formazione del
maestro rurale, che a periodi intermittenti è visto come una figura non assimilabile al maestro di
città e per questo bisognoso di essere adeguatamente preparato con strumenti appositi come i
numerosi corsi per l’istruzione agraria tenuti ai maestri elementari a partire dalla fine
dell’Ottocento o addirittura con scuole speciali, come viene ipotizzato nei primi decenni del
Novecento. Altri aspetti che meritano di essere meglio indagati sono l’attività svolta dagli enti
culturali che nei primi anni Venti vennero delegati dallo Stato a gestire le scuole rurali e l’opera
svolta da taluni proprietari terrieri e filantropi che autonomamente fondarono scuole nei primi
anni del Novecento soccombendo alle gravi lacune dello Stato e talvolta creando delle esperienze
modello destinate ad imporsi all’attenzione del mondo scientifico ed accademico per le
innovazioni di tipo pedagogiche apportate.
Ma ciò che è mancato, in particolare, è uno studio complessivo ed organico del tema
dell’istruzione rurale, che ne seguisse lo sviluppo nel lungo periodo e in tutto il territorio
nazionale e che tenesse in debita considerazione l’influenza esercitata su di esso dal clima politico,
economico, culturale e pedagogico. A questa lacuna si è cercato di dare una risposta con il
presente studio, per la cui realizzazione si è tenuto in debito conto la bibliografia prodotta negli
ultimi anni e una mole considerevole di documenti conservati in svariati archivi pubblici e privati,
di persone e di istituzioni culturali.
La seconda parte della ricerca è dedicata, invece, all’illustrazione di quattro esperienze di
istruzione rurale che, in virtù degli originali metodi didattici seguiti, si distinsero nel quadro della
pedagogia italiana della prima metà del secolo, tanto da assumere i contorni di vere e proprie
scuole modello o di “miti pedagogici”. In particolare dopo un capitolo introduttivo, singoli
capitoli sono dedicati alla scuola della Montesca fondata dai baroni Franchetti, alle Colonie dei
Giovani Lavoratori create da David Levi Morenos, alla scuola di Mezzaselva del maestro Felice
Socciarelli e alla scuola di San Gersolè della maestra Maria Maltoni: tutte scuole rurali che
riuscirono ad attirare l’attenzione di importanti pedagogisti italiani e stranieri facendo parlare di sé
per i metodi attivistici che vi si insegnavano e che lo scrivente ha già avuto modo in parte di
studiare e descrivere11.
Nel concludere queste brevi considerazioni ci appare opportuno precisare bene l’oggetto
di questa ricerca, definendo con chiarezza cosa si deve intendere per istruzione rurale, al fine di
non confonderla, come talvolta si fa, con l’istruzione agraria. Allo scopo di chiarire questo punto
e di sciogliere l’equivoco, è opportuno precisare che l’istruzione agraria è l’insieme di saperi e di
istituzioni culturali aventi per oggetto la formazione dal punto di vista professionale dei contadini,
11
Tre capitoli della parte seconda di questo lavoro sono stati già pubblicati a cura di chi scrive
nella rivista «History of Education & Children’s Literature» e vengono qui riproposti senza
particolari modifiche: Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica
italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca, «History of Education &
Children’s Literature», IV, 2 (2009), pp. 307-337; Una scuola tra mito e realtà. Spontaneismo, metodo
didattico e propaganda pedagogica nella scuola di San Gersolè, «History of Education & Children’s
Literature», VI, 1 (2011), pp. 343-381; «Un’esperienza di istruzione rurale integrale». David Levi Morenos
e le Colonie dei Giovani Lavoratori, «History of Education & Children’s Literature», VI, 2 (2011), pp.
115-139.
9
dei tecnici e dei proprietari terrieri ai quali fornire un corredo di nozioni teoriche e pratiche con lo
scopo di «sostenere lo sviluppo dell’agricoltura come parte del più ampio processo di
trasformazione economica del Paese»12.
L’istruzione rurale, invece, è una forma di istruzione primaria e rientra, dunque, a pieno
diritto nel campo della scuola elementare; in linea generale essa è finalizzata, cioè,
all’alfabetizzazione e alla prima socializzazione dei figli delle popolazioni rurali. Il modo e la
misura in cui si dovesse conseguire questo obiettivo è stato poi oggetto di varie interpretazioni, in
funzione della stagione politica e culturale.
Si può, infine, aggiungere che l’istruzione agraria si è storicamente articolata in numerose
forme ed è stata indirizzata a destinatari di diverso livello culturale e di differente età: le scuole
tecniche agrarie, ad esempio, rientravano nel cosiddetto insegnamento medio ed i suoi studenti
provenivano in gran parte dalle famiglie della piccola borghesia; gli istituti superiori di agraria e le
facoltà di Agraria facevano parte dell’insegnamento superiore e universitario ed avevano come
frequentanti giovani delle famiglie dell’alta borghesia e raramente della nobiltà. Bisogna altresì
rilevare che rientrano a pieno titolo nel campo dell’istruzione agraria altre forme di insegnamento
che nulla avevano a che fare con la scuola intesa nel senso classico del termine: ci riferiamo, ad
esempio, alle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, sorte nella seconda metà dell’Ottocento per
iniziativa di privati e di enti locali, che organizzavano lezioni per i coloni nelle proprie sedi o corsi
itineranti nei comuni rurali, rivolti a giovani e adulti; ai corsi di agraria organizzati dai Consorzi
provinciali per l’istruzione tecnica, organismi istituti con legge nel 1929, allo scopo di promuovere
lo sviluppo ed il perfezionamento dell’istruzione tecnica; agli Ispettorati provinciali
dell’agricoltura, istituiti con legge nel 1935 in sostituzione delle Cattedre ambulanti al fine di
provvedere all’istruzione tecnica, all’assistenza agli agricoltori, alla sperimentazione di nuove
tecniche di produzione agricola e, più in generale, a tutte quelle iniziative atte a promuovere e ad
incoraggiare il progresso della zootecnia e delle industrie agrarie.
Fatta questa debita premessa e sottolineate le differenze tra i due tipi di insegnamenti, si
deve riconoscere come nell’arco dell’ultimo ventennio l’istruzione agraria sia stata oggetto di una
seria rivalutazione da parte degli storici, in particolare degli storici dell’economia e dell’agricoltura,
che ne hanno ricostruito le istituzioni, le forme di insegnamento e le figure di coloro che si
adoperarono per la sua promozione. Testimonianza di ciò è stata la pubblicazione di una serie di
pregevoli lavori nei quali i loro autori hanno cercato di individuare le relazioni tra la diffusione del
sapere agronomico ed i processi di sviluppo economico. Altrettanta attenzione al mondo delle
campagne non è stato invece riservato dagli storici dell’educazione ed è per tale ragione che il
presente studio ha l’ambizione di colmare il divario rispetto a quanto fatto dagli storici
dell’economia, affrontando in modo organico e complessivo il tema dell’istruzione rurale
nell’Italia tra Otto e Novecento, con una particolare curvatura sul periodo compreso tra l’età
giolittiana e quella fascista.
12
R. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura: istruzione, cultura, economia nell’Italia dell’Ottocento, Milano,
Franco Angeli, 2008, p. 9.
10
Ringraziamenti
Al termine del Dottorato di Ricerca in «Theory, technology and history of Education», svolto
nel triennio 2010-2012 presso l’Università degli Studi di Macerata, desidero ringraziare quanti mi
hanno accompagnato nel mio percorso di studi, fornendo consigli e indicazioni che si sono
rivelati preziosi. Un sincero ringraziamento va, in primo luogo, ai professori Roberto Sani e Anna
Ascenzi che mi hanno seguito aiutandomi, con i loro suggerimenti, a definire l’impostazione di
fondo del lavoro. Ho un particolare debito di riconoscenza nei confronti del professor Juri Meda,
infaticabile dispensatore di consigli, il cui confronto ed i cui stimoli mi hanno accompagnato in
questo percorso di crescita professionale ed umana. Ringrazio anche gli altri ricercatori di Storia
dell’Educazione dell’Ateneo maceratese – Marta Brunelli, Dorena Caroli ed Elisabetta Patrizi –
per il clima positivo e costruttivo che ho trovato lavorando al loro fianco.
Sono inoltre grato al personale di Biblioteche ed Archivi, pubblici e privati, presso i quali ho
svolto i miei studi. In particolare ringrazio la dott.ssa Barbara Salotti, responsabile dell’Archivio
della Scuola di San Gersolè e dell’Archivio di Maria Maltoni, conservati presso la Biblioteca
Comunale di Impruneta (Firenze); il dott. Mirco Bianchi, collaboratore dell’Istituto Storico della
Resistenza in Toscana (Firenze); il dott. Paolo Straffi, responsabile della Biblioteca della
Fondazione «Romolo Murri» di Gualdo (Macerata); la dott.ssa Claudia Pierangeli e la dott.ssa
Lara Rotili, rispettivamente responsabile e bibliotecaria della Biblioteca della Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università degli Studi di Macerata; la dott.ssa Diana Rueesch conservatrice
dell’Archivio Prezzolini conservato presso la Biblioteca Cantonale di Lugano; la dott. Francesca
Gagliardo per l’archivio «Giuseppe Lombardo Radice» conservato presso il Museo Storico della
Didattica dell’Università degli Studi di Roma Tre; la dott.ssa Pamela Giorgi per l’archivio
«Giuseppe Lombardo Radice» conservato presso l’Archivio Storico dell’Agenzia Nazionale per lo
Sviluppo dell’Autonomia Scolastica-ex Indire di Firenze; la dott.ssa Cecilia Castellani,
responsabile del fondo archivistico della Fondazione «Giovanni Gentile per gli studi filosofici»; il
dott. Carlo Urbani responsabile dei fondi archivistici dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti di Venezia; il personale delle Biblioteca «Giustino Fortunato» di Roma; il personale della
Biblioteca del Senato della Repubblica «Giovanni Spadolini»; il personale della Biblioteca della
Camera dei Deputati; il personale della Biblioteca Comunale «Augusta» di Perugia; il personale
dell’Archivio unico di deposito della Regione dell’Umbria di Solomeo di Corciano (Perugia); il
signor Gianfelice Gabrielli di Roma per aver messo a disposizione le carte del nonno, Felice
Socciarelli.
Dedico, infine, questo lavoro alla mia famiglia e a Valentina che nel corso di questi anni non
mi hanno fatto mai mancare il loro affetto e il loro sostegno.
11
Elenco dei fondi e delle abbreviazioni
AANIMI
Archivio «Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia» (Roma)
AMM
Archivio «Maria Maltoni»
ACS
Archivio Centrale dello Stato (Roma)
AEC
Archivio «Ernesto Codignola» (Firenze)
AFG
Archivio Fondazione «Giovanni Gentile» (Roma)
AFS
Archivio «Felice Socciarelli» (Roma)
AGLRF
Archivio «Giuseppe Lombardo Radice» di Firenze (presso l’Archivio Storico
dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica-ex Indire)
AGLRR
Archivio «Giuseppe Lombardo Radice» di Roma (presso il «Museo Storico della
Didattica» dell’Università degli Studi di Roma Tre)
AIJJR
Archivio dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau (presso l’Università di Ginevra)
AOPRMFF Archivio «Opera Pia Regina Margherita - Fondazione Franchetti»
ARU
Archivio unico di deposito della Regione Umbria (Solomeo di Corciano)
ASCL
Archivio Storico del Comune di Lari
ASF
Archivio di Stato di Firenze
ASU
Archivio «Società Umanitaria» (Milano)
ASUB
Archivio Storico dell’Università di Bologna (Bologna)
BCI
Biblioteca Comunale di Impruneta
DBI
Dizionario Biografico degli Italiani
FIAG
Fondazione Istituto «Antonio Gramsci» (Roma)
ISRT
Istituto Storico della Resistenza in Toscana (Firenze)
IVSLA
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia)
SPD
Segreteria particolare del Duce
b.
busta
c.
carta
fasc.
fascicolo
n.
numero
p.
pagina
sez.
sezione
s.l.
senza luogo
s.n.
senza nome
s.fasc.
sotto fascicolo
12
vol.
volume
D.L.
Decreto Legge
D.M.
Decreto Ministeriale
13
Parte prima
Scuola e campagne nell’Italia tra Otto e Novecento
14
Capitolo primo
Le origini della scuola rurale (1861-1898)
1. I primi provvedimenti previsti dalla Legge Casati (1859)
Alla vigilia dell’Unità d’Italia la dizione di «scuola rurale» era una entità pressoché sconosciuta
ai più e rara a trovarsi perfino nel vocabolario di coloro che si occupavano di questioni
scolastiche e pedagogiche. Lo spoglio della pubblicistica del tempo segnala, ad esempio, un raro
caso in cui questa espressione viene utilizzata, per di più in riferimento a realtà educative sorte in
altre zone dell’Europa: nel 1836, infatti, la «Guida dell’educatore», la rivista diretta da Raffaello
Lambruschini, descrivendo le scuole modello di Hofwyl, presso Berna, si soffermava sulla «scuola
rurale» per «poveri fanciulli», descrivendone brevemente le caratteristiche13.
D’altro canto, essendo relegati nel livello più basso della scala sociale, i contadini ed i
mezzadri che popolavano le campagne italiane, non destavano certo le preoccupazioni educative
nei ceti dirigenti degli Stati pre-unitari in cui era allora divisa la penisola. Scuola e contadini erano
due universi lontanissimi. Qualche scuola tutt’al più poteva essere aperta in taluni paese a
vocazione agricola se il Comune era sufficientemente benestante da disporre delle risorse
economiche per pagare il maestro, il più delle volte il prete giacché l’assegno messo a disposizione
era così basso che non avrebbe garantito la sussistenza di nessuno altro, al di fuori di un religioso,
ma quasi sempre a frequentarla non erano i figli dei contadini, ma i figli di quelle famiglie che
formavano la piccola borghesia rurale (piccoli proprietari terrieri, farmacisti, medici, artigiani).
Indicativo da questo punto di vista fu il Rapporto della Commissione permanente incaricata di
compilare una statistica della pubblica istruzione degli Stati italiani, letto da Pasquale Stanislao Mancini,
futuro ministro della pubblica istruzione nel primo governo Rattazzi, in occasione dell’ottavo
Congresso scientifico d’Italia, celebrato a Genova nel 1846. Se da un lato questo documento era
l’espressione della presa di coscienza da parte del ceto dirigente e intellettuale italiano
dell’ineludibilità del problema dell’istruzione popolare, questione di primaria importanza ai fini
del progresso dei singoli Stati ma visto anche in chiava unitaria in funzione del progetto
risorgimentale, dall’altro lato esso non faceva nessun cenno al tema dell’istruzione dei contadini,
né alla scuola rurale14. L’attenzione era, infatti, rivolta alle scuole di metodo, alle scuole tecniche,
alle scuole femminili, al mutuo insegnamento, al rapporto tra scuole pubbliche e scuole private.
Bisognerà attendere la Legge Casati, vale a dire il D.L. 13 novembre 1859, n. 3725, per
vedere la dizione «scuola rurale» fissarsi nel linguaggio giuridico, oltreché in quello scolastico e
pedagogico, inizialmente nel Regno di Sardegna e poi nel resto delle provincie italiane annesse
alla monarchia sabauda. La nuova legge, infatti, distingueva la scuola elementare tra «urbana» e
«rurale» e ciascuna di queste categorie in tre classi in base al numero della popolazione residente,
13
E. Meyer, Frammenti d’un viaggio pedagogico. N° 1. Giacomo Wehrli, «La guida dell’educatore», I,
1836, pp. 337-358.
14
Rapporto della Commissione permanente incaricata di compilare una statistica della istruzione popolare degli
Stati italiani all’VIII Congresso scientifico d’Italia in Genova: relatore Pasquale Stanislao Mancini, Genova,
1846.
15
a cui corrispondevano salari diversificati da assegnare ai maestri. Erano rurali di prima, seconda e
terza classe quelle istituite in località con popolazione che rispettivamente eccedeva i 3.000, 2.000
e 500 abitanti. Erano urbane di prima, seconda e terza classe quelle istituite in località la cui
popolazione era superiore a 40.000, 15.000 e 4.000 abitanti15. L’istruzione elementare era di due
gradi (grado inferiore e superiore, entrambi di durata biennale) ma solo quello inferiore era
obbligatorio in ogni Comune e anche in ogni borgata o frazione aventi almeno 50 bambini atti a
frequentarlo. Il secondo grado era obbligatorio solo nei Comuni con oltre 4.000 abitanti.
Pur tuttavia nel giro di poco tempo apparve chiaro che la definizione di «scuola rurale» era
ambigua e soggetta a diverse interpretazioni, essendo il frutto di una volontà omologante che non
teneva conto delle differenze topografiche, geografiche, sociali ed economiche che connotavano
l’Italia. A porre all’attenzione degli addetti ai lavori questo problema fu nei primi anni Settanta del
secolo Vincenzo Garelli, noto cultore di studi filosofici e pedagogici nonché professore di
metodo in alcune scuole del Piemonte e poi Provveditore a Genova e Torino. Non a caso l’incipit
di un suo libello dedicato a tale questione era una frase ad effetto – «Che cosa è una scuola di
campagna?» – che bene esprimeva l’ambiguità della definizione di scuola rurale16. Lo studioso
piemontese prendeva le mosse dalla costatazione della sua inutilità a causa del modo in cui era
stata fino ad allora intesa e della sua inadeguatezza a risolvere in modo serio il problema del
miglioramento delle condizioni materiali e morali del popolo. Osservava il Garelli, infatti, che tale
qualifica, lungi dall’essere applicata in considerazione del tipo di scolaresca che avrebbe dovuto
accogliere (i figli dei contadini), era affibbiata semplicemente in funzione al numero di abitanti del
Comune in cui essa sorgeva, trascurando, quindi, fattori di grande importanza, come l’indole, le
abitudini e i bisogni del popolo che la doveva frequentare. Conseguenza di ciò era la creazione di
una scuola aliena dal contesto socio-economico in cui si trovava, che talvolta si fregiava del titolo
di «rurale» pur trovandosi in località che avevano a che fare poco con la campagna. Scriveva a
questo proposito lo studioso piemontese:
Le nostre leggi ci danno della Scuole rurale un’idea così incompleta, che non possono non nascerne perniciosissimi
errori pratici. E per fermo quale è la definizione ufficiale delle Scuole rurali? Quelle, rispondono le nostre leggi, che
sono stabilite ne’ comuni ne’ quali la popolazione è inferiore ai tre mila abitanti, niun conto fatto dell’indole, della
vita, delle abitudini, de’ bisogni, delle occupazioni del popolo che le deve frequentare. Di cotal guisa le scuole di
Camogli sono identiche a quelle di Varese Ligure, e quelle di Savona sono come quelle di Sassari; le une di Porto
Maurizio non si differenziano da quelle di Albenga, e così va dicendo; epperò gli stessi programmi, presso a poco gli
stessi libri, i medesimi orari ed eguali gli ordinamenti disciplinari17.
Dopo aver messo in luce tale ambiguità, Garelli indicava quella che doveva essere, a suo
giudizio, la vera scuola rurale: quella «fatta pei figliuoli degli agricoltori, i quali secondo tutte le
probabilità eserciteranno, fatti adulti, l’industria agricola, cioè lavoreranno i campi». Procedeva,
quindi, all’esposizione del principio di «differenziazione», secondo il quale era necessario
prevedere almeno tre tipi differenti di scuola rurale, tanti quanti erano gli ambienti nei quali
sarebbero sorte: un modello di scuola per le regioni alpine, uno per l’Italia settentrionale ed un
15
Cfr. G. Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia. Da Casati a Gentile, Roma, Riuniti, 1974, p.
83.
16
V. Garelli, La scuola di campagna: proposta di un nuovo ordinamento che assicuri d’aver buoni maestri ed una
istruzione utile al progresso de’campagnuoli: fatta da un disertore del contado il quale desidera di farvi ritorno,
Torino, Collegio degli Artigianelli, 1873, p. 5.
17
Ivi, p. 6.
16
altro per quella meridionale. Non doveva essere trascurato, infine, l’elemento rappresentato dal
maestro rurale: possibilmente questi doveva essere nato e cresciuto in campagna, avervi risieduto
in modo stabile ed essere agricoltore lui stesso, in modo da costituire un esempio sul piano
morale per i giovani contadini. A questo proposito veniva proposta la creazione di «scuole
normali agrarie», la cui natura teorico-pratica era la migliore garanzia per la formazione dei futuri
maestri rurali, definiti «istitutori buoni, modesti e laboriosi».
Le indicazioni di Garelli vengono qui riportate perché indicative di come iniziavano a
levarsi, a distanza di un quindicennio dal suo varo, isolate voci critiche nei confronti della Legge
Casati in materia di istruzione per i contadini, volte a chiedere una scuola che fosse realmente
aderente alla vita dei fanciulli di campagna18. Tale auspicio riguardava i più disparati aspetti:
dall’ordinamento ai programmi didattici, dai libri al materiale scolastico in uso. Si tratta, in altre
parole, di un documento che attesta come si stesse lentamente organizzando un movimento di
opinione all’interno del mondo pedagogico, che si sarebbe esteso anche ai ceti produttivi agrari
più illuminati, favorevole alla diffusione della scuola nelle campagne e alla sua connotazione in
senso agrario e che alla fine del secolo riuscirà ad imporsi come dimostrerà il successo riscosso
dallo slogan fatto proprio e rilanciato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli:
«Ritorniamo alla terra!».
Si trattò, in verità, di un percorso non lineare, costellato da numerosi ostacoli, da tentativi di
accelerazione e, di contro, da frettolosi passi indietro. Motivazioni pedagogiche si intrecciarono a
quelle di ordine sociale ed economico e, non ultime, a quelle politiche nel dibattito che poneva al
centro della discussione la volontà di non alienare l’interesse dei ceti rurali dalla scuola primaria,
creando un percorso formativo rispettoso della vita dei giovani contadini e che tenesse conto
delle reali esigenze del mondo del lavoro. Di certo questo sentimento non dominò nei primi anni
post-unitari. Il modesto corso elementare inferiore creato dalla Legge Casati, infatti, stentò esso
stesso a diffondersi nei Comuni rurali e montani e laddove venne istituito non forniva certo
un’alfabetizzazione sufficiente. Più che creare una scuola rurale orientata in senso agrario si cercò
nei primi decenni successivi all’Unità di potenziare l’istruzione primaria nelle campagne con la
creazione di scuole festive per i fanciulli e di scuole per gli adulti. Sebbene queste fossero previste
già dalla legge del 1859, tuttavia non offrirono nella maggioranza dei casi un vero rimedio al
problema dell’analfabetismo diffuso in ambito rurale. A rendere meno incisiva la loro opera fu la
stessa legge Casati che nel prevedere la loro esistenza, stabiliva al contempo che il personale
insegnante doveva lavorare in forma gratuita e che esso era dispensato dalla verifica dell’idoneità
professionale19. La penuria di maestri e di risorse economiche furono due delle principali cause di
tale legislazione che venne confermata nelle sue linee generali dal regolamento del 15 settembre
1860: esso dava la facoltà ai Comuni, ai privati e alle private associazioni di aprire scuole
elementari per adulti e corsi speciali per artigiani alla sola condizione che «ne rendessero
consapevole l’ispettore del circondario». Né era richiesto un titolo di studio per insegnare in
queste scuole: l’art. 164 stabiliva che «gl’insegnanti di queste scuole sono dispensati dal produrre
titoli d’idoneità». Tuttavia vigeva il principio della vigilanza sulle loro attività da parte delle
18
In assenza di uno studio organico e approfondito sugli Asili rurali si rinvia a L. Pazzaglia, Asili,
Chiesa e mondo cattolico nell’Italia dell’800, in Sani, Pazzaglia (a cura di), Scuola e società, cit., p 82; G.
Calò, Ottavio Gigli e i suoi corrispondenti toscani, in Pedagogia del Risorgimento, Firenze, Sansoni, 1965,
pp. 616-630.
19
Ministero della Pubblica Istruzione, L’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-98. Relazione a
S.E. il Ministro, Roma, Tip. Ludovico Cecchini, 1900, p. CCXLVII.
17
autorità scolastiche, le quali potevano anche chiuderle seguendo la stessa procedura stabilita dal
regolamento per gli istituti privati. Le stesse norme furono confermate quasi integralmente nel
Regolamento Generale per l’Istruzione Elementare del 9 ottobre 189520.
Ma già un ventennio prima, la Legge Coppino del 1877 aveva dichiarato l’intenzione di
combattere l’analfabetismo ricorrendo anche all’ausilio di scuole serali o festive. In particolare era
previsto che i fanciulli, dopo aver compiuto il corso elementare inferiore, dovessero frequentare
per un anno le scuole serali nei Comuni dove queste erano in funzione o le scuole festive per le
femmine. Erano chiamate anche scuole complementari o di completamento, il cui fine era quello,
come affermava l’art. 9 del Regolamento del 19 ottobre 1877, di «continuare e di ampliare
l’insegnamento delle materie prescritte come obbligatorie dall’art. 2» della Legge Coppino. Agli
insegnanti delle scuole serali e festive il ministero si impegnava ad assicurare dei sussidi in base al
numero degli scolari riuniti, delle lezioni impartite e del risultato ottenuto. Nonostante questi
intendimenti, le norme del 1877 in tale materia si rivelarono «ben presto insufficienti», né ad un
esito positivo portò il nuovo Regolamento Speciale per le scuole serali e festive, varato il 18
novembre 1880, dal momento in cui non fu attuato21. Si giunse così al 1888 quando veniva
approvato, il 16 febbraio di quell’anno, il Regolamento unico per l’istruzione elementare. Esso
dedicava un intero capo (il V, dall’art. 64 al 70) alle scuole serali e festive di completamento, di cui
si dettavano norme in ordine alla durata, al finanziamento, all’ammissione degli alunni. In
particolare si stabiliva che la scuola serale aveva una durata non inferiore a sei mesi, la festiva non
inferiore a dieci mesi. Era fornita la possibilità di trasformarle in scuole diurne di otto mesi
qualora si fosse fatta lezione due giorni alla settimana per non meno di due ore e mezza al giorno.
Per essere ammessi gli alunni dovevano presentare il certificato di proscioglimento dall’obbligo
della scuola diurna. Particolarmente importante era l’art. 70 secondo il quale le scuole di
completamento dovevano essere «col concorso del Governo» istituite e mantenute nei Comuni
che, essendo privi del corso elementare superiore, «dichiarassero di provvedere a spese proprie
agli oggetti di manutenzione delle scuole stesse ed assegnassero anche, dal canto loro, un qualche
compenso agli insegnanti delle medesime»22. Nonostante ciò, allo scadere del secolo le reali
condizioni delle scuole serali e festive per i giovani, così come per gli adulti, erano assai critiche, al
punto che esse non erano riuscite ad imporsi sul piano scolastico, facendo valere la propria
importanza, come ammettevano candidamente nelle loro relazioni le stesse autorità ministeriali23.
2. «La redenzione delle plebi agricole». L’azione svolta dalle associazioni private per l’istruzione popolare e
rurale nell’Italia post-unitaria
A distanza di pochi anni dall’Unità una crescente sensibilità verso il tema della diffusione
dell’istruzione popolare andò diffondendosi presso alcune personalità della classe dirigente
italiana di idee liberali e di matrice laica. Testimonianza di questa nuova temperie culturale fu
l’esplodere di un fenomeno nuovo per l’Italia post-unitaria che si concretizzò nella nascita di
numerose iniziative volte all’alfabetizzazione dei ceti popolari e all’elevazione morale e culturale di
20
Ivi, p. CCXLVIII.
Ivi, p. CCXLIX.
22
Ivi, p. CCXLIX.
23
Ivi, p. CCL.
21
18
artigiani, operai e contadini di cui furono protagoniste associazioni e sodalizi fondati da privati
cittadini. A costoro, infatti, il miglioramento delle condizioni morali e culturali delle popolazioni
rurali che vegetavano in condizioni di estrema arretratezza sembrava una questione ineludibile per
i destini della Nuova Italia almeno per tre ragioni: in primo luogo perché la «redenzione delle
plebi agricole» era un atto di filantropia imposto alle coscienze degli uomini; in seconda istanza
per ragioni più prosaiche volte a evitare sconvolgimenti sociali e perturbamenti dello status quo
provocati da plebi contadine cresciute nell’ignoranza ma sempre più esposte alla nascente
propaganda socialista; infine, perché la presenza di una così vasta manodopera non qualificata
minava lo sviluppo economico del paese ed i processi di industrializzazione.
Espressione di tali sentimenti fu, ad esempio, la Società Promotrice delle Biblioteche
Popolari, sorta nel 1867 a Milano, e promossa da Giuseppe Sacchi, Luigi Cremona, Carlo
Baravalle, Amato Amati ed Enrico Fano. Grazie all’azione di un Comitato nato a Firenze due
anni dopo con lo scopo di favorire la diffusione delle biblioteche popolari e la stampa di un
«Annuario», alla metà degli anni Ottanta ormai le biblioteche erano circa un migliaio. Oltre al
prestito dei libri, tali sodalizi, che erano animati dai principali esponenti delle classi dirigenti
cittadine che si ispiravano alla filantropia, affiancarono altre attività come conferenze su disparati
argomenti.
All’interno della stessa cornice si deve inserire la nascita della Società di educazione ed
istruzione popolare fondata a Pisa nel 1866, ma che a differenze dalla Società delle Biblioteche
popolari, presentava un più marcato interesse verso le questioni scolastiche. Essa traeva origine
dalla libera iniziativa di un sodalizio di cittadini convinti che uno dei principali problemi del
tempo fosse «l’educazione e il miglioramento delle plebi», questione di grande attualità che
richiamava l’attenzione «di tutti i pubblicisti, di tutti gli uomini di stato, di tutti i filantropi» che
non si accontentavano dei risultati conseguiti dalle leggi. Non è difficile intravedere dietro queste
parole l’opera di coloro che sostenevano il principio della libertà d’insegnamento ed erano stati
critici contro l’estensione dell’ordinamento casatiano alle nuove province del Regno, circostanza
che aveva visto proprio la Toscana in prima fila contro l’omologazione del proprio sistema
scolastico a quello subalpino. Il tema della valorizzazione dell’iniziativa privata è, infatti, ben
sviluppato nel programma con cui la Società si presentava:
È comune andazzo fra noi il chiedere e lo aspettar tutto dal governo, dimenticando che ogni istituzione non può
produrre buone e lodevoli effetti se non occupandosi dei fini, pei quali essa è stata creata, dimenticando che la
sorgente della iniziativa non può né dee cercarsi altrove che negli individui: è comune andazzo il parlare della civiltà,
della mitezza, del raro buon senso del nostro popolo, il dirlo capace di tutti i diritti e dell’esercizio di tutte le libertà; è
comune andazzo il credere che con una legge, coll’attuazione di un sistema, col cambiare di una forma di governo
debbansi altresì cambiare ad un tratto le condizioni nostre e che dalla servitù e dall’abbrutimento dobbiamo come per
incanto sollevarci alla libertà ed alla civiltà24.
Scopo dichiarato dell’associazione pisana, di cui divenne presidente Carlo Minati, professore di
medicina all’ateneo cittadino, era quello di favorire la creazione di scuole elementari, asili infantili,
scuole serali e domenicali.
Un’altra istituzione che sorse nello stesso periodo e con i medesimi obiettivi era il
Comitato ligure per l’educazione del popolo, istituito nel gennaio 1867 a Genova ed eretto in ente
24
Programma e statuto della Società di educazione ed istruzione popolare in Pisa, Pisa, tip. Pieraccini, 1866,
p. 3.
19
morale con decreto del 25 maggio 187625. Esso aveva per scopo quello di promuovere e
sussidiare oltre che l’istituzione di asili, giardini d’infanzia, patronati per fanciulli e biblioteche
popolari circolanti, anche di scuole elementari e professionali e scuole serali e festive per gli adulti
nelle borgate e nei Comuni minori della Liguria.
Si deve tuttavia notare che quello che accomunava le esperienze appena descritte era la
loro spiccata connotazione urbana: esse, cioè, nascevano per rispondere alle esigenze educative e
formative dei ceti popolari cittadini, formati in prevalenza da negozianti, artigiani e operai. Le
campagne restavano ancora un mondo lontano ed i contadini gli esclusi dai benefici portati da
queste associazioni. Qualcosa sarebbe cambiato con la nascita di un’istituzione destinata a
incidere maggiormente nelle dinamiche scolastiche italiane e a riaccendere il dibattito su quale
forma dovesse assumere l’istruzione per i fanciulli delle campagne dopo l’introduzione della
Legge Casati: ci riferiamo all’Associazione nazionale per la fondazione degli asili rurali per
l’infanzia. Sorta nel 1867, essa aveva tra i suoi fondatori due ex ministri della pubblica istruzione,
come Carlo Matteucci e Terenzio Mamiani, intellettuali o uomini politici con interessi pedagogici,
come Gino Capponi, Ottavio Gigli e Bettino Ricasoli.
Il progetto dell’Associazione era così ambizioso perché essa non aveva in animo
semplicemente di sussidiare asili da istituire nei paesi e nelle borgate ma perché proponeva una
soluzione educativa per i figli dei contadini che era alternativa a quella proposta dall’ordinamento
casatiano del 185926. Il sodalizio chiedeva, infatti, di trasformare le scuole rurali inferiori, diffuse
nei paesi con meno di 500 abitanti e quindi nelle campagne, in asili rurali che accogliessero
bambini di ambo i sessi da tre o quattro anni fino a otto o nove anni nella convinzione che tali
istituzioni educative avrebbero meglio corrisposto alle reali esigenze dei genitori e della prima
alfabetizzazione dei fanciulli. L’asilo, infatti, avrebbe insegnato «con metodi più sani e sicuri le
medesime materie» e avrebbe reso possibile «lo svolgersi ordinato delle forze fisiche e intellettuali
del fanciullo» meglio di quanto fatto nelle scuole rurali, dove l’insegnamento «non educò (che
doveva essere il suo principale scopo), non istruì che poco e male e senza uniformità di metodo e
d’insegnamento»27. In particolare lo statuto dell’associazione prevedeva si sarebbe potuto aprire
asili rurali «nei casali, nei borghi, nelle borgate e nei villaggi» dove era possibile riunire almeno
trenta bambini. Era previsto l’insegnamento della lettura, della scrittura, dell’aritmetica e delle
prime nozioni di geografia, storia sacra, storia nazionale, storia naturale e agronomia.
Un altro vantaggio offerto da questa soluzione educativa era, secondo i suoi promotori,
quello di favorire la frequenza degli alunni, in prevalenza contadini, grazie all’abbassamento
dell’età scolare: se il bambino che entrava nella scuola rurale a sei anni era già in grado di svolgere
alcuni lavori nei campi, come la sorveglianza degli animali, e pertanto era soggetto a disertare la
scuola, lo stesso non sarebbe potuto accadere per un fanciullo di tre anni.
Sul piano giuridico gli asili rurali furono istituiti in base a quanto previsto dall’articolo 14
del Regolamento scolastico del 15 settembre 1860 con il quale lo Stato riconosceva la possibilità
25
Cfr. lo D.L. 6 giugno 1901 che approva lo statuto organico dell’associazione, pubblicato nella
Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia. Parte supplementare, 1901.
26
Sull’esperienza degli asili rurali manca ancora oggi uno studio organico ed approfondito. Per il
momento si possono trovare alcune informazioni in L. Pazzaglia, Asili, Chiesa e mondo cattolico
nell’Italia dell’800, in Sani, Pazzaglia (a cura di), Scuola e società, cit., p 82; G. Calò, Ottavio Gigli e i suoi
corrispondenti toscani, in Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, pp. 616-630; Gli asili rurali
per l’infanzia, «Rivista contemporanea nazionale italiana», voll. 50-51, 1867, pp. 269-280.
27
O. Gigli, Il progresso dell’Associazione Nazionale degli asili rurali per l’infanzia nel suo primo quinquennio,
Firenze, Stabilimento di G. Pellas, 1873, p. 33.
20
ad associazioni private, a corporazioni ed a privati cittadini di gestire scuole a sgravio «totale o
parziale degli obblighi del Comune sempreché fossero mantenute in conformità alla Legge».
Questo aspetto è di particolare importanza poiché l’operato dell’associazione fu circondato subito
da una cortina di diffidenza e di ostilità da parte di taluni soggetti – maestri che temevano la
perdita del posto di lavoro in favore delle colleghe giudicate più adatte nell’insegnamento
infantile, ispettori scolastici che paventavano critiche nei loro confronti in ordine agli scarsi
risultati ottenuti nelle zone di propria competenza, una parte del clero sospettosa verso l’azione di
un’associazione di stampo liberale che voleva prendere il controllo dell’educazione dell’infanzia –
che cercarono di mettere in discussione il fondamento legale in base al quale erano stati aperti gli
asili rurali e di sottolineare la natura eversiva di quedta soluzione educativa rispetto alla Legge
Casati. Tali critiche, riportate all’attenzione dell’opinione pubblicata da un giornale, indussero il
presidente dell’associazione, Mamiani, a reagire inviando un memoriale al ministro della pubblica
istruzione in cui si mettevano in evidenza i benefici portati dai 300 asili rurali fino ad allora
fondati: venire incontro alle famiglie contadine, per le quali la cura dei bambini era un peso che
impediva lo svolgimento dei lavori nei campi, ed educare i fanciulli, in modo tale che uscendo
dall’asilo non avessero avuto più bisogno di altre proseguire gli studi in altre scuole28. Mamiani si
diceva pertanto amareggiato per il fatto che lui e gli altri dirigenti dell’associazione erano stati
«fraintesi e talvolta dichiarati poco amici» della legge, tanto che polemicamente lasciava balenare
l’ipotesi del disimpegno da parte del sodalizio se il governo non avesse fornito rassicurazioni
adeguate. Al memoriale rispose il 19 novembre 1869 il ministero, il quale negò il bisogno di
ottenere chiarimenti dall’associazione, «resultando esse chiarissimamente dai soli nomi delle
persone delle quali la Direzione era composta». Tuttavia a un mese, il 14 dicembre, lo stesso
ministero, per mezzo del suo segretario generale Pasquale Villari, inviava alla direzione
dell’associazione una nota in cui indicava con precisione i luoghi in cui essa poteva esercitare la
sua opera: i Comuni con popolazione inferiore a 500 persone e che in ragione della loro povertà
riconosciuta dal consiglio scolastico e dalla Deputazione Provinciale non avessero potuto
sostenere le spese delle scuole ai termini di legge, ed i Comuni con popolazione superiore a 500
persone e con scuole elementari già attive secondo la Legge Casati, al cui interno però vi fossero
state «parecchie […] borgate di popolazione inferiore a 500 abitanti», per le quali esso non era
assolutamente in grado di aprire scuole rurali29.
Tali prescrizioni apparvero ai dirigenti dell’associazione una vera e propria limitazione e
per questo il 18 dicembre 1869 Mamiani scrisse al ministero una puntigliosa lettera in cui
rivendicava il diritto di operare secondo l’articolo 14 del Regolamento del 1860, nel quale veniva
affermato che per determinare la natura e l’estensione dell’obbligo che i Comuni avevano di
provvedere all’istruzione elementare, si doveva tener conto delle loro rendite, delle spese
obbligatorie, «dell’imposta comunitativa» e delle altre condizioni economiche. Una definizione di
certo ambigua che non precisava in modo chiaro se tutti i Comuni fossero obbligati ad aprire
almeno una scuola elementare nel proprio territorio e che, quindi, si prestava a interpretazioni
diverse. Facendo gioco su questa ambiguità, Mamiani confermò l’intenzione dell’associazione di
proseguire sulla sua strada30. Si stava così profilando uno vero e proprio scontro con il ministero
che infatti non tardò a rispondere riaffermando il principio secondo il quale solo allo Stato
spettasse il potere di assumere decisioni in materia scolastica. Con una lettera del 20 gennaio
28
Ivi, pp. 49-51.
Ivi, pp. 53-54.
30
Ivi, pp. 54-55.
29
21
1870, infatti, il nuovo ministro Cesare Correnti chiedeva che venissero sottoposte al suo esame
tutte «le proposte a beneficio di ciascun Asilo», al fine di valutare caso per caso l’istituzione di
ogni singolo asilo rurale, di dare per ciascuno di esso delle speciali istruzioni al consiglio
scolastico nonché di ordinare delle ispezioni31. La decisione del ministro, come ha ricordato
successivamente uno dei dirigenti dell’associazione, Ottavio Gigli, mirava in prospettiva a
trasformare la natura degli asili rurali in semplici «scuole infantili», sottraendoli al ramo
dell’insegnamento elementare, e in definitiva a ribadire la centralità e la validità del sistema
casatiano del 185932. Un progetto che il sodalizio cercò ancora una volta di contrastare, ma senza
risultati concreti e duraturi: all’inizio del 1870, infatti, l’associazione, dichiarando di stare dalla
parte della legge e volendo rincuorare «i timidi che indietreggiavano innanzi alla voce che il
Ministero della pubblica istruzione ci osteggiasse», inviò ai propri Comitati filiali l’elenco dei
Comuni con meno di 500 abitanti per iniziare presso questi le pratiche necessarie all’istituzione
dei propri asili rurali; venuto a conoscenza di questa operazione, il ministero reagì emettendo una
circolare in data 5 marzo 1870 diretta ai prefetti ed ai presidenti dei consigli provinciali scolastici
con cui ordinava loro di non erogare agli asili rurali i fondi già stanziati per le scuole elementari,
invitandoli così a non farsi trarre «in inganno dall’ultima Circolare dell’Associazione per gli Asili
medesimi»33. All’altolà emesso ai prefetti e ai presidenti dei consigli provinciali scolastici, Correnti
fece seguire l’invio al Consiglio superiore della pubblica istruzione di alcuni quesiti concernenti la
compatibilità degli asili rurali con l’ordinamento casatiano. Nella seduta del 4 giugno questo
organismo metteva la parola fine sull’esperienza degli asili rurali per come erano stati concepiti
dai loro animatori: veniva, infatti, stabilito che «l’Asilo-scuola non ha tutti i caratteri della scuola
elementare» e che con «esso asilo i Comuni non soddisfano l’obbligo»; era altresì detto che lo
sgravio dall’obbligo, già previsto dalla legge, non poteva intendersi con la sostituzione di un’altra
scuola non regolare, come gli asili rurali34. Ridimensionata così nelle ambizioni e confinata ad
agire nel campo delle opere educative per l’infanzia, l’associazione continuò a sopravvivere
ancora per qualche tempo, per poi cessare definitivamente la sua attività.
3. Tra avocazione allo Stato e rinnovamento della didattica: la scuola rurale nell’età del positivismo
La questione della scuole rurale assunse un certo rilievo nel dibattito pubblico in occasione
del tragico caso di Italia Donati, la sfortunata maestra di campagna che nel 1886 si suicidò per
non sottostare ai soprusi e alle angherie di cui era vittima per mano degli amministratori del
Comune35. Fu allora che sulla stampa magistrale si tornò a rivolgere una certa attenzione alla
scuola rurale, invocando da talune parti la sua avocazione allo Stato al fine di fornire maggiori
cure al ramo più debole dell’istruzione elementare. Di questa proposta si fece interprete Guido
31
Ivi, pp. 56-57.
Ivi, p. 57.
33
Ivi, pp. 56-57.
34
Ivi, pp. 62-65.
35
La vicenda è ricostruita in E. Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, «Studi di Storia
dell’Educazione», n. 3, 1981, pp. 28-55. Per un quadro più generale sulla condizione magistrale
femminile si rinvia a S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi (a cura di),
Fare gli italiani: scuola e cultura nell’Italia contemporanea, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1993, vol. I, pp.
67-130.
32
22
Marcati dalle colonne de «Il Risveglio educativo», la rivista di cui era direttore. Conscio degli
ostacoli che avrebbero incontrato gli «avocazionisti», egli prudentemente chiese di restringere il
campo delle scuole da passare allo Stato solo a quelle rurali, poiché affermò era «qui il marcio,
[era] qui soprattutto che l’influenza dissolvitrice del Comune, si fa[ceva] sentire maggiormente»36.
Rivolgendosi ad Aristide Gabelli, da poco eletto deputato al Parlamento, Marcati lo esortò a
presentare lui stesso un disegno di legge di iniziativa parlamentare su questo argomento. Il
pedagogista con grande realismo rispose con una lettera pubblicata sul giornale dichiarando in
primo luogo i suoi dubbi sull’avocazione di tutte le scuole allo Stato per due motivi: la resistenza
che sarebbe stata opposta dai Comuni delle grandi città che «vi spesero in tanti anni molte cure e
molti milioni» e l’insostenibilità del sistema burocratico del nuovo Stato di poter assumere sulle
proprie spalle l’onere di gestire «l’esercito dei maestri elementari», circa 42 mila maestri, tanti
quanti approssimativamente c’erano allora in Italia, se si considerava che il ministero già mostrava
non poche difficoltà nella gestione amministrativa del personale delle università e delle scuole
secondarie37. Occorreva quindi procedere con cautela sulla strada dell’avocazione ma tale
atteggiamento improntato alla prudenza non gli impedì di dichiararsi favorevole, intanto per
cominciare, al passaggio allo Stato delle scuole rurali. Questo poteva essere a suo giudizio il primo
passo che si poteva compiere, poiché tale progetto gli appariva «fattibile» e «utile» dal punto di
vista tecnico. Anche sotto il profilo pedagogico questa decisione sarebbe stata saggia nel
momento in cui si sarebbero finalmente riconosciute le differenze culturali e ambientali delle
scuole elementari italiane, così diverse da regione a regione, da zona a zona. Non bisognava però
illudersi, ammonì il pedagogista, che in tal modo si sarebbero risolti i problemi che spinsero al
suicidio la maestra Donati, poiché quello che veramente serviva era una riforma morale dei
costumi del popolo e la rimessa in discussione delle sue consuetudine e delle sue tradizioni che
talvolta erano il frutto di superstizione e di arretratezza. Lo spirito positivista che animava Gabelli
emerge chiaramente in queste parole:
La riforma vera, grande, utile, sarebbe questa, di dare un po’ di chiarezza alle teste e di rettitudine agli animi, di
avvezzare la gente a un po’ di esame e di critica, di diminuirle il bisogno di credere alle meraviglie, di renderla meno
fantastica, meno esaltata, meno maligna e più seria, più savia, più temperata, più giusta. Non è uno spavento a
pensare, che colle istituzioni che abbiamo, la grandissima maggioranza del paese crede che i suoi simili possano
mettersi in diretta corrispondenza col demonio e mercè di questo attirar cogli occhi delle disgrazie a quelli cui
vogliono male? Ma chi può diradar la nebbia dai cervelli e mettere un po’ di bontà nei cuori?38
Forte dell’adesione alla sua campagna giornalistica di un così importante pedagogista,
Marcati chiamò a raccolta i maestri italiani incitandoli a sostenere la causa dell’avocazione,
battaglia che però, come è noto, non portò alcun frutto concreto nell’immediato.
Si deve aggiungere che negli stessi giorni in cui venne pubblicata la presa di posizione di
Gabelli, anche «Rivista pedagogica italiana», il periodico di orientamento laico e democratico di
matrice selfhelpista diretto da Francesco Veniali, diede voce al problema delle scuole rurali. A
trattare l’argomento e a fornire un’idea per il loro riordinamento fu Giuseppe Neri, un giovane
maestro che, dopo aver conseguito la licenza magistrale, aveva studiato pedagogia all’Università di
36
Le scuole rurali allo Stato, «Il Risveglio educativo», n. 42, 30 luglio 1886, p. 317.
Ivi, p. 318.
38
Ivi, p. 319. L’intervento del pedagogista si trova pubblicato anche in A. Gabelli, Educazione
positiva e riforma della società. Antologia degli scritti educativi, a cura di R. Tisato, Firenze, La Nuova
Italia, 1972, pp. 175-180.
37
23
Bologna sotto il professore Pietro Siciliani, e che in quel momento insegnava nella scuola
elementare di Poggio Renatico, nel Ferrarese39.
Richiamandosi al pensiero positivista che allora dominava in campo pedagogico e, in
particolare, agli studi del De Dominicis sulle differenze di ordine fisiologico e psicologico
presenti nei bambini, egli sostenne la necessità di abolire le scuole rurali uniche che riunivano in
una sola aula i fanciulli dalla prima alla terza classe. Conscio altresì dell’impossibilità di creare tre
sezioni, suggeriva di riunire i bambini della seconda e della terza classe e di lasciare quelli della
prima in un’altra sezione40. Altra riforma necessaria era quella dell’orario al fine di permettere agli
alunni di recarsi a scuola e, al contempo, di poter svolgere i lavori agricoli. Citava a questo
proposito il consueto impiego dei bambini nel pascolo mattutino degli animali o la pratica diffusa
nei paesi di montagna di utilizzare i fanciulli nella ricerca dei funghi, attività che fruttava «10 o 15
soldi», garantendo alla famiglia contadina il sostentamento per uno o due giorni41. Quanto alle
finalità della scuola rurale, Neri sosteneva citando Gabelli e Siciliani, che essa forniva
un’istruzione poco educativa poiché «la parola del maestro arriva al cervello come nozione, ma
raramente penetra nel cuore». Pertanto di grande importanza era l’insegnamento morale che si
sarebbe dovuto ispirare non alla religione ma alla scienza ed ai bisogni moderni della società nella
quale «circola indubbiamente un nuovo elemento di vita, voglio dire la scienza nuova, la scienza
positiva, la scienza sperimentale, non dogmatica, non metafisica»42. La scuola rurale doveva
essere, quindi, il luogo di affrancazione del popolo che era vissuto fino ad allora nell’errore: una
posizione quella di Neri che si ispirava ai principi della democrazia e del socialismo ma da
intendere, per usare le sue stesse parole, come un «socialismo scientifico», cioè riferito all’ordine
morale, e non un socialismo nel senso classico del termine, riferito cioè all’ordine concreto e
reale43.
Nonostante la mobilitazione di riviste e di uomini pubblici, la scuola per i contadini
rimase in fondo alle preoccupazioni della classe dirigente italiana e gli ambiziosi progetti
avocazionisti non trovarono ascolto. L’unico concreto, ancorché timido, segnale in direzione del
miglioramento dell’istruzione rurale era contenuto nella legge 11 aprile 1886, n. 3798, varata dal
ministro Coppino nel settimo governo Depretis, con cui si aumentava di un decimo gli stipendi
dei maestri delle scuole rurali (art. 2 della legge)44. Prima ancora che rispondere ad una legittima
39
G. Neri, Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 9, 15 giugno 1886,
pp. 516-527; Id., Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 10, 15 luglio
1886, pp. 594-611.
40
Ivi, p. 598.
41
Ivi, p. 599.
42
Ivi, p. 600.
43
Richiamando Siciliani, così scrisse Neri: «In seno alla pedagogia non ha posto quel socialismo
che vuol guarire l’umanità cogli espedienti del ferro e del fuoco e ribattezzarlo in un’onda calda di
sangue fraterno, sì bene si svolge e concreta l’essenza del socialismo scientifico che vuole la
trasformazione pacifica della società, e tende, come sosteneva coll’ardore d’un apostolo il Siciliani, a
mettere le diverse classi sociali non già nelle stesse condizioni reali, ciò che forma la grande utopia
del demagogismo, bensì nelle stesse disposizioni essenziali d’ordine morale, intellettuale e materiale»
(G. Neri, Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 9, 15 giugno 1886, p.
521).
44
In base a tale legge gli stipendi dei maestri nelle scuole rurali inferiori erano di 800 lire (scuole
di prima classe), di 750 lire (scuole di seconda classe), di 700 lire (scuole di terza classe); nelle
scuole rurali superiori di 900 lire (scuole di prima classe), di 850 lire (scuole di seconda classe), di
800 lire (scuole di terza classe). Gli stipendi delle maestre nelle scuole rurali inferiori erano di 640
24
richiesta economica – gli stipendi erano fermi dalla Legge Casati del 1859 –, questo
provvedimento era una parziale risposta alla richiesta di conferire una maggiore dignità alla figura
del maestro di campagna, il più delle volte squalificato a livello sociale, come dimostrava
efficacemente la sagace commedia scritta nel 1883 da Edoardo Conti dal titolo emblematico: Le
miserie del maestro rurale.
lire (scuole di prima classe), di 600 lire (scuole di seconda classe), di 560 lire (scuole di terza
classe); nelle scuole rurali superiori di 720 lire (scuole di prima classe), di 680 lire (scuole di
seconda classe), di 640 lire (scuole di terza classe).
25
Capitolo secondo
«Educhiamo il popolo!»: il dibattito politico e pedagogico sulla scuola rurale
dalla crisi di fine secolo all’età giolittiana (1898-1921)
1. «Torniamo ai campi!»: il ministro Baccelli e il rilancio dell’istruzione popolare e agraria
La fase che si aprì negli anni Novanta dell’Ottocento fu per la scuola rurale ricca di fermenti.
Prima ancora che da riflessioni pedagogiche, l’attenzione verso la scuola dei contadini nasceva
però da considerazioni di ordine politico. Sotto gli occhi di un’impaurita classe dirigente c’erano,
infatti, i disordini causati dalla crisi economica di fine secolo che rischiavano di perturbare un
ordine sociale che fino ad allora si era creduto eterno. L’emblema che meglio di ogni altro
interpretava questa mutata sensibilità fu l’approvazione dei nuovi programmi per le scuole
elementari, avvenuta con decreto il 29 novembre 1894 sotto il ministero della pubblica istruzione
di Guido Baccelli. Frutto del clima di involuzione politica e culturale che caratterizzò l’ultimo
quindicennio del secolo, dominato dalle spinte nazionalistiche e dall’esplodere di tensioni sociali
lungamente sopite45, i programmi del ’94 si ispiravano, come è noto, alla volontà di fornire alle
nuove generazioni poche e basilari nozioni utili a farle integrare nel mondo del lavoro e nella
comunità civile e politica, secondo la formula «istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si
può». In tale ottica acquisiva un significato specifico l’introduzione nelle scuole elementari
dell’insegnamento della cosiddetta «cultura materiale», ritenuta necessaria per poter assecondare
lo sviluppo del paese e favorire la modernizzazione economica dell’agricoltura46. Ciò si tradusse
sul piano didattico nell’ingresso nelle scuole elementari, da una parte, del lavoro manuale
educativo e, dall’altra, dell’insegnamento agrario, sull’onda di una convinzione che trovò sempre
più credito negli anni Ottanta e Novanta secondo la quale, come scrisse il pedagogista Pietro
Pasquali, la scuola aveva «ecceduto nell’occupazione intellettuale a danno delle facoltà che sono
d’uso quotidiano nella vita»47. Ai fini della nostra ricerca va rilevato come nei programmi del ’94
Baccelli manifestava già la speranza che ai maestri fosse concesso un campicello, posto
45
Sulla crisi di fine secolo la bibliografia è ampia. Ci si limita a segnalare: G. Candeloro, Storia
dell’Italia moderna., 11 voll., Milano, Feltrinelli, 1974, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana; U.
Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo e l’età giolittiana, Torino, UTET, 1982;
F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2004.
46
Gaetano Bonetta, “Insegnare la cultura materiale”. Istruzione agraria e lavoro manuale nell’Italia del XIX
secolo, in Lucia Romanello, Storia delle Istituzioni educative in Italia tra Otto e Novecento. Atti del Convegno,
Alghero, 14-15 ottobre 1994. Quaderno n. 8 de «Il Risorgimento», pp. 153-163.
47
La citazione è riportata in Bonetta, “Insegnare la cultura materiale”, cit., p. 160. Sull’introduzione
del lavoro manuale educativo e sull’opera svolta a questo proposito da Emidio Consorti nella
scuola di Ripatransone si rinvia a G. Galeazzi, Emidio Consorti e il lavoro manuale educativo,
«Pedagogia e vita», n. 6 (1981), pp. 611-622. Una raccolta degli scritti del maestro fautore del
lavoro manuale pubblicata di recente si trova in E. Conforti, Il lavoro manuale educativo: il sistema
pedagogico, le conferenze, a cura di E. Diletti, G. Galeazzi, W. Michelangeli, Ripatransone,
Amministrazione comunale di Ripatransone, 1997.
26
possibilmente vicino alla scuola, da utilizzare a scopo didattico, nonché per trarre da esso i frutti
del lavoro agricolo a loro personale vantaggio48.
Fu però con la circolare del 20 luglio 1898 che si compì un salto di qualità, allorché Baccelli
decise di introdurre, sia pure in forma facoltativa, l’insegnamento pratico delle prime nozioni di
agricoltura nelle scuole rurali e di dare nuovo slancio al progetto per la creazione degli orticelli
scolastici49. Con una circolare emanata pochi giorni dopo, il 12 agosto 1898, il ministro forniva
indicazioni di ordine pratico sulla cessione dei terreni da parte dei privati all’amministrazione
scolastica: il terreno doveva essere vicino alla scuola; doveva essere donato al municipio o, per lo
meno, concesso per un periodo di sei anni; i prodotti della coltivazione spettavano al maestro; i
lavori dovevano essere appropriati all’età e alle capacità fisiche dei bambini; i maestri erano tenuti
a compilare un programma dell’insegnamento agrario che era loro intenzione svolgere nell’arco
dell’anno e sottoporlo all’esame del consiglio scolastico provinciale. Sempre nel corso dello stesso
anno Baccelli bandì anche un concorso per il miglior manuale o guida per l’insegnamento
dell’agricoltura nelle scuole elementari che, secondo le indicazioni ministeriali, doveva essere
diviso in tre parti, una dedicata all’Italia settentrionale, una a quella centrale ed una a quella
meridionale50.
L’ambiente in cui era costretto a muoversi il ministro non era tuttavia dei migliori giacché
numerose erano ancora le resistenze e le incomprensioni che accompagnarono le sue decisioni.
Tale problema venne rilevato da un suo stretto collaboratore, Vittorio Stringher, allorché affermò
che Baccelli, impegnato a creare la «Scuola popolare rurale», trovò «forti opposizioni e critiche»51.
48
Un’esperienza che precorse quella del «campicello» baccelliano fu quella dell’ispettore Panizzi
che in Sicilia dal 1888 propugnò l’idea che nelle scuole rurali si attuasse l’insegnamento agrario
teorico-pratico, che egli chiamava slöjd agrario. Dopo aver ottenuto l’iniziale supporto di quattro
Comuni, che misero a disposizione dei terreni per le esercitazioni pratiche, egli chiese l’aiuto del
Ministero della Pubblica Istruzione che tuttavia valutò tale impronta data alla scuola non
rispondente ai fini educativi che le erano propri. Per questo motivo l’ispettore venne invitato a
rivolgersi al Ministero dell’Agricoltura e nel giro di poco tempo l’esperienza si esaurì (Cfr.
Ministero della Pubblica Istruzione, L’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-98, cit., pp. CCVCCVI).
49
Su questo aspetto si vedano le interessanti riflessioni in E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola
elementare (1860-1985), Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 51-54.
In quegli anni la pubblicistica dedicata agli orticelli, ai loro risultati e alle loro potenzialità, crebbe
in modo significativo. Si vedano, per esempio, i seguenti titoli: G.B. Pitotti, Il campicello. Conferenza
tenuta dal dr. G. B. Pitotti ai docenti elementari della provincia di Venezia, Venezia, Tip. Dell'Ancora,
1898; A. Accolti-Gil, Due anni di esperimenti nel mio campicello scolastico, Bari, Stab. Tip. Gius. Laterza
e Figli, 1900; A. Scipioni, Il campicello delle scuole elementari di Tivoli, Tivoli, Tipografia Majella, 1900;
A. Ferrari, L’agricoltura, la scuola e il maestro: Norme e schiarimenti per l’uso del campicello nella provincia di
Milano, Milano, Stab. Tip. Di Antonio Vallardi Edit., 1901; E. Azimonti, Il campicello scolastico:
impianto e coltivazione. Manuale di agricoltura pratica per i maestri, Milano, Hoepli, 1903; C. Chiapponi,
L’istruzione agraria elementare e il campicello sperimentale, Veroli, Tip. Reali, 1903; A. D’Ercole, Il
campicello agrario delle scuole elementari rurali: buoni esempi, Piacenza, Stab. Tip. V. Porta, 1905; L.
Ciancaglini, Un campicello didattico nel comune di Panni, Casalbordino, De Arcangelis, 1909; A.F.
Cossu, Il campicello scolastico: vantaggi educativi e didattici. Relazione presentata alla presidenza delle conferenze
magistrali svoltesi a Sassari nel settembre del 1911, Tempio, Tip. ditta vedova Tortu, s.a.
50
La notizia è tratta dall’articolo La riforma dell’insegnamento elementare, «L’Unione Liberale. Corriere
dell’Umbria», n. 199, 6 settembre 1898, p. 1.
51
V. Stringher, L’istruzione agraria in Italia, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1900, p.
49.
27
Al fine di studiare dal punto di vista didattico e pedagogico la riforma della scuola primaria
in senso agricolo fu insediata un’apposita commissione, formata dal già citato professor Stringher
(in qualità di relatore) e dai colleghi Giuseppe Castelli e Giuseppe Cuboni 52. La relazione finale da
essa elaborata venne presentata il 25 marzo 1899 e il successivo 10 aprile fu emanato un decreto
con cui venivano varati i nuovi programmi didattici per l’insegnamento pratico delle prime
nozioni di agricoltura nelle scuole elementari53. Si trattava di un punto di svolta di notevole
importanza, anche se a giudizio di Stringher, il contenuto del decreto non fu del tutto
corrispondente alle proposte della relazione. Non si trattava, infatti,
d’imprimere un indirizzo professionale alla scuola elementare rurale, ma, bensì, di avviarla ai fini della vita campestre.
L’agricoltura deve figurare nel programma della scuola primaria come uno strumento didattico e quale elemento
educativo; le nozioni agrarie non devono impartirsi sotto forma di catechismo e come fine a sé stesse, per il solo
intrinseco loro valore, ma di esse il maestro deve servirsi per sviluppare mediante un appropriato insegnamento
oggettivo, coi mezzi offerti dal campicello, lo spirito d’osservazione, che è quanto dire schiudere nuovi orizzonti
all’intelligenza dell’alunno, contribuire a formarne il carattere, a innamorarlo della vita campestre, a predisporre la sua
mente ad accettare – una volta fatto adulto – quelle innovazioni nell’arte sua che la scienza e la pratica gli
suggeriscono, per accrescere, migliorare e difendere i prodotti del suolo 54.
L’uscita di scena di Baccelli dal ministero, avvenuta nel giugno 1900, finì per peggiorare le
cose, accrescendo il disinteresse dello Stato nei confronti delle iniziative volte a potenziare
l’insegnamento agrario nelle scuole rurali. Se nel 1899 i campicelli erano stati, secondo le cifre
fornite dal ministero, 2.257 e le scuole elementari in cui fu impartito l’insegnamento delle prime
nozioni di agricoltura circa 7.000, negli anni successivi il loro numero calò e se alcuni maestri e
ispettori si dedicarono a far sopravvivere questa esperienza, incontrarono però numerosi ostacoli
e una scarsa considerazione da parte dei nuovi successori di Baccelli. Indicative, a questo
proposito, furono le critiche che si levarono dall’Accademia dei Georgofili, la prestigiosa
istituzione agraria di Firenze che aveva salutato positivamente le innovazioni baccelliane. In un
articolo apparso nel 1908 negli Atti della medesima Accademia si denunciava come il ministero
non disponesse più di dati aggiornati sul numero dei campicelli presenti in Italia («Da allora le
statistiche tacciono, né per quante ricerche abbia fatto mi è stato possibile trovare un elenco
52
Vittorio Stringer dal 1891 al 1908 fu direttore della biblioteca del Ministero dell’Agricoltura. Fu
un grande patrocinatore dello sviluppo dell’istruzione agraria, pubblicando nel 1900 un
importante studio dal titolo L’istruzione agraria in Italia che costituì una sorta di bilancio di quanto
fino ad allora era stato realizzato ad opera di privati, di enti e dello Stato in tale materia; Giuseppe
Castelli si interessò di questioni pedagogiche e scolastiche, pubblicando alcuni importanti studi
sul lavoro manuale e l’insegnamento agrario negli anni in cui Baccelli occupò l’incarico di
Ministro. Si segnalano, in particolare: Origine e svolgimento della scuola del lavoro in Italia, «Rivista
pedagogica», anno V, vol. II, fasc. 7, luglio 1912, pp. 587-643; L’insegnamento agrario e il lavoro
manuale nella scuola popolare: discorso pronunciato a Vercelli il 29 luglio 1902 in occasione del Congresso
Magistrale, Tip. Coppo, Vercelli, 1903; Relazione a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione
sull’ordinamento del lavoro educativo nelle scuole elementari. Parte 1., L'enunciazione del programma e i primi
risultati e Parte 2., Sistemazione legale ed amministrativa del lavoro educativo, Roma, Tip. Ludovico
Cecchini, 1899-1900.
Giuseppe Cuboni, infine, fu un noto biologo e studioso di botanica. Insegnò alla Stazione di
patologia vegetale di Roma e collaborò con il Ministero dell’Agricoltura.
53
Il testo delle istruzioni e dei programmi per l’insegnamento delle prime nozioni di agricoltura
sono ripubblicati in Catarsi, Storia dei programmi, cit., pp. 240-246.
54
Stringher, L’istruzione agraria in Italia, cit., pp. 49-50.
28
completo del numero dei campicelli scolastici oggi esistenti») e si ironizzava sulla presa di
posizione espressa nel 1908 alla Camera dei Deputati dal ministro della pubblica istruzione, Luigi
Rava, nei confronti del riordino della scuola rurale («dichiarava di voler presentare un progetto di
riforma della Scuola rurale, ma di non averlo ancora potuto fare per la mancanza di elementi di
fatto sulla loro condizione e lamentava che si era venuto dimenticando tutto il materiale e tutta la
funzione statistica del Ministero e che quindi mancavano le statistiche della Scuola!»)55.
Un quadro desolante dell’insuccesso dei campicelli e dell’insegnamento agrario ci viene
offerto anche da un’altra fonte, una relazione manoscritta conservata tra le carte del ministro
Credaro56. Da essa apprendiamo che in provincia di Alessandria, ad esempio, l’insegnamento
dell’agraria nelle scuole rurali era «ben lungi dal corrispondere ai fini pei quali fu istituito»; la
maggior parte delle scuole erano prive del campicello e quei pochi che furono messi a
disposizione dai privati, erano stati pochi anni dopo sottratti alle scuole. A Bergamo la situazione
descritta era diversa da zona a zona: nel primo circondario quasi tutti i maestri insegnavano
l’agraria, nel secondo erano solo in pochi a farlo, nel terzo quasi nessuno. In provincia di Bologna
erano poche le scuole a disporre del campicello e se anche tutte ne avessero avuto uno a
disposizione, gli insegnanti non sarebbero stati in grado di trarne il frutto desiderato: «pochi
maestri sanno, pochi possono, pochissimi vogliono». A Brescia l’insegnamento agrario non aveva
«avuto adeguato sviluppo, né l’efficacia» auspicata, così come a Lucca dove era praticato «in quasi
tutte le scuole, ma non ragionevolmente, né con frutti soddisfacenti». Nella provincia di Cagliari
la situazione era peggiore: nel circondario di Iglesias e di Cagliari l’agraria non veniva insegnata in
nessuna scuola rurale, in quello di Lanusei solo in pochissime. Degli 11 campicelli di
Campobasso, si legge nella relazione, «alcuni sono semplici concessioni decorative» poiché
«sfumato l’entusiasmo, sopravvenne la più completa indifferenza». L’impreparazione dei maestri
era una delle cause principali alle quali addebitare tale insuccesso: così si ricava la notizia che a
Genova «non di rado è avvenuto che gli esperim[enti] del camp.[icello] sono abortiti con
discredito e scapito del maestro e della scuola»; nella provincia di Macerata l’insegnamento non
ebbe molta diffusione poiché «in genere si fa la parodia dell’insegnamento agrario». Nel distretto
di Porto Maurizio, odierna Imperia, un certo fervore accolse l’istituzione di 18 campicelli nel
1900, ma già nell’anno scolastico 1901-1902 non rimaneva che uno solo, nel momento in cui si
erano mostrati pochi utili e quindi erano decaduti «nell’opinione generale». Molto spesso
l’insuccesso era da addebitarsi ai Comuni, ai quali la legge chiedeva di favorire l’insegnamento
dell’agraria e l’istituzione dei campicelli. Era il caso denunciato nella provincia di Reggio Calabria
dove i Comuni preferivano sovvenzionare la Cattedra Ambulante di Agricoltura.
In chiusura di questa breve rassegna delle innovazioni sperimentate e non sempre con
successo sul terreno delle scuole rurali, si deve sottolineare come nell’ultimo quarto
dell’Ottocento si cercò di imprimere una svolta anche nel versante della specializzazione in senso
agricolo degli insegnanti rurali, attraverso l’inserimento, prima facoltativo, poi obbligatorio,
dell’insegnamento agrario tra le discipline di studio nelle scuole normali. Stando ai dati forniti da
Vittorio Stringher nella sua importante indagine sull’istruzione agraria in Italia, fin dal 1866-67
l’agraria veniva introdotta nella scuola normale provinciale di Bologna, in quello successivo ciò
55
Le citazioni sono tratte da L. Neppi Modona, L’insegnamento delle nozioni elementari d’agricoltura nelle
scuole rurali ed altri fattori di progresso agrario, «Atti della R. Accademia dei Georgofili», quinta serie,
volume V, 1908, p. 533.
56
ACS, Archivio Credaro, b. 8, fasc. «Agraria», Relazione sull’insegnamento agrario e sui campicelli
scolastici.
29
avveniva nelle scuole normali di Casale Monferrato, Forlì, Palermo, Perugia, Pisa, Reggio Emilia
ed Urbino. Dal 1869-70 tale insegnamento entrava nella scuola normale de L’Aquila e dal 187374 in quella di Pinerolo. Negli anni successivi seguirono le scuole normali di Bari e Messina
(1875-76), le femminili di Udine, Capua (1879-80) e Potenza (1880-81), la maschile di
Campobasso (1880-81). In tal modo nell’anno scolastico 1890-91 l’agraria era impartita in 27
scuole normali maschili e in 10 femminili, distribuite in varie regioni d’Italia. A favorire
l’introduzione dell’agraria nelle scuole normali fu dapprima il ministero dell’agricoltura che se ne
occupò fino al 1893-94, anno in cui tale materia era impartita in 29 scuole normali maschili e 18
femminili. Dall’anno scolastico successivo subentrò nell’organizzazione il ministero della pubblica
istruzione. Nel 1900 Stringher riferiva che lezioni di agraria si impartivano oramai in tutte le
scuole normali femminili del Regno a motivo delle disposizioni previste della legge del 12 luglio
1896, con la quale l’agraria venne posta fra le materie obbligatorie delle scuole normali.
Ma anche in questo caso i risultati concreti non dovevano essere così positivi come si era creduto.
Questo dato emerge con chiarezza da una relazione del ministro Credaro in cui addebitava la
principale ragione nel fatto che la maggioranza degli insegnanti elementari erano maestre e, come
tali, poco interessate alle questioni agricole57. Né frutti migliori erano stati conseguiti con
l’introduzione delle conferenze autunnali in cui si svolgevano lezioni di agraria ai maestri a
motivo del loro disinteresse per l’agricoltura: le conferenze erano così diventate, a giudizio di
Credaro, una sorta di periodo di vacanza per i maestri durante il quale si sottraevano alla «vita
monotona […] del villaggio», imparavano a conoscersi, si interessavano di questioni sindacali e
fondavano «qualche sezione dell’U.M.N.». Così descritte da Credaro le conferenze erano
momenti vuoti e aridi: vi partecipava il «Prov.[vedito]re e talora anche il Prefetto che fanno un
discorsetto d’occasione; e senza esame sono tutti proclamati maestri d’agraria e restituiti col
rispettivo glorioso diploma al comunello»58.
2. I filantropi entrano in azione: la stagione del riformismo liberale
Se l’ultimo scorcio dell’Ottocento aveva lasciato intravedere un iniziale interesse dello Stato,
subito venuto meno, nei confronti dell’istruzione dei giovani contadini e della specializzazione
dell’istruzione primaria in senso agrario, bisognerà attendere l’iniziativa svolta in questo campo
dai privati per veder fiorire in Italia nuove esperienze di scuole rurali o di istituzioni educative
rivolte ai bisogni della popolazione agraria. Tale sensibilità si diffonde all’incirca durante il
ministero Baccelli, vale a dire nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento, ad opera di taluni
sodalizi di agrari o singoli proprietari terrieri e filantropi. In Friuli è degna di nota l’opera svolta
dall’Associazione Agraria Friulana, con la Sezione di Magistero per l’insegnamento dell’agraria
destinata agli insegnanti elementari. A testimonianza di tale interesse si può citare il breve studio
apparso nel 1903 tra le pubblicazioni del sodalizio friulano degli agricoltori e dei cultori di studi
agrari, e curato da Gabriele Luigi Pecile, uomo politico udinese noto in ambito pedagogico per la
57
58
Ivi, Archivio Credaro, b. 8, fasc. «Agraria», Relazione sull’insuccesso dell’insegnamento agrario.
Ibid.
30
sua attività di promozione dell’insegnamento fisico-ginnico e dei giardini d’infanzia, a proposito
dell’opera svolta dalle scuole inferiori di agraria in Germania59.
Nel 1899 il barone di origine ebraica Leopoldo Franchetti aiutò don Brizio Casciola a ottenere dal
Comune di Roma una vasta area alle porte della capitale, per aprirvi una colonia agricola, allo
scopo di formarvi giovani bisognosi al mestiere di contadini. Due anni dopo il ricco proprietario
terriero aprì nella sua tenuta posta nelle vicinanze di Città di Castello, in Umbria, la scuola rurale
della Montesca, per accogliere i figli dei propri contadini che, non potendo accedere alle scuole
del circondario per l’eccessiva distanza, crescevano nell’ignoranza60. L’anno successivo fu attivata
una seconda scuola, posta sempre all’interno della tenuta, nella località di Rovigliano. Ad animare
quell’esperienza fu, come è noto, la moglie di Franchetti, Alice Hallgarten, la quale riuscì, grazie
alla capillare ed estesa rete di contatti creata con eminenti personalità della pedagogia e della
cultura del tempo, come Maria Montessori, Lucy Latter e successivamente Giuseppe Lombardo
Radice, a fare della Montesca un centro di formazione per i fanciulli contadini conosciuto in tutta
Italia e anche al di fuori dei confini nazionali61.
Risaliva ad un quindicennio prima, la fondazione di un’altra esperienza che mirava alla lotta
all’analfabetismo e alla qualificazione professionale dei contadini: si trattava della «Società delle
Scuole per adulti e piccole industrie nelle campagne». Fondata da una dinamica figura del
movimento femminista lombardo, Rebecca Calderini Berettini, la Società iniziò ad operare nel
1893-94 creando corsi serali per i contadini che erano tenuti nei mesi invernali e intendevano
stimolare, perfezionare e introdurre piccole lavorazioni rurali da svolgersi durante i periodi di
sosta dai lavori agricoli62. Nel 1897-98 le scuole erano salite a 22, distribuite nelle province di
59
Altre pubblicazioni di Pecile su tale argomento sono: Le scuole inferiori di agraria nell’Impero
Germanico, Udine, Tip. di Giuseppe Seitz, 1893; L’insegnamento agrario in Italia quale e, quale dovrebbe
essere: con note sull’insegnamento agrario germanico, Torino, C. Clausen, 1894; L’insegnamento agrario in
Germania con premessa sull’insegnamento agrario in Italia, Torino, C. Clausen, 1897; Notizie intorno alla
sezione di Magistero per l’insegnamento dell’agraria, annessa alla R. Scuola normale femminile di Udine, Udine,
Tip. di Giuseppe Seitz, 1899; fu anche autore della prefazione al volumetto di A. Gaidoni,
Insegnamento agrario nelle scuole elementari, Udine, Stab. Tip. Friulano, 1914. Sulla sua figura cenni in
Teseo ‘900: editori scolastico-educativi del primo Novecento, Milano, Bibliografica, 2008, p. LXXV.
60
Sulla Montesca si veda: S. Bucci, La scuola della Montesca. Un centro educativo internazionale, in P.
Pezzino, A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi,
2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento cfr. la voce «Montesca, scuola» curata da R. Titone, in
Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino, Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344;
V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E.
Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee
editoriali, 1984.
61
L’impegno diretto nel campo dell’educazione all’infanzia da parte della famiglia Franchetti
iniziò un venticinquennio prima della creazione della scuola della Montesca. Nel 1876, infatti, il
barone Raimondo Franchetti (1829-1905), cugino di Leopoldo, ricco proprietario terriero come
lui, comunicava la sua decisione al sindaco di Roverbella, paese del Mantovano, di istituire dal
primo novembre di quell’anno nella sua tenuta di Canedole un asilo infantile, completamente a
sue spese. Ispirandosi al metodo froebeliano, l’asilo accoglieva i bambini dei contadini, di età
compresa tra i 3 e i 6 anni. Sulla figura di Raimondo Franchetti cfr. G. Picchiotti, Per la morte del
Barone Raimondo Franchetti: parole pronunciate in limite il 26 novembre 1905, Empoli, Tip. Guainai, 1906.
62
Sulla figura della Calderini Berettini (1847-1926) cfr. A. Gigli Marchetti, Donna lombarda (18601945), Milano, Franco Angeli, 1992, p. 31 e p. 134; R. Farina (a cura di), Dizionario biografico delle
donne lombarde (568-1968), Milano, Baldini&Castoldi, 1995, pp. 138-140. Socia dell’Unione
Femminile, la Calderini Berettini fondò a Milano nel 1895 anche le «Scuole preparatorie operaie»,
31
Milano, Bergamo, Como e Cremona, con 1.558 alunni. Nell’anno scolastico 1905-06 si contavano
56 scuole, di cui 3 festive femminili, in 38 Comuni con un totale di 3.284 iscritti 63. La Società
contava nel 1905 trenta soci permanenti ed era sussidiata dalla Società Umanitaria, dal ministero
dell’Agricoltura e da altre istituzioni locali64. Il programma d’insegnamento prevedeva la lettura, la
scrittura, l’aritmetica, l’igiene, l’agricoltura, la morale civile. Le scuole ricevevano l’approvazione
dei Comuni, sotto la cui vigilanza si trovavano. L’insegnamento era impartito dai maestri
elementari, posti alle dipendenze dell’autorità comunale.
Pochi anni dopo sempre in Lombardia vedeva la luce un’altra interessante esperienza di
istruzione agraria rivolta, però, esclusivamente alle giovani contadine. Si trattava della Scuola
Pratica di Agricoltura Femminile, diretta da un’intellettuale fiorentina di origine ebraica, Aurelia
Josz, e fondata a Niguarda, nella campagna milanese, grazie al supporto di un Comitato
promotore dell’istruzione agraria creato a Milano nel marzo 190165. Non sorprende notare come
la Josz condividesse con Alice Hallgarten non solo la comune origine ebraica, ma anche
un’amicizia e una stima reciproca per l’impegno filantropico intrapreso da entrambe nel campo
dell’educazione rurale. Eretta in ente morale nel 1921, la Scuola a partire da quell’anno attivò il
primo corso magistrale di agraria, nell’intenzione di offrire alle maestre destinate alle scuole di
campagna l’opportunità di specializzarsi attraverso l’attività pratica e di integrarsi in modo
adeguato nel futuro ambiente lavorativo.
Un’interessante esperienza a metà strada tra istruzione popolare e istruzione agraria vedeva
la luce nel 1907 a Lari, presso Pisa: si trattava della «Scuola agraria comunale elementare». A
farsene promotore fu un uomo politico, Emilio Bianchi, avvocato e deputato liberale, ma
soprattutto socio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, il prestigioso sodalizio intellettuale che
riuniva la parte più illuminata dei proprietari terrieri e dei cultori di studi agrari. Tale fatto non era
certo irrilevante e deve essere tenuto in considerazione per comprendere la genesi di
quell’esperienza. Bianchi, infatti, dopo aver costatato la necessità di diffondere il sapere agrario tra
i contadini e aver riscontrato l’impossibilità di fare affidamento sulle Cattedre Ambulanti di
Agricoltura, inviò il primo aprile 1905 al Comune di Lari la sua proposta volta alla creazione di
una scuola agraria informandolo della volontà del ministero dell’Agricoltura di contribuire alla sua
nascita. La proposta venne accolta dal consiglio comunale nella seduta del 25 maggio e
nell’ottobre successivo venne approvato uno statuto66. In base ad esso la scuola era finanziata dal
ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e dalla Cassa di Risparmio di Pisa, mentre il
sorte per dare alle bambine dai nove ai quattordici anni un’istruzione di base e un addestramento
professionale che le avviava al lavoro di cucitrici, modiste, magliaie e sarte.
63
I dati sono tratti da: Neppi Modona, L’insegnamento delle nozioni elementari d’agricoltura, cit., p. 554.
64
Sulla storia dell’Umanitaria si rinvia a: R. Bauer, La Società Umanitaria: Fondazione P. M. Loria
Milano (1893/1963), Milano, Società Umanitaria, 1964; P. Mosetti, D. Tacchinardi, Le scuole
professionali dell’«Umanitaria» (1902-1914). Parte 1, «Nuova Rivista Storica Anno», LXVII, (5-6)
1983, pp. 579-610; P. Mosetti, D. Tacchinardi, Le scuole professionali dell’«Umanitaria » (1902-1914).
Parte 2, «Nuova Rivista Storica Anno», LXVIII, (1-2) 1984, pp. 109-138; Riccardo Bauer: atti delle
Giornate di studio organizzate dalla Società Umanitaria - Milano 5-6 maggio 1984, a cura di M. Melino,
Milano, Franco Angeli, 1985.
65
Sulla scuola di Niguarda cfr. P. D’Annunzio, Aurelia Josz (1869-1944): un’opera di pionerato a favore
dell’istruzione agraria femminile, «Storia in Lombardia», A. XIX, 2 (1999), pp. 61-96; V. Vita Josz, Le
origini della prima scuola agraria femminile italiana nel pensiero e nell’opera di Aurelia Josz, Nervi, Tip.
Ongarelli, 1957.
66
ASCL, Delibere del consiglio comunale, cc. 348-349, Seduta del consiglio comunale del 25 maggio
1905.
32
Comune metteva a disposizione il locale scolastico e il materiale occorrente. Essa era diretta da
una commissione formata da un presidente e due consiglieri, nominati dalla giunta municipale.
L’insegnamento impartito si basava su nozioni di agronomia, igiene, nozioni basilari di
contabilità, estimo rurale, meccanica applicata all’agricoltura e legislazione agraria. Le lezioni, da
36 a 40 per ciascun anno, erano ripartite in due distinte sezioni, una in primavera e l’altra in
autunno, nei giorni di giovedì e domenica, al fine di sottrarre il minor tempo possibile i giovani
dai lavori nei campi. La scuola poteva essere frequentata dagli agricoltori di Lari e del circondario
che non avessero avuto più di 25 anni di età e che avessero ottenuto la licenza elementare, o che
in caso contrario sapessero comprovare l’acquisizioni di conoscenze di base. Essa era gratuita per
i contadini poveri, mentre per coloro che erano nelle condizioni di poter pagare, era previsto
l’esborso annuo di 5 lire. L’insegnante che prestava la sua opera doveva essere un tecnico della
locale Cattedra Ambulante di Agricoltura: per i primi tempi questa opera fu svolta da Giovanni
Emilio Rasetti, professore di agricoltura e specializzato in chimica e botanica, nonché direttore
della Cattedra Ambulante di Pisa67. La scuola iniziò a funzionare nel 1907 con 42 alunni iscritti;
nel maggio dello stesso anno Bianchi presentò le caratteristiche di quanto sperimentato a Lari al
pubblico dell’Accademia dei Georgofili con una relazione poi pubblicata negli Atti del sodalizio68.
Presentava dei caratteri comuni con l’esperienza tentata dall’onorevole Bianchi a Lari quella,
più ambiziosa e destinata a maggior successo, del senatore Eugenio Faina, proprietario di una
vastissima tenuta di alta collina e bassa montagna posta tra Perugia e Orvieto. Di fronte alla crisi
agraria di fine secolo Faina si era persuadendo della necessità di favorire un vasto programma di
modernizzazione dell’agricoltura che contemplava, tra le altre cose, la formazione sia dei
proprietari, che dei contadini69. Per i primi creò l’Istituto Superiore Agrario di Perugia, sorto nel
1896, mentre per i secondi fondò due anni dopo la Cattedra Ambulante di Agricoltura. Ma ben
presto si rese conto del bisogno di creare un sistema formativo rivolto ai giovani contadini che
fosse maggiormente rispondente alle esigenze del mondo rurale e che fornisse un corredo di
nozioni scientifiche e culturali di base superiore a quello fornito dall’insegnamento agrario
ambulante e dalla scuola elementare. Alla luce di tale costatazione il senatore iniziò nel 1906 una
sperimentazione finalizzata alla creazione di una scuola rurale modello. Ricevuta la disponibilità
del Comune di San Vito in Monte e una certa libertà d’azione dalle autorità scolastiche, egli
provvedeva a chiudere la scuola «non classificata» della frazione montana di Palazzo Bovarino,
frequentata da un numero esiguo di alunni, e ad aprirne un’altra con due sedi, poste una nel
villaggio montano di Ospedaletto e l’altra presso la villa di Spante, sede di una sua fattoria. La
retribuzione dell’insegnante sarebbe restata a carico del Comune, mentre il conte avrebbe messo a
67
Giovanni Emilio era il padre di Franco Rasetti, il noto fisico collaboratore di Enrico Fermi nel
famoso istituto di via Panisperna a Roma. Le lezioni tenute nella scuola di Lari furono pubblicate
in G.E. Rasetti, Sommario delle lezioni di agricoltura, Pisa, Tip. F. Simoncini, 1908.
68
E. Bianchi, Un nuovo tipo di scuole agrarie rurali, «Atti della Reale Accademia economica-agraria dei
Georgofili di Firenze», quinta serie, volume quarto, pp. 173-188.
69
Sulla scuola creata dal senatore Faina si rinvia a L. Montecchi, Una scuola per i contadini: la Scuola
Rurale Faina, «History of Education & Children’s Literature», IV, 1 (2009), pp. 179-197; Id., Dalla
Cattedra Ambulante di Agricoltura alle Scuole Rurali: il contributo di Eugenio Faina alla formazione
professionale dei contadini nell’Umbria mezzadrile, «Rivista di storia dell’agricoltura», LII, 1 (2012), pp.
101-116; Id., La Scuola Rurale Faina. Un’esperienza di istruzione popolare e agraria nell’Italia rurale del
Novecento, Macerata, Eum, 2012.
33
disposizione gratuitamente l’abitazione per la maestra e le due aule scolastiche, oltre a 300 lire per
integrare lo stipendio dell’insegnante70.
Il progetto prevedeva che la maestra dovesse abitare ad Ospedaletto dove avrebbe tenuto la
lezione in mattinata e che nel pomeriggio avrebbe ripetuto la stessa lezione nella villa di Spante.
Innovativa era anche la disposizione delle aule che furono costruite secondo il cosiddetto
modello olandese. Si trattava di una scuola con due aule divise da una parete a vetri in genere fissa
ma con la possibilità di essere smontata a seconda delle esigenze. Una porta permetteva alla
maestra di passare agevolmente da un’aula all’altra. Le classi erano suddivise la prima in un’aula, la
seconda e terza in un’altra. La parete a vetri permetteva di non disturbare il lavoro degli allievi
dell’altra aula e consentiva a una sola maestra di vigilare contemporaneamente gli altri allievi.
La scuola, con corso elementare fino alla terza classe, fu aperta nel novembre 1906. I primi
anni della sua vita furono caratterizzati da notevoli difficoltà rappresentate soprattutto dal disagio
della montagna al quale non erano preparati gli insegnanti e dallo stipendio messo a loro
disposizione, giudicato non sufficiente a ripagare le fatiche quotidiane. Solo nell’anno scolastico
1909-10 la scuola riuscì a funzionare a pieno regime grazie all’opera di una valente maestra e
all’esame finale della terza elementare si ebbero nove prosciolti su tredici iscritti. Il primo
obiettivo fu considerato raggiunto da Faina che a quel punto si occupò di far proseguire gli studi
ai bambini che in terza elementare venivano prosciolti creando un adeguato sistema di istruzione
post-elementare formato da un corso complementare e da uno professionale.
Il
corso
complementare, di durata triennale, nasceva dall’esigenza di integrare il sapere degli alunni
prosciolti dalla scuola elementare, perfezionando la lettura e la scrittura, «destando nell’allievo
l’attitudine ad osservare e riflettere e fornirgli quelle elementari cognizioni scientifiche che hanno
più diretta applicazione nella vita pratica». In particolare al primo anno erano impartite nozioni di
storia naturale, fisiologia ed igiene; al secondo nozioni di fisica e chimica mentre al terzo nozioni
di geografia, elementi di geometria e disegno e nozioni sull’ordinamento dello Stato.
Il corso complementare creato da Faina cominciò a funzionare il 22 ottobre 1910, con
nozioni di storia naturale su schemi compilati dal conte e dalla maestra quasi sempre per
corrispondenza. In ogni conferenza, che si teneva con cadenza settimanale, la maestra presentava
il materiale oggetto della lezione cercando di destare l’attenzione degli allievi. Procedeva poi a
dimostrazioni o esperimenti e, infine, a riflessioni e conclusioni. Al termine della lezione dettava
alcuni quesiti ai quali l’allievo doveva rispondere per iscritto presentando il lavoro all’insegnante
nella successiva lezione. I compiti erano corretti e poi riconsegnati al ragazzo insieme ad una
copia dello schema poligrafato della lezione corrispondente perché potesse conservare più
facilmente memoria delle nozioni apprese71.
L’ultimo tassello del percorso formativo ideato da Faina fu il corso professionale a cui
assegnava il compito di provvedere alla formazione tecnica dei futuri agricoltori. Esso nasceva
dalla convinzione che «scuola elementare e scuola complementare preparano l’allievo non lo
formano». In altre parole, non era sufficiente per il giovane contadino un corredo di nozioni di
cultura generale più vasto, ma egli abbisognava pure di un insegnamento pratico da cui poter
trarre utili ed immediati vantaggi nella vita di tutti i giorni. Dato il carattere eminentemente
professionale l’insegnamento non poteva essere affidato alla maestra elementare che, priva delle
adeguate conoscenze agronomiche non avrebbe potuto svolgere al meglio il compito assegnato,
ma agli assistenti della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Perugia. Il primo corso professionale
70
71
Ivi, pp. 12-13.
Ivi, p. 15.
34
iniziò nell’ottobre 1913 nella scuola di Ospedaletto con una serie di conferenze settimanali72. Le
lezioni concernevano nozioni di agraria, nel primo anno, e di zootecnia, nel secondo. Ricevuto il
plauso del ministro Credaro e della Commissione Centrale per il Mezzogiorno, Faina riuscì ad
aprire nel 1912 ben dodici corsi complementari nelle campagne umbre che crebbero dopo la
guerra, tanto che nel 1922 si fece promotore della nascita dell’Ente Nazionale per la Scuola
Rurale, fondato a Roma, che avrebbe dovuto estendere a tutte le scuole rurali con tre classi la sua
scuola imperniata sul corso complementare (detto anche preparatorio) e su quello professionale.
Nel 1904 prese avvio per opera di alcune personalità della cultura e filantropi, come Sibilla
Aleramo, Giovanni Cena, Alessandro Marcucci, l’esperienza destinata a divenire famosa delle
Scuole rurali dell’Agro Romano. Promossa in origine dalla sezione romana dell’Unione femminile
nazionale, tale esperienza vedeva la luce nelle campagne dell’Agro, alle soglie di Roma, dove la
povertà era assoluta e l’analfabetismo quasi totale. In un primo momento lo Stato iniziò
un’azione di bonifica sanitaria per combattere la malaria assai diffusa, mentre il municipio di
Roma fondò qualche scuola elementare. Ma queste rimanevano deserte essenzialmente perché
lontane dai villaggi rurali e perché il giorno i giovani erano impegnati nei lavori agricoli. La
soluzione fu la scuola festiva, itinerante o stabile, che accoglieva ragazzi e adulti. La prima scuola
fu aperta a Lunghezza nel 1904, l’anno seguente ne furono aperte altre a Marcigliana e Pantano73.
Nel giro di poco tempo l’associazione moltiplicò le sue attività, al punto che nell’anno scolastico
1913-14 nell’Agro romano, nelle paludi pontine e nelle vicine montagne funzionarono
complessivamente 48 scuole serali, 7 festive, 4 diurne, 3 estive e un asilo d’infanzia. Si era anche
avviato l’esperimento delle scuole ambulanti in Ciociaria in favore dei «guitti» che rientravano nei
loro paesi d’origine al termine dei lavori stagionali svolti nelle campagne intorno a Roma74.
Un’azione per certi versi analoga venne svolta nell’Italia meridionale dall’Associazione
Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), sorta ad opera di Leopoldo
Franchetti e Pasquale Villari all’indomani del terremoto che nel 1908 colpì le regioni meridionali.
Nel campo dell’educazione la sua prima opera fu l’apertura di un asilo infantile a Villa San
Giovanni, a cui ne fecero seguito molti altri75. Inoltre l’associazione promosse la creazione di
biblioteche popolari e, grazie ai fondi ricevuti nel 1919-20 dalla Croce Rossa Americana e dalla
Fondazione Nazionale Industriale per Orfani di Guerra, riuscì a mettere in piedi un alto numero
di asili che nel 1925 raggiunsero il numero di 10776.
72
E. Faina, Scuole Popolari Rurali. Conferenza tenuta nella sede della Federazione delle Società Scientifiche e
Tecniche, il 12 maggio 1912 per iniziativa del Consorzio Agrario di Milano, estratto da «La Coltura
Popolare», Varese, 1912, p. 13.
73
D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 262-263.
74
Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., p. 67.
75
Sulla storia dell’Animi si vedano: U. Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli
Interessi del Mezzogiorno nei suoi primi cinquant’anni di vita, in L’Associazione Nazionale per gli Interessi del
Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1960,
pp. 7-137; G. Alatri, Le scuole e l’azione cultura e sociale della Associazione Nazione per gli Interessi del
Mezzogiorno d’Italia dalla fondazione alla caduta del Fascismo, «I problemi della pedagogia», novembredicembre 1990, pp. 561-582; Serpe, La Calabria e l’opera dell’Animi, cit.
76
E. Faina, Il manuale della scuola rurale, Firenze, Bemporad, 1927, p. 14.
35
3. Lo Stato e le riforme dell’istruzione rurale in età giolittiana
Se una delle risposte alla crisi di fine secolo era stata in campo educativo l’interventismo
di esigue ma dinamiche minoranze, formate da filantropi, proprietari terrieri e uomini politici,
convinte della necessità di risollevare le condizioni morali e materiali dell’infanzia nelle campagne,
nondimeno un’analoga risposta giungeva dal terreno della politica. La classe dirigente liberale,
infatti, uscì dalla crisi fortemente scossa e, al contempo, consapevole che non fosse più rinviabile
un’azione riformatrice che valesse, se non altro, a prevenire future agitazioni e sconvolgimenti
sociali77.
Il primo intervento legislativo da questo punto di vista fu il disegno di legge 30 gennaio
1904, n. 465 intitolato, Provvedimenti per la scuola e pei maestri elementari, che venne depositato in
parlamento dal ministro della pubblica istruzione Vittorio Emanuele Orlando durante il secondo
gabinetto Giolitti. La manifestazione da parte del governo della volontà di provvedere in modo
più risoluto al miglioramento dell’istruzione primaria accese subito un certo dibattito nell’ambito
del quale possiamo registrare l’intervento del senatore nonché direttore de «La nuova antologia»,
Maggiorino Ferraris. Dalle colonne di quella autorevole rivista egli forniva, pochi mesi dopo la
presentazione del disegno di legge del ministro Orlando, una sua proposta che in ordine al tema
rappresentato dall’istruzione rurale si ispirava all’applicazione di due principi fino ad allora
criticati e rifiutati: la scuola mista per i due sessi e le classi alternate al mattino e al pomeriggio78.
Facendo l’esempio di un Comune rurale di 1.200 abitanti con la scuola obbligatoria di sei anni e
circa 140 ragazzi obbligati, metà maschi e metà femmine, se si continuava come in passato a non
applicare quei due principi sarebbero occorse dodici classi, sei insegnanti ed una spesa annua
minima per i soli stipendi di circa 12.000 lire, oltre a quella dell’edificio e del materiale scolastico.
Il rapporto insegnante-alunni sarebbe stato di uno a dodici. Ma era evidente che le condizioni
delle finanze pubbliche non avrebbero permesso una tale situazione. Applicando le sue proposte
– scuola mista e classi alternate – i 140 alunni sarebbero stati ripartiti in sei classi miste di circa 23
alunni; adottando il sistema delle classi alternate, il maestro avrebbe insegnato nella mattina alle
prime tre classi elementari, nel pomeriggio alle tre classi superiori; oppure ricorrendo al metodo
delle classi riunite, ogni insegnante avrebbe tenuto contemporaneamente due classi nella stessa
aula, divise in sezioni: mentre impartiva l’insegnamento ad una classe, assegnava all’altra un
compito. Così facendo sarebbero bastati tre insegnanti per garantire l’insegnamento alle sei classi
del corso elementare e la spesa minima per gli stipendi sarebbe scesa a 3.000 lire79.
A distanza di sette mesi dalla presentazione in parlamento, si giunse all’approvazione della
legge dell’8 luglio 1904, n. 407, che prese il nome del ministro Orlando. Essa estendeva a dodici
anni la durata dell’istruzione obbligatoria con la creazione del corso popolare di durata biennale
che si aggiungeva ai quattro anni del corso elementare inferiore e superiore, ma tale adeguamento
era più formale che sostanziale, poiché era limitato alle classi elementari esistenti nel Comune di
residenza degli alunni. I beneficiari erano soprattutto gli alunni delle scuole di città, dove talvolta
esisteva il corso superiore, non certo nelle campagne dove il corso si limitava alle prime tre classi.
Qualche effetto positivo giunse alle scuole rurali da una norma contenuta nella legge che
prevedeva la possibilità di effettuare degli sdoppiamenti delle classi troppo numerose, che
77
Su questo punto cfr. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., pp. 199204.
78
M. Ferraris, Per la scuola popolare, «La nuova antologia», maggio-giugno 1904, pp. 205-206.
79
Ivi, p. 205.
36
potevano essere imposti anche in modo coattivo: in tal modo venivano assegnate ad un solo
maestro due classi, in orari diversi, con un numero di ore di insegnamento ridotto. Si favorì,
inoltre, l’incremento di scuole facoltative e di quelle serali e festive per adulti, ponendo a carico
dello Stato, in tutto o in parte, gli stipendi dei loro insegnanti80.
Ben più importante ai fini del nostro discorso fu però la legge 15 luglio 1906, n. 383
contenente Provvedimenti per le province meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna 81. Essa, infatti,
prevedeva la possibilità di istituire scuole elementari inferiori di terza classe rurale interamente a
spese dello Stato nelle frazioni o borgate con almeno 40 obbligati, condizioni che era più
frequente trovare nelle campagne e nelle zone di collina e di montagna. Si trattava di una vera
rivoluzione, che anticipò l’avocazione delle scuole del 1911, in quanto per la prima volta si
affermava il principio secondo il quale lo Stato interveniva direttamente e con propri mezzi a
fondare scuole rurali laddove ve ne fosse maggiormente bisogno. La legge del 1906 prevedeva
inoltre che anche le scuole elementari inferiori facoltative, mantenute dai Comuni, potevano
essere classificate di terza rurale; in cambio lo Stato avrebbe sostenuto la spesa necessaria per
l’aumento dello stipendio dell’insegnante. Veniva inoltre istituita presso il ministero una
«Commissione Centrale per la diffusione dell’istruzione elementare nel Mezzogiorno e nelle
isole», costituita da sette membri, di cui il presidente e due membri nominati con decreto dal
ministro della pubblica istruzione, due membri eletti dalla Camera e altrettanti dal Senato fra i
propri membri. Suo compito sarebbe stato quello di amministrare gli eventuali fondi residui
derivanti dall’erogazione dei fondi stanziati per effetto di questa legge, di fornire pareri al ministro
e di dichiarare, dietro la proposta del consiglio scolastico provinciale, se un comune avesse o
meno contravvenuto ai suoi obblighi scolastici: in questo caso il provveditore poteva inviare in
quel comune un direttore didattico per assumere la direzione dei servizi scolastici con i poteri di
un commissario prefettizio. Altri provvedimenti contenuti nella legge del 1906 concernevano
l’edilizia scolastica, attraverso la concessione di mutui di favore e il concorso dello Stato per un
terzo della spesa, gli sdoppiamenti delle classi numerose, grazie all’incremento di un apposito
fondo, l’istituzione di 2.000 nuove scuole serali e festive per adulti analfabeti. L’articolo 77
prevedeva, infine, che tali disposizioni avrebbero riguardato non solo le regioni meridionali e le
isole, ma anche buona parte dell’Italia centrale: le province di Ancona, Ascoli Piceno, Macerata,
Pesaro e Urbino, Perugia, Roma (eccetto il comune di Roma), l’isola d’Elba, l’isola di Capraia e
l’isola del Giglio82.
La legge del 1906 fu quella che segnò una vera svolta per la scuola rurale dopo
cinquant’anni di sostanziale immobilismo che connaturò il periodo iniziato con l’emanazione
della Legge Casati. Infatti durante l’anno 1907-1908 furono istituite 1.782 nuove scuole di terza
classe rurale a intero carico dello Stato e 1.462 scuole grazie agli sdoppiamenti. Inoltre 333 scuole
80
Ivi, pp. 219-220.
Il disegno di legge era stato presentato l’8 marzo 1906 quando ministro della pubblica
istruzione era Paolo Boselli nel primo governo Sonnino.
82
La Commissione per il Mezzogiorno rimase attiva almeno fino al 1921 quando il senatore Del
Giudice presentò un’interrogazione parlamentare al governo in cui si chiedeva se la nuova Opera
contro l’analfabetismo, appena costituita, non l’avrebbe danneggiata, invadendo in parte il terreno
in cui operava. Eventualità negata dal ministro Corbino in sede di discussione parlamentare:
«Non tema il senatore Del Giudice – disse il ministro – che i due istituti che hanno per fine di
combattere l’analfabetismo, abbiano ad intralciarsi: ambedue mirano ad uno scopo altissimo:
quello del bene dell’Italia» (Cfr. L’Opera contro l’analfabetismo in Senato, «I diritti della scuola», n. 10,
18 dicembre 1921, pp. 144-145).
81
37
erano state trasformate da facoltative in classificate. Tirando un bilancio alla data del primo
gennaio 1908 ben 3.577 scuole erano state istituite grazie alla legge del Mezzogiorno del 190683.
Numeri che venivano sottolineati con forza dal Direttore generale dell’istruzione primaria e
popolare, Camillo Corradini, nella sua famosa inchiesta sullo stato della scuola primaria nel Regno
pubblicata nel 1910 e destinata a diventare oggetto di riflessione per una parte della classe
dirigente sulle condizioni in cui versavano le scuole elementari. Per Corradini occorreva muoversi
su questa strada e, ad esempio, finanziare ulteriormente il fondo statale per gli sdoppiamenti per
fondare altre 4.000 scuole e per fornire i locali scolastici per le nuove classi84. L’inchiesta
fotografava inoltre il fenomeno delle scuole rurali uniche presenti in Italia mettendolo in rapporto
al numero complessivo di scuole elementari: esse assommavano a 16.166 ed equivalevano a più di
un quarto del totale di scuole presenti nel Regno (63.618). Di esse ben 3.529 contenevano più di
70 alunni, 4.868 tra 70 e 50 alunni e 7.769 meno di 50 alunni85.
Un altro punto di snodo nella storia delle scuole rurali è rappresentato dalla legge 4
giugno 1911, n. 417, detta anche Legge Daneo-Credaro, che costituì lo sforzo più poderoso fatto
dall’Unità per diffondere l’istruzione elementare nel paese. Approntata dal ministro della pubblica
istruzione Luigi Credaro, che introdusse alcuni emendamenti ad un progetto di legge presentato
dal suo predecessore Edoardo Daneo, essa prevedeva l’avocazione della scuola elementare allo
Stato, ad eccezione che per i Comuni capoluogo di provincia e di circondario. Per quanto
riguardava le scuole rurali con classi riunite sotto un solo maestro con unico orario, istituite nei
Comuni e nelle borgate, la legge disponeva il loro riordinamento nel seguente modo: nei Comuni
e nelle borgate dove era istituita una sola di tali scuole, al maestro che vi era preposto era affidato
l’insegnamento in orari diversi, a norma, per quanto riguardava l’orario, dell’articolo 6 della legge
8 luglio 1904, n. 407, della prima classe e della seconda e terza; nei Comuni e nelle borgate in cui
esistevano due di tali scuole, sarebbero state istituite quattro classi miste, e l'insegnamento
sarebbe stato affidato in orari diversi ed a norma del citato articolo 6, per quanto riguardava
l’orario, a due insegnanti con norme da stabilirsi nel regolamento; nei Comuni e nelle borgate, nei
quali tali scuole erano più di due, si sarebbe proceduto con le stesse norme al riordinamento,
istituendo, ove sia possibile, la quarta classe. L’articolo 34 della nuova legge prevedeva inoltre che
nei Comuni e nelle borgate, nei quali per effetto del riordinamento si fosse istituita la quarta
classe, l’obbligo dell’istruzione, limitato per effetto dell'articolo 1 della legge Orlando del 1904, al
solo corso inferiore, veniva esteso alla quarta classe elementare. Le classi quinta e sesta non
sarebbero potute essere istituite se il Comune non avesse adempiuto agli obblighi di legge
relativamente alle scuole nelle frazioni. Infine, veniva disposto che il riordinamento delle scuole
rurali doveva essere attuato entro un triennio a cominciare dall’anno scolastico 1911-1912 in
modo progressivo: nel primo anno toccava alle scuole nelle quali gli alunni iscritti superarono
83
C. Corradini, Relazione presentata a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione dal Direttore Generale per
la Istruzione primaria e popolare, 4 voll. Roma, tip. Operaia Romana Cooperativa, 1910, vol. I, p. 40.
Scomponendo i dati regione per regione si evince che il numero complessivo di scuole istituite,
trasformate o sdoppiate in base alla legge del 1906 erano state 500 nelle Marche, 296 in Umbria,
145 nel Lazio, 497 in Abruzzo e Molise, 586 in Campania, 241 in Puglia, 70 in Basilicata, 482 in
Calabria, 648 in Sicilia e 10 nelle isole di Capraia, Giglio ed Elba.
84
Ivi, p. 425
85
Ivi, p. 38.
38
nell’anno scolastico 1910-1911 il numero di 70; nel secondo anno quelle nelle quali superarono il
numero di 50; nel terzo anno le rimanenti86.
4. Il dibattito sulla scuola rurale nel primo dopoguerra
La questione di una riforma radicale della scuola rurale faceva irruzione nel dibattito
pubblico e segnatamente in quello pedagogico e magistrale, con una forza inusitata
nell’immediato primo dopoguerra. Mai prima di allora, infatti, si erano registrati in Italia
un’attenzione e un interesse verso il tema dell’istruzione dei contadini, sia adulti che fanciulli, tali
da produrre un ampio ventaglio di proposte, idee e progetti, destinati solo in parte a tradursi in
pratica, ma che restano una testimonianza di una stagione culturale di grande vivacità e che
costituiscono un’interessante pagina per la storia dell’educazione italiana del primo Novecento.
Al di là delle inevitabili differenze politiche e sensibilità ideali, infatti, era largamente
avvertita da tutti la necessità di ridisegnare l’intero sistema italiano dell’istruzione, cercando tra le
altre cose di introdurre interventi di politica scolastica volti a ridurre l’analfabetismo dilagante. La
tragica esperienza della guerra aveva mostrato, per riprendere le parole di un liberale nonché
animatore di un’originale forma di scuole rurali come Eugenio Faina, che «un popolo vale per
quanto sa» e che le debolezze mostrate dall’Italia durante il conflitto erano perciò addebitabili
all’ignoranza delle masse popolari, in specie contadine, che sovente si trasformava in inettitudine.
Tale sentimento era ormai condiviso non solo dagli ambienti liberali più aperti al cambiamento e
da quelle personalità del mondo della cultura filosofica e pedagogica che auspicavano che la
nuova scuola si ispirasse ad idealità nazionali e patriottiche, ma anche, sebbene con diverse
finalità, dalle forze socialiste e dai cattolici, come avremo modo di vedere più in avanti87.
Il primo settore in cui si pensò di intervenire fu, prima ancora quello della lotta
all’analfabetismo dei bambini, quello del contrasto all’analfabetismo degli adulti. La ragione di
questo spostamento di interesse si può rinvenire nell’analisi della situazione italiana compiuta
dalle élite culturali e dalla classe dirigente: si credeva, o si sperava, che qualche risultato immediato
fosse più facilmente conseguibile concentrandosi sugli adulti, piuttosto che sui bambini. Tra la
fine del 1918 e gli inizi del 1919 fu Camillo Corradini, l’ex Direttore generale dell’istruzione
primaria e popolare e l’autore della nota inchiesta sulla scuola elementare italiana realizzata un
decennio prima, a prospettare l’idea di affrontare questa emergenza con un’opera altrettanto
straordinaria, collocata al di fuori dell’organizzazione scolastica statale, capace di risolvere il
problema «nel modo più pratico e più spiccio» o, come venne detto, allora «all’americana» o «alla
garibaldina»88. La sua proposta verteva, infatti, sulla creazione di un apposito ente contro
l’analfabetismo degli adulti autorizzato ad organizzare, di concerto con i Comuni, brevi corsi di
alfabetizzazione a persone dai 15 ai 50 anni. L’idea di Corradini, presentata ai dirigenti
dell’Unione Italiana dell’Educazione Popolare (Uiep), venne subito accettata e si formò un
86
Sul riordinamento si veda anche la circolare 30 novembre 1911, n. 63 «Riordinamento delle
Scuole rurali».
87
Sui dibattiti di impianto filosofico e pedagogico relativi alla costruzione di un progetto
educativo nazionale si rinvia al fondamentale lavoro di G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti
al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983.
88
Cfr. Una crociata contro l’analfabetismo degli adulti, «I diritti della scuola», n. 9, 10 gennaio 1919, pp.
140-141.
39
comitato di azione formato da un gruppo di onorevoli (Leonardo Bianchi, Angiolo Cabrini, Luigi
Credaro, Giovanni Ciraolo, Alberto La Pegna, Antonio Fradeletto, Pietro Bertolini, Giovanni
Maria Longinotti, Giovanni Raineri, Vincenzo Riccio, Luigi Rossi, Carlo Schanzer, Filippo Turati,
Francesco Tedesco) e da esponenti del mondo magistrale e culturale come Pietro Faudella,
Gennaro Mondaini, Francesco Orestano, Emidio Agostinone ed Annibale Tona. Aderirono al
movimento anche la Confederazione del Lavoro e l’Unione generale degli insegnanti italiani.
Corradini definì meglio la sua proposta in un progetto di legge in pochi articoli che sarebbe stato
presentato al ministro della pubblica istruzione, a quello del tesoro e al presidente del consiglio89.
Intanto il dibattito si articolava e si arricchiva di prese di posizione. Nel febbraio 1919 un
acuto osservatore come Alessandro Marcucci volle contribuire fornendo delle idee che a suo
giudizio sarebbe stato opportuno seguire nella costruzione del nuovo ente90. Libero dagli
impedimenti burocratici che fino ad allora avevano impedito alle scuole serali e festive di dare i
frutti sperati, il nuovo organismo avrebbe dovuto non solo gestire i corsi ma svolgere anche
quella necessaria opera di vigilanza sulle attività svolte dagli insegnanti e sui risultati ottenuti dagli
alunni, che in passato non era stata fatta a sufficienza. Era per tale ragione, sosteneva Marcucci,
che le scuole serali e festive avevano vivacchiato senza conseguire risultati tangibili, prive come
erano state di controlli sul piano didattico e amministrativo. Scrisse a tal proposito Marcucci:
Se la funzione scolastica non è vigilata e munita dei debiti controlli di una qualsiasi energia centrale, che stabilisca
altre altresì con un certo senso organico d’insieme il carattere e le regole delle scuole per gli adulti, il sistema
proposto, abbandonato a sé stesso, può facilmente tralignare e arrivare perfettamente all’effetto opposto a quello per
cui viene adottato […] Occorre creare l’ente dal quale le scuole emanino e dal quale ricevano impulso e regola; l’Ente
che ne sia responsabile verso lo Stato che dovrà finanziare l’impresa, verso le popolazioni che ad esso si affidano per
esser messe in grado di esercitare con piena coscienza ed onestà tutti i diritti del cittadino91.
L’intervento di Marcucci era particolarmente interessante poiché non solo spiegava la
causa dell’insuccesso delle scuole serali e festive fino ad allora in funzione, ma anche perché
descriveva nelle sue linee generali il futuro Ente contro l’analfabetismo che sarebbe stato fondato
pochi mesi dopo. Secondo lui, infatti, il nuovo organismo doveva svolgere una funzione di
coordinamento, lasciando la gestione vera e propria delle scuole per gli adulti a «quante istituzioni
sono in Italia che, in varie regioni, per vie diverse, con diversi metodi, hanno con disinteresse e
serietà, senza settarismo e miraggio politico, compiuto opera di cultura e di redenzione sociale». A
questo proposito proponeva di suddividere la penisola in tre grandi aree e di affidare ciascuna di
essa ad un ente che individuava nella Società Umanitaria (nell’Italia settentrionale), nelle Scuole
dell’Agro romano e delle pianure pontine (nell’Italia centrale) e nell’Associazione per gli Interessi
del Mezzogiorno d’Italia (nell’Italia meridionale).
La proposta di Marcucci riguardante l’ente per l’analfabetismo degli adulti, peraltro, non
fu l’unica da lui formulata in quel periodo. In un altro articolo uscito su «La coltura popolare» due
mesi prima, il direttore delle scuole dell’Agro romano affrontava la questione delle scuole rurali
per i fanciulli e suggeriva taluni accorgimenti ritenuti utili al loro miglioramento. I punti
qualificanti della proposta erano i seguenti: differenziazione didattica della scuola rurale con
particolare valorizzazione della sua natura di scuola di campagna, pur prevedendo per gli alunni il
conseguimento di risultati ritenuti minimi come per le scuole urbane; incremento delle scuole
89
Ibid.
A. Marcucci, La scuola per gli adulti analfabeti, «La coltura popolare», n. 2, febbraio 1919, p. 91.
91
Ivi, p. 93.
90
40
rurali abbassando da 40 a 30 il numero di fanciulli dai 6 ai 12 anni necessario a istituire una
scuola; prolungamento dell’orario, in genere di cinque ore nelle scuole uniche miste ma talvolta
ridotto a tre, portandolo a sette ore e mezza, compresa un’ora e mezza per la refezione e il riposo;
preferenza assegnata al potenziamento della didattica nelle prime tre classi del corso elementare,
piuttosto che pensare all’istituzione della quarta classe, come richiesto da molti; istituire scuole
normali rurali per la formazione del maestro di campagna o quanto meno prolungare il corso
normale esistente di un biennio da svolgere in ambiente rurale, poiché le cosiddette classi di
tirocinio già allora esistenti presso le scuole normali gli apparivano come qualcosa di artificioso:
per questo proponeva la creazione di un tirocinio sotto la forma di un assistentato della durata di
almeno tre anni a fianco di un insegnante titolare, che fosse retribuito e computabile nel servizio;
istituzione di asili rurali a fianco delle scuole elementari.
Con tali premesse si giungeva, così, al 9 e 10 marzo 1919 quando venne celebrato a Roma
il convegno intitolato «Le più urgenti necessità per l’istruzione e l’educazione popolare», destinato
a divenire senza ombra di dubbio il principale punto di coagulo del vasto movimento di riforma
della scuola rurale92.
Promosso da varie associazioni – l’Unione Italiana per l’Educazione Popolare, l’Unione
Nazionale Magistrale, la Federazione degli insegnanti medi, la Federazione del personale delle
scuole industriali e l’Unione nazionale delle educatrici d’infanzia – il convegno avrebbe dovuto
indicare «i modi più efficaci per organizzare la propaganda a favore della Scuola in ogni regione
d’Italia» sulla basa di una piattaforma di partenza contenente alcune richieste di carattere generale
da rivolgere al governo, come la creazione di asili infantili in ogni centro o borgata e di istituti
speciali per fanciulli abbandonati o indifesi, l’estensione della durata della scuola elementare e la
creazione della scuola popolare, l’erogazione di borse di studio agli alunni bisognevoli e di un
sufficiente finanziamento alle scuole normali, l’istituzione di corsi professionali, la lotta
all’analfabetismo degli adulti, l’incremento di opere integrative della scuola come università
popolari, biblioteche popolari, case di cultura. Si trattava di un ambizioso e per certi versi
irrealizzabile programma, se si pensa alle difficili condizioni dell’Italia uscita dalla guerra, che
tuttavia servì da base di partenza per la discussione alla quale furono invitati a partecipare
rappresentanti di partiti politici e di associazioni di categoria, nell’auspicio di superare il ristretto
perimetro in cui di solito si ritrovavano chiusi uomini di scuola ed educatori nei loro convegni e,
quindi, di instaurare un felice rapporto di interlocuzione con soggetti chiamati a contribuire alla
realizzazione concreta di quelle proposte.
In effetti nonostante l’aspra lotta politica che connotò l’immediato dopoguerra italiano,
sul terreno della scuola e dell’istruzione popolare si poteva registrare un’insolita convergenza e
un’ottimistica comunione di intenti tra i principali partiti che non mancò, ad esempio, di attirare i
sospetti e le critiche di certi ambienti della sinistra più estrema verso l’atteggiamento di
collaborazione dimostrato da Filippo Turati nei confronti di personalità di cultura liberale e
conservatrice. Accuse che il leader socialista, intervenendo in apertura del convegno, volle
respingere con forza sostenendo la tesi secondo la quale era giunta l’ora di mettere da parte
divisioni e contrasti quando in ballo vi erano questioni di fondamentale importanza come
l’istruzione dei ceti popolari, problema che doveva interessare tutti indistintamente dalle divisioni
politiche:
92
Il resoconto più dettagliato dei lavori del convegno fu pubblicato nel fascicolo de «La coltura
popolare», n. 3-4, marzo-aprile 1919, pp. 178-285.
41
Lo dissi alla Camera e lo ripeto qui. Qualche giornale mi appioppò una interpretazione che … dicendo che io sarei
rimasto al di qua delle barricate, dal lato dei partiti conservatori. Questa è una rinunzia che non ha importanza, non è
di me che si tratta e non è l’atteggiamento di un uomo di 60 anni che importa nell’inizio del nuovo cammino. Ma
queste barricate devono essere espugnate! Basta con la menzogna, durata 50 anni, delle idealizzazioni puramente
teoriche dei problemi della scuola; basta con gli «amici della scuola», i quali con questo appellativo costituiscono un
alibi alla propria indifferenza od ostilità; basta con tutti i progetti che essi architettano e non stanziano i quattrini per
realizzare; basta con le lusinghe che fanno dei maestri apostoli e martiri, ma non educatori e ..sacerdoti.., basta
insomma con tutta questa miserabile commedia durata per troppo tempo e che non si può più, senza imminente
pericolo, perpetuare93.
È pur vero che l’insolito interesse dei partiti politici verso le questioni scolastiche finì per
apparire non del tutto disinteressato agli occhi di certe persone da lungo tempo impegnate nelle
battaglie per l’educazione, considerando che qualche mese dopo si sarebbero svolte le elezioni
politiche per il rinnovo della Camera, le prime dopo la fine della guerra. Ci fu chi, ad esempio,
come Annibale Tona, direttore de «I diritti della scuola», giudicò l’attiva partecipazione di molti
esponenti politici ai lavori del convegno una bella e buona «parata pre-elettorale», e pertanto si
mostrò sfiduciato circa le loro reali intenzioni riformatrici:
Vedemmo figure insolite, di gente che delle nostre questioni non s’era mai occupata, o se n’era occupata in sordina,
sott’acqua, o da lontano col telescopio, dalle regioni sideree della filosofia. La rubizza faccia di sileno di padre
Semeria, circondata da una piccola corte di giovincelli lungocriniti che battevano le mani in coro e aggredivano
gentilmente gli avversari; e il grave aspetto dottorale dell’on. Chimienti, che venne a nome del neo-partito liberale
riformatore a gettar l’esca della scuola libera ai suoi vicini del partito popolare; e la calva testa da santo bizantino del
prof. Salvemini, destinato a essere sempre in contraddizione con sé stesso e con gli altri; e le barbe apostoliche dei
deputati socialisti più equilibrati, i quali, con sopportazione dei compagni, han finito per riconoscere che bisogna
mandare un po’ a scuola anche il sole dell’avvenire94.
Sospetti politici a parte, il convegno affrontò la questione della scuola rurale propriamente
detta il secondo giorno in una delle tre sezioni del convegno (le altre due erano la scuola per
analfabeti e le opere integrative della scuola), in un’animata discussione in cui si palesarono due
opposte visioni sul concetto stesso di scuola rurale e sulle caratteristiche che questa avrebbe
dovuto assumere. La prima tesi, illustrata da Marcucci, riprendeva in buona sostanza le proposte
da lui fatte nel già citato articolo pubblicato su «La coltura popolare» e presentate prima ancora,
nel maggio 1918, alla Commissione presso il ministero dell’Agricoltura incaricata di studiare il
varo di riforme agricole e sociali per il Lazio. Come si ricorderà, la sua proposta contemplava tra
le altre cose l’istituzione dell’assistentato al fine di favorire la formazione del vero maestro rurale;
la creazione di asili rurali; l’abbassamento della soglia a 30 bambini in età scolare necessaria alla
fondazione di una scuola. La seconda proposta venne invece illustrata da Raffaele Resta in un
alternativo ordine del giorno in cui condensò alcune proposte già emerse nella campagna di
recente da lui intrapresa su «I diritti della scuola» in favore della riforma della scuola rurale, in
seguito alla quale in un convegno dell’Umn e dell’Uiep era stata nominata un’altra commissione,
composta dallo stesso Resta, da Marcucci, Guseo ed Esposito. Già in quella circostanza Resta,
che aveva avuto l’incarico di compilare un progetto di riforma, si era scontrato con Marcucci e,
dopo parecchie discussioni con lui, non aveva trovato l’accordo su un punto fondamentale, vale a
dire sull’idea secondo la quale alle popolazioni rurali occorresse fornire una cultura specializzata
per la formazione del lavoratore agricolo oppure se la scuola rurale dovesse avere solo un
93
94
Ivi, p. 180.
Commento senza titolo di A. Tona in «I diritti della scuola», n. 16, 20 marzo 1919, pp. 266-267.
42
contenuto di preparazione generale ed umano. Sostenitore della prima ipotesi, Marcucci ruppe i
rapporti con gli altri membri della commissione e fu per tale ragione che al convegno di Roma del
marzo 1919 decise di ripresentare in blocco la sua proposta originaria.
Non sorprende allora che nel suo ordine del giorno, presentato anche a nome dell’Umn,
Resta auspicava che «l’indirizzo educativo della nuova scuola non debba ridursi a specializzare
prematuramente nell’individuo il contadino» e rivendicava al «proletariato agricolo il diritto ad
una educazione che incominci dalla prima infanzia, che abbia carattere formativo ed umano, e
che sia perciò principalmente diretta allo sviluppo, alla elevazione e alla autonomia della persona
umana nella armonica molteplicità delle sue attitudini»95. Per la precisione durante il suo
intervento, Resta si addentrò in una critica dell’ordine del giorno di Marcucci individuando tre
punti di distanza dal suo progetto: oltre alla specializzazione in senso rurale della scuola per i
giovani contadini, anche la creazione di scuole normali rurali e l’idea di una scuola unica a più
sezioni, retta da un maestro e da assistenti. Tre proposte che, a giudizio di Resta, erano
espressione di una visione contraria al «diritto ad un’integrale educazione dell’uomo ed alla
cultura generale senza coazione o premature specializzazioni di uffici e di condizioni sociali». In
particolare Resta chiedeva l’effettiva estensione dell’obbligo scolastico nelle più piccole borgate,
l’istituzione della quarta classe elementare, la progressiva soppressione della scuola rurale unica a
tre sezioni mediante la modifica del calendario e dell’orario scolastico e una rigida disciplina del
regime delle classi abbinate o alternate, l’istituzione obbligatorio dell’asilo rurale, la concessione di
provvidenze atte a favorire il trasferimento in campagna dei maestri, la costruzione di edifici
scolastici.
Nel corso del dibattito che seguì cominciò a delinearsi una maggioranza favorevole
all’ordine del giorno Resta. Dalla sua parte si schierò anche il pedagogista Giovanni Calò che
rifiutò in modo netto la concezione di scuola rurale fortemente specializzata in senso agrario e
quasi pre-professionale, sostenendo la tesi che la scuola dei contadini dovesse essere in primo
luogo un luogo di formazione dell’uomo e dell’individuo. Affermò Calò:
Ciò in cui sono affatto in disaccordo col prof. Marcucci, è il concetto stesso ch’egli si fa della scuola rurale. Egli
vuole, in sostanza, che questa si inspiri o s’intoni a una finalità strettamente professionale, prepari, cioè, l’agricoltore,
nel vero e proprio senso della parola, dia cioè la più larga parte alle conoscenze e alle applicazioni tecniche che
riguardano l’agricoltura […] La scuola rurale, come scuola d’istruzione elementare, cioè generale, dev’essere umana, e
non deve né può avere altro fine che quello di sviluppare quant’è possibile le attività dello spirito, dando loro il
nutrimento d’una prima istruzione e una coscienza morale e civile; tanto più ch’essa non è ancora e generalmente
non arriverà per un pezzo al grado ultimo – il corso popolare – nel quale è concepibile una certa differenziazione di
contenuto e di forme, che l’avvicini in qualche modo, senza identificarla con essa, all’indole di una scuola
professionale96.
Calò dissentiva da Marcucci anche in riferimento alla proposta che contemplava
l’istituzione di scuole normali rurali con corso di studio prolungato per garantire un’adeguata
formazione del maestro secondo i ritmi della vita dei campi. Si trattava, a ben vedere, di una
proposta che se da un lato avrebbe probabilmente favorito la crescita professionale degli
insegnanti rurali, dall’altra avrebbe incoraggiato ancor di più la fuga dei maestri dalle scuole di
campagna a vantaggio di quelle di città, poiché veniva richiesto loro un maggiore impegno nello
studio senza nulla in cambio. Una preoccupazione concreta che si aggiungeva a quella inerente la
95
96
I lavori del convegno, «La coltura popolare», n. 3-4, marzo-aprile 1919, pp. 222-223.
Ivi, p. 225.
43
difficile individuazione dei criteri di selezione tra aspiranti maestri di città e di campagna. Inoltre
la proposta Marcucci avrebbe impresso una spinta in direzione dell’eccessiva specializzazione e
differenziazione della scuola normale, spingendola «entro il mare magnum delle applicazioni
tecniche, allonta[nandola] sempre di più da ogni ideale educativo e formativo, toglie[ndole] quel
po’ d’anima che le resta, se pur gliene resta, per riempirla d’una mole eterogenea di nozioni varie
e difformi, avvici[nandola] alla cattedra ambulante d’agricoltura», cancellandole «ogni carattere di
vera e propria scuola di educatori».
Altri interventi di rilievo che si registrarono durante i lavori del convegno furono quelli di
padre Semeria e di Gaetano Salvemini. Il primo, dopo aver dichiarato di apprezzare il piano del
Marcucci, affermò che gli appariva di difficile attuazione nell’immediato, e ben presto spostò la
sua attenzione nel corso del suo intervento su un’altra questione che stava molto a cuore agli
ambienti cattolici, quello del decentramento e della libertà d’insegnamento: «allo Stato – disse – è
da richiedere aiuto e integrazione delle libere iniziative ma è nocivo agl’interessi delle popolazioni
che, in tutto e sempre, l’iniziatore sia lo Stato»97. Sebbene mosso da altri obiettivi di quelli di
padre Semeria, anche Salvemini (che interveniva in qualità di rappresentante dell’Animi) mise al
centro del suo discorso la valorizzazione delle iniziative private nella costatazione della necessità
di trovare in modo pragmatico e senza pregiudizi una valida soluzione al problema
dell’analfabetismo. A questo proposito lanciò una proposta per certi versi provocatoria, tipica del
personaggio, che suscitò nella platea, secondo il resoconto stenografico dei lavori del convegno,
«approvazioni» e «commenti»: quella di avvalersi nella lotta all’analfabetismo anche dell’opera di
persone prive della patente rilasciata dalle scuole normali. Egli fondava questa idea sulla scorta di
uno studio da lui condotto anni indietro in Sicilia e Calabria grazie al quale venne a conoscenza
del pullulare in quelle regioni di scuola private, talora condotte da personale anche poco
qualificato, alle quali tuttavia accedevano un alto numero di contadini del posto. Se esteso su tutto
il territorio nazionale questo sistema avrebbe potuto, secondo Salvemini, offrire concreti vantaggi
e una risposta immediata alla risoluzione del problema98.
Dopo molte ore di dibattito, allo scopo di trovare un compromesso tra le due opposte
proposte, vennero incaricati Resta e Calò di compilare un ordine del giorno che tenesse conto di
quelle idee esposte da Marcucci che l’assemblea aveva mostrato di apprezzare: alla fine venne
approvato all’unanimità un documento in cui in buona sostanza i capisaldi della proposta
originaria di Resta venivano confermati e a questi fu aggiunta la richiesta di istituire corsi periodici
di conferenze non soltanto pedagogiche, ma anche di argomento letterario e scientifico e di
prevedere periodici invii nelle campagne di «uomini veramente autorevoli per sapere e per amore
della Scuola» con il compito di visitare i maestri rurali, rendersi conto dei loro bisogni e portar
loro conforto materiale e morale; venne chiesto anche una maggiore autonomia
dell’amministrazione provinciale e locale e una riforma dei sistemi di finanziamento stabiliti dalla
Legge Daneo-Credaro in modo da assicurare ai bilanci provinciali la disponibilità dei mezzi
necessari ai bisogni della scuola.
Si deve aggiungere, infine, che altre proposte giunsero durante la sessione del convegno
dedicata all’analfabetismo degli adulti. In tal senso si palesarono due diversi orientamenti sugli
strumenti da adottare: da un lato Camillo Corradini sostenne la necessità di avvalersi anche di
personale privo della patente rilasciata dalla scuola normale, dall’altro Pietro Caccialupi,
esponente dell’Umn, insorse rivendicando ai maestri il compito di essere gli artefici della lotta
97
98
Ivi, p. 227.
Ivi, pp. 229-230.
44
all’analfabetismo degli adulti e giudicando la proposta del funzionario ministeriale come
irrispettosa verso la classe magistrale99. Alla fine del dibattito, in cui anche Marchetti e De
Florentis si dichiararono contro l’ordine del giorno Corradini, venne approvata una terza
proposta, illustrata da Giovanni Calò, che rappresentava una mediazione: veniva prospetta l’idea
che lo Stato potesse avvalersi di associazioni da delegare per questo compito. Si anticipava, in
questo modo, la nascita dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti che sarebbe stato creato
pochi mesi dopo dal ministro Berenini100.
Commentando i risultati del convegno sulle pagine de «Il Marzocco» a pochi giorni di
distanza dalla sua fine, Giovanni Calò scrisse che era stato finalmente stretto un «patto d’azione
rapida e tenace fra tutte le volontà e gl’intelletti che nella Scuola vedono il vero problema del
dopo-guerra; patto tanto più saldo e tanto più indispensabile quanto più evidente è l’inettitudine
del Governo a comprendere ciò che tutti i migliori cittadini comprendono». Un risultato che era
stato raggiunto fra le diverse anime politiche che saggiamente avevano saputo mettere da parte le
divisioni, come aveva fatto «il nuovo partito popolare cattolico e capitanato da due uomini di
valore, padre Semeria e don Sturzo» che evitarono di affrontare una questione che si sarebbe
rivelata fonte di scontro, come la libertà di insegnamento101. Calò non mancò di precisare nel suo
articolo sulla rivista fiorentina i motivi di dissenso con Marcucci sul concetto di scuola rurale e a
tal proposito scrisse:
Vi era un punto sostanziale della concezione del Marcucci che era affatto inaccettabile e che io stesso dovetti
combattere; ed era l’idea d’una scuola rurale specializzata per il contadino, con contenuto di applicazioni pratiche alla
vita e al lavoro agricolo, con particolare preparazione dei suoi maestri in un tipo speciale di scuola normale, di durata
molto maggiore di quella comune. Idea erronea e gravemente pericolosa; perché, se è pedagogicamente necessario e
socialmente utile che la scuola rurale, come ogni scuola elementare, si differenzi per lo spontaneo adattamento, che
ogni vero educatore deve cercare, all’ambiente naturale e spirituale della scuola, traendo da questo gli stimoli e i
mezzi allo sviluppo degl’interessi infantili, delle sue idee, delle sue aspirazioni, non deve peraltro la scuola rurale
perdere il suo carattere d’educazione elementare, e perciò ancora generale, armonica, umana, anticipando una scuola
professionale agraria, che è anch’essa un bisogno nazionale, ma che ha un compito diverso da quello della scuola
rurale. In queste obiezioni, in cui m’incontrai col prof. Resta, si trovò concorde il Congresso. L’ordine del giorno
Resta-Calò, che fu votato all’unanimità, mentre riprendeva alcune proposte del Marcucci, rivendicava il carattere
educativo generale della scuola che l’Italia deve al suo proletariato agricolo 102.
Il resoconto del convegno fatto da Calò non lasciò indifferente Marcucci che, risentito
dalle parole usate nei confronti del suo ordine del giorno, inviò al Marzocco una replica in cui
negò che era sua intenzione creare una scuola rurale uguale ad una scuola agraria. Scrisse a questo
proposito Marcucci:
A parte che sarebbe stato puerile parlare di insegnamento professionale a fanciulli dai 6 ai 9 o 10 anni, io nel chiedere
uno speciale ordinamento per la Scuola rurale, intendevo riferirmi a quella intonazione locale – nel caso nostro rurale o
agricolo – a cui la scuola per figli di contadini o agricoltori, istituita in centri prettamente agricoli, financo in piccoli
borghi o frazioni, non può a meno d’improntarsi, come a intonazione speciale s’informerebbe quella che si istituisse,
poniamo, in un centro minerario. Questa intonazione, che non costituisce insegnamento professionale, è fatale e
necessaria ed io chiedevo che l’insegnante vi fosse già pronto con una speciale preparazione in un corso biennale
supplementare nelle Scuole Normali, dove l’insegnante venisse a maggior e miglior cognizione di alcune discipline,
99
Ivi, pp. 250-251.
Ivi, p. 253.
101
G. Calò, Il Congresso per la cultura popolare, «Il Marzocco», n. 12, 23 marzo 1919, p. 2.
102
Ibid.
100
45
come la legislazione sociale, la botanica, la zoologia, l’igiene, l’agraria, ecc…. Tale preparazione doveva servire non
tanto per l’uso e consumo quotidiano in classe, ai fini dello svolgimento del programma didattico, che è e deve essere
unico nella cultura strumentale e formativa di tutti gli alunni delle prime classi elementari, quanto per la facilitazione
dei quotidiani rapporti fra l’insegnante e le famiglie degli alunni, quanto per l’orientamento della funzione scolastica
con la vita e l’ambiente del piccolo centro103.
Rimarcato il senso della propria proposta originaria e precisato che la specializzazione
della scuola rurale in senso agrario era da intendersi solo in riferimento agli ordinamenti e non alla
sua finalità educativa, che doveva essere uguale a quella della scuola urbana, Marcucci non perse
occasione per polemizzare con Calò e Resta:
Il Calò e il Resta dicono che l’insegnante s’intona da sé all’ambiente, intona da sé la sua scuola all’ambiente; ebbene, è
una faticosa autodidattica cotesta, che nel fatto stanca così l’insegnante, il quale è portato ad abbandonare il più
presto possibile il piccolo centro rurale per essere ammesso ad insegnare nei centri maggiori urbani. È inutile ripetere
paroloni e definizioni che vorrebbero contrastare il fatto, il fatto c’è e chiunque conosca da vicino le vicende di quella
che oggi è la Scuola rurale, ha centinaia d’esempi da addurre. E se migliaia d’insegnanti restano tuttavia a reggere
scuole in centri rurale di limitata popolazione, cambiano parecchie sedi anche di varie provincie, i primi anni della
loro carriera sono per loro molto duri e faticosi e per tutta la vita trascorsa nella piccola scuola rurale essi ne
riportano un senso di fastidio e di insoddisfazione che non può non nuocere all’efficacia della funzione scolastica 104.
Al di là di qualche immancabile strascico polemico, il convegno di Roma costituì una
pietra miliare per il rilancio di un serio progetto di lotta all’analfabetismo delle popolazioni rurali,
costituendo uno spartiacque con il passato, come si sarebbe visto di lì a poco tempo. Una nuova
e inedita convergenza politica e la presa di coscienza da parte delle classi dirigenti che il problema
che l’analfabetismo fosse in prevalenza un problema delle campagne e solo in misura minore delle
città, furono i due fatti più rilevanti che emersero dal convegno. Ciò apparve agli occhi dell’autore
di un articolo pubblicato su «L’Unità», forse lo stesso Salvemini, in cui si leggeva:
Il patto di alleanza, che i partiti politici e le organizzazioni professionali sono stati invitati a stringere nel convegno di
Roma non deve essere un marché de dupes, in cui coloro, che s’interessano dei bisogni dell’Italia agricola e analfabeta,
sieno chiamati a far baccano, affinché un bel giorno l’Italia industriale e colta ottenga nuovi provvedimenti scolastici
a suo esclusivo uso e consumo. Dev’essere un accordo leale e democratico, per obbligare anzitutto lo Stato a mantenere i
suoi impegni verso le zone più povere e più arretrate. Con questo nessuno di noi vuole impedire il progresso delle
istituzioni scolastiche nelle zone più fortunate del nostro paese. No, davvero. Se, per esempio, l’«Umanitaria» di
Milano, così benemerita della cultura popolare, vuole fondare biblioteche per chi ha fatto già la sesta elementare e
asili d’infanzia per chi subito dopo troverà le scuole popolari per gli operai delle industrie, che hanno conquistato le
otto ore e il sabato inglese, nessuno deve impedirle di chiedere i fondi necessari per queste istituzioni al Comune di
Milano, e alla Provincia e alla Cassa postale (!) di Risparmio delle Provincie Lombarde, e alle organizzazioni padronali
e operaie, mentre lo Stato deve lavorare, coi denari dell’intera nazione, a suscitare gli inizi del movimento di coltura nei
comuni più ritardatari […] Questo era il significato dell’ordine del giorno votato al Convegno di Roma 105.
Con tali premesse e con questo ricco carnet di proposte e di progetti, venivano poste le
fondamenta per la fondazione di un apposito ente chiamato ad occuparsi della lotta contro
l’analfabetismo degli adulti, che sarebbe stato creato di lì a pochi mesi dal convegno romano del
marzo 1919.
103
A. Marcucci, A proposito di scuole rurali, «Il Marzocco», n. 13, 30 marzo 1919, p. 4.
Ibid.
105
Il convegno per l’educazione popolare, «L’Unità», n. 12, 22 marzo 1919, pp. 69-70.
104
46
5. Una scuola per i contadini: le vicende dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti
Il rinnovato interesse verso una più incisiva lotta contro l’analfabetismo
dimostrato con i dibattiti del dopoguerra portarono il 2 settembre 1919, sotto il ministero di
Agostino Berenini, al varo della legge che istituiva un apposito organismo, l’Ente Nazionale per
l’istruzione degli adulti analfabeti, al quale lo Stato avrebbe delegato il compito di organizzare e
coordinare su una vasta fascia del territorio nazionale scuole festive e serali, potendo disporre di
quella agilità di intervento e di quella snellezza di cui difettava la burocrazia ministeriale. Ma a
conferire tanta importanza al nuovo ente era il fatto che esso avrebbe dovuto occuparsi non solo
dell’istruzione degli adulti ma anche del potenziamento dell’istruzione elementare per i fanciulli,
aprendo interessanti scenari per il futuro. La legge prevedeva infatti che il nuovo organismo si
sarebbe occupato anche «di coordinare, diffondere e sviluppare quelle opere integrative e
complementari dell’istruzione elementare e popolare, che valgono a far progredire l’istruzione del
popolo anche fuori della scuola ed a completare l’opera della scuola medesima». Per assolvere a
questo fine l’ente si sarebbe avvalso sia di scuole proprie, sia dell’opera svolta da istituzioni già
esistenti e giudicate idonee. Si deve aggiungere, a questo proposito, che l’ideazione e la
fondazione dell’ente avveniva sotto le insegne di una forte volontà di collaborazione tra le forze
politiche di opposti orientamenti che all’indomani della guerra volevano trovare un terreno
comune di incontro nel rilancio della scuola e della lotta all’analfabetismo. Ne era una prova la
composizione interna al consiglio che vedeva la presenza di liberali come l’onorevole Andrea
Torre106, che assunse la presidenza, di socialisti come Filippo Turati (in rappresentanza
dell’Unione Italiana dell’Educazione Popolare) e Giuseppe Bianchi (per la Confederazione
Generale del Lavoro), di cattolici come l’onorevole Bazzoli (per l’Associazione dei Comuni), di
uomini d’ordine come i professori Bandini e De Angelis (per l’Opera nazionale fra i Combattenti)
e il capitano Cagiati (per l’Associazione Combattenti), di funzionari ministeriali come Bergamasco
(per il ministero del Tesoro), Antenore Cancellieri e Camillo Corradini (per il ministero della
Pubblica Istruzione), De Michelis (per il Commissariato dell’Emigrazione) e, in rappresentanza
del mondo magistrale, del direttore Alighiero Micci (per l’Umn)107.
Dal punto di vista organizzativo gli organismi dell’ente erano il presidente, il consiglio e la
giunta. Era inoltre prevista la figura del delegato regionale, che poteva essere individuato anche
tra le fila dei funzionari dell’amministrazione scolastica provinciale o dei maestri; essi erano
incaricati di vigilare sull’attività delle singole scuole nelle aree di propria competenza, inviando
una relazione mensile alla Direzione generale dell’ente e una relazione, entro il 15 marzo di ogni
anno, in cui esporre il programma d’azione che essi intendevano svolgere nell’anno successivo108.
Il nuovo organismo non avrebbe esercitato la sua azione su tutto il territorio nazionale ma
soltanto nelle aree culturalmente e socialmente più depresse: nella seduta del 22 dicembre 1919,
infatti, il consiglio decise di limitare la sua azione alle province in cui operava già la Commissione
per il Mezzogiorno e le isole, prevedendo in particolare la presenza di tre delegati regionali in
Sicilia, due in Sardegna, uno in Calabria, uno in Basilicata, uno nelle province di Bari e Lecce, uno
106
Andrea Torre, nato a Torchiara (Salerno) nel 1866. Insegnante, poi giornalista, entrò alla
Camera nel 1909 e fu relatore del disegno di legge Daneo sull’avocazione della scuola elementare.
Alle elezioni del novembre 1919 fu rieletto ed entrò a far parte del gruppo parlamentare della
Democrazia liberale (La morte di Andrea Torre, «I diritti della scuola», n. 17, 10 aprile 1940, p. 266).
107
Ente autonomo contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 8, 7 dicembre 1919, p. 125.
108
All’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 12, 14 gennaio 1920, p. 186.
47
in quelle di Foggia e Campobasso, uno in quelle di Caserta e Benevento, uno in quelle di Salerno
e Avellino, uno nella provincia di Napoli, uno in Abruzzo, uno in Umbria, uno nel Lazio ed uno
nelle Marche109.
Sebbene sorto grazie all’incontro di sensibilità politiche diverse ma unite dal comune
desiderio di debellare il male dell’analfabetismo, tuttavia il nuovo ente avrebbe dovuto fare i conti
con una serie di difficoltà che ne rallentarono prima l’avvio delle attività fino a decretarne poi la
soppressione nel giro di pochi mesi. In primo luogo esso incontrò ostacoli in certi ambienti della
burocrazia ministeriale che temevano la perdita di potere in favore del nuovo organismo, in
ragione dell’elevato grado di autonomia amministrativa e finanziaria di cui godeva. Non a caso in
quegli anni verso gli ambienti minervini si addensarono le critiche e i sospetti di personalità di
vario orientamento culturale e politico, come gli idealisti, che vi vedevano un centro di potere in
mano alla massoneria contraria ad ogni mutamento, ma anche uomini di tendenze democratiche e
laiche come Annibale Tona ed Ettore Fabietti che alla fine si erano convinti della bontà del
progetto della delega ad enti privati della lotta contro l’analfabetismo, di fronte all’immobilismo e
alla passività del ministero110.
Ma furono soprattutto problemi di ordine politico a paralizzare l’entrata in funzione
dell’ente: bisogna tener presente, infatti, che poche settimane dopo la firma del decreto che
istituiva il nuovo organismo si tennero le elezioni politiche per il rinnovo dalla Camera, le prime
dopo la fine della guerra, circostanza che aveva gettato il paese in preda ad un fortissimo scontro
tra i partiti. Non a caso in una seduta svolta sul finire dell’ottobre 1919 il consiglio dell’ente non
poté fare altro che rinviare l’assunzione di ogni decisione a dopo la consultazione elettorale
stabilita a novembre. Né il nuovo scenario politico delineatosi dopo le elezioni, che aveva visto
l’affermazione del Partito popolare italiano come una forza indispensabile per la formazione di
qualsiasi governo, consentì un felice inizio delle attività del neonato organismo, che poté solo
riunire il suo consiglio il l4 dicembre 1919 ma senza deliberare alcunché111. Non si deve tuttavia
pensare che questo immobilismo fosse fine a se stesso, come del resto si sarebbe capito poche
settimane dopo. Il 29 gennaio 1920, infatti, il consiglio dei ministri, dietro pressione del Ppi sul
presidente Nitti, discusse uno schema di decreto legge che modificava il precedente decreto
istitutivo dell’ente, aumentando il numero dei membri del consiglio112. Il ministro Baccelli avallò
questa decisione o, stando al giudizio di Turati, la subì permettendo che il numero dei membri del
consiglio passasse da dodici a diciotto. Tanto bastò al gruppo parlamentare socialista e alla
stampa magistrale laica a gridare allo scandalo e a mettere alla berlina il ministro, già aspramente
criticato per il decreto che concedeva la sede di esami alle scuole private, atto giudicato come
109
All’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 15, 1 febbraio 1920, p. 234.
In particolare Toma rinvenne uno dei limiti del nuovo ente nel fatto che esso aveva visto la
luce in quella «fucina impenitente di macchinosi progetti che è la Direzione generale
dell’istruzione elementare», ricalcandone «rigidità» e «pesantezza» (A. Tona, L’Ente contro
l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, p. 241). Dal canto suo Fabietti scrisse
che una incisiva azione contro l’analfabetismo si doveva affidare «all’iniziativa privata» poiché egli
non aveva più «la fede negli organismi statali (è inutile discuterne le ragioni, ma ormai è così)» (E.
Fabietti, Contro l’analfabetismo. Una proposta risolutiva, «I diritti della scuola», n. 28, 9 maggio 1920,
pp. 410-411).
111
Ente autonomo contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 8, 7 dicembre 1919, p. 125.
112
ACS, Verbali del Consiglio dei Ministri, seduta del 29 gennaio 1920.
110
48
un’altra capitolazione al Ppi113. In particolare nella seduta della Camera del 3 febbraio 1920 alcuni
deputati del Psi presentarono un’interrogazione al ministro in cui si chiedevano le ragioni che lo
avevano «indotto ad abusare ancora una volta dei pieni poteri, modificando per decreto legge la
costituzione dell’Ente per gli adulti analfabeti», chiedendo di sospendere l’esecuzione del decreto
stesso fino alla conversione in legge114. Il documento era firmato oltreché da Turati, anche da
Giacomo Matteotti, Emidio Agostinone, Pio Donati, Ezio Riboldi, Ambrogio Belloni. Il giorno
dopo la presentazione dell’interrogazione parlamentare, che ebbe l’effetto di denunciare il colpo
di mano tentato dal governo, si riunì il consiglio dell’ente. Al termine di una «discussione
burrascosa» alcuni suoi membri, tra cui lo stesso Turati, rassegnarono le proprie dimissioni.
Troviamo un eco di questi fatti in una lettera inviata in quei giorni dal leader socialista ad Anna
Kuliscioff in cui scrisse:
Ti ho già accennato, credo, all’incidente dell’Ente per l’istruzione degli analfabeti adulti; al fattacio di Baccelli, che,
per pressione di Nitti, vi fece l’infornata clericale, alle mie e nostre dimissioni, che mantenemmo malgrado le
preghiere e quasi le scuse del ministro….. 115
Non meno tenero fu il giudizio di un articolo apparso su «I diritti della scuola» nel quale
veniva illustrato bene in che modo era stata tentata di modificare la composizione interna al
consiglio dell’ente, specificando quali altre associazioni, in prevalenza di ispirazione cattolica,
sarebbero state premiate permettendo loro di far entrare un proprio rappresentante nel direttivo
del nuovo organismo:
Con un decreto preparato e lanciato di sorpresa, né ancora comunicato nella sua forma integrale, il ministro Baccelli
ha portato da dodici a diciotto i consiglieri dell’Ente contro l’analfabetismo, assegnando i nuovi posti: uno alla
Tommaseo; uno alla Confederazione italiana dei lavoratori (da non confondere con la Confederazione del lavoro)
ligia al P.P.I.; uno al Consorzio nazionale di emigrazione e lavoro («Opere Bonomelliane»); uno alla Federazione
nazionale dell’insegnamento privato. Organizzata così sagacemente una maggioranza nera, un quinto e un sesto
posto sono stati assegnati rispettivamente alla Commissione per il Mezzogiorno e al Sindacato magistrale,
trascurando invece l’Associazione dei direttori, l’Associazione degl’ispettori (che hanno già protestato), l’Unione
italiana del lavoro, forte di trecentomila iscritti e altre organizzazioni non meno importanti 116.
Altro motivo di preoccupazione era, secondo il giornale magistrale diretto da Annibale Tona, il
conferimento al presidente dell’ente di «pieni poteri per la nomina, la destinazione, il
trasferimento di tutti i funzionari amministrativi e tecnici, centrali e periferici, esclusi soltanto i
delegati regionali». D’altra parte, annotò ancora Tona, il colpo di mano del governo aveva messo
a nudo le vere ragioni che avevano ostacolato l’entrata in funzione dell’ente: a «tutte le nomine
[era] stato messo il «fermo», - disse - perché il nuovo Consiglio, così intenzionalmente
rinsanguato, po[tesse] esaminare di nuovo tutte le questioni».
113
Su questo punto cfr. G. Turi, Giovanni Gentile: una biografia, Firenze, Giunti, 1995, p. 291; A.
Barausse, L’Unione magistrale nazionale: dalle origini al fascismo (1901-1925), Brescia, La Scuola, 2002,
pp. 513-514.
114
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXV, Tornata del 3 febbraio 1920, p. 641.
115
F. Turati, Carteggio, 6 voll., Torino, Einaudi, 1977, vol. V, p. 202.
116
Un colpo di scena all’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, p.
249.
49
In un altro articolo apparso su «I diritti della scuola», Tona tornò alla carica contro il
ministro Baccelli e contro la sua eccessiva arrendevolezza alle richieste del Ppi. Scrisse a questo
proposito:
La propaganda del sillabario non dovrebbe dar ombra a nessuno. E infatti, nel consiglio dell’Ente, sedevano, gomito
a gomito, socialisti come l’on. Turati, cattolici come l’on. Buzzoli, uomini d’ordine come l’onorevole Cancellieri, il
comm. Bergamasco, il capitano Cagiati,. Ma il partito popolare italiano, imbaldanzito dalla vittoria elettorale, e dalla
condizione di arbitro delle sorti ministeriali in cui si trova alla Camera, tra l’indifferenza e la cecità degli altri partiti,
tende continui ricatti al Gabinetto Nitti per impadronirsi dei più delicati congegni della vita nazionale, mirando
principalmente all’istruzione, per opera particolare degli onorevoli campioni della Tommaseo e con la connivenza di
qualche alto funzionario della stessa Minerva. Il partito popolare vuol arrivare, notoriamente, a sottrarre la scuola a
ogni ingerenza statale e, frattanto, tenta di paralizzarne tutte le iniziative e di ipotecarne tutti i servizi. Ieri era l’Opera
di previdenza e coltura magistrale, nella quale bisogna riconoscere ch’ebbe buon gioco da alcune deficienze di
preparazione e di presentazione della proposta; oggi è l’Ente autonomo contro l’analfabetismo, domani
potrebb’essere la costituzione dei Consigli scolastici o la riforma dei programmi. Ogni audacia gli è permessa, poiché
il Governo, sotto l’incubo della minaccia socialista, è disposto a tutte le transazioni, a tutte le viltà 117.
Arenatosi nelle secche della politica parlamentare, l’ente assisteva alla suo declino al quale
sembrò non porvi rimedio nemmeno il licenziamento di Baccelli e la nomina a nuovo ministro
della pubblica istruzione proprio di Andrea Torre, scelto da Nitti nel quadro del suo secondo
gabinetto varato nel maggio 1920. L’unica cosa che si riuscì a fare tra il maggio e il giugno di
quell’anno fu la divisione territoriale dell’Italia in varie zone, ognuna delle quali affidata ad alcuni
delegati regionali. Circostanza che, peraltro, scatenò una gara alla candidatura da parte di un
pletorico numero di aspiranti delegati attratti più, secondo le accuse rivolte dalla stampa
magistrale, dai compensi messi a disposizione che da una vera e sincera volontà di debellare il
male dell’analfabetismo. Né aumenti salariali videro i maestri di quelle scuole festive e serali che
in quell’anno scolastico 1919-20 funzionarono in modo autonomo perché dipendenti da altri enti
e che, secondo il progetto iniziale, sarebbero state assorbite dal nuovo Ente contro
l’analfabetismo degli adulti, con immediati benefici a vantaggio degli insegnanti, come appunto gli
incrementi dei compensi. Un’impietosa analisi della situazione ci viene consegnata da un altro
articolo apparso su «I diritti della scuola»:
Quello che avrebbe dovuto essere un organismo agile, svelto, nelle mani di pochi uomini di fede e di energia,
minaccia di diventare un complicato meccanismo burocratico, una specie di nuova direzione generale. Si parla di un
segretario particolare, di cui nessuno vede la necessità, per il presidente, on. Torre. Si sono già assegnate, per spese di
indennità e di ufficio, diecimila lire a ciascun delegato. Si sta provvedendo ancora senza risparmio all’impianto degli
uffici […] Frattanto gl’insegnanti delle scuole serali e festive, continueranno a ricevere anche quest’anno il vecchio
risibile compenso, che solo più tardi potrà venire integrato dall’Ente. Le ultime sedute del Consiglio sono state
piuttosto movimentate. Probabilmente vi sono consiglieri che intendono resistere alla burocratizzazione dell’Ente e
serbargli il suo carattere primitivo, che aveva incontrato la fiducia e il plauso di tutti. Speriamo che non si tratti di
sforzi vani…118
Come già detto, la nomina di Torre a ministro della pubblica istruzione non offrì che
un’effimera possibilità all’ente di tornare in funzione: infatti il 16 giugno, dopo nemmeno un
mese, il secondo governo Nitti cadeva lasciando il posto al ritorno di Giolitti. Il nuovo titolare
della Minerva, l’illustre filosofo Benedetto Croce, sia pure maggiormente attento verso altre
117
118
A. Tona, L’ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, pp. 241-242.
La lunga gestazione dell’Ente autonomo , «I diritti della scuola», n. 14, 25 gennaio 1920, p. 220.
50
questioni allora dibattute, come l’esame di stato, mostrò di aver compreso l’entità della crisi
vissuta dall’ente facendo intendere che presto sarebbero stati adottati dei provvedimenti drastici.
L’occasione per farlo fu l’intervento che egli svolse il 6 luglio 1920 alla Camera illustrando in
sintesi le strade che avrebbe voluto percorrere come nuovo responsabile della pubblica istruzione.
A proposito dell’agonia in cui versava l’ente affermò:
Duole anche a me, come all’onorevole Agostinone, che l’Ente contro l’analfabetismo, istituito con decreto legge, sia
rimasto incagliato; e anche a me è noto che il modo come era stato prima concepito faceva assorbire gran parte dei
fondi disponibili da un nuovo e pesante macchinario burocratico. Per ora, dell’Ente non c’è altro che un
appartamento preso in fitto, un direttore e alcuni avventizi; ed io intendo, mentre si studierà il da fare, di risparmiare
subito questa spesa oziante119.
Il filosofo concluse il suo intervento confermando l’intenzione di investire la somma già
messa a bilancio per l’ente nel potenziamento dell’istruzione primaria con la seguente
motivazione: «c’è rischio – affermò Croce – che quel denaro si disperda in mille rivoletti, senza
produrre effetti benefici che stiano in alcun adeguato rapporto col sacrificio pecuniario»120. Pochi
giorni dopo il ministro, convinto della necessità di affrontare la lotta contro l’analfabetismo in
modo diverso da quanto finora fatto, decideva la soppressione dello sfortunato Ente, firmando il
decreto 5 agosto 1920. Tale scelta non convinse peraltro l’opposizione socialista che la giudicò un
tentennamento del governo che si muoveva ancora con ambiguità in questo terreno. L’intervento
più importante, da questo punto di vista, fu quello di Giacomo Matteotti che, intervenendo alla
Camera dei Deputati il 6 agosto 1920, il giorno dopo la firma del decreto che sopprimeva l’ente,
affermò:
Il ministro dell’istruzione senatore Croce, giustificando la sua abolizione dell’ente per l’analfabetismo, dice: noi
aboliamo l’ente per l’analfabetismo, perché vogliamo risalire alle radici ed allargare la scuola elementare. Mi pare che
in questo modo non si faccia né l’uno né l’altro […] Immaginate quanto tempo bisogna ancora aspettare prima che
questi studi siano compiuti e si tratta di problemi urgentissimi che non importano altro che una spesa di 50 milioni
all’anno. Io mi meraviglio come questa somma non si possa trovare quando si tratta dell’istruzione elementare, della
cosa più elementare che ci sia; insegnare a leggere e scrivere al popolo anche per potere dare sfogo all’emigrazione
per gli Stati Uniti, che si è detto che è l’unica valvola di sfogo per evitare disordini. In questo anno 1920 fa pietà
domandare l’istituzione di scuole elementari, fa pietà affermare che vi sieno riuniti in alcune classi più di 150 alunni
con un solo maestro121.
In modo analogo in un articolo uscito nell’agosto 1920 «I diritti della scuola»
commentavano con rammarico la soppressione dell’ente visto come «un’iniziativa che era stata
concepita con geniale ardimento, ma che poi, al solito, si era snaturata per via, nelle mani di
funzionari inetti e di speculatori della politica».
Dal canto suo Croce fece intendere che alla base di questa scelta c’era un cambio di
strategia: da allora in poi la lotta all’analfabetismo sarebbe stata condotta in primo luogo tra le
giovani generazioni e in modo residuale tra gli adulti, privilegiando la scuola elementare. Una linea
di indirizzo che egli confermò poche settimane dopo nel discorso d’inaugurazione della sessione
autunnale del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione quando affermò di voler combattere
119
B. Croce, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 79.
Ibid.
121
Discorsi parlamentari di Giacomo Matteotti pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, 3 voll.,
Roma, Stabilimenti tipografici Carlo Colombo, 1970, vol. I, pp. 200-201.
120
51
l’analfabetismo con l’istituzione di una prima tranche di duemila nuove scuole elementari, che si
sarebbero aggiunte alle circa 78mila già esistenti con l’ambizioso obiettivo di giungere in futuro a
100mila, quelle ritenute necessarie in base al numero della popolazione secondo calcoli fatti dagli
uffici del ministero.
A questo proposito nell’agosto 1920 Croce aveva inviato una circolare ai provveditori ed
ai prefetti avente per oggetto l’istituzione di nuove scuole, indicando due strade da percorrere per
raggiungere tale obiettivo: nell’immediato invitava le autorità scolastiche locali alla
razionalizzazione, riducendo l’orario scolastico nel corso superiore delle scuole con pochissimi
alunni a vantaggio di quello inferiore e trasferendo, se necessario, la sede delle scuole in località
ove sarebbe stato possibile raccogliere più fanciulli; nel medio periodo prospettava, soprattutto
per i Comuni in cui risultasse la presenza di meno di un maestro ogni 500 abitanti, la creazione di
nuovi posti di insegnante e di scuole da individuare sulla base di un «riesame analitico delle
condizioni scolastiche dei singoli comuni»122.
Si trattava tuttavia agli occhi Matteotti di un numero insufficiente a rispondere alle reali
esigenze della scuola italiana, come dichiarò in una sua interpellanza ai ministri dell’istruzione e
del tesoro discussa alla Camera il 22 novembre 1920. L’esponente socialista sostenne che «le
duemila nuove scuole [erano] assolutamente insufficienti specialmente se si vo[lessero] in esse
comprendere le scuole già istituite nel 1919 provvisoriamente dalle Amministrazioni provinciali
con mezzi propri». Si trattava di preoccupazioni per certi versi condivisibili se si pensa che lo
stesso Croce dovette poco dopo riesumare l’idea di affidare ad un apposito ente l’organizzazione
di scuole per gli analfabeti, piuttosto che pensare ad un diretto e totale impegno dello Stato in
questo versante. Il filosofo non farà in tempo a varare la nascita del nuovo organismo a causa
della crisi del gabinetto Giolitti che porterà alla formazione del governo Bonomi, ma sarà il suo
successore, Mario Orso Corbino, a concretizzare la creazione di un simile organismo, firmando il
28 agosto 1921 il decreto che istituiva l’Opera contro l’analfabetismo.
6. Il ministro Corbino e l’Opera contro l’analfabetismo
Sorta dallo stesso mileau culturale che aveva originato l’infelice esperienza dell’Ente contro
l’analfabetismo degli adulti, vale a dire dalla presa d’atto dell’incapacità dello Stato di garantire
l’istruzione di base nelle campagne più disagiate e povere e dall’incontro fattivo e positivo di
personalità di vario orientamento politico e intellettuale che avevano eletto la scuola a principale
fattore di progresso, l’Opera contro l’Analfabetismo iniziava la sua attività giusto in tempo per
l’avvio dell’anno scolastico 1921-22. Ma a differenza dell’esperimento tentato nel 1919, questa
volta il nuovo organismo riusciva ad entrare in piena attività grazie alla convergenza politica
venutasi a creare e alla comprensione del fatto che non fosse più possibile un ulteriore fallimento,
anche a fronte di altre iniziative che, sorte in modo autonomo, avevano conseguito buoni risultati
su questo terreno. Ci riferiamo in particolare ai corsi di alfabeto per adulti creati nel 1920 dal
Commissariato generale dell’Emigrazione, organo del ministero degli Esteri, sotto l’incalzare
dell’esigenza di porre rimedio al rimpatrio di un gran numero di emigranti italiani degli Stati Uniti
122
Si tratta della circolare n. 49 pubblicata nel «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica
Istruzione», n. 35, 26 agosto 1920, p. 1514.
52
a causa del loro analfabetismo123. Si trattava di una soluzione d’emergenza escogitata dai
funzionari del ministero degli Esteri di fronte all’immobilismo della politica e all’inerzia dell’ente
creato da Berenini: erano così sorti in numerosi centri dell’Italia meridionale e centrale (in Sicilia,
Calabria, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Marche, Lazio meridionale e parte della Campania) scuole
festive e serali per giovani d’ambo i sessi dai 12 anni in su in cui veniva svolto un corso di base
che comprendeva la lettura, la scrittura, brevi nozioni di storia e geografia, esercitazioni di
aritmetica. In ogni scuola furono impartite 120 lezioni, di due ore e mezza ciascuna, e la
scolaresca venne divisa in analfabeti e in avviati. Agli insegnanti venne corrisposto un compenso
per ogni lezione ed uno per ogni alunno promosso, mentre i Comuni fornirono gli elenchi degli
alunni ed i locali124.
Aperti alla fine di ottobre del 1920, tali corsi cessarono di funzionare nel maggio
successivo ottenendo insperati risultati e costituendo una valida esperienza da emulare per chi
avesse voluto far risorgere dalle ceneri un nuovo organismo a cui delegare il compito di
combattere l’analfabetismo. E non a caso proprio all’esperienza dei corsi organizzati dal
Commissariato generale dell’Emigrazione guardò con interesse Croce e soprattutto il suo
successore Corbino. A premere perché si continuasse su questa strada fu nel corso dell’estate del
1921 lo stesso Turati il quale ebbe dei contatti con il nuovo titolare della pubblica istruzione già
pochi giorni dopo il suo insediamento. Inoltre volle suggellare sul piano pubblico il tentativo di
rilanciare la battaglia contro l’analfabetismo presentando alla Camera dei Deputati un apposito
ordine del giorno in cui, preso atto che lo stanziamento di 4 milioni annui in precedenza messo in
bilancio era ancora disponibile, invitava il governo a provvedere d’urgenza, anche con decreto
legge, alla fondazione di un nuovo organismo che potesse entrare in funzione fin dal mese di
novembre con il compito di creare scuole diurne per i bambini nonché scuole serali e festive per
gli adulti sopra i 14 anni e di fondare biblioteche popolari125. Illustrando questo documento nella
seduta della Camera del 29 luglio 1921 il leader socialista sostenne anche la necessità di fare
tesoro degli errori del passato ricordando l’infelice sorte toccata dell’ente creato due anni prima:
Si era creato un Ente contro l’analfabetismo, che doveva fare miracolo, ma che è stato organizzato così bestialmente
(e con questo avverbio poco parlamentare riassumo e sostituisco tutto un discorso) che doveva fatalmente morire
ancora in fasce; tuttavia per ricostruirlo più razionalmente, furono mantenuti o relativi quattro milioni annui in
bilancio. Vi sono poi altre economie che si fanno e si faranno, in forza di leggi già votate, convertendo inutili scuole
di ruolo in facoltative, e che potrebbero, in tutto o in parte, devolversi al medesimo fine.
Nel corso del suo intervento Turati fece cenno ai contatti intercorsi con il ministro
Corbino e alla sostanziale convergenza sul proposito di ricostruire un ente delegato del compito
di gestire scuole nelle campagne più isolate e povere. A questo proposito affermò di essere stato
autorizzato dallo stesso ministro, assente in aula poiché impegnato nei lavori del Senato, ad
anticipare i contenuti del progetto che prevedevano il coinvolgimento di alcune associazioni già
operanti in campo culturale e scolastico:
123
L’opera contro l’analfabetismo. R. D. L. 28 agosto 1921, n. 1371. Relazione del comitato direttivo a S. E. il
ministro per la Pubblica Istruzione anno 1921-22, Roma, Tip. Delle scuole, 1923, p. 4.
124
Ibid.
125
Il testo dell’ordine del giorno è pubblicato in F. Turati, Discorsi parlamentari pubblicati per
deliberazione della Camera dei Deputati, 3 voll., Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, vol. III,
pp. 1868-1869.
53
Ora alcuni uomini di diverso colore politico, ma pei quali l’alfabeto non ha colore, si misero d’accordo fra loro, col
Commissariato generale dell’emigrazione – che per conto suo tentò nello scorso anno un consimile esperimento con
risultati notevolissimi – e infine col Ministro della pubblica istruzione, che in questo momento è impegnato in
Senato, ma mi ha autorizzato ad annunziare questa nostra preliminare intesa ufficiosa, affinché cotesto denaro, che
starà tra i sei e gli otto milioni, venga assegnato a una federazione di quegli istituti liberi, giuridicamente riconosciuti, i
quali già nelle diverse zone d’Italia, come la Società Umanitaria, le scuole dell’Agro romano e delle Paludi Pontine, la
Società per gli interessi del Mezzogiorno, il Consorzio nazionale Emigrazione e Lavoro, ecc., diedero prova di saper
fare sul serio in questa materia; e i quali, sotto la vigilanza del Governo, ma senza creare nuovi costosi organismi e
senza inceppamenti burocratici, riprenderanno, con unità d’intenti e in parte con unità dei servizi, ma con divisione
di zone e con libertà di adattamenti alle condizioni locali agricole e stagionali delle varie plaghe la campagna per la
distruzione dell’analfabetismo, avendo anche di mira l’istruzione professionale e le necessità degli emigranti per quel
poco, anzi pochissimo, che l’emigrazione potrà essere ripresa nelle presenti condizioni internazionali126.
Turati aggiunse, infine, che il progetto nelle sue linee generali era stato «concordato col
ministro dell’istruzione» ed attendeva l’approvazione di quello del tesoro da cui non si aspettava
intralci e «bastoni nelle ruote» dal momento in cui non venivano richiesti altri fondi oltre quelli
già stanziati, né sussistevano «possibili dissidi politici» che potevano rallentare la nascita del
nuovo ente. Per questi motivi egli auspicava un intervento immediato del governo affinché l’ente
potesse entrare in funzione nell’imminente anno scolastico, almeno nelle regioni dell’Italia
centrale e meridionale. La risposta del ministro Corbino non tardò a giungere poiché nello stesso
giorno, il 29 luglio, intervenne alla Camera. Dopo aver ringraziato Turati per il suo contributo,
egli garantì l’intenzione del governo di intervenire in modo risoluto nella lotta contro
l’analfabetismo, senza tuttavia esplicitare in modo chiaro, come aveva fatto l’esponente socialista,
se si intendeva creare un apposito ente127. Anche sulla scelta del provvedimento legislativo più
opportuno, Corbino dichiarava che non era intendimento del governo adottare un decreto legge
su questa materia, ma che fosse preferibile un disegno di legge, fermo restando la necessità che il
nuovo organismo dovesse entrare in funzione entro l’inizio dell’anno scolastico. Turati, costatato
che era stata accettata la sostanza del suo ordine del giorno, non chiese che il suo documento
venisse messo ai voti e ringraziò il ministro. Scartata in un primo momento, la via del ricorso al
decreto legge venne ripresa poco tempo dopo dal governo: il 28 agosto 1921, infatti, Corbino
firmava il decreto legge che istituiva l’Opera contro l’analfabetismo.
Il meccanismo di funzionamento del nuovo ente consisteva nella sua natura ambivalente,
a metà strada tra Stato e privati. Il primo si sgravava di un onere così pesante che non avrebbe
potuto sopportare sulle sue spalle con l’istituzione di qualche migliaio di scuole statali per
bambini e adulti; al contempo lo Stato nel cedere ad associazioni private il compito dell’effettiva
gestione delle scuole, non rinunciava a svolgere un’azione di indirizzo e di coordinamento, né
ricusava di svolgere la funzione educativa che era ritenuta da una platea ampia di soggetti – si
pensi ai socialisti ma anche agli idealisti – una prerogativa di assoluta spettanza dello Stato. Le
associazioni prescelte a questo proposito furono quattro, tutte già esistenti e operanti nel campo
dell’istruzione popolare tramite la gestione di asili infantili, corsi per emigranti e scuole rurali. Si
trattava delle Scuole per i Contadini dell’Agro Romano, dell’Associazione Nazionale per gli
126
Ivi, p. 1869.
Disse Corbino: «La questione degli analfabeti, a cui l’onorevole Turati ha dedicato tanta parte
dell’opera sua, sta grandemente a cuore al Governo, il quale è già venuto nel proposito di
preparare una serie di provvedimenti, o un disegno unico, che consenta di dedicare a questo
nobile fine i mezzi già esistenti in bilancio e che non hanno oggi un impiego molto proficuo»
(Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XXVI legislatura, tornata del 29 luglio 1921, p. 886).
127
54
Interessi del Mezzogiorno d’Italia, della Società Umanitaria e del Consorzio Nazionale
Emigrazione e Lavoro.
Si deve inoltre sottolineare, contrariamente a quanto mai fatto finora, che l’individuazione
delle quattro associazioni fu fatta anche seguendo un eminente criterio politico, con l’obiettivo di
coinvolgere in questo progetto quante più tendenze e orientamenti ideali possibili. Le prime due
associazioni erano, infatti, espressione di alcuni settori del liberalismo, la terza degli ambienti
socialisti riformisti milanesi che avevano in Turati il loro rappresentante, la quarta rispondeva al
partito popolare128. A ben vedere si trattava di una vera e propria spartizione tra i principali partiti
presenti in Parlamento che, tuttavia, sembrava allora necessaria per garantire all’ente l’avvio delle
sue funzioni, eliminando ostacoli che avrebbe potuto trovare nel suo cammino considerando la
difficile situazione politica e sociale del dopoguerra129. Una verità che fu ammessa in modo
candido dallo stesso successore di Corbino alla Minerva, il popolare Antonino Anile, nel discorso
pronunciato alla riunione dei direttori regionali dell’ente contro l’analfabetismo il 23 ottobre 1922:
I quattro enti, delegati sinora a svolgere il loro compito nelle varie province d’Italia, hanno vario colore politico, ma
ciò non ha impedito una grande concordia di propositi e una feconda operosità e una conquista sempre più larga
contro l’ignoranza. Ciò ammonisce che la scuola può e dev’essere amata con eguale passione da tutti noi, pur se
discordi nelle nostre concezioni politiche, e che un partito che ne sostenga il monopolio la offende130.
Si deve a questo proposito aggiungere che se all’inizio la collaborazione tra i partiti politici
era stata finalizzata a consentire esclusivamente il buon funzionamento dell’Opera contro
l’analfabetismo, successivamente con l’aggravarsi del quadro politico nazionale – caratterizzato
dall’ascesa dello squadrismo in vaste aree del paese e dal tentativo delle forze antifasciste di
fronteggiare tale avanzata – taluni cercarono di vedere in essa il primo esempio di una
128
Il fatto che il Consorzio Emigrazione e Lavoro dipendesse in larga misura dal Ppi è provato
dal fatto che una sua dirigente, la Novi Scanni, fosse membra del consiglio politico del partito,
come ebbe tra l’altro modo di ricordare don Sturzo al congresso del Ppi di Venezia dell’ottobre
1921: «Altro provvedimento è stato emesso dal ministro Corbino, d’intesa con l’on. Anile, per
l’Ente contro l’analfabetismo del Mezzogiorno, nel quale coopera con ogni attività e zelo dove è
segretaria l’esimia signora Novi-Scanni, che fa parte del consiglio del partito, la cui opera è
ispirata alle più pure idealità di bene» (Cfr. F. Malgeri (a cura di), Gli atti dei congressi del Partito
popolare italiano, Brescia, Morcelliana, 1969, p. 240).
129
Questo aspetto emerge bene anche da una lettera di Marcucci del gennaio 1922 ad un dirigente
dell’Umanitaria in cui, rendendogli conto di una sua recente visita in Puglia in qualità di Ispettore
centrale per l’istruzione primaria e popolare, affermò di aver riscontrato che tale associazione
aveva nominato tutti maestri socialisti e per questo esortava a tenere in considerazione insegnanti
anche di altre idee politiche. Scrisse Marcucci: «La nomina dei Maestri ha dato luogo a qualche
malumore per ragioni di partito, essendosi in qualche Comune nominati tutti Maestri socialisti.
Era il mio presentimento. Ma il fenomeno è rimasto circoscritto e non avverrà più in avvenire.
Bisogna dividere il pane in eque parti. Ho raccomandato tuttavia alla Sezione di Bari che in fatto
di propaganda alle Camere del lavoro, alle leghe faccia nota la apoliticità dell’alfabeto e che mai
più proibiscano ai loro iscritti di frequentare la scuola perché il Maestro veste l’abito talare e che
insegnino ai loro iscritti a non fumare la sigaretta e tenere il cappello in testa per far dispetto al
Maestro che non è socialista o è…fascista. In fondo poi chi paga questi atti di ineducazione è il
popolo che per ciò non ha avuto la scuola in due importanti centri» (ASU, pratica 553, s.fasc. 4,
anno 1921, Lettera di Marcucci ad un dirigente della Società Umanitaria, 24 gennaio 1922).
130
Il discorso di Anile venne pubblicato in «Conferenze e prolusioni. Periodico quindicinale», a.
XV, 1922, p. 382.
55
collaborazione tra popolari e socialisti che poteva essere estesa ad altri settori al fine di costruire
un’alleanza dei partiti di impronta popolare. Si possono allora inquadrare entro tale cornice le
parole di Turati in un’intervista rilasciata nei primi mesi del 1922 in cui lasciava aperta la
prospettiva ad una possibile collaborazione tra popolari e socialisti, rinvenendo uno dei possibili
terreni di incontro proprio nei problemi della scuola. A questo proposito egli minimizzava le
distanze che pur vi erano tra i due partiti sul tema della libertà d’insegnamento, e affermava che la
convergenza non solo era possibile ma in taluni casi si era già realizzata, riferendosi
esplicitamente all’Opera contro l’analfabetismo. Disse Turati:
Or su questo terreno, dove si è cominciato – come, ad esempio, nell’Opera contro l’analfabetismo degli adulti – io
vedo già popolari e socialisti adoperarsi di conserva efficacemente, senza scontrose rivalità, senza spirito inquisitorio
reciproco, in una felice divisione ed emulazione di lavoro. E ciò essenzialmente perché entrambi – come partiti di
masse – sentono egualmente (e son quasi i soli a sentirla) l’importanza decisiva e preminente della istruzione del
popolo131.
Come è noto, il tentativo di avvicinamento tra i partiti antifascisti era destinato a fallire. A
conclamarlo fu il XIX congresso del Psi, tenutosi a Roma agli inizi dell’ottobre 1922, quando
venne messa in minoranza l’ala riformista e si arrivò all’espulsione di autorevoli esponenti come
Treves, Matteotti e dello stesso Turati che si erano dichiarati disposti a sostenere un governo
borghese purché deciso a contrastare lo squadrismo132.
Dal punto di vista dell’ordinamento il nuovo organismo, con sede a Roma, era diretto da
un consiglio formato da otto membri, di cui quattro di nomina ministeriale in rappresentanza
degli enti sovventori (due membri del ministero della pubblica istruzione, uno del ministero del
Tesoro, uno del Commissariato Generale dell’Emigrazione dipendente dal ministero degli Esteri),
e quattro in rappresentanza delle altrettante associazioni delegate133. I due rappresentanti del
ministero dell’istruzione erano il Direttore generale per l’istruzione primaria, che assumeva su di
sé la carica di presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, e un funzionario superiore, che aveva
il compito dell’attuazione dei deliberati del consiglio. Quest’ultimo organismo collegiale aveva i
seguenti compiti: assegnare annualmente i fondi stabiliti per la lotta all’analfabetismo alle
associazioni delegate; stabilire i criteri generali e le direttive amministrative dell’azione comune
alle associazioni; compilare il bilancio dell’Opera da rimettere all’attenzione del ministero;
esaminare ed approvare in sede preventiva e consuntiva il piano di lavoro e i bilanci di ogni
associazione; proporre al ministero con il consenso di almeno il 75% dei membri del consiglio,
l’ammissione al finanziamento di altri enti e all’azione contro l’analfabetismo di altre associazioni
delegate. Secondo quanto stabilito dalla legge la sua opera si esplicava in tre direzioni: creazione
131
Popolari e socialisti di fronte alla scuola, «I diritti della scuola», n. 20, 12 marzo 1920, p. 300.
Su questo aspetto cfr. G. Sabbatucci, Storia del socialismo italiano, 6 voll., Roma, Il poligono, vol.
III, pp. 319-323.
133
Decreto 28 agosto 1921; il testo è riportato anche in «I diritti della scuola», n. 39, 30 settembre
1921, pp. 627-628. L’Umanitaria nella seduta del 20 settembre 1921 delegò a suo rappresentante
nel consiglio dell’Opera il proprio presidente, il senatore Luigi Della Torre, in gioventù attivo
militante socialista di Milano che aveva abbandonato la militanza a causa degli impegni finanziari
che lo portarono a diventare uno dei principali banchieri d’Italia e di alcune polemiche per aver
omaggiato il re, pur mantenendo legami con l’ala riformista del partito e con Turati in particolare
(ASU, pratica 553, s.fasc. 4, anno 1921, Copia di lettera del direttore generale dell’Umanitaria,
Osimo, al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, 9 novembre 1921; su Della Torre si veda
il profilo biografico curato da F.M. Biscione in DBI).
132
56
di scuole diurne per figli di contadini, pastori, pescatori, minatori, braccianti, da istituirsi «nelle
campagne e presso cantieri ed opifici» ove si potessero riunire almeno 20 alunni dai 6 ai 14 anni
con orario di cinque ore giornaliere per un corso di 180 ore; creazione di scuole serali per
lavoratori di età superiore ai 12 anni nei centri ove fosse possibile riunire almeno 15 allievi con
orario di almeno due ore giornaliere per un corso di lezioni sufficienti allo svolgimento di un
programma didattico che nella prima classe conducesse l’analfabeta a saper leggere e scrivere;
creazione di scuole festive da istituirsi nei piccoli centri con corso elementare, specialmente
femminile, con nozioni utili alla vita professionale (industriale ed agricola), con l’impiego di
svariati mezzi come il cinematografo, le esperienze pratiche, le letture e le conferenze. Era altresì
stabilito che il programma didattico per le scuole diurne e per quelle serali era lo stesso del corso
elementare inferiore e che il profitto degli alunni doveva essere accertato con prove di esami. Per
quanto riguardava invece la scelta del corpo docente, era previsto che gli insegnanti delle scuole
sarebbero stati scelti dalle singole associazioni delegate e, se muniti del diploma di abilitazione,
avrebbero visto riconosciuto valido agli effetti della carriera magistrale il loro servizio, circostanza
questa che allarmò i sindacati poiché in tal modo la legge lasciava aperta la strada alla nomina di
persone prive della patente rilasciata dalla scuola normale. In ordine alla messa a disposizione dei
locali scolastici, dell’arredamento e del materiale didattico, era stabilito che tutto ciò era a carico
delle associazioni che vi avrebbero provveduto con il concorso dei Comuni e dei proprietari
terrieri, degli opifici e dei cantieri. Gli enti delegati vedevano riconosciuta la propria autonomia
interna, tanto per i rapporti economici e disciplinari con tutti coloro che con essi collaboravano,
quanto per gli atti amministrativi della gestione di ciascuno, in armonia con quanto disposto
dall’Opera. Il compenso ai maestri sarebbe stato commisurato in base al numero di lezioni
effettivamente tenute e al numero di alunni promossi al termine dell’anno scolastico. La vigilanza
su tali scuole sarebbe spettata sia al consiglio dell’Opera contro l’analfabetismo, sia ai regi
ispettori scolastici ed ai direttori didattici.
Il finanziamento del nuovo organismo era basato sui quattro milioni annui già messi a
bilancio con il decreto del 2 settembre 1919 che istituì il soppresso Ente contro l’analfabetismo
degli adulti, a cui si aggiungeva un milione e 700 mila lire annui assegnati dallo stesso ministero
alle scuole serali e festive ed una somma stanziata dal Commissariato generale per l’Emigrazione.
Nei primi due anni di attività l’azione dell’Opera si rivolse in particolare verso l’istruzione
per gli adulti, seguendo il solco aperto dal Commissariato per l’Emigrazione: infatti nel 1921-22
funzionarono 2.057 scuole serali e 319 scuole festive per adulti e 213 scuole diurne per fanciulli.
Numeri destinati a crescere l’anno successivo quando furono attivate 3.187 tra scuole serali e
festive e 403 scuole diurne, di cui però un centinaio già esistenti perché istituite per proprio conto
dall’ente Scuole per i contadini dell’Agro romano.
Un secondo tratto comune tra l’Opera e il Commissariato per l’Emigrazione era il fatto
che entrambi rivolsero la propria attenzione alle regioni dell’Italia centro-meridionale, fino alle
Marche, all’Umbria e ad una parte della Toscana (la Maremma, il Livornese, il Senese e l’Aretino).
Solo nel 1922-23 l’Opera estese la sua attività anche al Veneto, cioè ad una delle zone più povere
e rurali dell’Italia settentrionale. La gestione delle scuole in quest’ultima regione venne affidata in
parte alla Società Umanitaria (nelle province di Belluno, Padova, Verona, Vicenza, Rovigo), in
parte al Consorzio Emigrazione e Lavoro (nelle province di Treviso, Udine e Venezia)134.
134
L’Opera contro l’analfabetismo: R.D.L. 28 agosto 1921, n. 1371: relazione del Comitato direttivo a S.E. il
ministro per la pubblica istruzione (anno 1922-23), Roma, Proja Luigi, 1924, p. 17. Le pratiche per
garantire all’Umanitaria di estendere la sua azione alle regioni settentrionali iniziarono nel gennaio
57
All’interno delle singole associazioni non mancarono personalità dotate di grande
sensibilità e di capacità operative, che fornirono la propria opera con vera passione educativa,
attingendo, come è stato già sottolineato, a quel ricco «patrimonio di cultura e di pratica civile»
maturato durante l’esperienza della mobilitazione nel periodo bellico135. Si pensi a questo
proposito all’opera di Giuseppe Lombardo Radice svolta in Sicilia nella fondazione e nella
direzione delle scuole dell’Animi. Già impiegato nel Servizio Propaganda dell’esercito italiano
durante la Grande Guerra, Lombardo Radice scriveva l’11 dicembre 1921 all’amico Santino
Caramella un messaggio tanto lapidario, quanto carico della sua tensione etica e morale per la
causa dell’educazione: «Io ho organizzato in 3 mesi: 570 scuole serali; 36 diurne; 70 festive in
Sicilia. Lavoro come un matto. Evviva!»136. Parole che testimoniano una sincera e disinteressata
passione per la scuola unitamente alla consapevolezza, presente nel pedagogista siciliano e
condivisa con altri intellettuali che si richiamavano all’idealismo, della necessità di rifondare
spiritualmente una Nazione uscita sfiancata dalla prova bellica grazie all’educazione del popolo
italiano. Non a caso Lombardo Radice chiamò intorno a sé persone che condividevano queste
idee, giovani intellettuali idealisti del tutto estranei alle dinamiche dell’amministrazione scolastica
statale, che meglio di altri avrebbero contribuito al buon funzionamento delle scuole dell’Animi:
ci riferiamo, in particolare, a Giuseppe Isnardi ed Emilio La Rocca, professore il primo di
ginnasio, insegnante di pedagogia nelle scuole normali il secondo, che egli aveva conosciuto anni
prima grazie alle sue riviste, «Nuovi doveri» e «L’Educazione nazionale», in cui aveva predicato il
rinnovamento della scuola e dello spirito nazionale137.
Si pensi ancora all’azione propulsiva svolta da Umberto Zanotti Bianco e Gaetano
Piacentini nell’organizzazione delle reti di scuole serali, festive e diurne nell’Italia meridionale o al
lavoro svolto sul campo dallo stesso Isnardi, inviato in Calabria a dirigere le scuole dell’Animi.
Tracce della loro passione civile e della loro dedizione alla causa della scuola si possono cogliere,
ad esempio, nelle parole che Zanotti Bianco inviava il 20 ottobre 1921 a Ugo Ojetti, per
chiedergli di scrivere un articolo sul «Corriere della Sera» che facesse un po’ di pubblicità
all’Animi:
1922, quando Osimo e Della Torre, rispettivamente direttore e presidente del sodalizio milanese,
chiesero al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo di poter ricevere la delega anche in
Veneto e in Lombardia. Un’altra lettera dell’aprile 1922 informa che nel frattempo anche l’Opera
Bonomelli aveva chiesto di ottenere l’incarico per il Veneto (ASU, pratica 553, s.fasc. 8, anno
1921, Lettera di Osimo e Della Torre al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, 28 gennaio
1922; Ivi, pratica 553, s.fasc. 9 , anno 1921, Lettera di Bachi all’Umanitaria, 12 aprile 1922). Sulla
storia dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa, poi denominata Opera
Bonomelli, si rinvia a P.V. Cannistraro, G. Rosoli, Emigrazione, Chiesa e fascismo: lo scioglimento
dell'Opera Bonomelli (1922-1928), Roma, Studium, 1979.
135
G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva, Brescia, La Scuola, 1990, p. 210.
136
Carteggio Giuseppe Lombardo Radice-Santino Caramella, a cura di Tina Caramella, Genova, Studio
editoriale di cultura, 1983, p. 40. La lettera è stata già citata in A. Gaudio, Giuseppe Lombardo
Radice, il Mezzogiorno e la lotta contro l’analfabetismo, «Pedagogia e Vita», n. 4, 2004, p. 65.
137
G. Isnardi, L’attività educativa scolastica dell’Associazione, in L’Associazione Nazionale per gli Interessi
del Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 211-212. In particolare a Isnardi venne affidata la direzione delle
scuole in Calabria, a La Rocca le scuole della Basilicata, a Vitale Chialant le scuole della Sicilia
orientale (Messina, Catania e Siracusa), ad Arcangelo Sciacca le scuole della Sicilia centrale
(Caltanissetta e Agrigento), a Giuseppe Liotta le scuole della Sicilia occidentale (Palermo e
Trapani), a Guglielmo Zanini le scuole della Sardegna.
58
Ti sarò assai grato – scrisse Zanotti Bianco – se vorrai scrivere la mezza colonna promessami sul Corriere, facendo
rilevare che il decreto è stato firmato il 18 o il 19; l’altro ieri insomma e già siamo in grado di aprire tutte le scuole
(circa 1100) per il 15 novembre: merito di Marcucci e Piacentini138.
Né si possono dimenticare gli sforzi profusi da Alessandro Marcucci che, memore
dell’opera educativa delle scuole dell’Agro Romano fondate insieme a Giovanni Cena con «spirito
garibaldino» un decennio prima, fornì il suo contributo dispensando consigli, proposte e idee o
impegnandosi perché la scelta dei collaboratori degli enti delegati ricadesse su persone di
comprovato valore e perizia pedagogica: nel gennaio 1922, ad esempio, suggeriva ai dirigenti
dell’Umanitaria il nome di Giovanni Modugno, professore di pedagogia di scuola normale, come
nuovo direttore del settore Cultura della sezione barese dell’associazione, definendolo «il
Lombardo Radice delle Puglie» che avrebbe potuto tradurre «in atto postulati scientifici di
pedagogia e didattica, di sociologia e di economia ed amministrazione», occupandosi con profitto
della direzione delle scuole serali, festive e diurne in quella regione139.
Eppure, se si guarda con debita distanza ai risultati ottenuti, senza disconoscere il lavoro
svolto da molti educatori, non si potrà fare a meno di notare come l’avvio delle attività dell’Opera
era contrassegnato da una serie di criticità, a cominciare da quelle limitazioni finanziarie che
misero in luce in breve tempo come la sordità diffusa in molti settori della classe dirigente verso i
problemi della diffusione della cultura e del sapere tra i giovani contadini non era certo terminata.
Il numero delle scuole diurne, infatti, era assolutamente insufficiente ai bisogni, se si pensa ad
esempio che nelle popolose province di Bari, Lecce e Foggia esse furono appena 12 o che in
quelle di Napoli, Avellino, Benevento, Salerno, Caserta e Campobasso ne furono aperte solo 59.
Del resto già allora il problema dell’insufficienza del numero di scuole, in specie diurne per
fanciulli, veniva rilevato e talvolta qualche critica apparve nella stampa magistrale: «I diritti della
scuola» scrissero che «sarebbero occorse non 2500, ma 5000 scuole almeno» e segnalavano
qualche caso paradossale, come ciò che avveniva a Sciacca, in Sicilia, dove a fronte delle 7 scuole
serali attive in precedenza, l’Opera ne attivò solo 3140. In un altro polemico intervento veniva
segnalato il caso del comune di San Gregorio d’Ippona, in provincia di Catanzaro, dove in
precedenza c’erano tre scuole serali ed una festiva mentre ora il loro posto era preso da una sola
scuola141. Insomma, in certi casi la nascita del nuovo ente non sembrava aver risolto il problema,
soprattutto per la cronica insufficienza delle scuole diurne destinate all’alfabetizzazione dei
bambini. La ragione di ciò era eminentemente economica e risiedeva nei maggiori costi che la
loro gestione comportava rispetto alle scuole serali e festive per adulti: le scuole diurne, infatti,
avevano un corso di studi più lungo, richiedevano una fornitura di materiale didattico più ricco,
dovevano essere sottoposte a vigilanza scolastica e imponevano che le spese di iscrizione al
Monte pensioni per gli insegnanti fosse a carico dell’Opera.
Quanto finora detto a proposito dell’Opera contro l’analfabetismo non deve far
dimenticare che essa operò nel biennio 1921-23 solo nei centri abitati dell’Italia centromeridionale dove il numero di obbligati era inferiore alla quaranta unità. Ciò significava che in
138
U. Zanotti-Bianco, Carteggio, a cura di V. Carinci e A. Jannazzo, 2 voll., Roma-Bari, Laterza,
1989, vol. II, p. 182.
139
ASU, pratica 553, s.fasc. 4, anno 1921, Lettera di Marcucci ad un dirigente della Società
Umanitaria, 24 gennaio 1922.
140
Opera contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 11, 25 dicembre 1921, p. 156; Opera contro
l’analfabetismo, n. 6-7, «I diritti della scuola», 27 novembre 1921, p. 94.
141
Ma è una cosa seria?, «I diritti della scuola», n. 9, 11 dicembre 1921, p. 128.
59
tutte le campagne delle regioni settentrionali e in parte di quelle centro-meridionali rimase in
vigore la precedente legislazione tale per cui le scuole rurali continuarono ad essere amministrate
dal Consiglio scolastico provinciale. Nei loro confronti l’azione del ministro Corbino fu assai più
circoscritta e limitata, ad esempio, all’emanazione di circolari, come la n. 54 del 28 ottobre 1921,
in cui si deprecava l’uso invalso di attivare il corso elementare superiore, con l’istituzione della
quarta classe con pochissimi iscritti, a scapito del corso inferiore, nel quale si riunivano talvolta
«sotto un solo insegnante da ottanta a cento alunni». Corbino invitava, in altre parole, a
privilegiare «le classi inferiori, che accolgono la enorme maggioranza degli obbligati, non già a
istituire scuole e corsi, che, per ora, non possono esser frequentati se non da pochissimi alunni
non obbligati per legge», ripetendo una sollecitazione già fatta peraltro l’anno precedente da
Croce142. Se le parole di Corbino e del suo predecessore erano ispirate dalla volontà di ottimizzare
le risorse finanziarie, evitando sprechi come la creazione di classi con pochi studenti e trovando
da questo punto di vista una sponda nel gruppo idealista, agli occhi dell’opposizione socialista
tutto ciò era troppo poco e confermava la volontà delle classi dirigenti del paese di non voler
dedicarsi in modo convinto alla lotta dell’analfabetismo degli operai e dei contadini. Fu per tale
ragione che durante la discussione del bilancio della pubblica istruzione svoltasi alla Camera nel
giugno 1921 i deputati del Psi Matteotti e Bombacci avanzarono in modo quasi provocatorio la
proposta di stanziare 60 milioni di lire per la creazione di circa 10 mila nuove scuole. Non
accettata dal governo, tale richiesta venne riformulata sotto forma di disegno di legge, di iniziativa
del ministro del Tesoro, Peano, che il 30 giugno 1922 veniva approvato alla Camera: esso
prevedeva all’articolo 2 l’ambizioso progetto di istituire 6 mila nuove scuole a partire
nell’imminente anno scolastico 1922-1923 nei Comuni sottoposti all’amministrazione scolastica
provinciale143. Un progetto tanto importante quanto destinato ad essere disatteso: dopo essere
stato approvato dalla Camera, infatti il disegno di legge passò in Senato dove, a causa della crisi
politica e istituzionale in cui precipitò il paese, non fu discusso. Esso venne formalmente ritirato
dal governo Mussolini nel novembre 1923 che pensò di affrontare la questione dell’analfabetismo
con altri strumenti144.
142
Circolare 13 ottobre 1920.
Istituzione di seimila nuove scuole, «I diritti della scuola», n. 37, 30 luglio 1922, p. 582.
144
L’articolo 2 fu discusso alla Camera il 22 giugno 1922; l’intero disegno di legge, «Maggiori e
nuove assegnazioni nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’istruzione pubblica per
l’esercizio finanziario 1920-1921» (stampato n. 339), fu votato dalla Camera il 30 giugno 1922. Al
Senato risulta «ritirato con R.D. 9 novembre 1923 comunicato al Senato nella tornata del 12
successivo» (Senato del Regno, Legislatura XXVI, sessione 1921-1923, Resoconto dei lavori
legislativi [Roma, 1923]; Camera dei deputati, Sessione 1921-1922 (1a della XXVI Legislatura),
Atti del Parlamento italiano, vol. VII, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1922).
143
60
Capitolo terzof
La scuola rurale in camicia nera.
L’istruzione nelle campagne durante il fascismo (1922-1943)
1. Gentile e il Comitato contro l’analfabetismo
Con l’avvento alla Minerva di Giovanni Gentile, a seguito della formazione del governo
Mussolini, avvenuta il primo novembre 1922, si apriva una nuova fase nella storia dell’istruzione
rurale. Il filosofo, intorno al quale si erano radunati numerosi discepoli che del maestro
condividevano la visione neoidealistica, espresse molto presto il proprio apprezzamento verso
quelle iniziative private sorte nel campo dell’istruzione popolare che avevano permesso allo Stato
di sgravarsi di compiti così onerosi e di dedicarsi ad altre questioni ritenute di maggiore
importanza, come la valorizzazione della scuola classica considerata la fucina per la formazione
della nuova classe dirigente della Nazione. Gentile espose queste idee in una intervista a «La
Tribuna» il 25 maggio 1923, lasciando intendere in modo chiaro che sarebbe stata sua intenzione
quella di potenziare l’attività dell’Opera contro l’analfabetismo. In particolare il filosofo affermò
che l’Opera era stata «una delle buone cose» creata dai suoi predecessori Corbino ed Anile,
poiché «con ordinamento agile e rigoroso [aveva] ridato vita alle funzioni dell’insegnante, [aveva]
riaccostato le popolazioni rurali alla scuola, [aveva] dato cospicui risultati didattici, che si
traduc[evano] in risultati economici»145. Infatti quell’esperienza aveva mostrato anche agli scettici
che era necessario «falcidiare quelle spese che da[vano] risultati irrisori» a livello scolastico, e
aveva smentito coloro che in nome dell’istruzione popolare agitavano bandiere in modo
ideologico e corporativo, chiedendo di «sfollare le classi» o invocando «genericamente la casa
della scuola»146. Il ministro intendeva riferirsi a quelle che vennero chiamate le «scuole
inefficienti», cioè quelle scuole rurali con pochi iscritti o mal distribuite sul territorio, tale per cui
ad esempio si avevano due maestri in una scuola in cui uno insegnava a pochi alunni in prima e
seconda classe, e l’altro ad altrettanti pochi allievi in terza e quarta; un altro caso che veniva
sovente citato era quello di due scuole rurali aperte a poca distanza l’una dall’altra. Tutto ciò era
causa, a giudizio degli idealisti, dello sperpero di denaro pubblico che se impiegato diversamente
avrebbe fruttato risultati di certo migliori
Era in questa cornice che si inseriva il proposito di Gentile e dei gentiliani di avvalersi più
di quanto non si fosse fatto in precedenza dell’ausilio dell’Opera contro l’analfabetismo,
indirizzando il suo operato in due direzioni: da una parte estendendone l’azione a tutto il
territorio nazionale e non più solo all’Italia centro-meridionale, dall’altra affidandole la gestione
disciplinare e didattica di tutte quelle scuole elementari a scarso rendimento di cui si lamentava il
mal funzionamento. Si deve aggiungere a questo proposito che si trattava di un progetto politico
condiviso non solo dai collaboratori di Gentile ma anche da un altro fondamentale partito di
governo, il Ppi: questo, infatti, già nel consiglio nazionale del 20 dicembre 1923, riunitosi pochi
giorni dopo la costituzione del governo Mussolini, aveva chiesto che «nel campo delle Scuole
145
Il testo dell’intervista è riportato in G. Gentile, La riforma della scuola in Italia, a cura di H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 84-88.
146
Ivi, p. 85.
61
elementari si associasse maggiormente le attività comunali e statali a quelle degli Enti e dei privati
per combattere l’analfabetismo»147.
Le intenzioni del ministro, e del suo principale collaboratore in questo campo Lombardo
Radice, furono tradotte in pratica con il decreto n. 2410 del 31 ottobre 1923, uno dei
provvedimenti legislativi con cui venne riformata la scuola elementare italiana. In base ad esso
veniva eliminata la vecchia distinzione tra scuole di città e scuole di campagna, basata sul numero
degli abitanti e sul gettito fiscale dei Comuni, suddividendo le scuole in due gruppi (scuole
«classificate» e scuole «non classificate») in funzione del numero dei soggetti sottoposti
all’obbligo. Le prime erano gestite dall’amministrazione scolastica e dai Comuni, venivano aperte
nei capoluoghi di Comune e nelle frazioni che avessero oltre quaranta fanciulli sottoposti
all’obbligo, e si caratterizzavano per la presenza del corso superiore e del corso inferiore. A loro
volta le «non classificate» si suddividevano in «scuole provvisorie» e in «scuole sussidiate». Le
prime erano gestite da enti o associazioni culturali delegati appositamente dallo Stato, venivano
aperte in luoghi in cui vi era un numero di alunni non superiore a quaranta e non inferiore a
quindici, ed avevano il solo corso inferiore. Le seconde, invece, potevano essere gestite da privati,
dietro autorizzazione del Provveditore, ed erano parzialmente sussidiate dallo Stato.
Accanto alla nuova classificazione delle scuole, il sopracitato decreto provvedeva a modificare
parzialmente anche l’Opera contro l’analfabetismo, che cambiava il nome in quello di Comitato
contro l’analfabetismo. Il nuovo organismo doveva essere snello, capace di muoversi con agilità e
privo di quelle pesanti incrostature burocratiche contro le quali in passato si erano scagliati gli
idealisti. In linea con tali premesse il nuovo consiglio del Comitato vedeva ridurre fortemente la
presenza dei funzionari ministeriali, rispetto a quanto previsto dalla legge Corbino del 1921: essi
passavano da quattro a uno soltanto, vale a dire un ispettore centrale che prestava la sua opera
presso la Direzione Generale dell’istruzione elementare, e in quanto tale uomo di fiducia del
ministro. Completavano il consiglio ben cinque membri espressione delle istituzioni culturali
delegate, circostanza che determinava un’amplissima autonomia di azione alle associazioni
delegate. Al ministro era riservata la scelta del presidente del Comitato tra uno dei suoi
componenti (art. 19).
I compiti del nuovo organismo erano quelli di determinare le norme tecniche disciplinari
e amministrative per lo svolgimento del programma di azione delle associazioni delegate, stabilire
i compensi da corrispondere ai maestri; vigilare sull’andamento delle scuole delegate; riferire
annualmente al ministro. Veniva infine prevista la sopravvivenza di un altro tipo di scuole, quelle
cosiddette «a sgravio»; esse erano tenute da istituzioni o corpi morali e funzionavano sulla base di
una convenzione fra gli enti e il Provveditorato.
Un altro aspetto legato alla nascita del Comitato contro l’analfabetismo era di tipo
economico. Procedere infatti con le cosiddette «sclassificazioni», cioè nel conferimento dello
status di scuole non classificate, significava un risparmio netto per lo Stato che i tecnici della
Minerva stimavano in circa un terzo. Se infatti il costo medio di una scuola ordinaria era di circa
7.326 lire, quello di una scuola provvisoria era di 5.116 lire, con un’economia annua di 2.210 lire a
scuola148. Ciò significava secondo i primi calcoli che cominciarono a girare sulla stampa magistrale
che lo Stato avrebbe ceduto circa 1.400 scuole: di esse un migliaio sarebbero passate al nuovo
Comitato contro l’analfabetismo sotto la forma di scuole provvisorie, mentre le restanti, con un
numero di studenti ancora più inferiore, sarebbero diventate scuole sussidiate, sempre che
147
148
G. Petrocchi, Don Luigi Sturzo: note e ricordi, Roma, Apollon, 1945, p. 62.
I dati sono estratti dalla tabella allegata al decreto.
62
avessero trovato un generoso finanziatore149. Il decreto prevedeva infatti che entro un triennio le
scuole allora esistenti sarebbero state distinte in classificate, provvisorie e sussidiate, secondo la
popolazione scolastica. Qualora non sarebbero potute essere trasformate in sussidiate, le scuole
con pochi alunni sarebbe state soppresse.
Ma oltre a ragioni di tipo finanziario, vennero addotte anche motivazioni più strettamente
pedagogiche al fine di giustificare il prosieguo sulla via della delega delle scuole rurali alle
associazioni culturali: veniva infatti osservato che nelle scuole gestite in precedenza dall’Opera
contro l’analfabetismo la frequenza si attestava su livelli molto alti (in media ogni scuola era
frequentata da 29 alunni su circa 36 iscritti) e che il profitto didattico era altrettanto elevato (in
media 23 promossi per ogni scuola).
Le innovazioni introdotte dalla legislazione gentiliana furono accompagnate da giudizi di
diverso tenore. Il 25 ottobre 1923 «La nuova scuola italiana», giornale diretto da Codignola e
quindi favorevole alla riforma, se la prendeva contro le lamentele diffuse tra gli insegnanti che
temevano di veder peggiorare la propria condizione professionale a causa del passaggio delle
scuole in cui avevano lavorato alle dipendenze di enti delegati. Timori non condivisi dal periodico
secondo il quale, invece, si sarebbe posto fine all’abuso di denaro pubblico con il quale erano
state tenute aperte scuole inefficienti e con pochissimi alunni:
Lo Stato ha mantenuto per tanti anni, spendendo una media di 700 lire all’anno delle scuole con dieci, con sei e
perfino con due alunni, che da facoltative col noto decreto Berenini vennero innalzate allo stesso livello delle
pretoriche scolette del Veneto, della Romagna e della Lombardia! Dovrebbero ammettere anche gli oppositori di
professione che occorreva un provvedimento energico 150.
Al contrario «I diritti della scuola», rivista vicino all’Unione magistrale, in un acuto articolo
definiva le nuove disposizioni un grave e pericoloso passo indietro rispetto a quanto il nuovo
Stato unitario aveva fatto dal 1859 in poi, assumendo su di sé e sui Comuni il mandato di
provvedere all’istruzione elementare. Un patrimonio che rischiava di andare perduto, con pesanti
conseguenze non solo per gli insegnanti rurali che si sarebbero visti ridurre il proprio stipendio,
ma per l’intero sistema scolastico nazionale151. Tale progetto era, secondo questo ragionamento,
ben diverso dal proposito che aveva animato pochi anni prima i fondatori dell’Opera contro
l’analfabetismo la quale era stata concepita come un ente transitorio, la cui nascita era stata
giustificata da taluni esponenti del mondo magistrale laico e dell’opposizione socialista come un
fatto eccezionale, dettato dall’urgenza di arginare il problema dell’analfabetismo prima possibile e
anche ricorrendo all’ausilio dei privati. L’Opera era sorta, infatti, per «riparare alla meglio, con
espedienti garibaldini, e in via transitoria, alla mancanza di alfabetismo» mentre ora si assisteva
all’ingresso «nella legislazione scolastica del nostro paese [di] ben altre forme di collaborazione»152.
149
Scrivevano «I diritti della scuola»: «Da notare che le cifre riguardanti le scuole sussidiate
sono...ipotetiche, poiché dette scuole sono bensì esistite, nella categoria comune, sino all’anno
scorso, ma non è detto che rimarranno ancora in vita, essendo lasciata facoltà ai privati di
assumerle o meno» (Le scuole cedute per scarso rendimento, «I diritti della scuola», n. 5, 11 novembre
1923, p. 84).
150
Scuole provvisorie e scuole sussidiate, «La nuova scuola italiana», n. 5, 25 ottobre 1923, p. 60.
151
«È una parziale liberazione che lo Stato compie, a suo favore e a favore dei comuni, dagli
obblighi che la nuova Italia, dal 1859 in poi, era venuta assumendosi per l’istruzione del popolo»
(P.F., La nuova classificazione della scuole, «I diritti della scuola», n. 9, 9 dicembre 1923, p. 153).
152
Ibid.
63
Concetti analoghi saranno espressi un anno dopo anche dal deputato socialista Agostinone in una
serie di articoli pubblicati su «Critica Sociale» nei quali accusò il ministro di aver affrontato nei
modi peggiori il problema delle scuole inefficienti, vale a dire cedendole sbrigativamente agli enti
delegati o peggio ancora sopprimendole, invece di occuparsene con cura e amorevolezza. Scrisse
a questo proposito Agostinone:
Il Ministro Gentile incominciò col far compiere dei lodevolissimi rilievi statistici da cui risultava constatato, con
esattezza aritmetica, ciò che già proprio noi avevamo denunziato alla Camera: l’esistenza cioè di molte scuole
scarsamente utili. Ma, mentre dai nostri banchi si chiedevano edifizi adeguati, maestri incoraggiati economicamente a
sostenere il disagio della permanenza nei luoghi ingrati, ed altre provvidenze che rendessero popolate le scuole e
alacri gl’insegnanti, il Governo prese la via più spiccia. Costatato lo scarso rendimento, invece di ricercarne, luogo per
luogo, le cause, invece di curare la manchevolezza, posto per posto, punì senz’altro le popolazioni, o sopprimendo
addirittura le scuole o affidandole agli Enti privati. Delle 10.000 scuole considerate di scarso rendimento speriamo di
sapere presto quante furono veramente soppresse e quante furono consegnate alle cure dell’Ente contro
l’analfabetismo153.
Se la scelta di conferire la gestione delle scuole rurali nelle aree più disagiate del paese a
istituzioni culturali poteva essere giustificabile se concepita come una soluzione temporanea –
tant’è che il deputato socialista rivendicava l’apporto decisivo del suo partito alla nascita dell’Ente
contro l’analfabetismo nel 1919 – tale progetto non poteva essere più condiviso se si intendeva
trasformare quell’organismo in un ente permanente, decisione che di fatto avrebbe aperto la
strada ad una sorta di privatizzazione di un ramo dell’istruzione elementare:
A proposito di quest’Ente ci occorre essere ben chiari. L’Ente contro l’analfabetismo, che oggi viene per la prima
volta a sostituirsi allo Stato nel fondare e dirigere scuole rientranti nell’orbita della legge sull’istruzione, ha goduto
sempre tutte le nostre simpatie. Anzi diremo di più: esso nacque in casa nostra. Fu l’on. Corradini che ne portò la
prima idea nella sede della nostra Unione dell’Educazione popolare, dove fu tenuto poi a battesimo da uomini di
tutte le fedi: da Turati a Bertolini, da Longinotti a Tedesco. E di lì incominciò quell’opera che fu seguita in tutte le
fasi, col miglior fervore, fino alla completa effettuazione. Noi amammo quindi quella tenera creatura, ma
destinandola ad uno scopo preciso: alla distruzione dell’analfabetismo degli adulti. Doveva perciò avere un campo
limitato nel tempo e nello spazio; e perciò consentimmo che potesse utilizzare i maestri un po’ a cottimo e potesse
delegare l’opera propria ad antiche istituzioni già provate nella organizzazione di opere di scuola e di coltura. Ma
oggi, quando esso cambia fisionomia, accenna a diventare istituzione permanente, incomincia a sostituirsi agli enti
pubblici nella funzione più gelosa, ammette all’esercizio della funzione stessa organizzazioni improvvisate come
quelle create per la Toscana e per la Liguria, e minaccia di mutare la complessa funzione educativa della scuola nel
semplice scodellamento dell’alfabeto col maestro cottimista – dobbiamo vivamente protestare ripudiandolo il nostro
figlioccio154.
Tornando alle disposizioni contenute nel decreto del 31 ottobre 1923 si deve aggiungere
che l’estensione dell’opera del Comitato contro l’analfabetismo a tutto il territorio nazionale
comportò il coinvolgimento di altri enti delegati, alcuni già esistenti e altri di nuova fondazione.
Era il caso, ad esempio, del Comitato per le scuole del popolo, istituzione culturale sorta a
Genova fin dal lontano 1867, artefice della creazione in Liguria di scuole elementari passate
progressivamente allo Stato155; un’altra associazione che venne delegata fu il Gruppo d’azione per
le Scuole del Popolo, fondato a Milano nel 1919 da maestri che avevano il loro referente culturale
153
E. Agostinone, La riforma scolastica fascista. IV. La scuola elementare, «Critica Sociale», n. 21, 1-15
novembre 1924, p. 334.
154
Ibid.
155
Raccolta Ufficiale di Decreti e Leggi, 1901, p. 305.
64
nell’idealismo militante di matrice gentiliana, critico nei confronti dell’associazionismo magistrale
rappresentato dall’Unione Magistrale Nazionale e dalla «Nicolò Tommaseo» e deciso a battersi
per il rinnovamento spirituale della scuola secondo i valori nazionali. Di nuova fondazione era
invece l’Ente Nazionale di Cultura, con sede a Firenze, sorto per iniziativa di Ernesto Codignola
e di cui divenne presidente Giovanni Marchi, già maestro elementare, interventista durante la
Grande Guerra e poi eletto deputato nelle liste fasciste nel 1921156.
Guardando complessivamente alla mappa dell’Italia, essa era così suddivisa tra i vari enti: nel
Lazio, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche e la Romagna operavano le Scuole per i contadini dell’Agro
Romano e delle Paludi Pontine; in Toscana e in Emilia l’Ente Nazionale di Cultura; in Lombardia
il Gruppo d’azione per le Scuole del popolo; in Liguria il Comitato per l’Educazione del popolo;
in Veneto e in parte della Puglia (Bari e Lecce) la Società Umanitaria; in Campania, Molise e parte
della Puglia (Foggia) il Consorzio Nazionale di Emigrazione e Lavoro; in Basilicata, Calabria,
Sicilia e Sardegna l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia157. Per
quanto riguardava, invece, il Piemonte, le valli alpine (Valle d’Aosta), la Venezia Giulia e la
Venezia Tridentina (Trentino) il ministro si riservò di nominare successivamente altre
associazioni158.
Intanto il Comitato contro l’analfabetismo si riuniva per la prima volta nei primi giorni di
dicembre del 1923, presso la Direzione generale dell’istruzione elementare. I cinque componenti
scelti, come previsto dalla legge, dal ministro fra i rappresentanti delle associazioni delegate erano
Gaetano Piacentini (Animi), Cesare Bachi (Società Umanitaria), Ernesto Codignola (Ente
nazionale di cultura), Giuseppina Novi-Scanni (Consorzio Emigrazione e Lavoro), Francesco
Acerbo (Scuole dei contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine). Rappresentante del
ministero presso il Comitato fu nominato Alessandro Marcucci. Su indicazione di Gentile venne
prescelto come presidente del neonato Comitato, Gaetano Piacentini159.
Nella seduta dell’11 febbraio 1924 il direttivo del Comitato decise, alla presenza di
Lombardo Radice, di aumentare le diarie dei maestri portando da 18 a 23 lire per le scuole diurne
e i premi di promozione da 20 a 25 lire per ogni alunno promosso. Si stabilì inoltre che ogni
associazione avrebbe dovuto organizzare durante l’estate corsi di preparazione per i maestri per
discipline come l’agraria, l’igiene infantile, il canto e il disegno, discipline non a caso rivalutate dai
nuovi programmi elaborati da Lombardo Radice nel 1923160.
Per quanto riguarda, infine, l’aspetto didattico è opportuno rilevare come la qualità
dell’insegnamento nelle scuole provvisorie o sussidiate diffuse in campagna era molto più basso
di quello delle scuole urbane. I due principali limiti erano costituiti dalla riunione sotto un solo
insegnante, in un’unica sezione, di bambini della prima, della seconda e della terza elementare e
dal fatto che l’orario era ridotto. Inoltre ad insegnare nelle scuole rurali erano di solito maestri alle
156
Giovanni Marchi era nato a Cetona (Siena) il 21 dicembre 1889. Ricoprì anche un incarico di
governo come sottosegretario alle Colonie nel primo governo Mussolini (1922-1924). Morì a
Santiago del Cile il 9 gennaio 1939.
157
Il Gruppo d’Azione per le Scuole del Popolo, eretto in ente morale con R.D. 6 gennaio 1924,
n. 25, ottenne la delega con D.M. 19 febbraio 1924. Cfr. Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del
popolo di Milano, cit., p. 187.
158
Bisognerà attendere il decreto del 20 agosto 1926 per vedere assegnata la delega ad altri enti in
queste regioni.
159
Il Comitato contro l’Analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 11, 9 dicembre 1923, p. VI.
160
Una importante riunione del Comitato contro l’analfabetismo, «La nuova scola italiana», n. 22, 24
febbraio 1923, p. IV.
65
prime armi, appena usciti dall’istituto magistrale e privi di ogni esperienza professionale, spesso
provenienti da centri urbani e quindi poco inclini alla vita di campagna. Fu così che a sancire
anche sul piano didattico il differente status delle scuole rurali che, sotto Gentile, vennero
approvati, con ordinanza ministeriale del 21 gennaio 1924, i programmi particolareggiati per
questo tipo di scuole. In sostanza essi risultavano più snelli e alleggeriti rispetto a quelli delle
scuole urbane: il programma dell’insegnamento della lingua, ad esempio, veniva ripartito tra la
prima e la seconda classe, mentre in terza il maestro era autorizzato a tralasciare il componimento
mensile e il diario della vita di scuola; lo spazio assegnato al disegno spontaneo veniva ridotto,
così come il canto di cui si consigliava l’insegnamento negli intervalli tra una lezione e l’altra161.
2. Il fascismo all’assalto della scuola rurale: da Fedele a Ercole
L’opera di conquista della scuola e la sua utilizzazione in chiave propagandistica al fine di
consolidare e di estendere le basi del consenso al Regime, che il fascismo riuscì a porre in essere
in particolar modo dopo l’uscita di scena di Gentile e il breve periodo del ministero affidato al
liberale Alessandro Casati, non risparmiò la scuola rurale. Le campagne, infatti, per una serie di
ragioni tra le quali il fatto di essere meno controllabili dal punto di vista politico e la presenza di
un atteggiamento di freddezza verso il fascismo alimentato dagli ultimi residui dell’opposizione
socialista, sembrarono le più bisognose di cure e di controllo da parte del nuovo regime. A ciò si
aggiunga che nei suoi primi anni di governo Mussolini volle fondare buona parte della propria
credibilità di uomo politico ispirando la sua azione nel rilancio dell’agricoltura nazionale, un
progetto ambizioso che si concretizzò nella politica ruralista attraverso il lancio di grandi
campagne di mobilitazione come la «Battaglia del grano», proclamata nel 1925. Attraverso
incentivi economici e misure tecniche atte a rendere possibili miglioramenti produttivi si voleva
altresì allargare le basi del consenso tra i contadini che, tornati ad essere fedeli collaboratori dei
proprietari terrieri, dopo le agitazioni del «biennio rosso», potevano aspettarsi un miglioramento
delle proprie condizioni di vita in cambio della propria adesione al fascismo in nome della
riconciliazione nazionale nel supremo interesse della Patria.
Se il processo di fascistizzazione della scuola elementare italiana stava dando i suoi frutti
più evidenti nelle scuole urbane e in quelle rurali gestite direttamente dallo Stato, diversa era la
situazione nelle scuole rurali (non classificate) gestite dagli enti delegati. Queste, infatti, subivano
un minore controllo da parte di quelli che erano gli organi di vigilanza tradizionali (provveditori,
ispettori scolastici, direttori didattici), sebbene gli enti che li gestissero avessero l’obbligo di
presentare periodiche relazioni della propria attività alle autorità statali e il consiglio direttivo del
Comitato contro l’analfabetismo fosse composto in gran numero da funzionari ministeriali. Ma
nel giro di poco tempo le cose cominciarono a cambiare e l’oppressivo clima illiberale che
caratterizzava la vita politica italiana cominciò così a farsi sentire anche all’interno del mondo
degli enti delegati162. Agli inizi del 1924, ad esempio, il professor Cesare Bachi, esponente della
161
Un commento ai nuovi programmi in G. Gabrielli, I programmi per le scuole rurali, «I diritti della
scuola», n. 24, 6 aprile 1924, pp. 369-371.
162
Lo stesso Gentile in una lettera a Codignola dell’ottobre 1924 usava parole dure verso l’Animi,
considerata un covo di antifascisti: «Hai visto la gaffes di Lombardo Radice? M’ha fatto tanta
rabbia, anche perché non ho potuto più sostenerlo pel Cons. Superiore. Ed è un pasticcio. E io
66
Società Umanitaria e persona di sentimenti democratici, decise di dimettersi dalla carica di
membro del consiglio del Comitato contro l’analfabetismo e di dirigente dell’Ufficio
dell’Umanitaria distaccato di Roma, approfittando del delinearsi di altre prospettive di lavoro163.
Ma fu soprattutto con l’arrivo alla Minerva di Pietro Fedele, succeduto nel gennaio 1925 a Casati,
che i controlli sulle attività degli enti e sulle persone che ne facevano parte, soprattutto quelli che
non dimostravano simpatie per il fascismo, si intensificarono tanto da diventare insopportabili.
Questo clima è ben testimoniato da una lettera riservata che Piacentini scrisse il 5 agosto 1925 a
Gentile e nella quale raccontava le pressioni subite dai funzionari comandati presso
l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno a iscriversi alle organizzazioni sindacali fasciste,
intensificatesi dopo la presentazione della cosiddetta «legge sulla burocrazia». Scrisse Piacentini:
Ai funzionari comandati presso di noi per il lavoro delle scuole riesce ormai difficile, dopo la presentazione della
legge sulla burocrazia, resistere alle pressioni (qualche volta da loro interpretate forse a torto, come larvate minaccie)
di Corporazioni e di Sindacati. A quelli che mi hanno domandato consiglio io ho risposto, senza fare alcun
apprezzamento, che l’Associazione li lasciava perfettamente liberi e difatti alcuni hanno aderito; ma trovo molto
grave, per l’esempio di dignità e di carattere che bisogna dare nelle opere educative, quando si aderisce – come
purtroppo avviene – per paura di rappresaglie o vendette. E un imbarazzo verrebbe al nostro lavoro anche dal rifiuto
dei funzionari a dare la richiesta adesione, perché potrebbe interpretarsi come un’ostilità politica che l’Associazione
non deve assumere. Quindi in un caso e nell’altro l’Associazione verrebbe quasi a prendere una posizione di partito
assolutamente contraria alla sua tradizione 164.
Ma a costituire un ulteriore motivo di preoccupazione erano anche e soprattutto le
modifiche che con decreto legge sarebbero state apportate al Comitato contro l’analfabetismo, le
cui bozze cominciarono a circolare nell’estate del 1925 prevedendo, in particolare, l’incremento
dei controlli del governo sul Comitato stesso e, al contempo, una minora libertà d’azione per le
associazioni delegate. Si trattava di una prospettiva che generò allarme tra coloro che ritenevano
indispensabile una certa autonomia organizzativa, finanziaria e culturale delle proprie
associazioni, temendo l’invadenza dello Stato e del fascismo, che peraltro proprio in quel
momento stava prendendo il controllo di numerosi enti, come la Società Umanitaria di Milano
che vantava tradizioni socialiste. Una delle associazioni più sensibili al tema del mantenimento
della propria autonomia fu l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno – anche
per la presenza nel suo consiglio direttivo di personalità di chiaro orientamento antifascista come
Umberto Zanotti Bianco, Tommaso Gallarati Scotti, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini e
Giuseppe Lombardo Radice – e non era certo casuale che fu proprio questa a protestare più
non intendo più tollerare queste anime belle antifasciste, che sono annidate nell’Assoc. pel
mezzogiorno. Verremo presto ai ferri corti» (AEC, Corrispondenza, Lettera di Gentile a Codignola,
25 ottobre 1924). In realtà poco dopo Gentile entrerà a far parte del consiglio direttivo
dell’associazione.
163
G. Petrillo, Il fascismo si impadronisce di un’istituzione riformista: l’Umanitaria, in M.L. Betri, A. De
Bernardi, I. Granata, N. Torcellan (a cura di), Il fascismo in Lombardia: politica, economia e società,
Milano, Franco Angeli, 1989, p. 427. Per le dimissioni di Bachi si veda il verbale delle
deliberazioni del 7 marzo 1924 dell’Umanitaria in cui il Commissario Governativo
dell’associazione prendeva atto della sua volontà di lasciare i due incarichi e delegava il ragioniere
Biscogli, funzionario del Ministero dell’Interno, assistito dal ragioniere Salvatore Prosperi, a
prendere in consegna l’Ufficio di Roma e a gestire, in attesa di una definitiva sistemazione, il
servizio presso l’Opera contro l’analfabetismo (ASU, Verbali delle adunanze della Società
Umanitaria, 6 marzo 1924).
164
AFGG, Carteggio, Lettera di Piacentini a Gentile, 5 agosto 1925.
67
energicamente contro quella proposta, prospettando come reazione l’ipotesi di rinunciare alla
delega statale e quindi alla gestione delle scuole rurali nel successivo anno scolastico 1925-26. A
farsi interprete di tale stato d’animo fu il presidente dell’Animi, Piacentini, che nella sopra citata
lettera a Gentile aggiunse:
La nuova legge dell’opera contro l’analfabetismo (la quale con l’inclusione di numerosi rappresentanti del Ministero
della Pubblica Istruzione rende il Comitato quasi una Divisione del Ministero stesso) limita, nel lavoro delle scuole,
quell’autonomia degli Enti delegati, che Ella aveva giustamente voluto anche per facilitare il controllo da parte dello
Stato. Data questa situazione ho conferito con vari Consiglieri di diverse ed anche opposte tendenze e si è deciso di
riunire il Consiglio proponendo la rinunzia alla delega per le scuole contro l’analfabetismo165.
Liberatasi dal peso della gestione scuole rurali (e insieme a queste di quelle festive e serali),
l’Animi sarebbe tornata secondo gli intendimenti di Piacentini al suo «primitivo programma di
lavoro», vale a dire quello di occuparsi di «asili, colonie, ambulatori, edilizia scolastica, ecc.». Del
resto tale decisione, affermò in modo malizioso il segretario dell’Animi, non sarebbe spiaciuta a
chi avrebbe voluto mettere le mani sulle scuole rurali dell’Italia meridionale finora gestite
dall’associazione:
L’associazione lascia un’organizzazione perfetta che potrà facilmente essere continuata sia dal Ministero, se vorrà
gestire direttamente le scuole provvisorie, sia da altri Enti che sono sicuro non mancheranno di aspirare alla
successione e che anzi l’hanno forse già sollecitata 166.
La lettera con la minaccia della rinuncia alla delega colse Gentile mentre questi si trovava a
Forte dei Marmi in soggiorno. Allarmato per gli intendimenti manifestati da Piacentini, il filosofo
gli rispondeva il 7 agosto pregandolo caldamente di non prendere decisioni azzardate e frettolose
e dichiarandosi, in qualità di consigliere dell’Animi, fermamente contrario a quella proposta:
Vi prego di riflettere bene – scrisse Gentile – prima di fare un passo come questo, che in sostanza avrà un carattere
politico mentre vorrete difendere l’apoliticità dell’Ass.[ociazio]ne, e non gioverà assoluta[mente] né
all’Ass.[ociazio]ne, né alla scuola167.
Le sue parole arrivarono troppo tardi perché il 9 agosto il consiglio dell’Animi si riunì
per discutere un ordine del giorno formulato dal senatore Fortunato e da Piacentini in cui si
proponeva la cessione allo Stato della delega a causa di due ragioni che venivano chiaramente
esplicitate: l’invadenza politica che non permetteva più all’associazione di garantire ai suoi
funzionari il diritto di professare come cittadini le proprie opinioni «senza incorrere nell’accusa di
ostilità politica» e la «riforma della legge sull’opera contro l’analfabetismo, che tende[va] a
sopprimere l’autonomia degli enti delegati»168. Nel corso della seduta Piacentini fece cenno anche
165
Ibid.
Ibid.
167
AFGG, Carteggio, Minuta di lettera di Gentile a Piacentini, 7 agosto 1925. La lettera
effettivamente spedita si trova in AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18,
Lettera di Gentile a Piacentini, 7 agosto 1925.
168
Questo il testo integrale dell’ordine del giorno discusso e approvato dal consiglio dell’Animi il
9 agosto 1925: «L’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, che aveva
accettato nel 1921 la delega dell’opera contro l’analfabetismo in Basilicata, Calabria, Sardegna e
Sicilia, e che in questi anni di attività – nei quali furono aperte circa 1.800 scuole, integrate da
biblioteche e da varii corsi magistrali – seppe mantenere all’opera il suo carattere altamente
166
68
ad altri motivi che rendevano necessario compiere quella scelta, come i continui ritardi da parte
del ministero nei pagamenti dei maestri, circostanza che aveva creato danni non lievi
all’associazione che si era vista costretta a «vendere i suoi buoni del tesoro perdendo notevoli
interessi, per anticipare più di un milione ai maestri che giustamente reclamavano il loro dovuto».
Il dibattito che seguì l’intervento di Piacentini vide profilarsi immediatamente una maggioranza a
favore dell’ordine del giorno, rinforzata dall’adesione di tre consiglieri dell’associazione –
Benedetto Croce, Gaetano Salvemini e la signora Cammarota – che non potendo partecipare alla
seduta avevano fatto conoscere per iscritto le loro intenzioni favorevoli alla proposta di
Fortunato. Salvemini, in particolare, aveva scritto un lapidario quanto incondizionato messaggio
di appoggio all’ordine del giorno: «accetto questa formula o qualunque altra ne consideri la
sostanza». Sulla stessa linea d’onda si attestò Gallarati Scotti, persona di cui erano noti i
sentimenti ostili al Regime avendo aderito pochi mesi prima al manifesto degli intellettuali
antifascisti lanciato da Croce. Non potendo partecipare alla seduta del consiglio l’esponente del
cattolicesimo milanese inviò una lettera di pieno appoggio alla proposta di Fortunato e di
Piacentini:
Io sarei favorevole a subire qualche limitazione e sacrificio pur di non rinunciare al mandato che era una vera e
propria missione contro l’analfabetismo e che l’Associazione ha adempiuto egregiamente, con beneficio morale e
materiale degli interessi nazionali. Ma poiché ormai non ci si può illudere di poter continuare con lo stesso spirito di
indipendenza da ogni partito politico, credo doveroso di ridare il mandato nel modo più esplicito e leale, con un atto
che sia anche un esempio e un monito. È necessario si sappi quali intralci partigiani minacciano un’opera che essendo
essenzialmente educativa non potrebbe continuare utilmente che in uno spirito di libertà e senza ingerenze
perturbatrici e mortificatrici della coscienza e della sincerità dei maestri. Il sacrificio potrà essere doloroso, ma utile al
prestigio dell’Associazione per l’azione che le rimane da compiere, al di sopra di ogni polemica politica. Perciò
approvo incondizionatamente l’ordine del giorno del Senatore Fortunato 169.
Più cauti, invece, erano apparsi i consiglieri nonché senatori Alberto Dallolio e Ferdinando
Nunziante, nelle rispettive lettere scritte al presidente dell’associazione alla vigilia della riunione
del consiglio. L’ex generale dell’esercito Dallolio, infatti, pur dichiarandosi a favore della rinuncia
della delega espresse delle riserve tendenti a negare che tale gesto fosse causato da ragioni
educativo, vietando ai propri maestri e ai propri funzionari di portare nell’ambito della scuola
l’eco delle competizioni di parte, ma difendendone il diritto di professare come cittadini le
opinioni politiche consentite dalle leggi, suggerite a ciascuno dalla propria coscienza; e che nel
rigido adempimento del suo mandato aveva ottenuta da parte della classe dirigente, delle autorità
governative e di tutti i ministri della Pubblica Istruzione, compreso l’attuale, ripetute
manifestazioni di plauso e di gratitudine, considerato che oggi ai propri dipendenti – come ne
fanno fede già molti esempi – riesce difficile, senza sacrificio della propria posizione, e senza
incorrere nell’accusa di ostilità politica, sottrarsi alle continue pressioni di parte, esercitate dalle
corporazioni, e che, nella situazione creata loro dalla presentazione della legge sulla burocrazia –
aggravata dalla riforma della legge sull’opera contro l’analfabetismo, che tende a sopprimere
l’autonomia degli enti delegati – viene in realtà negata quella libertà e dignità di coscienza che è
l’elemento primo di ogni attività educativa rinunzia al mandato disimpegnato in quattro anni con
fervida passione italiana, non potendo derogare da quella linea di condotta, che per l’Associazione
rappresenta non solo un imperativo morale, ma la ragione stessa della sua esistenza» (L’associazione
nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, 1960, pp. 5153).
169
AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Lettera di Gallarati Scotti al
presidente dell’Animi, agosto 1925.
69
politiche ma da motivi di tipo tecnico e amministrativo che avrebbero nociuto al buon
funzionamento dell’ente. Dal canto suo il marchese Nunziante sostenne che la rinuncia sarebbe
stata «assai dannosa» per l’associazione e che il problema politico avanzato da Fortunato era
«forse eccessivo», poiché non era compito dell’Animi tutelare la libertà di coscienza dei funzionari
comandati dal ministero170. Pur tuttavia riconosceva che «allo stato delle cose non si [potesse] fare
altrimenti che accogliere» la proposta del presidente. Alla vigilia del consiglio del 9 agosto,
dunque, si era profilata una vasta maggioranza a favore dell’ordine del giorno che chiedeva di
interrompere la gestione delle scuole rurali. L’unica voce chiaramente discorde, oltre a quella di
Gentile, fu quella di Alessandro Marcucci, all’epoca ispettore centrale presso il ministero della
pubblica istruzione. Le ragioni del suo dissenso provò ad illustrarle in una lunghissima lettera a
Piacentini scritta prima della seduta del 9 agosto. Dopo aver dichiarato di essere «oppresso da
dubbi e contrasti», Marcucci mise in guardia dai rischi che sarebbero potuti giungere, sostenendo
che la rinuncia alla delega avrebbe aperto una crisi più vasta nel movimento degli enti delegati,
mettendo a rischio quanto da essi creato e in particolare quanto creato «con leggi ed ordinamenti»
voluti da Lombardo Radice, la cui opera «non [doveva] andare distrutta o sovvertita»171.
Avrebbero così vinto i nemici delle associazioni che Marcucci identificava in quegli «Ispettori,
Massoni […] di ogni professione e grado, Editori e Cartolai e Maestri» da poco tempo votatisi al
fascismo, magari passando per gentiliani. L’ispettore centrale si diceva certo che nessun altro ente
sarebbe stato in grado di prendere il posto dell’Animi o delle Scuole per l’Agro Romano, ma era
altresì sicuro che «in 24 ore ne sorgeranno con nessuna preparazione e capacità, ma con la mania
di farsi avanti, di lucrare, di raggiungere il dissolvimento dell’Opera» poiché «omuncoli, più o
meno del regime, sono già pronti»172. Il futuro prospettato da Marcucci era assai nero: sarebbero
stati spazzati via «uffici, direzioni, organismi», mentre le vecchie associazioni, ridimensionate ad
esercitare le funzioni per cui erano nate prima di ricevere l’incarico della gestione delle scuole
rurali, non avrebbero potuto svolgere degnamente nemmeno questo compito «per mancanza di
credito e di fondi» e per giunta malvisti dal regime, con il «marchio dei reprobi, dei fuoriusciti».
Scriveva a questo proposito:
Risultato: distruzione del nostro lavoro, inazione nostra, impronta di lotta al regime, impresso a quel pochissimo che
le nostre Associazioni potranno fare, con questa gravissima conseguenza, che Associazioni, puramente culturali e
lontane dalla ogni politica, per finalità statutarie e per volontà dei loro migliori banditori e dei loro fondatori, pel
nome che presso il mondo esterno si sono procacciato, saranno fatalmente portate a fare, come che sia, opera
politica, snaturano quindi sé stesse 173.
Marcucci e Gentile non furono gli unici ad essere assenti al consiglio del 9 agosto.
Mancarono, anche a causa del fatto di essere in piena estate, Gallarati Scotti, Croce, Salvemini,
Poggi, Cammarota, Dallolio, Catenacci, Gosio e il presidente onorario Fortunato. Erano presenti,
invece, il presidente effettivo dell’Animi, Enrico Rusconi, il vice Bonaldo Stringher, i consiglieri
Giuliana Benzoni, Elsa Dallolio, Lombardo Radice, Zanotti Bianco, il consigliere segretario
Piacentini, i sindaci Alessandro Aschieri e Giulio Rossi, oltre al segretario Nencini174.
170
Ivi, Lettera di Nunziante a Piacentini, 7 agosto 1925.
Ivi, Lettera di Marcucci a Piacentini, 6 agosto 1925.
172
Ibid.
173
Ibid.
174
AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Verbale del consiglio dell’Animi
della seduta del 9 agosto 1925.
171
70
Dopo l’illustrazione dell’ordine del giorno da parte di Piacentini si svolse un animato
dibattito. In un lungo ed energico intervento Zanotti Bianco difese con forza l’autonomia
dell’associazione e ricordò come i suoi fondatori la vollero «indipendente dai partiti politici e dalle
clientele». Rammentò, inoltre, un episodio risalente a pochi anni prima che confermava questa
linea di indirizzo vale a dire quando il marchese Nunziante, volendosi candidare alla Camera dei
Deputati, si era dimesso da presidente dell’Animi per evitare ogni strumentalizzazione politica.
Ma il passaggio più importante del discorso di Zanotti Bianco fu quello in cui negò che la
rinuncia alla delega fosse causata solo da problemi di natura tecnica ed amministrativa, come
avevano detto Dallolio e Nunziante, ma giustificata in primo luogo da ragioni di tipo politico e
morali che richiamavano tutti a reagire con fermezza. Disse a questo proposito:
Non sono soltanto i Commissari Regi a pretendere l’espulsione, dalle nostre scuole, di maestri diligenti, solo perché
non iscritti al partito dominante, ma è il governo stesso attraverso le corporazioni e i suoi rappresentanti ad esercitare
sui nostri maestri, e più ancora sui nostri ispettori, una pressione politica, considerando aperta ostilità il rifiuto di
iscrizione alle corporazioni col conseguente tesseramento. Già più documenti possediamo di queste coercizioni di
coscienza e relativo rassegnato ad amaro assoggettamento dei coartati per non pregiudicare l’avvenire proprio della
propria famiglia.
– Crisi individuali – ha detto un consigliere – che non devono interessare il Consiglio.
– Perché preoccuparci delle nuove opinioni, ha soggiunto un altro, se non ci siamo preoccupati delle loro opinioni
passate?
No. L’Associazione a mio parere, oggi come ieri non si preoccupa affatto delle opinioni politiche onestamente
professate dai suoi dipendenti: le ignora come lascia ignorare le proprie, tanto è vero che molti maestri ritengono di
farci piacere declinando – in lettere ed in riunioni – la loro qualità di fascisti, mentre altri, per criticarci dei ritardati
pagamenti, dovuti alla lentezza della Corte dei Corti, hanno creduto bene di rivolgersi ai giornali di opposizione. Ma
quando una opinione, quella del partito dominante, viene imposta con una perentorietà ed intransigente violenza che
mette il funzionario davanti al triste dilemma di aderire o di rovinarsi la carriera, noi ci domandiamo se le nostre
preoccupazioni non siano, prima di essere politiche, pure nel senso più generico della parola, essenzialmente morali,
e se non abbiamo il dovere di denunciarle, affrontando tutte le conseguenze di questo nostro atto di coscienza 175.
Dopo l’infuocato intervento di Zanotti Bianco, più cauto fu il vicepresidente, Bonaldo
Stringher, il quale disse «che la parte politica del problema non esiste[va] per l’Associazione»,
mentre sussistevano «problemi di ordine materiale» che non consentivano il buon funzionamento
delle scuole. Parole che suscitarono allora l’intervento altrettanto fermo e deciso di Lombardo
Radice, per nulla convinto che si fosse di fronte ad una questione di natura tecnica, ma ad una
bella e buona limitazione della libertà dei maestri che non poteva essere giustificata. Disse il
pedagogista siciliano:
Le ragioni morali che hanno mosso molti Consiglieri a chiedere la rinuncia del mandato, hanno trovato valido
appoggio nelle difficoltà tecniche e materiali, ma restano a [mio] parere esse ragioni morali sempre in primo piano ed
hanno valore prevalente. Ogni sacrificio […] ed ogni limitazione poteva […] tollerarsi, se fosse stata garantita la
libertà delle nostre scuole, se noi potessimo senza disagio nominare e allontanare i maestri, solo guardando alle loro
benemerenze o malefatte scolastiche, al di fuori di altri titoli […]. Può ottenersi questo? Si può ancora fare? [Io]
dubito di no176.
175
Il testo dell’intervento è riportato in Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), Roma, Associazione
per il Mezzogiorno, 1980, p. 225.
176
AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Verbale del consiglio dell’Animi
della seduta del 9 agosto 1925.
71
Si deve a questo proposito aggiungere che le parole di Lombardo Radice acquistano
un rilievo particolare perché per lui la libertà del maestro era, innanzitutto, uno dei capisaldi della
sua visione pedagogica neoidealista, tale per cui l’educatore non doveva subire limitazioni che
inibissero o mutilassero il suo spirito e la sua autonomia; se interventi coercitivi esterni non erano
tollerabili a suo modo di vedere nemmeno sul piano didattico e pedagogico, a maggior ragione
essi erano intollerabili se provenivano dalla politica. Su questo punto, è giusto ricordare,
Lombardo Radice aveva fondato tutta la sua personale battaglia contro l’invadenza del fascismo
nella scuola, dopo che, dimessosi polemicamente da Direttore generale dell’istruzione elementare
all’indomani dell’omicidio Matteotti nel giugno 1924, aveva preso a pubblicare sulla sua rivista
«L’Educazione Nazionale» alcuni articoli che denunciavano lo scivolamento della scuola sempre
più sul terreno della lotta politica e la sua trasformazione in un organo al servizio di una sola
parte: circostanza che lo faceva gridare allo scandalo poiché non si poteva inquadrare il fanciullo
«nelle lotte di parte» se non svilendolo umanamente e rendendolo niente altro che «una caricatura
di fanciullo»177.
177
G. L.[ombardo] R.[adice], Che succede?, «L’Educazione nazionale», ottobre 1925, pp. 39-40. In
questo articolo scrisse: «Noi ricordiamo perfettamente una circolare del ministro Gentile colla
quale si ricordava ai funzionari degli uffici scolastici il loro dovere di tenersi al di sopra delle
competizioni dei varii gruppi magistrali e sindacali e si faceva loro strettissimo obbligo di astenersi
da propaganda per un sindacato anziché per un altro, per serbarsi liberi e superiori al sospetto di
partigianeria. Per un provveditore i maestri, i direttori e gli ispettori sono buoni o cattivi
educatori. E si può trovare buono o cattivo un educatore senza guardargli la tessera. La tessere
imposta (e accettata per imposizione o richiesta per paura di cadere in disgrazia, o…di non
ottenere una promozione) è, se mai, testimonianza di viltà di chi la esibisce. L’insegnante o il
funzionario che si maschera di nero, vale quanto e meno di quello che si mascherava di verde,
quando il verde funzionava da colore protettivo. E infatti se ne sono viste di…conversioni degne
di riso, e conversioni degne di schifo. Più numerose, certo, delle conversioni degne di pietà!
Quella circolare Gentile, che ai suoi tempi suscitò le ire degli organi del nuovo sindacalismo (il
sindacalismo coattivo) per quanto ci consta non è mai stata abrogata. Vero è che c’è un progetto di
legge col quale si promette il licenziamento…per incompatibilità a coloro che manifestano
sentimenti non conformisti. Ma questa, se mai, doveva essere una ragione di più per astenersi
dalla propaganda fatta da autorità scolastiche in favore della corporazione per la scuola. Oggi, con
quel progetto di legge quella propaganda autorevole equivale a una vera e propria sottintesa
(quando è sottintesa) MINACCIA.
– O vi iscrivete, o…c’è per voi la legge sulla burocrazia, già approvata dalla Camera e da
approvare al Senato. Così, così si è rispettata la dignità del maestro e del funzionario della scuola!
E c’è da giurare che il 90% delle iscrizioni sono nate dalla paura e sono state sollecitate facendo
assegnamento sulla paura. Chi specula sulla viltà o sul bisogno di trepidi padri di famiglia che
vogliono…assicurarsi la pace, è un diseducatore. Ricordo ancora che quando il segretario della
corporazione fascista della scuola – erano tempi in cui tutti speravano e credevano nella
normalizzazione – si -presentò con una commissione al direttore generale dell’istruzione primaria
ebbe da questi un ammonimento:
– Contentatevi di essere pochi! Voi dovete frenare la voglia di far numero. Dovete affermarvi soltanto per
l’intrinseco valore del bene che saprete promuovere, in gara colle altre associazioni.
Allora, dal ministero, auspice Gentile, venivano ugualmente incoraggiamenti a tutte le associazioni
di educatori, così alla «Tommaseo» che all’Unione Magistrale (finché questa non prese l’abbrivio
delle insolenze, coi suoi dirigenti), e alla Associazione dei direttori didattici.
A tutte si davano parole chiare e cordiali, ora incoraggianti ora severe; con tutte si corrispondeva,
considerandole forze da dirigere verso il bene della scuola […] Era quella la pratica liberale del
ministro Gentile, che faceva onore al filosofo e anche al fascista, il quale non voleva disonorare il
72
Dopo questa animata discussione si giunse al voto: 10 consiglieri si erano dichiarati
totalmente a favore all’ordine del giorno, 4 favorevoli ma con qualche riserva, 2 fermamente
contrari. Fu proprio per una questione di cautela che nella stessa seduta alcuni consiglieri che
avevano votato il documento pur manifestando qualche dubbio, proposero di modificarlo perché
«non suonasse sfiducia al Ministero e quindi potesse assumere un carattere politico». A questo
punto Zanotti Bianco chiese di non ritirare l’ordine del giorno ma di invitare il presidente
onorario Fortunato a recarsi personalmente dal ministro per spiegargli a voce le loro ragioni. Così
avvenne e una delegazione si recò da Fedele il quale però insistette perché l’Animi non
riconsegnasse la delega; dal canto suo Gentile promise il suo interessamento affinché venissero
introdotti alcuni correttivi alla legge. Ricevute tali rassicurazioni l’associazione fece un passo
indietro dichiarandosi disposta a ritirare le proprie dimissioni, non prima però di aver inviato, il
20 agosto, un pro-memoria al ministro contenente alcune osservazioni critiche alla proposta di
legge. Il 28 agosto Fedele ringraziava Gentile per essere riuscito a convincere i consiglieri
dell’Animi; al contempo affermava che l’associazione non avrebbe potuto riconsegnare la delega,
sottraendosi ad un obbligo di legge, e promise genericamente di voler studiare «il modo di
accontentare, almeno in parte, i loro desideri»178. In realtà si doveva trattare di un impegno
destinato ad essere disatteso visto che pochi giorni dopo veniva varato il decreto legge 4
settembre 1925, n. 1722, che sotto la dizione «concernente disposizioni per l’istruzione
elementare» riservava alcuni articoli alla questione delle scuole provvisorie e del Comitato contro
l’analfabetismo in cui non si faceva nessuna concessione alle richieste dell’Animi ma al contrario
si proseguiva sulla strada dell’accentramento dei poteri in capo al governo. La nuova
composizione del consiglio, infatti, risultava fortemente trasformato con l’immissione di cinque
funzionari ministeriali (il Direttore generale dell’istruzione elementare che assumeva la funzione
di presidente, un funzionario della stessa direzione nominato dal ministro, un ispettore centrale
per l’istruzione elementare, un rappresentante del ministero del tesoro e uno del ministero delle
finanze), a fronte dei cinque esponenti degli enti delegati, già previsti in precedenza. Inoltre il
decreto precisava che se in una votazione si sarebbe verificato un caso di parità allora avrebbe
prevalso il voto del presidente. Il risultato di tutto ciò era che il potere di controllo del governo ne
risultava rafforzato e consolidato. A rendere ancora più stretta la morsa dei controlli sulle
associazioni vi concorrevano altre due misure previste dalla nuova legge: in primo luogo veniva
stabilito che l’ispettore centrale per l’istruzione elementare, oltre ad essere membro del consiglio,
aveva «funzioni ispettive tecniche presso gli Enti delegati», circostanza che gli permetteva di
verificare di sua iniziativa l’attività svolta dalle associazioni; in secondo luogo era previsto che i
cinque rappresentanti degli enti delegati venissero scelti direttamente dal ministro della pubblica
istruzione sulla base di due nomi proposti da ciascuna istituzione. In conclusione, le modifiche
apportate nel 1925 appesantirono la struttura del Comitato e incrementarono i controlli sulle sue
attività e su quella svolta dalle singole associazioni a tutto vantaggio del ministero della pubblica
istruzione e, quindi, del governo.
suo partito esercitando coazioni […] Questo e non altro, è lo spirito della riforma della scuola
elementare. La riforma vuole la scuola dei fanciulli; fanciulli attivi in una scuola attiva. Il fanciullo
inquadrato nelle lotte di parte, è una caricatura di fanciullo. Il maestro che non dimentica il suo
partito facendo scuola ai fanciulli, è una caricatura di maestro. Il direttore e l’ispettore che
guardano alla tessera e non all’anima del maestro capace di destare le forze spirituali ingenue e
serene dei fanciulli, sono dei mestieranti ignobili, giudicati tali anche dai fascisti come Gentile».
178
AFGG, Carteggio, Lettera di Fedele a Gentile, 28 agosto [1925].
73
A questo punto l’Animi, l’associazione che più di tutte si era opposta alle modifiche
apportate da Fedele, decise di confermare la drastica decisione di interrompere la gestione delle
scuole rurali. Il 27 novembre 1925, infatti, fu inviata al ministro una lettera in cui prendendo atto
che non era stata data ancora alcuna risposta al pro-memoria inoltrato ad agosto, l’associazione
confermava di volersi ritirare con lo scadere dell’anno scolastico 1925-26. Ma questa volta la
risposta del ministro fu categorica: o l’associazione avrebbe mantenuto la delega o il suo consiglio
sarebbe stato sciolto e commissariato. Sebbene messi in difficoltà i dirigenti dell’Animi
confermarono tuttavia le loro volontà e per il 15 dicembre fu convocato un nuovo consiglio.
Marcucci, che era stato sempre contrario alla cessione della delega, mandò le proprie dimissioni
da consigliere proprio in quel giorno e quindi non partecipò alla seduta179. Più dubbioso apparve
anche il marchese Nunziante che si era dichiarato a favore dell’ordine del giorno Fortunato ad
agosto, pur tra qualche riserva; il 14 dicembre, in vista del consiglio, scrisse una lettera in cui si
espresse chiaramente contro la rinuncia alla delega «sia perché in questo campo la nostra
Associazione ha fatto opera altamente benefica del popolo del Mezzogiorno e sia perché
sembrerebbe antipolitica»180.
Riunitosi il consiglio, esso non poté fare altro che prendere atto delle volontà di
riconsegnare la delega allo Stato. Fu in quella circostanza che Gentile riuscì a convincere tutti i
presenti dell’opportunità di inviare in udienza presso il ministro della pubblica istruzione una
delegazione dell’associazione, mantenendo intatta la rinuncia. Incaricati di svolgere questa
missione furono il presidente insieme a Piacentini e allo stesso Gentile181. Finalmente in seguito a
questo evento e all’energico intervento del filosofo, il ministro Fedele nominò tra la fine del 1925
e gli inizi del 1926 una commissione incaricata della revisione delle norme contenute nel decreto
legge del settembre passato: sembrava, quindi, una parziale vittoria delle associazioni, e dell’Animi
in particolare, che vedevano così accolte le proprie istanze. Non a caso la notizia che il governo si
apprestava a rivedere quelle norme veniva salutata come una decisione saggia e opportuna in un
articolo apparso su «La nuova scuola italiana», la rivista diretta da Codignola, uno dei principali
animatori dell’entourage gentiliano e capo dell’Ente di Cultura che gestiva le scuole rurali della
Toscana e della Romagna. Nel numero del 10 gennaio 1926, infatti, il periodico esprimeva
soddisfazione poiché al nuovo Comitato era stato dato «un assetto più organico e completo […]
inserendolo nell’Amministrazione Scolastica Statale», ma al contempo rivendicava agli enti
delegati «una certa libertà di agire nelle zone assegnate senza il continuo ed assoluto intervento
delle Autorità burocratiche», al fine di evitare «inutili impacci» e «lungaggini»182.
Frattanto mentre si svolgevano le polemiche e le discussioni appena descritte, il Comitato
contro l’analfabetismo era rimasto privo di organismi direttivi, poiché non si era dato corso
all’applicazione delle norme del settembre 1925 relative alla composizione del consiglio. Per
ovviare a questo problema veniva insediato, con decreto firmato il 17 gennaio 1926, il nuovo
consiglio del Comitato, riformulato secondo quelle norme ora messe in discussione, vale a dire
con cinque membri provenienti dai ministeri e cinque dalle associazioni delegate. Esso risultò
formato da Gustavo Nardi in qualità di reggente la Direzione generale dell’istruzione elementare,
179
AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 19, Lettera di Marcucci al presidente
dell’Animi, 15 dicembre 1925.
180
Ivi, Lettera di Nunziante a Piacentini, 14 dicembre 1925.
181
Ivi, Verbale del consiglio dell’Animi della seduta del 15 dicembre 1925.
182
Un nuovo ordinamento del Comitato contro l’analfabetismo?, «La nuova scuola italiana», n. 14, 10
gennaio 1926, p. IV.
74
Alessandro Marcucci come ispettore centrale per le scuole elementari, Carlo Calcagni in qualità di
capodivisione presso il ministero dell’istruzione, Corrado Marchi per il ministero dell’Economia
nazionale, il dott. Bettoncini ispettore al ministero delle finanze, il senatore Montresor in
rappresentanza dell’Umanitaria, Giuseppina Novi Scanni per il Consorzio Emigrazione e Lavoro,
Gaetano Piacentini per l’Animi, Francesco Acerbi per Scuole dei contadini dell’Agro Romano e
delle paludi pontine, Ernesto Codignola per l’Ente nazionale di cultura183.
Intanto proseguivano i lavori della commissione incaricata di modificare la legge del
settembre 1925. Formata dallo stesso Gentile, con funzioni di presidente, dal capo di gabinetto
del ministro Fedele, Luigi Trivelli, dal direttore generale dell’istruzione elementare Gustavo
Nardi, oltreché da Piacentini e da Marcucci, essa lavorò fino alla primavera184. Il 25 aprile 1926 la
rivista codignolana dava la notizia che la commissione aveva concluso i suoi lavori e presentato al
ministro un programma in 23 articoli che prevedeva due progetti in particolare: da una parte la
trasformazione di circa 9.000 mila scuole finora gestite dallo Stato in scuole non classificate, da
realizzare nell’arco di un decennio, dall’altra l’investimento delle economie realizzate attraverso le
«sclassificazioni» in un programma di edilizia scolastica rurale e nello sdoppiamento di scuole con
più di 60 alunni185. Nessuna traccia delle correzioni auspicate dai consiglieri dell’Animi c’erano
però nel nuovo testo che venne tradotto pochi mesi dopo con il R.D. 20 agosto 1926 n. 1667, a
cui si aggiunse l’ordinanza 15 dicembre 1926. Non solo non ci furono i miglioramenti auspicati,
ma sulla base di questa nuova normativa veniva addirittura abolito il Comitato contro
l’analfabetismo e ridotta l’autonomia gestionale e amministrativa degli enti delegati, che finirono
sotto la vigilanza diretta del ministero: la battaglia intrapresa dai consiglieri dell’Animi si era
conclusa nel peggiore dei modi. Si pensi, ad esempio, che era previsto che le autorità scolastiche
ispettive e direttive incaricate delle visite nelle scuole gestite dalle associazioni, avrebbero dovuto
riferire direttamente al Provveditore il quale, se necessario, avrebbe informato gli enti (art. 5); i
Provveditori, inoltre, avrebbero dovuto riferire al ministero annualmente e ogni volta che lo
avessero ritenuto opportuno, sull’operato delle associazioni, in base alle notizie e ai documenti da
queste inviati e agli accertamenti compiuti (art. 6); entro il 15 luglio gli enti sarebbero stati
obbligati a presentare al ministero il piano di lavoro per l’anno scolastico successivo (art. 7); il
ministero avrebbe esercitato il controllo sull’azione delle associazioni, «esaminando registri e
documenti negli Uffici degli Enti stessi» (art. 8); alle date del primo novembre, del primo gennaio
e del primo marzo le associazioni avrebbero dovuto trasmettere al ministero o al Comune
l’elenco nominativo delle scuole non classificate (art. 13). In conclusione, con la legge del 1926 le
maglie del controllo ministeriale sull’operato degli enti delegati si fecero molto più strette. Né
Fedele esitò a negare questo aspetto come appare da una sua relazione scritta contestualmente al
varo del nuovo provvedimento: questo mirava, disse il ministro, al «controllo diretto tecnico ed
amministrativo sull’azione culturale degli Enti delegati chiamati a più ampia collaborazione dallo
Stato» e a questo fine concorreva anche l’abolizione del «Comitato contro l’analfabetismo, organo
183
Il nuovo Comitato contro l’analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 16, 24 gennaio 1926, pp. IIIIV.
184
Riforma del Comitato contro l’Analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 21, 28 febbraio 1926, p.
IV.
185
Il nuovo ordinamento delle Associazioni culturali, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p.
II.
75
tecnico e amministrativo intermedio fra gli Enti e il potere centrale che, utile nei primi tempi […]
ora […] avrebbe potuto creare interferenze e dualismi»186.
Ma si deve a questo proposito precisare che il decreto firmato da Fedele introduceva
novità non solo riguardanti le associazioni, ma anche in ordine alla definizione di scuole rurali: la
vecchia dizione di «scuole provvisorie», adottata dalla Riforma Gentile, venne sostituita da quella
di «scuole non classificate». Esse comprendevano tutte quelle aperte laddove un solo insegnante
poteva provvedere ai bisogni educativi della popolazione, distribuita in un territorio con un raggio
di due chilometri, e con un numero di alunni frequentanti non inferiore ai quindici e non
superiore ai sessanta. La gestione di tali scuole «non classificate», a cui si aggiungevano scuole
serali e festive, venne affidata per delega dal ministero, e non più dall’abolito Comitato contro
l’analfabetismo, a dieci enti, di cui sette che avevano fino ad allora gestito le scuole provvisorie: la
Società Umanitaria per il Veneto e la Venezia Giulia; il Gruppo d’azione per le Scuole del popolo
per la Lombardia; il Comitato ligure per l’educazione del popolo per la Liguria; l’Ente Nazionale
di Cultura per la Toscana e l’Emilia; le Scuole per i contadini dell’Agro Romano e delle Paludi
Pontine per il Lazio, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche; il Consorzio Nazionale di Emigrazione e
Lavoro per la Campania e il Molise; l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno
d’Italia per la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Alle associazioni già esistenti se ne
aggiunsero altre tre: l’Ente pugliese di cultura che, sebbene fosse sorto nel 1923 al fine di
organizzare corsi serali per le maestranze nella provincia di Bari, riceveva ora anche la delega per
la gestione delle scuole rurali, oltreché serali e festive, in Puglia dietro il volere del fascismo locale,
sottraendo tale compito alla Società Umanitaria di Milano187; all’Opera Nazionale di Assistenza
per l’Italia Redenta (Onair), associazione fondata nel 1919 sotto il patronato delle Duchessa
d’Aosta per fornire assistenza morale e materiale alle popolazioni delle nuove province annesse al
Regno dopo la prima guerra mondiale e che fino ad allora aveva gestito in prevalenza asili
d’infanzia e offerto assistenza sanitaria, venne assegnata la delega in Venezia Giulia e in Trentino
(Venezia Tridentina)188; il Gruppo d’azione per le Scuole rurali per il Piemonte, associazione
ACS, Archivio Pietro Fedele, b. 6, Relazione di Fedele, s.d. ma 1926.
Le manovre volte a creare una nuova associazione culturale, ma di chiara fede politica, che
prendesse in gestione le scuole rurali della Puglia, erano in corso già l’anno precedente alla
consegna della delega, come testimonia un articolo pubblicato da «I diritti della scuola» il 30
settembre 1925 in cui si diceva: «Un Ente di coltura, di carattere, crediamo, fascista, si è costituito
anche nella Puglia, che fu affidata fino ad ora all’Umanitaria. La sostituzione del nuovo ente
all’Amministrazione milanese non ha potuto aver luogo quest’anno perché la legge vigente
prescrive che le associazioni delegate possono essere sostituire solamente alla fine del triennio,
previa diffida data un anno prima» (Il Comitato contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 40, 30
settembre 1925, p. 631). Notizie sull’attività dell’Ente in M. Viterbo, L’opera educativa dell’Ente
pugliese di coltura in Puglia e Lucania, estratto da «Japigia. Rivista pugliese di archeologia, storia e
arte», III, 4 (1932).
188
L’Onair andò ad operare nei territori dove durante la dominazione austriaca aveva svolto la sua
attività la Lega Nazionale, alla quale andò progressivamente sostituendosi: alla data del gennaio
1926 l’Onair aveva già assorbito tutto il patrimonio della Lega Nazionale in Venezia Tridentina,
mentre in Venezia Giulia la Lega continuava ancora ad funzionare. L’Onair nel 1919 gestiva due
giardini d’infanzia che nel 1926-27 erano 23 nella Venezia Giulia e 47 nella Venezia Tridentina.
Per effetto della delega nel 1926-27 l’Onair gestì complessivamente 64 scuole rurali che l’anno
successivo salirono a 192; ad esse si aggiungevano scuole serali e scuole festive. L’Onair era stato
eretto in ente morale con R.D. 23 ottobre 1924, n. 1803 (G. Scarascia, L’Opera Nazionale di
Assistenza all’Italia redenta, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, gennaio-febbraio 1926, pp. 31186
187
76
fondata a Torino nel marzo 1923 per iniziativa di Giovanni Vidari con lo scopo di assistere
nell’azione educativa i maestri delle scuole rurali del Piemonte e delle valli alpine «per incuorarli
ed assisterli nell’azione educativa», di istituire una biblioteca circolare per i maestri, di aiutarli nel
rifornimento di materiale scolastico, ricevette la delega per il Piemonte e per le valli alpine
(odierna Valle d’Aosta)189.
Frattanto il processo di «sclassificazione» delle scuole rurali, iniziato sotto Gentile, subì
una forte accelerazione in virtù delle nuove disposizioni. Se nell’anno scolastico 1926-27 le scuole
non classificate in tutta Italia assommavano a 3.479, nell’anno successivo ad esse si aggiunsero
altre 1.264 scuole, di cui la gran parte, ben 1.164, erano state fino ad allora scuole classificate e
solo una minima parte, 100, erano di nuova istituzione190. Tale processo non accennò a
modificarsi nei tempi successivi: nell’anno 1930-31, infatti, le scuole rurali gestite dagli enti
salirono a quota 5.676. Al contempo si cercò di intensificare l’opera per la costruzione di nuove
scuole di campagna, investendo i risparmi ottenuti e stimabili in circa mille e 300 lire per ogni
scuola trasformata in una non classificata, in ossequio a quanto stabilito dalla legge del 1926. A
tali somme si poteva aggiungere un sussidio massimo dello Stato di 25.000 lire per ogni edificio
costruito, a patto che si rispettassero certi requisiti: ogni scuola doveva avere un giardino o
orticello, la proprietà sarebbe stata del Comune, il progetto doveva essere approvato dal
ministero, l’edificio doveva rispettare precise disposizioni di tipo tecnico191. Secondo uno studio
pubblicato nel 1929 da Alessandro Marcucci le economie realizzate nei primi quattro anni
dall’introduzione di tale normativa erano state pari a circa 10 milioni e 752 mila lire ma solo quelle
dell’anno 1926-27, pari a un milione e 387.200 lire erano state iscritte a bilancio e ripartite fra i
vari enti192. Pur potendo disporre solo di questa prima parte di denaro, ai primi mesi del 1929
erano stati costruiti o erano in costruzione 55 edifici scolastici in tutto il territorio nazionale.
Dopo aver riorganizzato nel modo appena descritto il ramo dell’istruzione rurale, il
Regime portò avanti nella seconda metà degli anni Venti la sua opera di penetrazione all’interno
degli enti delegati, indebolendone l’azione o allontanandone i dirigenti di idee non fasciste,
oppure sostituendoli con altri organismi di chiara fiducia politica.
41; L’attività dell’Opera Nazionale di assistenza all’Italia redenta, «Annali dell’istruzione elementare», n.
1, febbraio 1929, pp. 97-101).
189
Notizie sull’attività dell’associazione in Gruppo d’azione per le scuole rurali del Piemonte. Relazione
sull’opera compiuta negli anni 1923-24, 1924-25, Torino, Tipografia Roggero & Tortia. L’ente venne
eretto in ente morale con R.D. 17 settembre 1925, n. 2382 («Bollettino Ufficiale del Ministero
della Pubblica Istruzione », n. 6, 9 febbraio 1926, p. 238-241).
190
I dati sono tratti dalla tabella II pubblicata in G. Ruberti, Fondamento e caratteri della scuola
elementare attraverso la più recente indagine statistica, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, gennaiofebbraio 1928, p. 43.
191
Ogni aula doveva misurare almeno 40 metri quadrati; le finestre che si aprono da un solo lato
dovevano essere almeno due e abbastanza ampie, fin quasi a toccare il soffitto; l’altezza dell’aula
doveva essere in relazione all’altimetria del luogo e all’ampiezza dell’aula stessa; il cesso doveva
essere preceduto da un'altra stanza e avere l’accesso dal vestibolo; in mancanza di acqua corrente
o di un pozzo si doveva provvedere ai servizi igienici con una cisterna; l’edificio doveva
comprendere, oltre l’aula, il vestibolo, il cesso e l’anticesso, almeno una camera di abitazione con
annessa cucina e cesso per l’insegnante. Cfr. La “Casa della Scuola” nelle campagne, «Annali
dell’istruzione elementare», n. 3-4, agosto 1929, pp. 54-77.
192
I risparmi quantificati per l’anno 1926-27 erano di un milione e 387.200 lire, per l’anno 192728 di due milioni e 704.000 lire, per l’anno 1928-29 di tre milioni e 330.600 lire e per l’anno 192930 di 3 milioni e 330.600 lire (Ibid.).
77
Nel dicembre 1925, ad esempio, il pedagogista Giovanni Vidari che da due anni ricopriva la carica
di presidente del Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte, veniva fatto oggetto di un
attacco da ambienti fascisti torinesi in un articolo pubblicato sul giornale «Il Regno» nel quale si
intimava alle autorità scolastiche di non consegnare le scuole provvisorie alle cure dell’ente da lui
presieduto. Si deve a questo proposito dire che Vidari non era certo un antifascista e che godeva
presso il ministro Fedele di una certa stima confermata dal fatto che questi nel gennaio 1925 lo
aveva nominato presidente della Commissione centrale per l’esame dei libri di testo e che pochi
mesi dopo aveva espresso un voto favorevole alla concessione della medaglia d’oro ai benemeriti
alla Pubblica Istruzione nei suoi confronti193: già in questa circostanza «Il Regno» aveva criticato
la scelta del ministro poiché Vidari veniva accusato di essere un «professore di cui è arcinota
l’attività antifascista». Di fronte al secondo attacco mossogli dal giornale torinese e da alcuni
ambienti del fascismo, Vidari fu costretto a dimettersi da presidente dell’associazione, dietro
anche l’invito del provveditore agli studi del Piemonte194. Una vicenda che amareggiò Vidari,
come ebbe modo di raccontare a Lombardo Radice in una lettera del 24 marzo 1926 in cui gli
accennò brevemente della sua defenestrazione195.
Accanto all’allontanamento di persone non gradite, iniziò una campagna di
delegittimazione degli enti delegati ad opera dei settori più oltranzisti del fascismo, come
l’Associazione Nazionale Insegnanti Fascisti (Anif), che non condividevano la scelta operata dal
governo di affidare ad organismi privati la gestione di un’importante settore dell’istruzione
elementare. Il 15 aprile 1927, ad esempio, su «La scuola fascista», organo dell’Anif, venne
pubblicato un articolo in cui si criticava l’eccessivo potere consegnato agli enti delegati e veniva
riaffermato il principio secondo il quale «lo Stato fascista non deve delegare ad alcuno, qualsiasi
benemerenza abbia, quello che è il suo compito» poiché la «scuola elementare è il suo territorio
privilegiato, senza diritto a condominio»196. Talvolta le critiche dell’Anif si appuntarono su altri
aspetti, come le peggiori condizioni salariali dei maestri delle scuole non classificate, rispetto a
quelle di cui godevano i loro colleghi delle scuole gestite direttamente dallo Stato. Era questo il
senso, ad esempio, di un altro attacco portato da «La scuola fascista» nel numero del primo marzo
1928 in cui si leggeva:
Vi sono in Italia ormai due categorie di maestri; quelli delle scuole amministrate dai comuni o dallo Stato, per i quali
vigono norme giuridiche e trattamento economico normali; gli altri, dipendenti dalle Associazioni delegate, per i quali
lo stato giuridico ed economico non esiste. Sono questi sotto l’imperio di norme interne a ciascuna Associazione,
non hanno stabilità, non possono ricorrere ad alcuno per avere giustizia, debbono accettare un tozzo di pane che
viene largito, debbono sottomettersi alla disciplina di funzionari irresponsabili, molto spesso improvvisati, che non
dipendono dal Ministero; sono insomma dei reietti, una categoria di maestri in stato di minorità economica e
morale197.
193
A. Ascenzi, R. Sani (a cura di), Il libro per la scuola tra idealismo e fascismo: l’opera della Commissione
centrale per l’esame dei libri di testo da Giuseppe Lombardo Radice ad Alessandro Melchiori (1923-1928),
Milano, V&P, 2005, pp. 21-22.
194
Il fatto è raccontato dallo stesso Vidari nel proprio diario pubblicato in G. Chiosso, Educazione
e valori nell’epistolario di Giovanni Vidari, Brescia, La Scuola, 1984, pp. 218-220.
195
AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Vidari a Lombardo Radice, 24 marzo 1926.
196
Sclassificazione di scuole, «La scuola fascista», 15 aprile 1927, p. 6.
197
La crisi del maestro e le scuole sclassificate, «La scuola fascista», n. 43, 1 marzo 1928, p. 2. L’articolo
era firmato con lo pseudonimo «Veritas».
78
Polemiche alle quali si incaricò di rispondere «La nuova scuola italiana», la rivista legata
all’Ente nazionale di Cultura, rimasta l’ultima frontiera dal punto di vista giornalistico a difesa
degli enti, insieme a «Il Gruppo d’Azione», il bollettino del Gruppo di Azione delle Scuole del
Popolo di Milano. In una serie di articoli pubblicati nella primavera del 1928, infatti, la rivista
codignolana ricordava come le associazioni nascessero dalla Riforma Gentile, che era stata
definita da Mussolini «la più fascista delle riforme», circostanza che rendeva incomprensibili le
critiche di chi agitava l’argomento secondo il quale esse non agissero dietro esplicita volontà dello
Stato o, peggio, che manifestassero simpatie antifasciste:
Va facendosi di moda – era scritto nell’articolo pubblicato il 18 marzo 1928 – dar addosso agli enti culturali delegati
alla gestione delle scuole rurali uniche miste […] Si dice: scuole prese in appalto a cottimo chiuso; maestri trattati a
mezza razione e cioè pagati a giornata come i braccianti delle campagne; azione scolastica antieducativa e
antifascista198.
Veniva, inoltre, negato che i maestri fossero «in balia di padroni dispotici» poiché sebbene
essi non godessero delle garanzie giuridiche dei loro colleghi delle scuole classificate, tuttavia non
erano sottoposti a conferma o trasferimento da una sede all’altra in modo arbitrario ma con
«assoluta equità». Quanto al trattamento economico, si ammetteva che il compenso annuo – circa
5.600 lire per una classe di 25 alunni – era esiguo, ma uguale al salario dei maestri di prima
nomina assunti per concorso nelle scuole classificate. Ad esso si aggiungeva, inoltre, l’alloggio
gratuito o una indennità equivalente pari a un decimo dell’assegno annuo, e cioè di circa 500
lire199.
Non meno facile fu la vita per l’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno. All’inizio
del 1926 essa veniva suo malgrado coinvolta in un’aspra polemica tra Lombardo Radice e alcuni
gentiliani schieratisi ormai saldamente su posizioni fasciste, a motivo dei ripetuti articoli critici
verso l’Anif scritti dal pedagogista siciliano su «L’Educazione Nazionale». A rispondere a
Lombardo Radice fu «L’Educazione politica», la rivista diretta dallo stesso Gentile, in un
editoriale firmato «La redazione» in cui il pedagogista veniva accusato di «antifascismo
accademico» e di essere un «campione del moralismo aventiniano». In chiusura dell’articolo
veniva tirata in ballo l’Animi ed accusata di «insipido e ridicolo laicismo», circostanza che spinse
Piacentini a chiedere spiegazioni allo stesso Gentile del perché di questa strana accusa, visto che
nelle loro scuole l’insegnamento religioso era stato sempre praticato, che l’Animi aveva introdotto
il crocifisso fin da quando assunse la delega dallo Stato e che furono inserite pagine di carattere
religioso nel «suo primo libretto di testo per le letture che fu scritto (proprio da Lombardo
Radice) avanti la riforma scolastica»200. Piacentini non lasciò di far notare a Gentile, infine, come
198
F. Corradini, La scuola rurale unica mista, «La nuova scuola italiana», n. 25, 18 marzo 1928, pp.
754-756.
199
Ivi, p. 755. La cifra di 5.600 lire era calcolata tenendo presente che l’insegnante riceveva 25,57
lire a lezione (diaria) e che le lezioni erano 180 all’anno; che al maestro spettavano 27, 47 lire per
ogni bambino promosso (premio); e che all’importo totale si aggiungeva il Monte Pensione pari
all’8% delle diarie. In conclusione, ipotizzando una classe di 25 alunni, l’importo per le diarie era
pari a 4.548, 60 lire, per i premi 686,75 lire, per la quota del Monte Pensioni 363,88 lire: in totale
5.599,23 lire.
200
La redazione, Risposta all’ “Educazione Nazionale”, «L’Educazione politica», n. 1, gennaio 1926,
pp. 56-58.
79
non era la prima volta che persone che passavano per suoi «allievi più devoti attaccano
l’associazione»201.
Nuovi problemi per l’Animi si ebbero sul finire del 1926 quando il ministro Fedele ordinò
che Giuseppe Isnardi, direttore dell’ufficio regionale dell’associazione per la Calabria, venisse
sollevato dall’incarico e trasferito in altra sede a causa del suo «atteggiamento di aperta ostilità al
Partito ed al Regime» che gli era stato «segnalato dal Direttorio Nazionale del Partito Nazionale
Fascista»202. Come ebbe modo di raccontare successivamente Zanotti Bianco, il professor Isnardi,
«uomo completamente al di fuori della politica, laborioso, entusiasta della sua missione e ben
voluto non solo dai maestri, e dal provveditore agli studi e dal prefetto», ricevette da un deputato
di Catanzaro un telegramma con cui gli intimava in modo perentorio di lasciare la città entro 48
ore. Grazie all’intervento di Gentile e alle sue pressioni, alla fine, l’incidente fu sanato e Isnardi
poté rimanere al suo posto ma senza più quella tranquillità d’animo dei primi tempi203. Anche in
Sicilia l’Animi ebbe qualche problema. Zanotti Bianco ha raccontato un episodio in particolare:
un maestro, segretario della sezione magistrale fascista e delegato dell’Opera Balilla nel comune di
Tortorici, non voleva adempiere, forte della sua posizione politica, ad uno degli obblighi delle
scuole dell’associazione, vale a dire l’obbligo della residenza nella località ove era stata aperta la
scuola: per tale motivo gli era stato rivolto l’avvertimento disciplinare all’inizio dell’anno
scolastico 1926-27. Più volte redarguito continuò a non osservare il regolamento e si rivolse
anche ad un deputato fascista di Palermo per ottenere la dispensa dei suoi doveri, che però non
gli venne concessa. Apparve allora sulla «Gazzetta di Messina» un violento articolo contro l’ente:
«I bambini delle scuole rurali di Tortorici – era detto –, poveri bimbi diseredati, vivono fuori il
tempo e lo spazio, non conoscono il saluto romano, non conoscono un inno, non conoscono
nulla del Duce. Qui, dichiaran gli insegnanti, non è mai giunta una circolare da Palermo che parli
del nuovo indirizzo fascista, del nuovo spirito che informa la scuola, qui in cinque anni di vita
fascista, non è giunta mai una parola nuova»204. Un’altra circostanza raccontata da Zanotti Bianco
riguardava la Sardegna, regione in cui fino a quel momento l’associazione aveva gestito la delega.
A turbare l’opera dell’Animi sull’isola fu la fondazione, avvenuta nel marzo 1926 a Cagliari, dietro
impulso di un attivo deputato fascista dell’isola, Antonio Putzolu, di un’associazione che entrava
in aperta competizione con l’Animi stessa e che prese il nome di Ente di cultura e di educazione
della Sardegna. Eretta in ente morale con decreto il 2 dicembre 1926, essa aveva per obiettivo
quello di favorire l’istruzione popolare, fondando corsi di istruzione professionale e biblioteche
popolari205. In realtà ben presto ella volle estendere la sua attività anche all’istruzione elementare,
cercando di mettere le mani sulle scuole rurali non classificate. Putzolu, ha raccontato Zanoti
Bianco, iniziò infatti ad accusare le scuole dell’Animi di disporre di cattivi locali, di arredamento
insufficiente, di non ottemperare all’obbligo scolastico, di cattiva assistenza agli allievi, di scarsa
201
AFFG, Carteggio, Lettera di Piacentini a Gentile, 5 marzo 1926.
Ivi, Carteggio, Lettera di Fedele a Gentile, 17 dicembre 1926.
203
Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, cit., pp. 56-57.
204
Ivi, pp. 57-58.
205
Notizie sull’attività svolta dall’ente sardo si possono trovare, insieme allo statuto
dell’associazione e al testo del decreto che lo erigeva in ente morale, nel volume Una splendida
realizzazione fascista: l’Ente di Cultura e di Educazione della Sardegna, Cagliari, Premiata Tipografia
Giovanni Ledda, 1928.
202
80
serietà negli esami e di un inadeguato servizio di vigilanza206. Ma l’incidente più grave avvenne, nei
ricordi di Zanotti Bianco, nel marzo 1928, allorché il ministro, inviando una lettera al presidente
dell’Animi,
comunicava di aver convocato a Roma tutti i funzionari comandati presso i vari enti, convocazione che secondo la
legge avrebbe dovuto essere fatta tramite la presidenza degli enti delegati. Piacentini telegrafò subito ai nostri
funzionari di non muoversi, protestando in una lettera al Ministro contro un sistema che ledeva la nostra dignità e
che turbava il rapporto gerarchico fra enti e funzionari comandati, in contrasto con le responsabilità conferitaci dalla
legge207.
Come appresero poi da una circolare ministeriale, la riunione aveva uno scopo puramente
politico: «la fascistizzazione delle scuole rurali non classificate e la formazione da attuare, dei
Balilla e delle Giovani italiane» e chiedere agli enti «la loro fervida ed incondizionata opera per
l’attuazione integrale delle direttive segnate al riguardo da S.E. il Ministro in obbedienza alla
precisa volontà del Duce»208.
Questa volta la rinuncia dell’Animi alla delega fu definitiva: liberatasi da un peso che non riusciva
più a sostenere a quelle condizioni, l’associazione ora poteva dedicarsi ad altre questioni, in
particolar modo alla cura degli asili d’infanzia209. Il regime non esitò ad approfittare di questa
condizione per portare avanti quel processo di fascistizzazione della scuola rurale da sempre
auspicato: con R.D. del 6 settembre 1928, n. 2176, infatti, fu stabilita l’avocazione delle scuole
non classificate della Sicilia e della Calabria all’Opera Balilla e delle medesime scuole della
Sardegna all’Ente di cultura e di educazione della Sardegna210. L’Onb si vide così consegnare nelle
due regioni meridionali un complesso di 477 scuole che assunsero il nuovo nome di «Scuole rurali
206
Su questo aspetto si veda G. Pisu, Aspetti e momenti della presenza in Sardegna dell’Associazione
nazionale per gli interessi del Mezzogiorno (1919-1931): U. Zanotti-Bianco, G. Dolcetta e R. Ciasca, in
Francia e Italia negli anni della Rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1994.
207
Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, cit., pp. 54-55.
208
Ibid.
209
In una lettera a Gentile, il presidente onorario dell’Animi, Fortunato, si diceva compiaciuto
della rinuncia alla delega: «Ieri, nel pomeriggio, di passaggio per Napoli, è stato da me il
Piacentini, e da lui ho saputo che se la nostra Associazione, - con molto piacer mio, - è fuori
finalmente dal giogo delle Scuole, e ormai sicura, serenamente sicura di sé, tutto questo noi lo
dobbiamo a Voi» (AFGG, Corrispondenza, Lettera di Fortunato a Gentile, 7 aprile 1928).
Nonostante ciò durante gli anni Trenta la vita dell’associazione fu resa difficile dalla convivenza
con il fascismo. Zanotti Bianco ha raccontato a questo proposito un altro episodio significativo:
«All’inizio del 1939 il segretario del partito fascista Achille Starace, incontrato in non so quale
cerimonia il marchese F. Nunziante nostro presidente, gli chiese con quel tono militaresco tipico
dei gerarchi di allora: - Come mai esiste ancora una Associazione per gli interessi del
Mezzogiorno? Il regime ha ormai risolto il problema meridionale…il nome stesso della vostra
Associazione è una affermazione di critica e di sfiducia verso il duce ed il regime. Allibito da tanta
sicumera, il presidente stava per rispondergli con alcune considerazioni sull’attualità del problema
meridionale; ma Starace si era voltato a parlare con altre parole». L’esitazione che assalì i dirigenti
dell’Animi li spinse a chiedere il patronato alla principessa di Piemonte che accettò di buon grado.
Così dal maggio 1939 al gennaio 1945 l’associazione mutò il nome con quello di Opera
Principessa di Piemonte (Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del
Mezzogiorno, cit., pp. 99-101).
210
«Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», n. 42, 16 ottobre 1928, pp. 33843385.
81
Opera Nazionale Balilla», oltre ad un alto numero di scuole serali211. L’anno successivo essa
ricevette in gestione anche le scuole rurali della Sardegna, sottratte al locale Ente di cultura.
L’avocazione all’Onb delle scuole rurali della Calabria, della Sicilia e della Sardegna produsse
significative trasformazioni sia sul piano organizzativo-tecnico che su quello politico. Nuove
direzioni didattiche su base provinciale presero il posto delle vecchie direzioni regionali
dell’Animi, affiancate da una direzione centrale con sede a Roma, con l’obiettivo di disarticolare il
sistema organizzativo in funzione fino ad allora212. Ma l’affidamento della gestione all’Onb fu una
vera svolta soprattutto per ragioni politiche poiché tale esperienza costituì una sorta di
laboratorio per la creazione della nuova scuola fascista, fucina di giovani devoti al Regime, amanti
del lavoro nei campi e sprezzanti nel difendere la Patria. Da questo punto di vista le scuole
dell’Onb offrivano continue occasioni per celebrare il Duce e le istituzioni del fascismo.
Indicativo di ciò era, ad esempio, l’attribuzione a tutte le scuolette rurali del nome di un
cosiddetto «martire fascista» in sostituzione del numero che fino ad allora distingueva ciascuna di
esse. Andava nella stessa direzione la frequente consegna in forma gratuita ai propri alunni di
uniformi delle organizzazioni giovanili, come avvenne in occasione della Pasqua del 1932 quando
vennero regalate 1.600 divise di Balilla e di Piccola Italiana ad altrettanti «scolaretti malvestiti della
Calabria, della Sicilia e della Sardegna» come «dono pasquale di S.E. Ricci»213.
3.
«Libro, moschetto e vanga»: la scuola rurale passa all’Opera Balilla
Con l’ascesa al ministero di Balbino Giuliano, avvenuta nel settembre del 1929, gli enti
delegati sembravano trovare una protezione sotto la cui ala mettersi al riparo dagli attacchi di quei
settori del fascismo più oltranzisti che chiedevano il passaggio di tutte le scuole rurali allo Stato o
all’Opera Balilla. Il nuovo ministro, che si considerava un allievo di Gentile, aveva senz’altro a
cuore la sorte degli enti considerando il fatto che dal giugno 1925 fino a quel momento aveva
ricoperto la carica di presidente dell’Ente nazionale di cultura, l’associazione che gestiva le scuole
rurali non classificate della Toscana e della Romagna214. Ciò tuttavia non deve far pensare che
fosse contrario alla trasformazione della scuola italiana, e nel nostro caso di quella rurale, in uno
strumento capace, prima ancora di provvedere all’alfabetizzazione dell’infanzia, di forgiare l’uomo
211
Le Scuole dell’Opera Nazionale Balilla nell’anno 1928-29, «Annali dell’istruzione elementare», n. 5,
ottobre 1929, pp. 94-95.
212
Cfr. R. Marzolo, La scuola rurale dell’Opera Balilla, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1,
febbraio 1935, p. 18. Le quattro direzioni regionali, con sede a Catanzaro, Catania, Agrigento e
Palermo, rimasero in funzione fino a tutto il mese di dicembre 1928, quando furono sostituite da
direzioni provinciali. Nel suo primo anno di attività, il 1928-1929, l’Onb gestì 229 scuole rurali in
Calabria (80 nella provincia di Catanzaro, 94 in quella di Cosenza e 55 in quella di Reggio
Calabria) e 248 scuole rurali in Sicilia (13 ad Agrigento, 10 a Caltanissetta, 34 a Catania, 4 ad
Enna, 95 a Messina, 23 a Palermo, 27 a Ragusa, 12 a Siracusa, 30 a Trapani). Su questo aspetto
cfr. Le scuole rurali dell’Opera Nazionale Balilla: anno scolastico 1928-1929, Roma, Tipografia del
Littorio, 1929, p. 15.
213
Nelle Scuole dell’Opera Balilla, «I diritti della scuola», n. 25, 3 aprile 1932, p. 383.
214
Cives, L’attività dell’Ente di Cultura, cit., p. 135. Sui rapporti tra Giuliano e Gentile si rinvia ad A.
Tarquini, Il Gentile dei fascisti: gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, in
particolare alle pp. 42-43.
82
nuovo fascista. Quali sarebbero state le intenzioni del nuovo ministro nei confronti delle
associazioni lo si comprese nell’ottobre 1929 allorché egli ricevette i membri del Direttorio
dell’Anif, l’associazione guidata da Sacconi che aveva appena finito di celebrare i lavori del suo
congresso durante il quale, tra le altre cose, aveva chiesto ufficialmente di mettere un freno alle
«sclassificazioni» per le scuole con più di 30 alunni e di procedere alla classificazione di quelle con
più di 45 alunni215. Di fronte a queste richieste Giuliano sottolineò il valore del ricorso dello Stato
alle associazioni private nella battaglia contro l’analfabetismo, affermando che «l’Opera dei vari
Enti culturali [aveva] tutta la sua simpatia»216. Tuttavia, non potendo ignorare i malumori presenti
in alcuni settori del mondo politico, a cominciare dalla stessa Anif, – che si concentravano sulle
peggiori condizioni salariali degli insegnanti delle scuole degli enti e sulla loro scarsa impronta
politica217 –, il ministro non chiuse in modo assoluto all’eventualità di apportare piccole
modifiche:
Perché l’azione di detti Enti sia veramente utile ed efficace è necessario che sia ben delimitato il loro compito e sia
lasciata ad essi scioltezza di movimenti. Gli Enti culturali devono prevenire l’opera dello Stato, essi debbono esserne i
pionieri, ma non sostituirsi allo Stato e tanto meno trasformarsi in tanti piccoli Provveditorati, come fatalmente
avverrebbe se diventasse eccessivo il numero delle scuole da ciascuno amministrate 218.
Si trattava di parole il cui primo scopo era quello di rassicurare e di tranquillizzare. Non a
caso un giornale portavoce degli interessi magistrali come il «Corriere delle Maestre» espresse un
plauso a Giuliano perché vedeva nelle sue parole una «giustificazione della campagna da noi
condotta contro le eccessive e non sempre ponderate sclassificazioni», facendo riferimento ad
una serie di articoli in cui il periodico aveva messo in rilievo come l’opera degli enti era svolta
paradossalmente in maniera più incisiva nelle regioni dove la piaga dell’analfabetismo era meno
grave219. Le parole del ministro, inoltre, volevano essere una risposta anche al malumore che
serpeggiava negli ambienti della burocrazia ministeriale contro quello che veniva giudicato
l’eccessivo potere degli enti, come puntualmente sottolineato dai Provveditori agli studi nelle loro
relazioni annuali nelle quali veniva affermato che gli enti non dovevano costituire una struttura
215
Il direttorio dell’A.N.I.F. da S.E. il Ministro Giuliano, «Il Corriere delle Maestre», n. 6, 27 ottobre
1929, p. 44.
216
Ibid.
217
In uno scritto del 1935, a distanza di tempo dalle polemiche avocazioniste delle scuole rurali
che lo avevano visto protagonista, Bascone affermò che l’idea delle scuole «non classificate», sorte
con l’Ente contro l’analfabetismo nel 1919, fosse «nittiana», perché concepita durante il governo
Nitti, vale a dire uno dei peggiori nemici del fascismo e di Mussolini (F. Bascone, Ordinamento
didattico della scuola elementare, «I diritti della scuola», n. 27, 14 aprile 1935, pp. 430-431).
218
Il direttorio dell’A.N.I.F. da S.E. il Ministro Giuliano, «Il Corriere delle Maestre», n. 6, 27 ottobre
1929, pp. 44-45.
219
In effetti, la rivista diretta da Guido Fabiani aveva poco prima riservato alcuni rilievi critici nei
confronti degli enti delegati. Si legge nel numero del 16 dicembre 1928 della rivista: L’Ente contro
l’Analfabetismo combatte con maggior intensità l’analfabetismo proprio là dove questo male ha
minor intensità e minor gravità. Veniva citato a questo proposito il caso di Calabria e Lazio, due
regioni nelle quali il tasso di analfabetismo era rispettivamente del 48% e del 22% ma che
disponevano di un numero di scuole «non classificate» non congruo, essendovi nella prima circa
la metà di scuole della seconda. Questo ed altri esempi erano la dimostrazione, secondo tale tesi,
delle contraddizioni presenti nell’opera svolta dalle associazioni delegate (La lotta contro
l’analfabetismo. I risultati sorprendenti di una nostra inchiesta, «Il Corriere delle Maestre», n. 10, 16
dicembre 1928, pp. 285-286).
83
concorrenziale rispetto ai Provveditorati e venivano avanzati dubbi sulla loro reale efficacia nelle
zone culturalmente avanzate e sul reale risparmio per le casse dello Stato220.
Ma al di là delle rassicurazioni, Giuliano non aveva la minima intenzione di rimettere in
discussione la delega statale alle associazioni culturali, come ebbe modo di dichiarare fin
dall’ottobre 1929 e come ripeté successivamente. Un’altra circostanza per farlo fu la discussione
del bilancio dell’Educazione nazionale alla Camera dei Deputati, avvenuta alla fine del marzo
1930, in occasione della quale affermò che grazie al «saggio riordinamento di scuole si [era]
potuto fare qualche economia» e che gli enti avevano svolto bene il loro mandato, sebbene
qualcuno di essi avesse «ampliato troppo la propria azione, [assumendo] persino scuole cittadine e
[creato] duplicati delle amministrazioni regionali dello Stato». In ragione di ciò il ministro si
dichiarava contrario al passaggio allo Stato «di tutte le scuole sclassificate e rurali», respingendo
ogni tentativo di assalto alle associazioni e al loro operato221. Si trattava di una posizione chiara in
difesa degli enti delegati contro i quali, in sede di discussione parlamentare, si espressero due
deputati che chiesero il passaggio di tutte le scuole rurali all’Opera Ballila, uniformando al resto
del territorio nazionale quanto finora fatto in Calabria, Sicilia e Sardegna 222. In particolare
l’onorevole Ezio Maria Gray sostenne la necessità di
riportare queste scuole nell’ambiente normale alle altre scuole, e non farne i parenti poveri, diseredati del mondo
scolastico. È un bisogno che bisogna affrontare in tutta la sua interezza, anche perché queste scuole operano
nell’interno rurale ove è più sensibile e necessaria l’avanzata dello spirito fascista223.
Ma fu soprattutto il deputato Francesco Bascone, già maestro elementare e uno dei
fondatori della Corporazione della Scuola, a dichiarare che lo Stato non poteva rinunciare alla
formazione di una parte considerevole di giovani, dopo che esso aveva affermato il principio
secondo il quale l’educazione fosse una funzione eminentemente statale:
Non è nel momento in cui lo Stato reclama per sé intera funzione educativa della gioventù che si deve cedere un sì
gran numero di scuole a enti che – per quanta garanzia possano dare di savia amministrazione e di educazione
fascista – non sono organi statali224.
Dal canto loro i dirigenti delle associazioni non assistevano passivi alle discussioni pubbliche
e alle manovre di palazzo che si stavano compiendo sopra il loro destino. Nei loro carteggi
emerge costantemente la preoccupazione perché la burocrazia ministeriale o alcune
organizzazioni fasciste come l’Anif, potessero influire sul governo determinando scelte
penalizzanti in ordine al rinnovo della delega, alla «sclassificazione» di altre scuole e all’elargizione
dei trasferimenti statali. Ne è una testimonianza, ad esempio, la lettera che l’ispettore in servizio
presso l’Ente di Cultura, Francesco Bettini, scrisse a Ernesto Codignola per informarlo dell’opera
di discredito degli enti delegati svolta da un funzionario dell’Anif nella zona di Mantova:
220
Sulle riserve avanzate dai Provveditori cfr. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del
fascismo, cit., pp. 420-421.
221
Il discorso del ministro Giuliano, «La nuova scuola italiana», n. 27, 6 aprile 1930, pp. V-VIII.
222
La scuola elementare nella discussione del Bilancio dell’Educazione Nazionale, «La nuova scuola italiana»,
n. 28, 13 aprile 1930, p. VII.
223
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXVIII, seduta del 28 marzo 1930, p.
2019.
224
Ivi, p. 2029. Notizie biografiche su Bascone in F.A. Cesario, In memoria di Francesco Bascone, «I
diritti della scuola», n. 3, 15 novembre 1951, pp. 58-59.
84
Gli attacchi non mancano – scrisse Bettini – Qui a Suzzara il R. Direttore (T. Mariani) mi dice che il Segretario
provinciale dell’Anif (Balbarini, che dal 1° febbraio è stato chiamato, per intercessione del Comm.[endato]r Sacconi,
a dirigere le scuole di Spezia) nell’ultima riunione dei Direttori (della Prov. Di Mantova) disse che il Governo non
sclassificherà altre scuole, perché a sclassificarle ci rimette. E i presenti cedettero e all’affermazione e alla
giustificazione, che, naturalmente non hanno alcun fondamento. Il Balbarini era ed è uno dei beniamini del
Comm.[endato]r Sacconi e dovette lasciar Mantova (dove godeva anche poche simpatie) dopo la caduta di
Arrivabene e della tendenza (Farinacciana) che egli rappresentava 225.
Un’altra testimonianza che bene illustra le manovre politiche e gli interessi di vario genere –
tra cui quello degli editori che da anni facevano pressioni per far entrare nelle scuole rurali i
propri sussidiari e non quelli autoprodotti, ad esempio, da alcune associazioni 226 – che si celavano
dietro la gestione delle scuole non classificate è rappresentata da un’altra lettera di Bettini a
Codignola, scritta nell’estate 1930:
225
AEC, Corrispondenza, Lettera di Bettini a Codignola, s.d. ma fine anni Venti o primissimi anni
Trenta.
226
Questo punto è stato ben messo in rilievo da Monica Galfré studiando il mercato del libro
scolastico in Italia durante il periodo fascista. Su questo aspetto cfr. M. Galfré, Il regime degli editori:
libri, scuola e fascismo, Roma, Laterza, 2005, pp. 51-57. A ciò si aggiunga l’interessante lettera scritta
da Marcucci nel maggio 1925 a Lombardo Radice in cui si lamentava del fatto che il Sillabario
creato per le scuole dell’Agro romano era stato bocciato dalla Commissione Centrale d’esame dei
libri di testo, decisione che ai suoi occhi era stata influenzata dagli editori che volevano mettere le
mani su un segmento importante del libro scolastico. Scrisse Marcucci: «Caro Peppino, non ti
avrei scritto, se tu già non avessi in modo così acuto trattato dell’argomento e se non si trattasse
di combattere una vergognosa azione di…camorra. La commissione ha giudicato il nostro
Sillabario inadatto per le scuole rurali, lasciandolo – bontà sua – per le scuole serali. Se quel
libretto portasse il mio nome, non ardirei a parlartene; se mi portasse un centesimo di utile mi
ripugnerebbe qualsiasi doglianza. Né vanità di didatta, né interesse di speculatore, dunque. Ma il
libro in sé vale come strumento, vale come buona azione verso i 20 o 30 mila piccoli alunni delle
nostre Scuole – tutti contadini – che possono averlo (cioè le Associazioni delegate per loro) a
pochi centesimi. La lega degli usurai editori e dei farisei componenti la Commissione
(segnatamente ispettori e direttori) in vergognoso patto, ha detto qui 30 mila lettori alunni
devono passare sotto le nostre forche e lasciare nelle nostre mani le 50 o 60 mila lire e più che
importano Sillabari editi dalla nostre Case! E il pericolo che il libro trovasse credito anche presso
altre scuole, beneficiando molte e molte migliaia di contadinelli doveva essere scongiurato! Sai
che su tanti libercoli del genere quegli sfruttatori mettono insieme dei patrimoni! Ora io mi
ribellerò a questa sfacciata speculazione a questa palese ingiustizia che, ripeto, deve intendersi
come offesa non a me – persona – ma alla Scuola rurale che amiamo sopra tutte le altre cose e
che cerchiamo di beneficiare con libri fatti bene e di minimissimo costo. Se tu, con la tua
competenza ed autorità, te ne volessi occupare obbiettivamente, illustrandolo, senza far mai il
mio nome, te ne sarei grato. S’intende che io seguiterò a farlo adottare nelle scuole in diretta
dipendenza di questa Associazione, anche contravvenendo alla legge, ma per l’interesse comune,
per l’omaggio dovuto alla Scuola e alla Giustizia, vorrei essere confortato dalla parola di chi sa e
primamente dalla tua. Ti dirò le motivazioni che, con industre malvagità hanno formulato in
proposito. Per quello che finora ne so dicono: che è troppo esclusivo parlando troppo di
contadini (-ma se è per loro!-), che c’è poco sentimento patrio (-cioè manca di rugiadosa retorica),
che è troppo difficile (-cioè manca di insulsi bamboleggiamenti che il contadino non conosce). Il
fatto è che un volume di questo genere (Sillabario e compimento) – in questa veste – non costa
che £ 1.10. Le sole spese!» (AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 31
maggio 1925).
85
Il Marcucci – col quale sono stato ieri in Casentino per un motivo intorno a cui Le riferisco a parte – mi ha detto che
la Duchessa d’Aosta ha già ricevuto dal Gabinetto di S.E. il Ministro l’assicurazione che la delega verrà rinnovata. Ma
bisognerebbe insistere perché il Decreto fosse fatto presto, perché il tempo corre e c’è chi ha interesse a mettere pali
fra le ruote. Non si sa mai quel che può fare la burocrazia! Quercia e Giustini aspirano alla Direzione generale: ora se
le scuole se le piglian tutte i Balilla, il posto salta fuori. O che importa a certa gente che cinquemila scuole vadano a
rotoli, se possono aggiungere allo stipendio qualche migliaio di lire? 227
Le associazioni cercarono, dunque, di coordinare le proprie azioni contro le invadenze della
politica e di chi era interessato a mettere le mani sulle scuole rurali: nell’estate del 1930, ad
esempio, venne inviata al ministro Giuliano una richiesta firmata da tutti i presidenti degli enti
contenente una proposta comune in vista del rinnovo della delega statale. Nel novembre 1931,
quando il rinnovo della delega veniva data per certa, era Marcucci a chiedere a Codignola
l’intervento di una personalità dotata di grande autorevolezza al fine di consentire ai dirigenti
delle associazioni di partecipare all’elaborazione del decreto, evitando che fossero unicamente gli
uffici del ministero a scriverlo:
Occorre però – scrisse Marcucci – sul momento rivolgere ogni nostra attenzione al fatto del rinnovo della delega.
Credo che si stia preparando il nuovo R. Decreto che dovrà, per legge, essere prima inviato al Consiglio di Stato.
Credo che non sia rinnovato nella forma attuale ma che gli uffici vi apportino aggiunte, ritocchi, diminuzioni, etc.
forse rimodellandolo sullo schema che già prepararono per il Ministro Belluzzo. Urge sapere tutto ciò; ed intervenire.
Persona autorevole dovrebbe far sentire che in simile manipolazione la collaborazione degli Enti è indispensabile, dal
momento che sono essi che debbono applicare la legge, che sono essi che avendola applicata fino ad ora possono
suggerire i più opportuni emendamenti. Ella veda, Professore, l’urgenza di un intervento prima che il Decreto, messo
assieme da uffici che non conoscono e non vivono la Scuola, ci sia presentato per farcelo accettare, senza possibilità
di discussione e di suggerimenti228.
Le proposte che Marcucci prospettava a Codignola erano, per la verità, di non piccola entità nel
momento in cui auspicava che il nuovo decreto potesse, oltre che rinnovare la delega, favorire
«l’istituzione della IV e V nei piccoli ma con più di 60 alunni centri prettamente rurali, dove la
scuola ha assunto carattere speciale di differenziazione didattica o di indirizzo» e addirittura creare
un Comitato centrale con funzioni di raccordo tra le associazioni dal punto di vista didattico,
finanziario e amministrativo («che libererebbe gli Enti dallo snervante e trascurato fiscalismo degli
uffici centrali e di quelli periferici»), con funzioni cioè simili a quelle vecchio Comitato contro
l’analfabetismo abolito nel 1926.
Nell’aprile 1931 uno dei dirigenti del Gruppo di Azione delle Scuole del popolo di
Milano, Gian Cesare Pico, scriveva allarmato a Codignola a proposito dell’azione svolta da Guido
Fabiani, direttore del «Corriere delle maestre», accusato di essere in combutta con altre persone,
tra cui il deputato Bascone, nel voler dettare la linea politica al ministro e di sobillare i maestri
contro gli enti delegati. Scrisse Pico:
Non ti sarà sfuggito l’articolo di fondo del “Corriere delle Maestre”. Il Massone Fabiani continua a dar esca per
favorire l’indisciplina delle maestre. E si erge a consigliere del Segretario del Partito e dello stesso Ministro.
Certamente conta sull’adesione di altre mezze figure di educatori, e di interi massoni, quali Antonelli, Giovanazzi e
227
AEC, Corrispondenza, Lettera di Bettini a Codignola, 9 luglio 1930. La lettera è già stata
pubblicata in Montecchi, La Scuola Rurale Faina, cit., pp. 36-37. I due personaggi cui si fa
riferimento erano Camillo Quercia e Giuseppe Giustini.
228
AEC, Corrispondenza, Lettera di Marcucci a Codignola, 2 novembre 1930.
86
Bascone. Il presidente del Gruppo scriverà al Ministro perché intervenga e difenda la scuola da questi bolscevichi. Io
ti posso documentare che una certa indisciplina qua e là si è già manifestata proprio per opera e di certa stampa e di
certi esponenti dell’Anif di ieri e di oggi229.
Eppure, se è vero che i dirigenti delle singole associazioni cercarono di unire le forze contro gli
attacchi esterni, è pur vero che spesso una cortina di diffidenza e di gelosie sul piano personale e
su quello professionale li divideva, finendo per indebolire l’intero movimento degli enti delegati.
Alla metà degli anni Venti frequenti furono i momenti di attrito, ad esempio, tra Marcucci e
Lombardo Radice, quando quest’ultimo dirigeva le scuole dell’Animi, a causa di differenti visioni
pedagogiche in riferimento alle scuole rurali e al pensiero montessoriano. Così come è
testimoniata una certa diffidenza nutrita da Marcucci nei confronti di Codignola e della qualità
didattica delle sue scuole dell’Ente di cultura. Invidie e gelosie che sono ben provate da una
lettera di Marcucci a Pico del 9 giugno 1926 nella quale scrisse:
Non so che dire delle altre due importanti Associazioni: il Mezzogiorno e l’Ente di cultura. Queste – ti parlo con
cruda verità – hanno a capo due accreditati pedagogisti, che lanciano scomuniche e investiture secondo i loro principi
filosofici, le loro vedute personali, e che, nella loro pratica azione, sono dei trasandati o dei futuristi. Essi sono
verbosi e sdegnano l’occuparsi di cose pratiche; essi forse combatteranno lo spirito montessoriano, per ragioni di
supremazia, o chiesuola…pedagogica. Non vogliono legami o controlli e ciò produce risultati poco lusinghieri
nell’azione tangibile della loro scuola, che però si affannano a dimostrare eccellente con lunghi discorsi e quadri
statistici e incisioni più o meno suggestive, mentre l’azione vera richiede lavoro, paziente e silenzioso e disciplinato.
Saranno le due Associazioni che potranno venire attaccate, ma che finiranno col modellarsi a noi, se vorranno
vivere…230
È indubbio che le divisioni non giocarono a favore degli enti che tornarono ad essere
bersaglio di nuove critiche e polemiche, nonostante che il ministro Giuliano all’inizio del 1931
avesse rinnovato per un altro quinquennio la delega alle associazioni con un apposito decreto231.
In particolare l’onorevole Bascone tornò a condurre la sua battaglia contro le associazioni
delegate ripetutamente nel 1931 e nel 1932 in occasione delle discussioni al bilancio
dell’Educazione Nazionale. Nella seduta della Camera del 13 maggio 1931 egli contestò la
presunta economicità della soluzione rappresentata dagli enti e avanzò la proposta di lasciare alle
loro cure solo quelle scuole con pochissimi alunni che lo Stato non avrebbe avuto convenienza di
gestire232. Ma fu in particolare nel dibattito che si svolse nell’aprile 1932 che la divergenza interna
al fascismo tra favorevoli al ricorso alle associazioni private e contrari si palesò in maniera
evidente e con strascichi polemici che continuarono nelle settimane successive sulla stampa. Se da
una parte l’onorevole Lando Ferretti, relatore del bilancio dell’Educazione Nazionale, aveva
difeso gli enti sostenendo che essi svolgevano «un’utile funzione, per quanto si attiene alle scuole
rurali», dall’altra Bascone si disse persuaso che la delega agli enti privati nella gestione di scuole
pubbliche mantenute dallo Stato era «inconciliabile con la dottrina fascista in materia di
educazione della gioventù»233. Ai suoi occhi e a quelli del fascismo intransigente non poteva,
infatti, esserci ragione di tipo «politica, pedagogica, didattica» che giustificasse una scelta di questo
229
AEC, Corrispondenza, Lettera di Pico a Codignola, 22 aprile 1931.
La lettera di Marcucci a Pico del 9 giugno 1926 è stata pubblicata in Alatri, vita per educare, tra
arte e socialità, cit., p. 138.
231
Si trattava del R.D. 19 febbraio 1931.
232
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Seduta 13 maggio 1931, p. 4664-4669.
233
Il bilancio dell’Educazione nazionale alla Camera, «I diritti della scuola», n. 28, 24 aprile 1932, p. 437.
230
87
tipo, se non quella economica. Peraltro Bascone avanzava dei dubbi anche sull’effettivo risparmio
di denaro pubblico e chiedeva spiegazioni del perché nel bilancio dell’anno precedente era
prevista per le scuole non classificate una spesa di 10 milioni di lire mentre era «notorio – disse –
che da molti anni tale spesa si aggira appunto attorno ai 40 milioni». Il deputato fascista accusava
inoltre gli enti di non fare altro che spendere i contributi statali senza partecipare con risorse
proprie alle spese per la gestione delle scuole; tanto valeva a questo punto che lo Stato
intervenisse in prima persona avocando a sé la gestione di quelle scuole anche al fine di non
avvalorare la tesi secondo la quale «un ente privato è migliore amministratore dello Stato stesso».
Bascone, evidentemente conscio delle resistenze che avrebbe trovato, si limitò a
proporre momentaneamente il passaggio allo Stato «dell’amministrazione delle scuole non
classificate» e non della vera e propria gestione delle scuole rurali, che sarebbe rimasta agli enti
delegati così come stabilito dalla Riforma Gentile del 1923. Quanto fosse diffusa tra le gerarchie
l’idea che si dovesse quanto prima giungere alla fascistizzazione della scuola rurale, in ossequio al
principio secondo il quale la scuola era una funzione esclusiva dello Stato, lo dimostra il fatto che
Bascone volle tradurre la sua proposta in un ordine del giorno che fu sottoscritto da altri
ventinove deputati234. Al fine di scongiurare che la divisione tra i fautori e i contrari al ricorso agli
enti privati si manifestasse in modo plastico, il documento non venne messo ai voti ma ritirato
dopo l’intervento del ministro Giuliano che promise che sarebbe stato suo intendimento fare di
quella proposta un «argomento di studio».
Si deve a questo proposito dire che se l’Opera Balilla non era ancora entrata in possesso
della gestione diretta delle scuole non classificate sparse in tutto il territorio nazionale, essa era
tuttavia riuscita ad allungare i suoi tentacoli ugualmente all’interno delle scuole di campagna (sia
nelle scuole rurali gestite dallo Stato, che in quelle non classificate gestite dagli enti) attraverso
altri tre strumenti: il tesseramento degli alunni a cui veniva concesso il titolo di Balilla e Piccole
Italiane; l’educazione fisica affidata ad un istruttore dell’Onb 235; la politicizzazione
234
Questo il testo dell’ordine del giorno: «La Camera, ritenuto che la scuola è funzione esclusiva
dello Stato e pertanto convinta che, mentre il funzionamento didattico di tutte le scuole
pubbliche e private deve essere regolato con norme governative, l’amministrazione delle scuole
pubbliche deve essere affidata agli organi diretti dello Stato, salvo casi eccezionalissimi, in cui si
possa consentire, con evidente vantaggio della scuola, la partecipazione di enti pubblici, che col
proprio contributo assicurino il migliore sviluppo delle istituzioni scolastiche e diano assoluta
garanzia di osservanza delle leggi regolatrici dell’istruzione, anche per quanto riguarda i legittimi
interessi materiali e morali degli insegnanti, fa voti che siano avocate alla diretta dipendenza e
amministrazione dei competenti organi statali le scuole non classificate, che attualmente sono
amministrate da enti privati col solo ed esclusivo contributo dello Stato». Il documento venne
firmato dai deputati: Bascone, Preti, Calza Bini, Guglielmotti, D’Angelo, Monastra, Bigliardi,
Oppo, Clavenzani, Pottino di Capuano, Ducrot, Maggio, Caldieri, Capri-Cruciani, Riolo,
Gangitano, Bifani, Spinelli, Marelli, Arnoni, Ercole, Madia, Trapani-Lombardo, Peretti, Bibolini,
Natoli, Landi, Di Giacomo, Crò e Locurcio (La Scuola alla Camera, «I diritti della scuola», n. 29, 1
maggio 1932, p. 445).
235
Con effetto dal 26 dicembre 1927 la formazione sportiva in tutti i tipi di scuola passò sotto la
competenza dell’Onb. Dopo che la competenza era stata interpretata da parte di alcuni Comuni,
che avevano conservato l’amministrazione scolastica autonoma, quale esonero dall’obbligo di
organizzare e finanziare l’istruzione sportiva, nell’agosto 1929 Ricci corse ai ripari con un decreto
che obbligava i Comuni a garantire l’insegnamento sportivo, controllato e coordinato dall’Onb.
Cfr. J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime fascista (1922-1943), Firenze, La
Nuova Italia, 1996, p. 332.
88
dell’insegnamento con la celebrazione del Duce e del Regime. Il livello di fascistizzazione della
scuola rurale, dunque, non doveva essere così diverso rispetto a quello che doveva caratterizzare
il resto delle scuole elementari. Ma paradossalmente proprio questo aspetto finì per essere
utilizzato dai dirigenti degli enti delegati come la riprova del fatto che le scuole da loro gestite
seguivano in maniera rigorosa la linea politica del Regime e che il processo di politicizzazione
della scuola si era realizzato nelle campagne italiane per merito delle associazioni che ora
venivano messe sotto accusa. Si trattava di una strategia ampiamente adottata in particolare da
Marcucci che più volte si prodigò per rassicurare i gerarchi del fascismo del fatto gli enti
operavano in perfetta collaborazione con le istituzioni del Regime avendo improntato
l’insegnamento allo spirito nuovo che si era affermato in Italia con la Rivoluzione fascista. Al
contempo il fondatore delle Scuole dell’Agro Romano faceva insistenti raccomandazioni anche ai
dirigenti delle altre associazioni delegate affinché collaborassero con le organizzazioni del Regime,
catturandone la simpatia e la stima. Nel novembre 1930, ad esempio, scriveva a Codignola
invitandolo a mandare alcune maestre dell’Ente Nazionale di Cultura a seguire i corsi della
«Scuola femminile fascista di agraria» di Sant’Alessio, cioè dell’apposita scuola per la formazione
delle maestre rurali, fondata nel 1927 sotto gli auspici del segretario del Pnf, Augusto Turati, al
fine di creare una fucina di insegnanti di sicura fede politica destinati a diffondere nelle scuole di
campagna italiane i sentimenti di italianità e di amore verso le istituzioni del regime. La nuova
scuola, che sorgeva nell’Agro romano, era stata affidata alle cure proprio di Marcucci il quale si
sforzò di dimostrare come le allieve-maestre vi ricevevano «una vera educazione fascista e rurale»,
come attestavano la visita a quell’istituto di Mussolini e l’apprezzamento espresso da alti gerarchi
come Belluzzo, Federzoni, Fedele e Marescalchi236. Il fatto che la scuola di Sant’Alessio potesse
diventare agli occhi di Marcucci un’occasione per valorizzare gli enti delegati e metterli al riparo
dagli attacchi mostrando la loro specchiata condotta ligia ai desideri del regime, è testimoniato
bene da un passo della sopracitata lettera a Codignola:
Il nostro lavoro, si collega in certo modo, con quello della Scuola di S. Alessio e, per questo tramite, si accredita
sempre più presso le alte sfere del Partito. Per ciò conviene che ogni Ente invii suoi insegnanti a quella Scuola, che,
in tal modo si inquadra col movimento che stiamo svolgendo alla più lontana periferia per la Scuola rurale.
Certamente anche l’Ente avrà inviato le sue due insegnanti, che sarebbe bene quest’anno fossero tre,
comprendendosi due romagnole. Io quasi certamente, quest’anno non potrò occuparmi di S. Alessio, essendomi
l’incarico della direzione, nelle attuali condizioni di fatto, troppo gravoso 237.
Muovendosi sulla stessa linea d’onda, volta ad accreditare l’idea secondo la quale le associazioni
delegate fossero perfettamente fedeli al Regime e artefici dell’opera di fascistizzazione della scuola
rurale, Marcucci aveva pubblicato proprio in quei mesi del 1930 un lungo studio sugli «Annali
dell’istruzione elementare» che rappresentò una risposta indiretta agli oppositori degli enti. Scrisse
a questo proposito:
236
Il Pnf si avvalse in un primo momento anche della collaborazione di Aurelia Josz, guida e
mente della scuola agraria di Niguarda attiva già da oltre un venticinquennio. Ma quando ella
comprese che si volle dare alla scuola un carattere prettamente politico ed autocelebrativo del
Regime si distanziò. Ebrea, subì le persecuzioni razziali dopo il 1938. Arrestata nel 1944 e
condotta nel campo di Fossoli, morì in un campo di concentramento in Germania. Cfr.
D’Annunzio, Aurelia Josz (1869-1944), cit., pp. 90-91.
237
AEC, Corrispondenza, Lettera di Marcucci a Codignola, 2 novembre 1930.
89
Tutti gli Enti che attualmente reggono le scuole non classificate, perfettamente devoti al Regime se ad esso
preesistenti, nati nel seno del Regime se costituite appunto per dare applicazione alla legge del 1° Ottobre 1923,
hanno subito improntato ogni insegnamento ai supremi principi morali e politici della Rivoluzione Fascista: l’amore
di Patria, diffuso e cresciuto, alimentato con ogni più acconcio mezzo; la valorizzazione e quindi la devozione alle
nuove istituzioni che la rinnovata vita nazionale, al lume della dottrina fascista, si veniva creando, pel bene supremo
della Patria, oggettivando ogni sforzo, ogni successo, ogni idealità nella dominante persona del Duce238.
A dimostrazione della sua tesi, egli ricordava il contributo delle «scuolette rurali gestite
dagli Enti» alla buona riuscita delle iniziative del Regime, talvolta rese possibili nei paesi isolati e
sperduti di campagna o di montagna solo grazie alla «forza d’animo e di volontà» del maestro,
uno dei pochi capaci ad organizzare e mobilitare le persone. Citava, a questo proposito, la
propaganda per il prestito per il dollaro, la partecipazione «cordiale e piena alle elezioni
plebiscitarie», alle «cerimonie patriottiche» e la formazione di nuclei di Balilla e Piccole Italiane
che era andata progressivamente estendendosi tanto che se alla data del febbraio 1927 gli alunni
delle scuole rurali gestite dalle associazioni iscritti all’Onb erano poco più di 50.000, all’inizio del
1929 erano raddoppiati a 100.401, di cui 58.984 Balilla e 41.417 Piccole Italiane239. Né vere erano,
secondo Marcucci, le accuse rivolte agli enti delegati secondo le quali nelle loro scuole non veniva
impartita una vera educazione politica come dimostravano alcuni fatti: «squadre dei Balilla e delle
Piccole Italiane delle scuole non classificate, non manca[va]no mai alle celebrazioni nazionali nei
piccoli centri»; «ogni domenica, in moltissime scuole, essi ven[ivano] riuniti per assistere alla
Messa e per brevi esercitazioni di squadra»; «in alcune province della Marche, del Veneto e del
Lazio, hanno con l’assenso delle superiori autorità e dell’O.N.B. formato centurie e legioni rurali,
meritando speciali encomi»240.
Tali garanzie non erano però più sufficienti nei primi anni Trenta. L’assedio alla scuola
rurale si fece più intenso, infatti, con la salita al potere nel luglio 1932 del nuovo ministro
dell’Educazione Nazionale, Francesco Ercole. È bene ricordare che egli era stato uno dei
firmatari dell’ordine del giorno presentato dal deputato Bascone pochi mesi prima alla Camera
con cui era stata chiesta l’avocazione delle scuole non classificate allo Stato. La sua posizione,
quindi, su questo argomento era nota da tempo e non occorrerà molto per vedere quali azioni
avrebbe messo in campo. A partire dai primi mesi del 1933, infatti, gli enti delegati venivano per
volere del ministro sottoposti ad una ispezione sotto il profilo contabile e amministrativo,
presentata come un atto conoscitivo ma in realtà finalizzata ad indebolire gli enti e ad intimorirne
i dirigenti241. Costoro, peraltro, non tardarono a intuire che dietro questa mossa ci fosse una
precisa ostilità verso la loro opera come dimostrano le parole dall’ispettore Francesco Bettini
scritte nell’aprile 1933 in una lettera a Gian Cesare Pico, uno dei principali animatori del Gruppo
d’azione delle scuole del popolo di Milano:
238
A. Marcucci, Le scuole non classificate e l’opera degli enti delegati, «Annali dell’istruzione elementare»,
n. 4-5, ottobre 1932, p. 55.
239
Ivi, p. 57.
240
Ivi, p. 59.
241
Uno dei pochi commenti sull’ispezione ministeriale, se non l’unico, apparsi su un giornale
favorevole agli enti delegati, fu quello pubblicato su «La nuova scuola italiana» il 12 febbraio 1933
in cui era scritto: «Pare che il Ministero abbia ritenuto opportuno diminuire il lavoro all’ispettore
comm. dott. Senesi che aveva il compito di ispezionare tre associazioni (Consorzio Emigrazione e
Lavoro, Ente Pugliese di cultura e Gruppo delle Scuole del Piemonte) affidando l’ispezione delle
Scuole del Gruppo piemontese all’ispettore centrale comm. Francesco Lepore» (Ispezione
ministeriale nelle Scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 20, 12 febbraio 1933, p. V).
90
Certa è anche una cosa: che egli [l’ispettore ministeriale] è per principio contrario agli Enti. A tutti; non a quelli che
ha veduto in funzione. Peccato che non abbia avuto modo, o tempo, o incarico di vedere da vicino, nelle scuole, con
agio e comodità, ciò che facciamo per gli ambienti, per gli insegnanti e, di riflesso, per tutte le scuole! E avesse anche
potuto fare un confronto adeguato! Io spero non solo che l’indagine, anche così come è stata condotta, dia risultati
favorevoli, ma giovi. Può essere l’inizio di uno sforzo per la utilizzazione di una attività preziosa242.
Come ha avuto modo di ricordare successivamente Marcucci, l’inchiesta ministeriale fu accurata
ma non diede i frutti attesi:
L’ispezione sull’opera degli Enti delegati ordinata con ampio mandato dal ministro Ercole, fu lunga e minuziosa. Sei,
fra Capi divisione ed Ispettori superiori, si divisero il lavoro; ispezionarono uffici, visitarono scuolette rurali,
esaminarono archivi e bilanci contabili, interrogarono alunni, famiglie e autorità locali; estesero la loro indagine anche
sull’andamento tecnico delle scuole, benché scarsamente competenti in questioni didattiche; ma dovevano cercare, e
trovare, il pelo nell’uovo! Non lo trovarono; tutti gli Enti erano in regola… 243
Frattanto, mentre era in corso l’ispezione, si svolse nel marzo 1933 la discussione
parlamentare sul bilancio dell’Educazione nazionale. Nel dibattito alla Camera l’onorevole
Bascone poté dirsi finalmente soddisfatto dal nuovo ministro perché aveva preso in esame il
problema delle scuole affidate agli enti delegati, disponendo un’ispezione generale che avrebbe
valutato meglio i risultati dell’insegnamento da esse impartito che spesso erano «assai
deficienti»244. Né era più tollerabile secondo Bascone che lo Stato continuasse a delegare ad
associazioni private una parte del suo compito di formare i futuri cittadini fascisti, soprattutto alla
luce del recente provvedimento con il quale era stata disposta l’avocazione allo Stato delle scuole
ritenute dai grandi Comuni e del calo dell’analfabetismo tra i bambini 245. «È assurdo che anche
alle porte di Roma vi siano scuole urbane amministrate dagli enti delegati», esclamò Bascone
concludendo il suo intervento alla Camera sollevando commenti e interruzioni, come si legge dal
resoconto stenografico246. Il dibattito si fece, infatti, animato perché si alzò a parlare il deputato
Severini che in un lungo intervento difese ad oltranza gli enti delegati. Ricordò, in primo luogo,
che essi erano stati «creati e voluti da due leggi fasciste», quella del 1923 e quella del 1926, e che
pertanto erano prive di fondamento le critiche secondo le quali le associazioni non rispondevano
alle volontà del Regime. Proponeva semmai di valutare in modo sereno l’intera esperienza degli
enti delegati tirando un bilancio: se non avessero corrisposto ai fini previsti in quelle leggi sarebbe
stato logico abolirli immediatamente, in caso contrario sarebbe stato doveroso un intervento del
242
La lettera di Bettini a Pico del 3 aprile 1933 è stata pubblicata in Rossi, Il Gruppo d’azione per le
scuole del popolo di Milano, cit., p. 221.
243
A. Marcucci, La scuola di Giovanni Cena, p. 219.
244
La discussione parlamentare sul Bilancio del Ministero dell’E. N., «La nuova scuola italiana», n. 25, 19
marzo 1933, p. V.
245
Una norma contenuta nel Testo Unico del 14 settembre 1931, n. 1175, aveva disposto il
passaggio allo Stato di tutte le scuole elementari rimaste ai grandi Comuni a partire dal primo
gennaio 1932. A causa delle difficoltà insorte per rendere operativa questa norma furono concessi
due anni di tempo. Il successivo R.D. 1 luglio 1933, n. 786 disponeva la soppressione della
competenza sulla scuola degli ultimi Comuni autonomi a partire dal primo gennaio 1934 (Cfr.
Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 434-435).
246
La discussione parlamentare sul Bilancio del Ministero dell’E. N., «La nuova scuola italiana», n. 25, 19
marzo 1933, p. V.
91
governo contro gli «aspri attacchi» che venivamo mossi 247. In secondo luogo Severini negò che gli
enti turbassero «il concetto totalitario della scuola di Stato» poiché erano essi stessi «nella cerchia
statale»; inoltre a suo modo di vedere il concetto totalitario della scuola doveva «riferirsi al fine da
raggiungere e non già ai mezzi da adoperare» e pertanto era giustificabile se in taluni ambienti
difficili per condizioni economiche e topografiche si ricorreva all’ausilio di altri enti che
concorressero all’obiettivo finale. In terzo luogo il deputato dimostrò l’infondatezza per la quale
le scuole non classificate non fossero economiche, affermando che grazie ad esse il ministero
risparmiava circa 12 milioni di lire all’anno. Né era vero a giudizio dell’onorevole Severini che gli
enti sfuggissero al controllo dello Stato poiché essi potevano essere ispezionati dal ministero, così
come le scuole potevano essere oggetto di controlli da parte dei provveditori. Il vero potere in
capo alle associazioni e non allo Stato, riconosceva il deputato, era quello direttivo secondo il
quale ognuna di esse aveva la responsabilità in fatto di gestione scolastica, ma tale diritto non era
alienabile se non determinando la soppressione degli enti stessi248. Altre parole furono spese da
Severini in difesa degli ispettori e dei direttori di zona in servizio presso le associazioni accusati di
arricchimento personale, di svolgere un lavoro troppo leggero rispetto al compenso e di ricevere
«favolosi» guadagni249.
Che il clima per gli enti delegati fosse cambiato con l’arrivo di Ercole al ministero apparve
chiaro non solo per l’avvio dell’ispezione di cui si è fatto cenno prima, ma anche per una pioggia
di circolari che intensificano il controllo sulle associazioni e mostrarono chiaramente la volontà
dello Stato di dettare loro la linea di intervento. Il 26 dicembre 1932, infatti, veniva inviato ai
provveditori e ai presidenti degli enti delegati una circolare in cui si stigmatizzava il fatto che non
tutte le associazioni avevano allegato i verbali di visita alle scuole ai consuetudinari rapporti
informativi sui maestri delle scuole non classificate recapitati ai regi ispettori250. Con altra circolare
emessa il 28 luglio 1933 il ministero prescriveva tassativamente che i corsi che gli enti avrebbero
organizzato durante l’estate per la preparazione dei maestri comprendessero un «conveniente
numero di lezioni» su materie di cui era evidente la finalità politica: cultura fascista, religione,
educazione fisica, igiene e nozioni sanitarie, nozioni relative all’alta montagna251. In particolare la
disciplina «Cultura fascista» doveva permettere ai maestri delle scuole non classificate di
conoscere l’ordinamento politico stabilitosi in Italia dopo il 1922, affinché potessero «svolgere
opera di volgarizzazione della dottrina fascista» mentre l’educazione fisica doveva essere impartita
«secondo i programmi compilati dall’O.N.B. per le scuole elementari»252. Infine, nel settembre
1933 veniva firmata un’altra circolare in cui si comunicava l’intenzione di mettere fine al
fenomeno della «sclassificazione» delle scuole, contro cui si erano scagliati in passato l’Anif e
numerosi deputati, tra cui Bascone253. Si poteva derogare a tale norma solo inoltrando richiesta al
ministero nei casi in cui si trattasse di scuole classificate non ubicate in capoluoghi di comuni, le
247
Il discorso dell’on. Severini. La mirabile opera degli Enti delegati e il giudizio degli stranieri, «La nuova
scuola italiana», n. 26, 26 marzo 1933, pp. 774-776.
248
Ibid.
249
Il discorso dell’on. Severini, «La nuova scuola italiana», n. 27, 2 aprile 1933, p. 815.
250
I rapporti informativi dei maestri delle scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 13-14, 1
gennaio 1933, p. VIII.
251
Corsi di preparazione per i maestri delle scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 41, 15
agosto 1933, p. III.
252
Ibid.
253
Scuole non classificate per l’anno scolastico 1933-34, «La nuova scuola italiana», n. 2, 1 ottobre 1933,
p. IV.
92
quali da un biennio avessero avuto un numero di frequentanti inferiore a trenta. Quanto alle
scuole non classificate di nuova istituzione, il ministero diede la possibilità ai provveditorati di
aprirne in numero assai limitato e comunque tenendo presente che esse non potevano essere
attivate nei capoluoghi, ma solo nelle frazioni e borgate.
L’anno scolastico 1933-34 iniziava, dunque, per gli enti delegati tra molte ombre, mentre
si susseguivano le voci nei corridoi ministeriali su imminenti provvedimenti del governo. Si
arrivò, quindi, alla metà di novembre quando la notizia che in molti si attendevano apparve sui
giornali. Alla stampa era stata infatti diramato un «comunicato ufficioso» in cui si preannunciava
che a partire dal successivo anno scolastico 1934-35 la gestione delle scuole rurali uniche
funzionanti nel territorio dei provveditorati agli studi di Genova, Torino, Milano, Venezia,
Bologna, Firenze, Napoli e Campobasso sarebbe stata tolta alle associazioni che fino ad allora la
detenevano e affidata all’Opera Balilla, mentre le scuole rurali uniche sottoposte al provveditorato
di Trieste sarebbero state consegnate all’Opera nazionale di assistenza all’Italia Redenta254. Degli
enti attivi fino a quel momento sarebbero perciò rimasti in funzione, oltre all’Onair e all’Onb,
solo l’Ente pugliese di cultura e le Scuole per i contadini dell’Agro romano. Commentando tale
notizia «I diritti della scuola» dichiararono di ignorare se questo provvedimento era stato preso
sulla scorta dei risultati dell’ispezione alle scuole degli enti poiché fino ad allora «il ministro non
fece mai saper nulla» dell’inchiesta stessa255. La rivista magistrale affermava inoltre che da quello
che si era appreso ufficiosamente non erano state trovate irregolarità e che le poche indicazioni
fornite dagli ispettori al ministero vertevano sulla necessità di ridurre il numero delle associazioni
a due soltanto: l’Onair e l’Onb256. All’apparenza distaccato ma in realtà gelido era il commento a
quanto stava accadendo de «La nuova scuola italiana», la rivista codignolana legata all’Ente di
Cultura, una delle associazioni colpite dal nuovo provvedimento che le avrebbe sottratte le scuole
rurali della Toscana e dell’Emilia:
Il provvedimento non giunge nuovo giacché era da tempo intenzione del Ministro di accentrare in pochi Enti il
servizio delle scuole rurali non classificate, allo scopo di poter meglio dare uniformità di indirizzo e per poter
effettuare meglio il necessario controllo257.
La notizia in effetti non era nuova per gli addetti ai lavori, ma sorprese il fatto che essa
fosse stata diffusa alla stampa per mezzo di un comunicato uscito in forma ufficiosa dagli
ambienti ministeriali senza che nessun provvedimento legislativo fosse stato ancora adottato258.
Tuttavia ai protagonisti della vicenda appariva chiaro che oramai i giochi erano stati già compiuti
e non si sarebbe potuto più tornare indietro. Una consapevolezza che alimentò tanta amarezza
nei dirigenti delle associazioni colpite da quella decisione e perfino qualche recriminazione, come
254
Il comunicato venne pubblicato sia da «I diritti della scuola», che da «La nuova scuola italiana».
La prima rivista precisava che si trattava di un «comunicato ufficioso». Cfr. Nelle scuole rurali delle
Associazioni delegate, «I diritti della scuola», n. 7, 19 novembre 1933, pp. 103-104; La gestione delle
scuole uniche rurali, «La nuova scuola italiana», n. 9, 19 novembre 1933, p. VI.
255
Nelle scuole rurali delle Associazioni delegate, «I diritti della scuola», n. 7, 19 novembre 1933, pp.
103-104.
256
Ibid.
257
La gestione delle scuole uniche rurali,«La nuova scuola italiana», n. 9, 19 novembre 1933, p. VI.
258
Lo spoglio degli atti prodotti dal ministero dell’Educazione Nazionale in quel lasso di tempo
ha confermato che non fu adottato nessun tipo di provvedimento legislativo prima dell’uscita del
comunicato.
93
quella che Pico manifestò in una lettera a Lombardo Radice verso il presidente del Gruppo di
Azione per le scuole del popolo, Gioacchino Volpe, accusato di non aver patrocinato in maniera
adeguata la causa del proprio ente presso il governo. Scrisse a questo proposito Pico il 26
novembre 1933:
Ora che le scolette passano all’O.N.B. mi sembra d’essere mutilato. Speriamo che sia compresa anche l’eredità
spirituale, intellettuale che lasciamo, altrimenti sarebbe grande mortificazione. Questa per vero l’abbiamo già avuta
con l’esclusione (dal passaggio all’O.N.B.) delle scuole del Marcucci e dell’Ente Pugliese specialmente. Certamente
non siamo stati sostenuti dal nostro Presidente 259.
Una certa acredine emergeva dalla lettera di Pico anche per il trattamento di favore
riservato ai due enti delegati risparmiati dalla scure del ministero: l’Ente pugliese di cultura,
salvato grazie alla protezione di Starace, e le Scuole dell’Agro Romano, premiate grazie al fatto
che il loro presidente fosse l’ex ministro Fedele. Non destò particolari meraviglie, invece, il
mancato ritiro della delega all’Opera nazionale di assistenza all’Italia Redenta poiché essa, come è
noto, godeva del patronato della Duchessa d’Aosta. Sul finire del 1933 Marcucci, che pure aveva
visto le sue scuole dell’Agro romano salve, si diceva in una lettera a Pico del 18 dicembre 1933
ugualmente disgustato per l’approvazione con cui taluni osservatori, tra cui il pedagogista Calò260,
avevano salutato la liquidazione dell’esperienza degli enti delegati. Scrisse Marcucci:
259
Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p. 223.
Scrisse Calò: «Bisogna salutare con sincero compiacimento un recente decreto che, com’era dal
resto da attendersi e come noi ci attendevamo da un pezzo, ristabilisce in pieno la coerenza e
l’uniformità nelle direttive di Governo riguardo all’amministrazione delle scuole non classificate
[…] E il compiacimento con cui questa misura va salutata non deve suonare misconoscimento di
quello che per molti anni molti volenterosi – dove più dove meno – hanno fatto, nei singoli Enti,
sostituendo o integrando l’opera dello Stato, con operoso amore alla scuola rurale. Ma è un fatto
che non poteva non costituire una stonatura, anzi addirittura una contraddizione – come altra
volta avemmo occasione di rilevare –, il mantenere la quasi totalità delle scuole uniche rurali alla
dipendenza di Enti delegati, cioè di Enti operanti e amministranti con larghissima, e quasi
insindacabile, autonomia, quando si decretava il passaggio allo Stato delle Scuole dipendenti dai
grandi Comuni. Se ragioni politiche, almeno ideali, vi erano – non discutiamone qui il grado di
pratica necessità –, di rigorosa unità e di accentramento nelle mani dello Stato, per quest’ultimo
provvedimento, non si vede, in via di pura coerenza, perché esse dovessero valere soltanto per i
grandi Comuni, Enti autarchici ormai spiritualmente e giuridicamente fascistizzati, inseriti
organicamente nell’amministrazione statale, e controllati dai pubblici poteri nei loro bilanci e nei
loro atti amministrativi; quando poi i grandi Comuni avevano a loro favore una tradizione di
larghe e feconde iniziative, un’attrezzatura, generalmente, di prim’ordine, un’organizzazione,
d’uomini e d’istituzioni, fondata su un’esperienza di bisogni, su uno spirito di emulazione e di
beninteso amor proprio, spesso su un prestigio di memorie e di glorie locali, che difficilmente
potevano essere sostituiti […] Non sappiamo i motivi – certo apprezzabilissimi, e forse non
difficilmente intuibili – che han fatto escludere dal provvedimento due Enti così benemeriti, nel
territorio speciale loro affidato, cioè il Comitato per le scuole dei contadini dell’Agro romano e
l’Ente Pugliese di Cultura […] Ma è chiaro che l’Opera Nazionale Balilla – pur se la decretata
misura non costituisca una fase transitoria e preparatoria a una più netta e radicale e letterale
statizzazione di tutte le cinquemila scuole classificate esistenti in Italia – è destinata a segnare,
assumendosi essa la gestione delle scuole di quasi tutti gli Enti finora delegati, una sostanziale
statizzazione o un’approssimazione verso l’assoluta statizzazione di tutte le scuole rurali che in
gran parte d’Italia vivevano sin qui in uno stato giuridico e amministrativo speciale» (G. Calò,
Scuole…fuori classe, «Vita scolastica», n. 8-9, ottobre-novembre 1933, pp. 1-7).
260
94
Scusa lo sfogo; io sono sempre nel dolore di quanto è avvenuto e trepido per quanto avverrà, e l’amaro all’anima mi
viene subito alla bocca a ogni provocazione, ritenendo come tale quello scialbo scritto del “Corriere” e altri che mi
arrivano? Hai letto quello di Calò sulla “Vita scolastica”? Chissà quali vecchi rancori costui cova verso gli Enti che
pur molto onore fanno anche a lui alla Mostra di Firenze! Demagogia e di quella buona! Possibile che di tutto quello
che si è fatto in 13 anni (e per me 27 anni) non conduca altro che a deplorare il trattamento degli insegnanti? Perché
non si parla dei professori medi incaricati, pagati a 6 lire lorde l’ora, quando fanno scuola, di storia, di latino, di
letteratura ecc.? Non conduca altro a insinuare che siamo negrieri impinguati come le zanzare di sangue altrui?
Risultati didattici, scuole costruite, Fascismo vero, disciplina, costume morale e professionale, bellezza e ordine e
pulizia dove prima era una stomachevole spettacolo, tutto ciò non lo vedono, questi signori, che solo in avvenire
sperano di proclamare il trionfo della scuola rurale. Nelle nostre mani questa povera scuola non è stata che
sfruttamento! Siamo in giro da 10-20 anni a fare esperienze d’agraria, d’igiene, di morale civile per sentirci buttare
addosso a palate la terra della sepoltura mentre siamo ancora vivi 261.
La notizia del ritiro della delega a gran parte delle associazioni anticipata nel novembre
1933 si tramutò in realtà con il D.M. 15 giugno 1934 che stabiliva, come già detto, il passaggio
alle dipendenze dell’Opera Balilla a partire dal successivo anno scolastico fino al compimento del
quinquennio (iniziato nel 1931-32 e destinato a terminare nel 1935-36) delle scuole rurali uniche
della Lombardia, del Piemonte, del Veneto, della Liguria, dell’Emilia, della Toscana, della
Campania e del Molise, gestite fino ad allora dall’Umanitaria, dal Gruppo di Azione per le scuole
del popolo, del Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte, del Comitato ligure per
l’educazione del popolo, dell’Ente nazionale di cultura, dal Consorzio Emigrazione e Lavoro262.
Rimanevano in funzione le Scuole dell’Agro Romano nel Lazio, in Abruzzo, nelle Marche e in
Umbria mentre l’Ente pugliese di cultura poteva continuare a operare in Puglia e Lucania; infine,
l’Onair poté mantenere la delega nella Venezia Tridentina, a cui aggiunse la Venezia Giulia263.
Intervenendo alla Camera nel gennaio 1934 per la consueta discussione del bilancio
dell’Educazione Nazionale, il ministro Ercole ringraziò gli enti per la loro opera svolta fino ad
allora, citando in particolare l’Ente di cultura nazionale e il Gruppo di Azione per le scuole del
popolo di Milano, e al contempo difese la scelta di mantenere la delega a quattro associazioni
(Obn, Onair, Ente pugliese di cultura e Scuole per i contadini dell’Agro Romano) per «ragioni
locali o speciali di varia natura», rassicurando che su di loro sarebbe stata sempre «operosa e vigile
la presenza del controllo statale»264.
Il fatto che questa situazione non sarebbe durata a lungo e che prima o poi il Regime
avrebbe messo le mani sulle scuole gestite dall’Ente pugliese di cultura e dalle Scuole per i
contadini dell’Agro romano, era chiaro anche ai diretti interessati. Il primo a non farsi illusioni era
lo stesso Marcucci, il quale nel marzo 1934 scriveva a Pico che i «due Enti superstiti [avrebbero
seguito] a distanza di pochi mesi gli altri». Inoltre, quasi a volersi giustificare del fatto che la sua
261
La lettera di Marcucci a Pico del 18 dicembre 1933 è stata pubblicata in Alatri, Una vita per
educare, tra arte e socialità, cit., pp. 163-164.
262
Cfr. R. Marzolo, La scuola rurale dell’Opera Balilla, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1,
febbraio 1935, p. 19. L’ente che cedeva il maggior numero di scuole era quello fiorentino, l’Ente
nazionale di cultura (1.031 scuole rurali uniche), seguito dal Gruppo d’azione per le scuole del
popolo di Milano (715 scuole rurali uniche), dal Consorzio Emigrazione e Lavoro (504), dal
Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte (411), dall’Umanitaria (329) e dal Comitato
Ligure per l’educazione del popolo (193) (Ivi, p. 20).
263
«Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 29, 17 luglio 1934, pp. 15061507.
264
Echi del Bilancio dell’Educazione nazionale, «I diritti della scuola», n. 14, 21 gennaio 1934, p. 224.
95
associazione era stata salvata dalla scure del ministero, ricordava a Pico gli errori compiuti in
passato dall’Animi, dal Gruppo milanese e dall’Ente di cultura del Codignola che a suo modo di
vedere erano stati la vera causa della scelta punitiva del governo. Scrisse Marcucci:
Certo che ricordando la storia delle scuole rurali, che è poi la mia storia, trovo che di gaffes ne sono state commesse,
mentre dal 1905 al 1927 tutto erasi svolto con ordinata progressione e sicuri interessi; ma in parte l’Ass.
Mezzogiorno, in parte l’Ente toscano, in parte anche il Gruppo (scuole della Valtellina – contrasto Bascone etc.),
passi falsi si son fatti e siamo arrivati alla liquidazione. Dico liquidazione di tutti, perché, non c’è da farsi illusioni,
anche i due Enti superstiti seguiranno a distanza di pochi mesi gli alti 265.
Come temuto il colpo di grazia giunse con il D.M. 25 febbraio 1935 con cui il nuovo
ministro dell’Educazione Nazionale, Cesare De Vecchi Di Val Cismon, dispose per l’anno
scolastico 1935-36 il passaggio all’Onb delle scuole non classificate presenti nel territorio dei
provveditorati agli studi di Roma, L’Aquila, Ancona, Perugia, Bari e Potenza e di quelle presenti
nel territorio del Governatorato di Roma. In altre parole veniva in questo modo ritirata la delega
alle Scuole dell’Agro Romano e all’Ente pugliese di cultura266. Di certo dietro l’intervento di
qualche personaggio politico di spicco, forse Fedele o l’ex ministro Baccelli267, quel
provvedimento fu parzialmente corretto: con D.M. 2 maggio 1935 veniva riassegnato all’ente
diretto da Marcucci un esiguo gruppo di scuole rurali formato da quelle più antiche e prestigiose,
vale a dire quelle fondate da Giovanni Cena. Si trattava delle scuole non classificate funzionanti
nel territorio del Governatorato di Roma, di Carchitti nel comune di Palestrina, di Colle di Fuori
nel comune di Roccapriora, di Vivaro nel comune di Rocca di Papa e di Pantano Borghese nel
comune di Montecompatri268. Anche dal punto di vista formale si volle sanzionare la nuova
sistemazione giuridica data alle scuole non classificate: nel giugno 1935, sotto De Vecchi, esse
assunsero il nome di «scuole rurali», dopo che già nel luglio 1933 Mussolini aveva chiesto ad
Ercole se «la fantasia degli uffici» non fosse in grado di trovare «un termine meno umiliante e
deplorevole» di quello di «scuole non classificate»269.
265
La lettera di Marcucci a Pico del 12 marzo 1934 è stata pubblicata in Alatri, Una vita per educare,
tra arte e socialità, cit., p. 165.
266
«Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 13, 26 marzo 1935, pp. 893894.
267
C’è da rilevare che l’ex ministro della pubblica istruzione, Alfredo Baccelli, era intervenuto al
Senato nel gennaio 1934 come relatore del bilancio dell’Educazione Nazionale rivolgendo parole
di lode agli enti delegati e in particolare alle Scuole per i contadini dell’Agro romano (Il Bilancio
dell’E.N. in Parlamento, «I diritti della scuola», n. 13, 14 gennaio 1935, p. 207).
268
«Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 31, 30 luglio 1935, pp. 21532154.
269
Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 435. Il nome fu modificato in base al R.D. 20 giugno
1935, n. 1196. In particolare l’articolo 2 del decreto prevedeva quattro tipi di scuole elementari:
scuole di Stato, scuole rurali, scuole parificate e scuole sussidiate. Precisava il decreto: «Scuole di
Stato sono quelle direttamente amministrate dai Regi Provveditori agli studi; scuole rurali quelle
gestite per delega da enti di cultura; scuole parificate quelle tenute da enti, corporazioni e
associazioni e riconosciute a ogni effetto legale mediante apposita convenzione. Le scuole
sussidiate sono quelle aperte da privati, da enti o associazioni con l’autorizzazione del Regio
provveditore agli studi nelle forme e con le modalità stabilite dal testo unico 5 febbraio 1928, n.
577. Le norme in vigore che si riferiscono a scuole elementari classificate, non classificate e a
sgravio, si intendono rispettivamente applicabili alle scuole di Stato, alle scuole rurali e alle scuole
parificate».
96
Inquadrate le scuole secondo i desideri del Regime, De Vecchi abbandonò al loro destino
gli enti a cui era stata tolta la delega. Il caso più emblematico fu quello del Gruppo di Azione per
le Scuole di Milano che all’inizio del 1935 veniva fagocitato dal fascismo: con un colpo di mano
venne infatti sciolto il consiglio dell’associazione e nominato suo unico dirigente Camillo De
Amici, che ricopriva la carica di fiduciario provinciale dell’Associazione Fascista della Scuola
(Afs)270. Nessun altra concessione, peraltro, il ministro fece alle due associazioni superstiti.
All’ente guidato da Marcucci, ad esempio, che aveva chiesto di poter ampliare la propria azione
istituendo la quarta e la quinta classe nelle scuole che le erano rimaste, De Vecchi oppose un
fermo rifiuto271.
Assorbita dall’Opera Balilla, la scuola rurale divenne il terreno privilegiato per la
formazione del nuovo contadino fascista, le cui virtù dovevano essere la sobrietà, il coraggio e
l’operosità. La campagna era il luogo in cui vivere con alto senso di dignità la propria vita
semplice e frugale, in opposizione al lusso e alle comodità ostentate nelle città corruttrici
dell’anima dell’agricoltore, secondo canoni tipici della politica ruralizzatrice del Regime. I giovani
contadini potevano finalmente istruirsi in un ambiente sano, nel culto della Patria e nell’amore
per la propria terra, cosicché al vecchio motto «Libro e moschetto» – che dava l’idea di un
militante dedito a studio, esercizio fisico e uso delle armi per difendere la Rivoluzione –, se ne
poteva sostituire a detta del senatore Nicola Pende, un altro molto più calzante ad indicare la
«vera bonifica integrale della scuola fascista: Libro, moschetto e vanga»272. Le scuole rurali
dell’Onb erano, insomma, la vera fucina del nuovo italiano in cui la formazione si compiva
innanzitutto attraverso gli esercizi ginnici, le preghiere, il ricordo dei martiri fascisti, il lavoro nel
campicello. Scrisse a tal proposito nel 1936 il funzionario del ministero dell’Educazione
nazionale, Gustavo Sessa:
270
Questa vicenda è ben descritta in Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p.
231.
271
Il fatto è raccontato da Marcucci a Fedele, al quale chiese nel novembre 1936 di patrocinare
presso il nuovo ministro Bottai la causa dell’associazione. Scrisse Marcucci: «Siamo assillati da
richiesta in proposito. Quasi dovunque si reclama l’istituzione di sezioni elementari per la IV e la
V. Il Min.[istro] De Vecchi ce le ha negate, pur essendo la nostra richiesta perfettamente in regola
con la Legge e con la Convenzione da lui stesso stabilita col nostro Ente, in quanto non si
trattava di aprire scuole nuove, ma di ampliamento di quelle lasciateci, dovuto a cresciuta
popolazione ed a nuovi bisogni culturali in essa salutarmente destatisi» (ACS, Archivio Pietro Fedele,
b. 11, Lettera di Marcucci a Fedele, 13 novembre 1936).
Sempre nel novembre 1936 un altro protagonista del movimento degli enti, Pico, proponeva a
Codignola un improbabile programma di azione per la creazione delle classi quinte elementari
nelle scuole rurali, delle scuole materne e di corsi di preparazione per le maestre, destinato a non
essere realizzato: «Sì, il desiderio c’è e vivo di tenere i legami d’un tempo e ravvivarli. Occorre un
campo di lavoro. E non vedo che l’educazione degli umili. Le scuole per i rurali erano avviate, ma
secondo me non vi sono ancora: manca l’obbligo fino alla V, mancano le scuole materne (asili).
Questo è campo che noi conosciamo e potremmo preparare un piano di azione fascista. Certo
non bisogna far drizzare gli orecchi all’on. Ricci prima e all’on. Antonelli poi. Mi pare che si
dovrebbe cominciare dalla preparazione delle maestre rurali (Ist. Magistrale, Corsi estivi ed
annuali) all’arredo della scuola materna. E poi far parlare in tono quasi uniforme la stampa previo
accordo fra i colleghi e il partito. È questa l’ora opportuna, ma preparare si deve, senza indugio»
(La lettera di Pico a Codignola del 3 novembre 1936 è stata pubblicata in Cives, L’attività dell’Ente
di Cultura, cit., p. 144).
272
Cfr. N. Pende, La scuola fascista nella sua fase corporativa, imperiale e biologica, «Rivista pedagogica»,
n. 3, maggio-giugno 1937, p. 256.
97
Cresciuto nell’atmosfera fascista della scuola rurale, ogni alunno sente in sé i principi dell’uomo nuovo, desiderato dal
Duce; abituato fin dal primo giorno all’obbedienza, alla disciplina, alla gioia del rischio e dell’ardimento, alla cordialità
e all’entusiasmo, ama il lavoro e disprezza il pericolo; il suo motto è «Vivere pericolosamente». Egli veste con
orgoglio la divisa del Balilla; pronuncia con slancio ogni mattina il rituale «Presente» all’Eroe che dà il nome alla
scuola; recita con fervore la preghiera a Dio per il Duce; canta con orgoglio le canzoni della Patria; lavora con gioia il
campicello della scuola che gli darà gli ortaggi per la refezione scolastica; coltiva con passione i fiori per farne
omaggio all’Eroe; calza con soddisfazione le scarpe nuove donate dall’Opera Balilla; accetta volentieri la visita del
medico provinciale e si asside sorridente davanti al deschetto della refezione scolastica che la maestra ha preparato
con il suo aiuto273.
Il passaggio delle scuole rurali all’Opera Balilla era, infine, funzionale alla stessa organizzazione
giovanile e al suo presidente Renato Ricci che vedevano in tal modo accrescere il loro prestigio.
Le campagne, infatti, si erano mostrate più fredde nell’adesione all’Onb, essendo i giovani ed i
giovanissimi occupati a tempo pieno nei lavori agricoli e sopravvivendo talvolta sentimenti
antifascisti in talune famiglie contadine274. Ciò emergeva con chiarezza dal numero di iscritti
all’Opera Balilla riferito all’anno scolastico 1928-29: la situazione peggiore si registrava nelle
scuole gestite dall’Ente di Cultura Nazionale dove solo il 36% degli alunni era tesserato all’Onb,
percentuale che saliva al 38% per le scuole dell’Onair; nelle Scuole per i contadini dell’Agro
Romano il dato era del 45%, nel Gruppo di azione per le Scuole del popolo si arrivava al 50%275.
Negli altri casi la percentuale si attestava sempre sotto il 70%, ad eccezione del Gruppo di azione
per le scuole rurali del Piemonte che, stando a quanto è dato sapere, brillava per una cifra del
97%: infatti il Comitato Ligure si attestava al 68%, l’Umanitaria al 69%, l’Ente pugliese di cultura
al 70%, l’Ente sardo di cultura al 70%. Era nelle scuole gestite direttamente dall’Onb che, come è
anche facile immaginarsi, la percentuale di iscritti all’organizzazione giovanile era decisamente più
alta, attestandosi all’80%. Un numero che era destinato a crescere grazie alla mobilitazione di
maestri e dirigenti dell’Opera: nel 1931-32 la percentuale di tesserati all’Onb nelle scuole da essa
gestite era salita al 96% e nel 1934-35 al 99%276.
4.
La scuola rurale nello Stato corporativo: l’istruzione nelle campagne durante il ministero Bottai
Con l’avvento al ministero di Giuseppe Bottai, avvenuto nel novembre 1936, il processo
di fascistizzazione della scuola rurale italiana raggiungeva il suo punto più alto. Il nuovo titolare
dell’Educazione Nazionale, infatti, proseguì sulla strada iniziata dai suoi predecessori volta ad
intensificare il controllo sull’istruzione elementare nelle campagne e a conferire ad essa un più
spiccato «orientamento rurale», inserendo questo ramo dell’insegnamento nella più complessa ed
273
Cfr. G. Sessa, L’attività scolastica dell’Opera Balilla. Scuole rurali – Corsi e scuole per adulti, «Annali
dell’istruzione elementare», n. 2-3, luglio 1936, p. 106.
274
C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 143.
275
I dati sono tratti da A. Marcucci, Ordinamento delle Scuole rurali non classificate, «Annali
dell’istruzione elementare», n. 1, febbraio 1930, p. 57.
276
Cfr. Sessa, L’attività scolastica dell’Opera Balilla, cit., p. 115.
98
articolata costruzione rappresentata dalla «Carta della Scuola» che avrebbe modificato l’intero
edificio scolastico nazionale dopo la riforma Gentile277.
L’atto più importante da questo punto di vista fu l’avocazione allo Stato di quasi tutte le
scuole rurali d’Italia, stabilita con il R.D.L n. 1771 del 14 ottobre 1938. In base a questo
provvedimento a partire dal primo gennaio 1939 le scuole in passato gestite dall’Opera Balilla, a
cui si era sostituita nell’ottobre 1937 la sua naturale erede, la Gioventù Italiana del Littorio (Gil),
passarono alle dirette dipendenze del ministero, ad eccezione temporanea delle poche scuole
rimaste all’Ente Scuole per i contadini dell’Agro Romano, all’Onair ed agli enti di bonifica278.
Anche la definizione di scuola rurale mutò: venivano adesso considerate tali le scuole
elementari dei capoluoghi di Comuni, frazioni o borgate, con un numero di fanciulli obbligati
all’istruzione non superiore a 250 e non inferiore a 20, quando si trattasse di località abitate da
popolazione prevalentemente dedita all’agricoltura279.
Per venire incontro ai desideri dei maestri, che da tempo lamentavano la disparità di
trattamento con i colleghi delle scuole urbane, Bottai aprì la strada di una progressione di carriera
che faceva loro intravedere migliori condizioni salariali. In particolare un maestro appena uscito
dall’istituto magistrale dopo un triennio di prova diventava, salvo aver conseguito risultati
negativi, «stabile». Dopo cinque anni di servizio in una scuola rurale, si poteva partecipare al
concorso per il passaggio nei ruoli di quinta categoria: in base al primo concorso bandito nel 1939
furono assunti in ruolo con il nuovo anno scolastico 1.820 insegnanti, a cui si aggiunsero altri 771
l’anno successivo280. Poco dopo agli insegnanti fu assicurata anche la possibilità di passare nei
277
Sulla «Carta della Scuola» e sulla politica scolastica di Bottai la bibliografia è molto ampia.
Ricordiamo i lavori principali: A.J. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Roma-Bari, Laterza, 1978;
T.M. Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda (1935-1943), Bologna, Cappelli, 1978;
R. Gentili, Giuseppe Bottai e la riforma fascista della scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1979; M. Ostenc,
La scuola italiana durante il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 228-269; Charnitzky, Fascismo e
scuola, cit., pp. 440-469; De Fort, La scuola elementare italiana dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., pp.
429-480.
278
Ministero della Educazione Nazionale, Scuole Rurali, Roma, 1940, p. 5. Un’interessante opera
educativa svolta da un consorzio di bonifica fu quella animata dal marchese Antonio Origo e
dalla sua consorte, Iris Cutting, in Val d’Orcia, in Toscana, a partire dal 1935. Fin dal 1924 i due
coniugi avevano acquistato «La Foce», una fattoria di 1.400 ettari in una zona povera,
caratterizzata dalla presenza di colline argillose e di torrenti inariditi. Era iniziata così l’opera di
bonifica con la costruzione di sistemi idraulici, di strade e di case coloniche. Nel giro di poco
tempo gli Origo si convinsero che non ci potesse essere un vero miglioramento morale e
materiale delle condizioni dei contadini senza far sentir loro i benefici dell’istruzione e del sapere.
Vennero così aperte due scuole nel centro della tenuta a «La Foce», a cui se ne aggiunsero
successivamente altre due in località più isolate nella vallata, «San Pietro in Campo» e «Checche».
Il consorzio di bonifica chiese al ministero dell’Educazione nazionale la parificazione delle scuole
(il vecchio status giuridico delle scuole a sgravio), offrendosi in cambio di costruire gli edifici
scolastici, di arredarli e di provvedere alla refezione scolastica in autunno e in inverno. Tra il 1939
e il 1940 esse furono visitate da Alessandro Marcucci che vi riconobbe alcune caratteristiche
analoghe a quelle delle sue scuole sorte nell’Agro romano nei primi del secolo (A. Marcucci,
Bonifica e scuola in Val d’Orcia, «Annali dell’ordine elementare», n. 1, ottobre 1940, pp. 20-26;
riferimenti alle scuole anche in I. Origo, Guerra in Val d’Orcia: diario 1943-44, Montepulciano, Le
Balze, 2000).
279
Ministero della Educazione Nazionale, Scuole Rurali, cit., p. 6.
280
Cfr. G. Santini, Le scuole rurali nel triennio 1938-41, «Annali dell’ordine elementare», n. 1, ottobre
1941, p. 19.
99
ruoli di categorie superiori, in seguito a concorsi per titoli dopo un periodo di 10 o 15 anni di
servizio. Si provvide inoltre a migliorare la situazione economica dei maestri, sostituendo la diaria
e il premio di cui godevano, con una retribuzione annua, commisurata al servizio effettivamente
prestato, da una indennità commisurata alla qualità del servizio281.
Dal punto di vista quantitativo le scuole rurali alla data del primo gennaio 1939 erano 7.170;
nell’anno 1939-40 esse salirono a 7.529 e nel 1940-41 a 8.129. In quegli anni in molti casi si riuscì
ad estendere il corso elementare, con l’istituzione della quarta e talvolta della quinta classe. Dal
punto di vista amministrativo si deve inoltre dire che furono create in base a questa nuova
normativa 169 direzioni didattiche rurali, ognuna delle quali comprendeva da 45 a 50 scuole,
aumentate a 194 nell’anno scolastico 1940-41282.
Frattanto con il nuovo riordinamento del sistema educativo italiano previsto dalla «Carta
della Scuola», varata nel 1939 da Bottai, lo stesso concetto di scuola rurale compì un’evoluzione
rispetto a quello elaborato dalla pedagogia idealistica e tradotto in pratica dalla riforma Gentile, e
ancor prima a quello pensato da quella schiera di filantropi e benefattori che nei primi anni del
Novecento animò l’esperienza delle scuole per i contadini. Nell’arco di un quarantennio, notava
nel 1941 un alto funzionario del ministero, Carmelo Cottone, l’idea di scuola era venuta
trasformandosi a seconda delle esigenze e della temperie culturale del momento: se all’inizio la
scuola rurale era stata connotata in senso positivista, al punto che ad essere stato esaltato ne era
«il contenuto illuministico», con la riforma gentiliana l’accento era posto non tanto sulla «tutela e
la trasmissione delle verità e del sapere, quanto [su] un sapere che fosse strumento per altre
conquiste»283. In altre parole, ad essere privilegiato era il come si doveva apprendere, non più il
che cosa e così, «il problema della scuola rurale […] diveniva problema di particolari processi
didattici». Un ulteriore stadio nell’evoluzione storica del concetto di prassi educativa e,
conseguentemente, di scuola rurale, si ebbe, a giudizio di Cottone, con il fascismo. Esso,
facendosi promotore dell’inserimento delle masse contadine nella «vita politica nazionale»,
determinò la necessità di una nuova ridefinizione dell’idea di scuola rurale, compito che la riforma
bottaiana di quegli anni si era assunto di compiere. A questo proposito era possibile per Cottone
una sintesi ereditando quanto di buono vi era nella riforma Gentile e nella cultura positivista,
reinterpretata quest’ultima nel corso degli anni Venti e Trenta nella versione del «realismo
281
Nonostante i miglioramenti previsti per gli insegnanti, il nuovo provvedimento sulle scuole
rurali provocò le critiche dei fiduciari provinciali dell’Associazione fascista della scuola (Afs)
riunitisi in convegno a Roma. Le loro doglianze furono raccolte dal segretario del partito che
inviò un pro-memoria al ministro Bottai. Quest’ultimo, stimando che non si potessero accogliere
tali richieste, spiegò il suo punto di vista direttamente a Mussolini in una lettera del gennaio 1839
in cui scrisse: «L’A.F.S. avrebbe desiderato che le scuole rurali fossero integralmente incorporate
nelle scuole a tipo comune e che tutti i maestri fossero inquadrati nei ruoli di 5^ categoria. Ma
l’integrazione delle scuole rurali in quelle a tipo comune avrebbe importato l’annientamento, la
distruzione completa della scuola rurale come speciale tipo di scuola per i figli dei contadini»
(ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1937-39, 5.1.6598, Lettera di Bottai a Mussolini, 9 gennaio
1939).
282
Ivi, pp. 17-18. Il decreto del 1938 si interessava anche di altre questioni come i libri di testo, le
forniture scolastiche e l’arredamento delle scuole.
283
C. Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, «Scuola italiana moderna», n. 22, 1 giugno 1941, p.
280. Cottone era nato a Nuoro nel 1903. Divenuto maestro elementare prima, direttore e
ispettore poi, lavorò al Ministero negli anni in cui al vertice vi era Bottai (cfr. A. Calice, Ricordo di
Carmelo Cottone, in Educazione moderna e scuola di base: studi in onore di Carmelo Cottone, Brescia, La
Scuola, 1973, pp. 9-20).
100
pedagogico». A realizzarla sarebbe stata la Carta della Scuola, prendendo le distanze tanto dalle
posizioni idealistiche («Ruralità non vuol dire arcadicheria di maniera e letteraria, né senso
idilliaco e turistico della natura. La ruralità è stato d’animo che matura dalla coscienza della
problematicità che nasce dalla vita dei campi») quanto dalla concezione empiristica e positivistica
della formazione professionale per i contadini («la scuola rurale assumendo, come cultura,
l’istanza della vita dei campi tende a rompere il limitato cerchio dell’empirismo atavico e fa capo
alle ragioni tecniche dell’agricoltura»)284.
Dall’altra parte la riforma bottaiana puntando ad introdurre in Italia la cosiddetta Scuola
del lavoro – in base alla IX dichiarazione della Carta della Scuola che prevedeva di preparare al
lavoro manuale i ragazzini dal nono all’undicesimo anno di età per mezzo di «esercitazioni
pratiche, organicamente inserite nei programmi di studio» – spinse la scuola rurale a connotarsi in
senso pratico essendo suo precipuo scopo quello di formare il bravo e operoso lavoratore dei
campi. Ma la riforma doveva essere in primo luogo riforma spirituale, prima ancora che
riguardare l’aspetto economico e produttivo. Essa doveva modificare innanzitutto la mentalità e
la cultura al fine di costruire un sistema valoriale per i giovani contadini che ponesse al centro la
campagna, il lavoro agricolo e la sua eticità. Ciò significava che il lavoro introdotto nelle scuole
rurali non doveva essere produttivo nel senso classico del termine, ma finalizzato alla creazione di
un’anima rurale e funzionale alla piena realizzazione dello Stato corporativo. I pedagogisti che
lavorarono sotto il ministero di Bottai alla definizione teorica dei presupposti e dei principi
educativi che dovevano informare la Carta della Scuola, come Luigi Volpicelli, Aldo Agazzi e
Giorgio Gabrielli, si sforzarono di precisare i contorni di questo aspetto. Scrisse a questo
proposito Gabrielli:
Dobbiamo poi richiamare l’attenzione di quanti si occupano del lavoro nella scuola rurale, sul pericolo di intendere il
termine produttivo, come un elemento esclusivamente economico. Su questo concetto ha scritto e riscritto da par
suo Luigi Volpicelli, e non ripeteremo le sue luminose dimostrazioni, alle quali rimandiamo il lettore. Più
modestamente, ma con eguale intendimento, ricordiamo che il lavoro rurale deve avere di mira specialmente una
produttività di valori spirituali e culturali, tecnica e organizzativa. Se vi si aggiungeranno i valori economici tanto
meglio, perché così il concetto di lavoro sarà completo nei molteplici aspetti, ma teniamo presente che il laboratorio
della scuola, cioè il campicello scolastico, deve produrre la consapevolezza del lavoro, l’esperienza delle possibilità del
lavoro rurale, la tecnica progredita del lavoro, l’umanità e la socialità del lavoro agricolo, e dare il concetto nella
economia nazionale e locale della produzione rurale285.
In altre parole, l’introduzione del lavoro e le sue capacità formative non si esaurivano nella
semplice manualità del lavoro agricolo, ma era altresì importante la conoscenza dei problemi
dell’agricoltura nazionale, dei provvedimenti assunti dal governo per risollevare le sorti del
mondo rurale e per l’incremento della produttività agraria. Tali conoscenze avrebbero così
favorito la nascita di un sentimento rurale. Scrisse a questo proposito Agazzi:
L’agricoltura non è soltanto il vangare, l’arare, il rastrellare e il falciare, ma è anche, e soprattutto, - come coscienza
rurale – battaglia del grano, bonifica, riduzione del latifondo, rimboschimento, selezione di sementi, concimazioni
chimiche, arature meccaniche, seminagioni a macchina, trebbiatura a motore, lotta scientifica contro i parassiti,
conservazione razionale dei prodotti, intelligente studio del proprio terreno per vedere quali colture meglio gli si
284
Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, cit., p. 280.
Cfr. G. Gabrielli, Il lavoro nella scuola rurale, in Il lavoro nella scuola del lavoro, supplemento ad
«Annali dell’ordine elementare», 1941, pp. 40-41.
285
101
addicano, con quali correttivi si possa migliorarlo, con quali mezzi se ne possono moltiplicare e migliorare i
prodotti286.
Si apriva in tal modo la strada al concetto di differenziazione didattica, in misura maggiore
di quanto non fosse avvenuto in passato. Interessante da questo punto di vista fu il discorso di
Bottai trasmesso alla radio il 13 gennaio 1940 in cui affermò che la scuola rurale grazie alla sua
riforma avrebbe acquisito una maggiore «individualità didattica», assumendo tratti che l’avrebbero
resa ancor più differente da quella urbana: l’insegnamento doveva attingere unicamente dalla
campagna i motivi e le forme del suo essere e non doveva fornire agli alunni «una cultura
disambientata» perché così li avrebbe distolti dal luogo in cui erano chiamati a vivere e lavorare,
«senza peraltro sufficientemente orientarli alla vita di città»287.
La pubblicazione del nuovo ordinamento bottaiano e le sue ricadute sull’insegnamento rurale
accese nella pubblicistica coeva una vasta discussione, non inferiore a quella che interessava altri
rami dell’insegnamento scolastico toccati dalla riforma. Il momento più alto di questo dibattito fu
il convegno per la scuola rurale che si svolse a Palermo il 3 e 4 febbraio 1940, organizzato dal
ministero dell’Educazione Nazionale, che finì per diventare l’occasione pubblica per celebrare le
innovazioni scolastiche introdotte in questo settore da Bottai. Vi parteciparono alti funzionari
ministeriali, provveditori e rappresentanti delle organizzazioni fasciste. Il convegno si concluse
con la proclamazione da parte del ministro di una serie di proposizioni in cui si affermava la
speciale cura del Regime verso l’insegnamento rurale che cessava di essere «il problema di una
categoria sociale, ma il problema dell’intera Nazione». In nome «dell’unità del fatto pedagogico» la
scuola rurale, secondo Bottai, non si giustificava più semplicemente «su distinzioni statistiche,
demografiche, topografiche, economiche, amministrative, ma su una funzione immanente della
cultura italiana», in quanto la ruralità era un dato costitutivo dell’identità stessa del popolo
italiano. Si trattava, a ben vedere, di dichiarazioni di principio che poco avevano a che fare con la
realtà, nel momento in cui con il decreto da lui emanato nel 1938 la definizione di scuola rurale
era ancora legata al numero della popolazione in età scolare. È chiaro che le innovazioni
bottaiane si muovevano, da questo punto di vista, in continuità con il passato, trovando un
fondamento nella politica portata avanti dal Regime volta a frenare le spinte verso l’urbanesimo e
a favorire la ruralizzazione della società, secondo una visione conservatrice che risaliva a ben
prima della salita al potere del fascismo e che percorre la storia italiana dalla fine dell’Ottocento
alla seconda guerra mondiale.
Si deve inoltre aggiungere che l’accento posto sulla differenziazione didattica indusse il
Regime a prestare attenzione anche al tema rappresentato dalla preparazione del maestro rurale.
Nel 1941 nacquero così, dietro iniziativa del ministero dell’Educazione Nazionale, due scuole
appositamente pensate per la preparazione delle maestre rurali a Cimiano, presso Milano, e alle
Cascine, presso Firenze288. Tale esperienza doveva costituire, secondo i loro promotori,
l’avanguardia di quanto l’Italia fascista avrebbe dovuto fare per la formazione degli insegnanti
delle campagne. Questo era il parere, ad esempio, dell’ispettore Cottone che, intervenendo su
questa questione nel 1941, sosteneva come l’esigenza di differenziare «il contenuto e la
286
Il brano è citato in Gabrielli, Il lavoro nella scuola rurale, cit., p. 41.
G. Bottai, L’insegna della scuola rurale, «I diritti della scuola», n. 11, 30 gennaio 1940, p. 163.
288
La scelta delle Cascine non era casuale poiché essa era sede di un prestigioso Istituto agrario,
fondato nel 1859. L’anno successivo la scuola venne aggregata come «sezione agronomica»
all’Istituto di studi pratici e di perfezionamento (Cfr. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura, cit., 2008, pp.
107-110).
287
102
preparazione professionale dei maestri» non si esauriva nella sola introduzione nel piano degli
studi degli istituti magistrali dell’insegnamento agrario, ma che fosse necessario in futuro,
reclutare i maestri rurali direttamente in campagna, istituendovi le scuole magistrali289. In realtà
questi propositi non saranno mai tradotti in pratica e, analizzando i numeri assai ridotti delle
maestre diplomate nelle scuole di Cimiano e delle Cascine – 52 nell’anno 1939-40 e altrettante
nell’anno successivo – si capisce che il contributo da esse fornito fu assai limitato290.
Un altro aspetto legato alla differenziazione didattica era costituito dalla coltivazione,
presso ogni scuola rurale, di un campicello. Si andò così a riabilitare la vecchia idea del ministro
Baccelli risalente alla fine del secolo che aveva inaugurato la stagione dei campicelli scolastici
terminata, come si ricorderà, dopo pochissimi anni con un sostanziale insuccesso. Rivalutato alla
luce delle finalità educative assegnate alla scuola rurale dalla riforma bottaiana, ora il campicello
era giudicato altamente formativo e doveva costituire il luogo privilegiato per la creazione di
un’anima rurale nel giovane contadinello291. Una circolare ministeriale del 1942, emanata dunque
in pieno clima bellico, quando scottante era la questione rappresentata della penuria di cibo,
precisava che esso non doveva corrispondere solo a «finalità didattiche», ma anche offrire «un
contributo all’autarchia alimentare»292.
Come già accennato, durante il ministero Bottai la pubblicistica registrò una crescente
attenzione verso i problemi della scuola per i contadini che, talvolta, finì per confondersi con la
sua esaltazione a modello perfetto di strumento educativo, celebrato come il prototipo di scuola
per eccellenza. Ne erano un esempio le cronache che spesso apparivano nelle riviste magistrali e
che informavano dei convegni organizzati in varie città italiane aventi per tema la scuola rurale e
la sua funzione in relazione alla «Carta della Scuola», o che fornivano notizie circa l’apertura delle
iscrizioni ai corsi di formazione per le maestre rurali o la pubblicazione di nuovi e più aggiornati
libri scolastici appositamente pensati per le scuole di campagna293.
289
C. Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, «Scuola italiana moderna», n. 22, 1 giugno 1941, pp.
280-281. Le scuole di Cimiano e delle Cascine erano in particolare rivolte alle maestre che
assumevano l’impegno di prestare servizio per un triennio nelle scuole rurali e in entrambe si
impartivano insegnamenti teorici e pratici.
290
I dati sono tratti dall’articolo: La preparazione delle maestre rurali nelle scuole agrarie di Milano
(Cimiano) e di Firenze (Cascine), «Annali dell’ordine elementare», n. 2, dicembre 1940, pp. 137-138. Il
programma di insegnamento contemplava le seguenti materie: allevamenti, industrie agrarie,
zootecnia, economia corporativa e contabilità agraria, cultura fascista e legislazione agraria
fascista, igiene rurale e puericultura, economia domestica e bromatologia, lavori femminili,
didattica della scuola rurale, didattica sperimentale.
291
Si vedano le interessanti considerazioni sul variegato tipo di campicelli scolastici o sulle
differenti occupazioni agricole (giardino, padiglione verde, aiuole individuali degli alunni,
appezzamento collettivo a grano, appezzamento collettivo a leguminose e foraggere,
appezzamento collettivo ad orto, appezzamento collettivo con piante specializzate,
appezzamento a spalliere o a prato-gelso, appezzamento a vivaio, pollaio, colombaia, apiario,
conigliera) proposte da Marcucci nel suo articolo intitolato Il lavoro rurale nelle scuole per i contadini,
in Il lavoro nella scuola del lavoro, supplemento ad «Annali dell’ordine elementare», 1941, pp. 40-41.
292
Cfr. l’allegato n. 1 alla circolare n. 390 del 10 agosto 1942 pubblicata in «Annali dell’ordine
elementare», n. 1, ottobre 1942, pp. 58-63.
293
A titolo di esempio citiamo il convegno di direttori didattici di scuole rurali della Toscana, del
Lazio e della Liguria tenutosi il 21 e 22 marzo 1941 a Siena, alla presenza di Giorgio Gabrielli
dell’Ispettorato Centrale Ministeriale delle Scuole Rurali e il primo raduno provinciale di maestri
rurali che si tenne nell’aprile 1941 a Torino, aperto dall’intervento del Provveditore che illustrò,
secondo la cronaca di una rivista magistrale del tempo, «la modesta, silenziosa ma altissima
103
Dal punto di vista istituzionale si deve, infine, aggiungere che nella seconda metà degli
anni Trenta a fianco all’Obn, poi diventata Gil, che gestiva la gran parte delle scuole rurali sparse
in tutto il territorio nazionale, continuarono a svolgere la propria azione l’Onair e le Scuole per i
contadini dell’Agro romano. La prima associazione poté continuare a gestire le scuole rurali
uniche del Trentino e della Venezia Giulia, a cui si aggiunsero a partire dall’anno scolastico 194142 quelle del Carnaro e della Dalmazia, le due province jugoslave annesse all’Italia, la prima nel
1924 e la seconda nell’aprile del 1941. Alle Scuole per i contadini dell’Agro Romano, invece,
rimasero le poche scuole lasciategli fin dal 1935: 74 scuole rurali uniche, a cui si aggiungevano 42
sezioni di asili d’infanzia dislocati nel Lazio e in Abruzzo294.
In un’Italia ormai provata da tre lunghi anni di guerra, veniva finalmente stabilito con
legge del 31 maggio 1943 che le scuole rurali ancora gestite dall’Onair e dalle Scuole per i
contadini dell’Agro romano dovessero passare allo Stato entro il 30 settembre di quell’anno295.
L’armistizio dell’8 settembre e l’acuirsi delle vicende belliche con l’occupazione tedesca dell’Italia,
avrebbero finito per rendere superfluo ogni provvedimento legislativo che puntava alla
consacrazione di uno dei principi più cari al fascismo: quello secondo il quale solo lo Stato etico si
sarebbe dovuto occupare, anche delle campagne, dell’educazione dei suoi giovani al fine di
forgiare l’uomo nuovo voluto da Mussolini.
missione che il Governo Fascista affida alle maestre rurali» (Convegno dei direttori delle Scuole rurali,
«Scuola italiana moderna», n. 18, 10 aprile 1941, pp. 232-233; Un raduno dei maestri rurali a Torino,
«Scuola italiana moderna», n. 20, 30 aprile 1941, p. 260).
294
Il dato è tratto da Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità, cit., p. 171.
295
In base all’articolo 7 della legge 31 maggio 1943.
104
Parte seconda
«Dalle stalle alle stelle»: come la scuola rurale
diventa un mito pedagogico
105
Capitolo primo
Tra realtà e mito: una premessa
1. Lombardo Radice e la riscoperta della scuola rurale
Un’ampia letteratura e un alto numero di testimonianze ci hanno tramandato un’immagine
assolutamente negativa della scuola rurale. A determinare tale giudizio erano le precarie
condizioni in cui essa svolgeva le sue funzioni, in locali piccoli, umidi, freddi, privi del materiale
scolastico necessario, con insegnanti demotivati e costretti a vivere con compensi irrisori, in
luoghi di collina o montagna dove regnava la solitudine mal tollerata da maestri in prevalenza
provenienti da centri urbani più o meno grandi. Del resto la stessa legislazione aveva sancito
ufficialmente il declassamento dell’istruzione dei contadini rispetto all’istruzione elementare
urbana. In altre parole la scuola rurale diventa una scuola dimenticata, disertata dai maestri,
maltrattata dai Comuni, vilipesa dal senso comune, ignorata dai contadini. Eppure bisogna
riconoscere come essa stranamente comincia a diventare a partire dagli anni Venti del Novecento
un vero e propio topos nella riflessione pedagogica italiana: sempre più spesso, infatti, la dizione
«scuola rurale» compare nelle riviste magistrali e pedagogiche, nei saggi e nei libri scritti da uomini
di scuola. Su di essa cala una crescente attenzione che si concretizza in pubblicazioni ed in
convegni. Sembra quasi un paradosso se si pensa a come l’istruzione dei contadini era stata vista
fino a qualche anno prima. Come mai questo cambiamento di opinione? Cosa giustifica la
rivalutazione della scuola rurale? A nostro giudizio il merito di questa operazione va ascritto
all’idealismo pedagogico e, in particolare, alla versione offerta da Giuseppe Lombardo Radice. È
infatti con Athena Fanciulla, il libro da lui pubblicato nel 1925, che le istanze rinnovatrici della
scuola già dichiarate in Lezioni di didattica del 1913, trovano nella scuola rurale l’ambiente ideale
per essere accolte e fatte maturare. Non a caso Athena Fanciulla illustra al grande pubblico in
assoluta prevalenza alcune esperienze educative che si ispirano al movimento delle scuole nuove e
che sorgono tutte in campagna: le scuole de La Montesca e di Rovigliano dei baroni Franchetti, le
scuole ticinesi di Maria Boschetti Alberti, le scuole dell’Agro romano. Ciò avviene perché per
Lombardo Radice la campagna diventa romanticamente un locus amoenus, il luogo di formazione
per eccellenza dove i giovani crescono in serenità e armonia, dove sono più liberi e indipendenti:
ciò permette al loro spirito di esplicarsi liberamente e a costoro di crescere umanamente,
diventando uomini. Sulla scorta di tali premesse allora la scuola rurale non è più una questione
che riguarda solo i contadini, ma che interessa tutti, indistintamente dal luogo in cui essi vivano.
La scuola rurale è infatti capace di fornire indirizzi utili da seguire anche nell’insegnamento nelle
scuole urbane. Del resto già nei programmi per la scuole elementare del 1923, da Lombardo
Radice elaborati, fanno la loro comparsa esercizi o indicazioni pedagogiche che gli vengono da
quelle scuole rurali modello che aveva conosciuto a partire dall’immediato dopoguerra: citiamo,
ad esempio, il «Calendario della Montesca», le osservazioni metereologiche e il disegno
spontaneo.
Possiamo dunque dire che Lombardo Radice inaugura un percorso di riscoperta della
scuola rurale che durerà fino al secondo dopoguerra e che, dunque, non si esaurisce con la sua
106
morte, avvenuta nel 1938. Nuovi soggetti infatti si affiancano a lui e nuove esperienze scolastiche
cercano di farsi largo e di farsi conoscere attraverso un lavoro di «propaganda pedagogica» che
usa in modo intelligente il ricorso alle riviste, che costruisce relazioni con importanti pedagogisti e
che riesce a far emergere modelli di scuola rurale innovativi sotto il profilo didattico ed educativo.
Si deve aggiungere inoltre che la rivalutazione dell’istruzione rurale, che ormai assume una certa
consistenza nel corso degli anni Trenta, finisce per essere favorita non solo dalla riflessione di
ordine pedagogico, ma anche da ragioni di tipo politico. Il regime fascista, infatti, perseguendo il
suo obiettivo di mantenere intatta la struttura conservatrice della società italiana, esalta in modo
strumentale il mondo rurale, vedendo di buon occhio tutto ciò che vada nella direzione di
elogiare le virtù che regnano in campagna e di condannare i vizi che dilagano in città. I due piani,
quello pedagogico e quello politico, finiscono così per incontrarsi, sebbene in Lombardo Radice e
in altri suoi epigoni tale volontà sia assente. Ciò determina che in quegli anni la pubblicistica sulle
scuole rurali raggiunga un livello mai toccato fino ad allora: nel 1936, ad esempio, l’ispettore
scolastico Francesco Bettini, influenzato dall’idealismo lombardiano, manda in stampa un lavoro
di fondamentale importanza da questo punto di vista, intitolato Vita di scuole rurali: piccolo mondo
sereno, in cui passa in rassegna alcune delle esperienze più interessanti di istruzione rurale che
aveva avuto modo di conoscere e di studiare e che descriveva sottolineandone uno dei tratti
distintivi della visione pedagogica di Lombardo Radice, quello della serenità e della poeticità delle
scuole di campagne e dei suoi piccoli alunni. Nello stesso periodo comincia a circolare il nome
della scuola toscana di San Gersolè, destinata a divenire famosa nei primi anni Quaranta e nota
ancora per tutto il corso degli anni Cinquanta, grazie all’opera divulgazione della sua concreta
prassi educativa dovuta all’ispettore Bettini e alla maestra che vi insegnava, Maria Maltoni. Nel
1939 ad un’altra importante esperienza di istruzione rurale, la scuola di Muzzano nel Canton
Ticino, veniva dedicata attenzione con la pubblicazione di una monografia intitolata Il diario di
Muzzano, da parte della maestra che ne era l’anima, Maria Boschetti Alberti. Fatta conoscere negli
anni Venti al grande pubblico da Lombardo Radice, quando ella insegnava nella vicina scuola di
Agno, la Boschetti Alberti raccontò nel libro i modi in cui era riuscita a percorrere vie nuove
nell’insegnamento ai giovani contadini ticinesi.
Nel 1940 sarà la volta de La scuola di S. Gersolé, monografia dedicata da Bettini alla scuola
della maestra Maltoni. Un’altra particolare esperienza didattica che era nata in campagna e che
veniva fatta conoscere al vasto pubblico negli stessi anni da noi presi in considerazione da Luigi
Volpicelli era quella di Mezzaselva, località del Comune di Carchitti, nell’Agro romano, dove dal
1919 il maestro Felice Socciarelli aveva svolto con ammirabile dedizione un’opera di educazione e
alfabetizzazione dei giovani contadini che vivevano ancora nelle capanne, tanto da essere stato
definito qualche anno prima da Lombardo Radice «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali».
Nel 1939 apparve il volume Scuola e vita a Mezzaselva, una cui prima edizione era uscita nel 1928.
Socciarelli proseguì in questa direzione pubblicando nel 1942 La scuola dei rurali, con la prefazione
di Giorgio Gabrielli. Una breve rassegna delle pubblicazioni dedicate tra gli anni Trenta e i
Quaranta sulla scuola rurale non può tralasciare il volumetto di Pasquale Ritucci dal titolo La
scuola rurale nel clima fascista (1938), i due libri di Alberta Olivi intitolati Ricordi di una scuola rurale
(uno dedicato a «Insegnamento della scrittura e della ortografia» e pubblicato nel 1937, l’altro a
«Lingua, comporre, disegno» del 1942)296, il libro Piccole vanghe al sole: giardinaggio per le scuole
296
ASUB, Fascicoli degli studenti, fasc. 2233. Alberta Olivi nacque a Villa Cavazzoli, allora frazione
di Reggio Emilia, il 2 febbraio 1894. Si laureò in pedagogia nel 1917 all’Università di Bologna
107
dell’ordine elementare di Bianca Maganzini (1940), il volume di Quirino Piccioni su La scuola rurale e
l’opera del fascismo per la ruralizzazione (1941), il lavoro di Giulio Marchesoni intitolato Tra i banchi
della scuola rurale (1941) e soprattutto il volume Vita e scuola rurale, promosso nel 1942 dal Comitato
Nazionale della stampa e propaganda rurale, il cui carattere ufficiale era dato dal fatto di avere la
prefazione del ministro Giuseppe Bottai e la premessa di un noto sostenitore nell’Italia del tempo
dell’istruzione agraria come il proprietario terriero e senatore Arturo Marescalchi.
Con questa breve premessa abbiamo voluto qui spiegare la ragione per la quale si può
parlare a nostro giudizio di un processo di valorizzazione della scuola rurale che nella prima metà
del Novecento si verifica in Italia grazie al pensiero e all’opera di Lombardo Radice. I capitoli che
seguono illustrano in maniera organica e approfondita alcune delle più singolari esperienze di
istruzione rurale che per la loro notorietà finirono per diventare una sorta di «mito pedagogico» e
in quanto tale celebrato, osannato, criticato, combattuto. Scavando in profondità, al di là
dell’alone del mito che rende meno nitide le cose e tende tutto a coprire, e ricorrendo talvolta a
documentazione archivistica inedita, è stato possibile leggere con occhi diversi quelle esperienze
educative, senza nulla togliere all’importanza che esse ebbero nella realtà. Si è voluto, in altre
parole, adottare un metodo critico che, è nella speranza di chi scrive, possa contribuire ad
arricchire la lettura che finora è stata data di questa pagina della storia dell’educazione.
discutendo una tesi dal titolo «Il compito della scuola dopo la guerra Europea». Entrò in contatto
con Lombardo Radice che scrisse la prefazione al suo libro uscito nel 1937.
108
Capitolo secondo
Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura
pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della
Montesca
1. Premessa
Non ci fu visitatore della scuola autorizzato o no, che non si facesse un dovere di domandare, in primis, il
Calendario. Diventò il polso della riforma. Se il Calendario andava bene tutto andava bene, lo spirito era salvo; ma se
lasciava a desiderare, il demone della vecchia scuola non era stato ancora esorcizzato, e doveva certamente esser
nascosto in qualche cantuccio dell’aula297.
Queste parole, non prive di una sottile vena ironica, che Nazareno Padellaro scriveva
nel 1927, a pochi anni dall’entrata in vigore della Riforma Gentile, testimoniano bene come il
modello educativo della scuola della Montesca fosse diventato nel mondo scolastico e nel
dibattito pedagogico nazionale, a partire dalla metà degli anni Venti, una sorta di emblema della
scuola elementare italiana appena riformata. In effetti, la scuola rurale fondata nei primi anni del
secolo da Alice Hallgarten e dal marito, il barone Leopoldo Franchetti, nella villa della Montesca,
vicino a Città di Castello, che, come è noto, era stata una delle fonti di ispirazione che avevano
guidato Giuseppe Lombardo Radice nella redazione dei nuovi programmi per la scuola
elementare del 1923, era diventata un modello costante di riferimento all’interno di un dibattito a
cui parteciparono pedagogisti, ispettori scolastici e maestri, al punto che uno dei suoi sussidi
didattici, il cosiddetto «Calendario della Montesca», si era presto trasformato nel simbolo della
riforma stessa. La testimonianza di Padellaro è a questo riguardo paradigmatica e ci permette di
capire il ruolo di emblema assunto agli occhi degli osservatori più attenti dalla scuola di Città di
Castello, e in specie dal Calendario monteschiano.
Tale constatazione, che il commento del pedagogista ci permette di fare, è alla base del
presente studio. Lungi dal voler scrivere una storia della scuola della Montesca, cui peraltro
recentemente sono state dedicate alcune ricerche che hanno permesso di fissare dei paletti in
ordine alla sua fondazione e al suo sviluppo, in questa sede si intende ricostruire attraverso quali
forme e modalità la suddetta istituzione educativa si affermò nell’immaginario pedagogico italiano
primo novecentesco298. Si tratta, cioè, di capire per quali itinerari, con quali mezzi e in quali tempi
la scuola dei Franchetti divenne un modello studiato, celebrato, imitato e, talvolta, criticato dopo
che Lombardo Radice la elesse – insieme ad altre scuole-modello come la Rinnovata di Milano e
le scuole del Canton Ticino – ad emblema del rinnovamento scolastico. Da questo punto di vista
gli studi recenti hanno dissodato il terreno, provando come la presenza alla Montesca di
297
N. Padellaro, Scuola fascista, Roma, Libreria del Littorio, 1927, pp. 175-176.
Lo studio più recente e aggiornato sulla Montesca è quello di S. Bucci, La scuola della Montesca.
Un centro educativo internazionale, in P. Pezzino e A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il
loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento si vedano anche:
voce «Montesca, scuola» curata da R. Titone, in Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino,
Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344; V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni
Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E. Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della
Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee editoriali, 1984.
298
109
pedagogisti, educatori e filantropi italiani e stranieri o più semplicemente i contatti con essi – resi
possibili dalla dinamica opera di Alice Franchetti – fu determinante al fine di conferire alla scuola
un suo preciso indirizzo culturale e di introdurre in essa strumenti didattici che poi la
caratterizzeranno anche in seguito. Basti pensare ai rapporti con la studiosa inglese del Nature
Study Lucy Latter, Maria Montessori, Aurelia Josz (fondatrice di una scuola professionale
femminile a Niguarda), il filosofo e pedagogista tedesco Friedrich Wilhelm Foerster299.
Ma ad assicurare quella notorietà senza confronti di cui la Montesca godette negli anni
in cui si colloca la testimonianza di Nazareno Padellaro, fu senza dubbio l’opera di propaganda
attuata da Giuseppe Lombardo Radice quando egli, giunto ai vertici del ministero della Pubblica
Istruzione, fu chiamato a redigere i nuovi programmi per le scuole elementari300. Risulta evidente
allora che, per evidenziare le ragioni che condussero alla ribalta la Montesca, si debba ricostruire il
dibattito sorto intorno ad essa dopo che il pedagogista catanese ne illustrò le caratteristiche
erigendola a modello di «scuola serena», prototipo di quella scuola da lui vagheggiata fin dal 1913
nelle Lezioni di Didattica, opera nella quale l’infanzia, vista secondo una prospettiva di tipo
romantico come stagione di creatività e spontaneità, trovava le sue manifestazioni attraverso le
forme espressive ed artistiche.
Una delle due questioni che si intende, quindi, analizzare nel presente saggio è proprio
questa: ricostruire l’opera di propaganda del modello educativo della Montesca attuata da
Lombardo Radice, ben oltre il noto Athena Fanciulla, e di analizzare, contestualmente, la ricezione
critica della proposta lombardiana da parte del mondo scolastico e pedagogico italiano del tempo.
Si tratta, in altre parole, di ricostruire la rete di uomini di scuola che parteciparono a tale dibattito,
analizzare le scelte e le prese di posizione da essi adottate e le relative argomentazioni addotte
ogni qual volta essi affrontarono il tema rappresentato dalla Montesca. L’immagine che si ricava
da questo tipo di analisi, oltre che essere sostanzialmente inedita e, quindi, fonte di arricchimento
della lettura fin qui data della scuola umbra, è parimenti significativa anche in ordine allo studio
della Riforma Gentile, in quanto aggiunge un tassello interessante alla ricostruzione dei dibattiti e,
talora, delle polemiche che essa generò.
Ma prima ancora di accingerci a compiere questo itinerario, ci si impone di ricostruire le
tappe del rapporto che si instaurò tra Lombardo Radice e la Montesca, le relazioni che si
crearono tra il pedagogista e Leopoldo Franchetti nonché le maestre, in particolare Maria
Marchetti, lungo tutto il periodo che intercorre tra il primo viaggio nelle scuole umbre e la sua
morte, avvenuta nel 1938. Si tratta di una questione poco nota, a causa – si crede – della scarsità
di fonti archivistiche che avrebbero potuto permettere di ricostruire in modo puntuale forme e
299
La ricostruzione della trama dei contatti instaurati da Alice con educatori e filantropi italiani e
stranieri si trova in: R. Fossati, Il lavoro culturale e la vita affettiva di Alice Hallgarten Franchetti, in
Pezzino e Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, cit., pp. 157-194.
300
La bibliografia su Lombardo Radice è piuttosto vasta. Ci limitiamo a segnalare: I. Picco,
Giuseppe Lombardo Radice, Firenze, La Nuova Italia, 1954; R. Mazzetti, Giuseppe Lombardo Radice tra
l’idealismo pedagogico e Maria Montessori, Giuseppe Malipiero, Bologna, 1958; G. Cives, Giuseppe
Lombardo Radice. Didattica e pedagogia della collaborazione, Firenze, La Nuova Italia, 1970; I. Picco (a
cura di), Giuseppe Lombardo Radice. Atti del convegno internazionale di studi per il centenario della nascita
(1879-1979), 28-29-30 settembre 1979, L’Aquila, Gallo Cedrone, 1980; G. Cives, Attivismo e
antifascismo in Giuseppe Lombardo Radice. Critica didattica o Didattica critica?, Firenze, La Nuova Italia,
1983.
110
modi di quel legame301. Alla base di questa penuria sta la dispersione dell’archivio privato dei
Franchetti, risalente agli anni successivi alla morte di Leopoldo, avvenuta nel 1917, e lamentata
già nel 1938 dallo stesso Lombardo Radice che nell’aprile di quell’anno si era recato per l’ultima
volta alla Montesca al fine di consultare alcuni libri della biblioteca dei baroni nonché le loro carte
private, desiderio quest’ultimo rimasto inesaudito proprio a causa del mancato ritrovamento dei
loro documenti personali302. Né giovano di più le carte prodotte dalle scuole Franchetti, che
recuperate e rese consultabili di recente, rappresentano sì uno straordinario patrimonio
documentario, riferito però quasi esclusivamente alla didattica e all’amministrazione delle scuole
stesse e quindi poco utili alla ricostruzione dei legami che si vennero ad instaurare tra il
pedagogista catanese ed i Franchetti303. Lo stesso dicasi per gli unici due carteggi conosciuti di
Alice, quelli con lo storico del francescanesimo Paul Sabatier e con la maestra e poi direttrice delle
scuole della Montesca e di Rovigliano Maria Pasqui Marchetti, che, pubblicati di recente, hanno
fornito elementi che si sono rivelati di primaria importanza per la ricostruzione dei primi anni
della vita delle due scuole, ma di minore utilità per la presente indagine304.
Nonostante questa lacuna documentaria altri tipi di fonti, quali ad esempio le poche ma
interessanti testimonianze conservate negli archivi di personalità che furono vicine a Lombardo
Radice, permettono, se non di ricostruire minutamente i rapporti tra il pedagogista e la Montesca,
per lo meno di fissare dei paletti e di mettere in sequenza alcuni elementi che nel complesso
arricchiscono di dati la lettura che finora è stata data della scuola-modello umbra.
2. L’incontro di Lombardo Radice con la Montesca
Alla vigilia della prima visita di Lombardo Radice alla Montesca, la scuola fondata dai
baroni Franchetti non aveva conquistato nel panorama pedagogico italiano quella notorietà che la
contraddistinse in seguito. Fin dall’apertura delle due scuole, risalente nel 1901-1902, la
conoscenza dell’esperienza che andava svolgendosi alla Montesca e a Rovigliano rimase
301
In genere viene citato solo l’anno in cui Lombardo Radice arrivò alla Montesca, il 1915, com’è
da egli stesso ricordato in G. Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Torino,
Paravia, 1922, p. 199.
302
Rammaricatosi del mancato ritrovamento alla Montesca dell’archivio privato dei Franchetti,
Lombardo Radice così si espresse in una lettera a Francesco Salimei, presidente dell’Opera Pia
Regina Margherita di Roma, ente che gestiva le scuole umbre a partire dal 1917: «Molto facile è
che anche il carteggio sia a Roma, in custodia dell’Opera Pia. Chi sa quante cose importanti se ne
potrebbero desumere per illuminare le iniziative benefiche della Baronessa nel campo
dell’educazione infantile, femminile, magistrale. Le voglio essere utile, mi dedicherei volentieri alla
ricerca in questo campo, presso l’Opera Pia» (ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti»,
Carteggio amministrativo, b. 55, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice al Presidente dell’Opera Pia
“Regina Margherita” Francesco Salimei, 10 aprile 1938).
303
Soprintendenza Archivistica per l’Umbria-Regione dell’Umbria, L’archivio e la biblioteca dell’Opera
Pia Regina Margherita di Roma - Fondazione Franchetti di Città di Castello 1866-1982. Inventario e catalogo,
a cura di D. Silvia Antonini, coordinamento scientifico di A.A. Fabiani e F. Tomassini, Città di
Castello, Alfagrafica, 2005.
304
R. Fossati, Alice Hallgarten Franchetti e le sue iniziative alla Montesca, «Fonti e Documenti», 16-17
(1987-1988), Urbino, pp. 269-347; M.L. Buseghin (a cura di), Cara Marietta...: Lettere di Alice
Hallgarten Franchetti (1901-1911), Città di Castello, Tela Umbra, 2002.
111
sostanzialmente circoscritta alla cerchia di amici ed estimatori dei coniugi Franchetti, a loro
accomunati dalla condivisione degli ideali umanitari e filantropici, e a quella straordinaria rete di
contatti con uomini di cultura, educatori e pedagogisti che Alice Hallgarten era riuscita a stendere
intorno alle sue iniziative.
Tra i nomi dei frequentatori della villa umbra e delle due scuole o, più semplicemente, di coloro i
quali entrarono in contatto con la giovane moglie di Leopoldo Franchetti durante i suoi frequenti
viaggi in giro per l’Europa e non solo, spiccano quelli di studiosi dai quali trasse suggerimenti,
consigli e suggestioni utili ad attuare alla Montesca quel rinnovamento didattico promosso dalle
cosiddette «scuole nuove». Se è vero che ciò permise alla scuola di Alice di divenire un centro
educativo di livello internazionale, è altresì vero che quella esperienza rimase a lungo conosciuta
da un numero esiguo di persone e pressoché ignota, almeno per un decennio, alla generalità dei
maestri e soprattutto della scuola italiana. Infatti i primi passi compiuti da Alice e dalle sue
maestre si collocavano al di fuori del perimetro della scuola «ufficiale» e per questo circondati
inizialmente da un certo clima di diffidenza da parte delle istituzioni scolastiche305. Tale
atteggiamento è ben documentato da una lettera del gennaio 1910 nella quale Alice costatando
l’impossibilità ad esporre nella sezione «Pubblica Istruzione» i propri materiali scolastici alla
Mostra didattica che si sarebbe tenuta poco dopo a Bruxelles, spronava Maria Marchetti a non
curarsene ma a guardare piuttosto ai risultati da esse conseguiti e al loro valore intrinseco306.
La presenza alla Montesca di Maria Montessori, che nell’agosto 1909 vi tenne il suo primo
corso di Pedagogia Scientifica ad un gruppo di maestre riunitesi a Città di Castello, e
l’applicazione del metodo montessoriano a partire dall’anno scolastico 1909-’10, se per un verso
permetteva alla scuola di Alice Franchetti di continuare a muoversi nel solco della
sperimentazione didattica in sintonia con le teorie attivistiche del tempo, per un altro verso la
poteva esporre alle critiche derivanti dagli ambienti ufficiali scolastici. Si trattava di un timore
tutt’altro che remoto, che del resto Alice ebbe presente fin da quando decise di applicare il
metodo della Montessori nelle sue due scuole, tanto da consigliare prudentemente alle sue
collaboratrici di mantenere buoni rapporti con l’Ispettore Scolastico di Perugia e di avvisarlo in
anticipo dell’intenzione di attuare il nuovo metodo per evitare che da lui potesse venire «la guerra
in avvenire per l’attuazione dei nuovi programmi»307.
In realtà tali preoccupazioni furono superate come dimostrò la buona accoglienza che
tanto l’Ispettore Scolastico quanto il Provveditore agli Studi di Perugia, Pasquale Papa, espressero
in occasione delle conferenze alle maestre tenute dalla Montessori a Città di Castello in agosto,
nonché in occasione del Corso di Psicologia Sperimentale applicato alla pedagogia, che il famoso
305
Le scuole della Montesca e di Rovigliano erano nate rispettivamente nel 1901 e nel 1902 come
scuole private e dal 1907 furono dichiarate «a sgravio». I programmi delle scuole furono il
risultato di una sorta di adattamento di quelli statali, sviluppando quegli elementi più rispondenti
al carattere di scuola rurale, come lo studio delle piante e degli animali, dimostrando di godere fin
da subito di un certo margine di autonomia didattica.
306
La lettera in questione, datata 20 gennaio 1910, è riprodotta in M.L. Buseghin, Cara Marietta…,
cit. p. 381: «Carissima, non sorprenderti se non esporremo sotto la “Pubblica Istruzione”.
Conosco troppo bene quel mondo ufficiale per avere a suo riguardo qualunque illusione. Loro
cercano “i premi ecc”, noi la propagazione di una idea».
307
Si veda la lettera di Alice a Maria Marchetti del 14 aprile 1909 pubblicata in Buseghin, Cara
Marietta…, cit., p. 346.
112
neuropsichiatra infantile Sante De Sanctis tenne nel settembre dello stesso anno a Perugia, alla
presenza della stessa Montessori, di cui ella fu collaboratrice308.
Le pubblicazioni del Corso di Pedagogia Scientifica, opuscolo che raccoglieva i testi delle
conferenze tenute dalla pedagogista a Città di Castello, e del Metodo di pedagogia scientifica,
contenente un deferente riconoscimento all’opera di mecenatismo dei coniugi Franchetti309,
avvenute entrambe nel 1909, a cui si può aggiungere L’autoeducazione nelle scuole elementari del 1916
nella cui prefazione la Montessori ricordava l’azione di adattamento del metodo nelle scuole rurali
da parte di Alice310, rappresentavano una prima forma di propaganda della Montesca presso il
pubblico rappresentato da maestri e uomini di scuola, operazione che però non fu sufficiente da
sola a far conoscere in modo approfondito la scuola umbra al di fuori dai confini delle relazioni
che la Hallgarten era riuscita a creare311. In altre parole, la Montesca rimase una realtà sconosciuta
oltre che alla generalità dei maestri italiani, anche a larga parte del mondo scolastico ufficiale che
solo a partire dalla metà degli anni Dieci comincerà a farne conoscenza, dopo quindi la morte di
Alice Franchetti, avvenuta nell’ottobre 1911.
Una prima svolta, infatti, per quanto attiene l’opera di propaganda della Montesca si può
collocare nel 1916 quando si verificarono più fatti.
308
Il secondo giorno delle conferenze, 2 agosto 1909, il Provveditore Papa lesse un discorso in
cui lamentando come in Italia «la riverenza, la poesia, anzi la religione dell’infanzia» fosse stata
poco sentita, salutava con favore un esempio che faceva eccezione come quello dei Franchetti
(M. Montessori, Corso di Pedagogia Scientifica, Città di Castello, Società Tip. Editrice, 1909 cit., pp.
27-28). Il corso tenuto dal De Sanctis e organizzato dalla sezione perugina dell’Associazione
nazionale per gli studi pedagogici, fu aperto il 12 settembre 1909 a Perugia. All’inaugurazione del
ciclo di lezioni parteciparono, oltre alla Montessori, i baroni Leopoldo ed Alice Franchetti, il
Provveditore Papa, nonché alcuni esponenti della borghesia e dell’aristocrazia umbra più sensibili
al tema del miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, tra i quali il conte Eugenio
Faina, fondatore di scuole rurali per i figli dei contadini (L’inaugurazione del Corso di psicologia
sperimentale, «La Democrazia», n. 191, 13 settembre 1909, pp. 1-2).
309
Come è ampiamente noto l’edizione del 1909 del Metodo era dedicata ad Alice e Leopoldo;
nell’edizione del 1913 fu trasformata in un semplice richiamo alla memoria di Alice e nella
edizione del 1926 scomparve del tutto ogni richiamo ai Franchetti, provocando l’intervento
polemico di Lombardo Radice dalle colonne de «L’Educazione nazionale». Cfr. R. Fossati, Alice
Hallgarten Franchetti e le sue iniziative alla Montesca, cit., pp. 286-287. Si veda: M. Montessori, Il metodo
della pedagogia scientifica applicato alla educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello,
Tipografia Lapi, 1909.
310
M. Montessori, L’autoeducazione nelle scuole elementari, Roma, Maglione e Strini, pp. XVII-XVIII.
applicato alla educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello, Tipografia Lapi, 1909.
311
In effetti il primo scritto avente per oggetto la Montesca fu un articolo apparso nel 1908 e
quindi precedente alla pubblicazione del libro della Montessori. Questo articolo, insieme ed altri
illustranti le opere di impegno sociale dei Franchetti, fu pubblicato in un periodico culturale
locale, «Gioventù Nova», fondato da don Enrico Giovagnoli, dinamico sacerdote di Città di
Castello, sostenitore delle correnti riformiste religiose e amico di Alice e Leopoldo. Tuttavia
anche a causa della scarsa diffusione della rivista non si può considerare tale articolo come la
prima forma di propaganda della scuola-modello della Montesca. Sui rapporti tra i Franchetti e il
sacerdote si rinvia a: R. Grossi, Alice Hallgarten Franchetti ed Enrico Giovagnoli, in Pezzino e Tacchini
(a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, cit., pp. 259-270.
113
In primo luogo, durante quell’anno il Direttore Generale dell’Istruzione Primaria, Antenore
Cancellieri, visitava la Montesca, ottenendone una positiva impressione312.
In secondo luogo, nell’estate dello stesso anno apparve su «I diritti della scuola», la più diffusa e
prestigiosa rivista magistrale del tempo, quello che si può considerare a tutti gli effetti il primo
studio organico dedicato alle scuole fondate dai Franchetti, anteriore quindi a quello redatto da
Lombardo Radice313. Autrice di tale lavoro non era una pedagogista, ma una studiosa di igiene e
di economia domestica. Si trattava di Angelica Devito Tommasi, poliedrica figura di studiosa,
esponente di quel femminismo socialmente impegnato primo novecentesco, di sentimenti
socialisti, autrice di testi scolastici per le scuole elementari di economia domestica e di igiene
nonché collaboratrice per un periodo della rivista magistrale diretta da Annibale Tona. Pubblicato
in tre fascicoli tra il luglio e il settembre 1916, il suo studio dedicato alla Montesca affrontava
molti nodi quali le origini della scuola, il suo funzionamento e l’indirizzo pedagogico seguito314.
Ma ciò che appare più interessante rilevare sono le sue osservazioni in relazione all’insegnamento,
in merito al quale poté descrivere alcuni elementi che saranno qualche anno dopo diffusamente
analizzati da Lombardo Radice. Ella descrisse con ammirazione il «diario meteorologico», il
disegno quotidiano per mezzo del «Calendario della Montesca», il disegno del soggetto del mese,
lo studio dell’evoluzione biologica dei semi in piante. Scriveva:
Si impara a leggere, scrivere, far di conti e comporre come in qualsiasi altra scuola, ma con tale scienza e genialità di
metodi che anche l’ispettore più ortodosso resta ammirato della agilità, della dizione, dell’accento, della esattezza
ortografica, della tenuta dei quaderni, e del gusto letterario che, a poco a poco, la scuola forma 315.
Oltre allo studio della «natura vivente» e alle osservazioni dal vero, che in effetti costituivano
l’asse portante dell’insegnamento della Montesca, veniva messo in rilievo dalla Devito Tommasi
altri due elementi che innervavano la scuola umbra: il ricorso al disegno e l’alta poeticità di alcuni
componimenti, due punti sui quali si soffermerà in maniera approfondita il pedagogista
catanese316.
Dopo esserci soffermati sullo studio della Devito Tommasi che meritoriamente è degno
di considerazione sia per il merito delle osservazioni fatte, sia perché esse furono le prime in
ordine cronologico ad essere formulate, e tornando ad illustrare i tre accadimenti che nel 1916 si
verificarono contribuendo alla divulgazione ad un pubblico più vasto del modello educativo della
Montesca, non si può ignorare la partecipazione delle scuole dei Franchetti alla Mostra Didattica
organizzata a Milano dall’Umanitaria tra il settembre e l’ottobre 1916. Il materiale didattico
spedito nel capoluogo lombardo fu esposto nella sezione che la mostra dedicò alle scuole nuove,
312
A. Devito Tommasi, Le scuole della Montesca, «I diritti della scuola», n. 38, 15 settembre 1916, pp.
308-309.
313
Su «I diritti della scuola» si vedano le informazioni riportate in: G. Chiosso, La stampa scolastica e
l’avvento del Fascismo, «History of Education & Children’s Literature», III, 1 (2008), pp. 257-282.
314
Lo studio fu pubblicato sui fascicoli de «I diritti della scuola» del 15 luglio, 15 agosto, 15
settembre 1916 con il titolo, Le scuole della Montesca. Nel corso del 1916 venne raccolto in un
opuscolo stampato dalla Tipografia dell’Unione Editrice di Roma.
315
A. Devito Tommasi, Le scuole della Montesca, «I diritti della scuola», n. 36, 15 luglio 1916, pp.
293-294.
316
Scriveva la studiosa milanese nell’articolo appena citato: «Ed ecco a prova, un piccolo dettatocomponimento di prima classe dove non ho trovato un solo errore: “La sera i campi scintillano di
lucciole. Sono belle e sembrano l’anima del grano che promette pane e tranquillità al contadino
che riposa”…È un poema!...!».
114
accompagnato da un Catalogo ragionato degli oggetti esposti, fatto stampare appositamente dal barone
Leopoldo317. Inoltre lo stesso Franchetti partecipò al Convegno dell’educazione popolare che si
svolse dal 29 ottobre al 1° novembre, in margine alla Mostra, e al quale presero parte numerosi
rappresentanti politici e uomini di scuola, tra i quali il ministro della Pubblica Istruzione Ruffini,
l’ex Direttore dell’Istruzione primaria Camillo Corradini, il filosofo Giovanni Vidari. Parimente
interessante è rilevare che il barone Franchetti intervenne nella seduta pomeridiana del secondo
giorno del convegno, esponendo, secondo quanto riportava la cronaca de «I diritti della scuola», il
«metodo sperimentale e il metodo Montessori»318.
I tre eventi fin qui illustrati – la visita di Cancellieri, lo studio della Devito Tommasi, la
partecipazione alla Mostra Didattica di Milano – stanno a dimostrare come, lentamente, il
modello educativo della Montesca cominciasse a farsi strada nella scuola italiana, anche nei suoi
ambienti più ufficiali, riuscendo a superare le diffidenze fino ad allora nutrite da ampi settori del
mondo magistrale e pedagogico nei confronti delle «scuole nuove» e dei loro innovativi metodi
d’insegnamento319. Si trattava di una presa di coscienza che del resto la cultura pedagogica e
scolastica andava acquisendo non solo nei riguardi della Montesca ma anche delle altre esperienze
innovative che erano fiorite in Italia e non solo.
Ma di poco anteriore alla svolta del 1916, un accadimento che cambierà il destino della
scuola dei Franchetti veniva a verificarsi. Si trattava della prima visita che Giuseppe Lombardo
Radice compì alla Montesca, in presenza del barone Leopoldo, nell’ottobre 1915. Di grande
interesse appaiono le modalità e le forme che portarono alla sua venuta a Città di Castello e che si
inserivano in quel vivace e animato circolo culturale rappresentato dall’Associazione Nazionale
per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), di cui Franchetti era presidente e Lombardo
Radice consigliere fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1910320.
La frequentazione tra i due personaggi, quindi, non era nuova quando il pedagogista
catanese arrivò alla Montesca. Non abbiamo, però, testimonianze che possano permettere di
affermare che Lombardo Radice avesse avuto modo di conoscere Alice, che, come già ricordato,
era morta nel 1911.
Non sorprende, dunque, costatare che molti intellettuali meridionalisti che gravitavano nell’orbita
dell’ANIMI frequentassero nei primi anni Dieci la villa della Montesca, ospiti del barone. Uno di
essi, Umberto Zanotti Bianco, che tanta parte avrà nella diffusione degli asili d’infanzia in
Calabria, soggiornò più volte nella villa umbra ospite di Franchetti. Assiduo frequentare della
317
Catalogo ragionato degli oggetti esposti dalle scuole rurali private della Montesca e di Rovigliano vicino a Città
di Castello (Umbria) nella tenuta del senatore Leopoldo Franchetti, Città di Castello, Tip. Lapi, 1916.
318
Il convegno dell’educazione popolare in Milano, «I diritti della scuola», n. 4, 10 novembre 1916, pp.
46-49.
319
Appare significativo al riguardo un commento, non firmato, della Mostra Didattica milanese
del 1916 pubblicato in «I diritti della Scuola» del 10 novembre 1916: «Tra le più interessanti,
anche se tra le più discusse, è la sezione che riguarda i vari tentativi di rinnovazione della scuola in
Italia e all’estero: accanto alle nostre scuole all’aperto, alla scuola agricola di Niguarda (Milano),
alla scuola della Montesca (Firenze), alla Scuola rinnovata della Ghisolfa (Milano), alle scuole e
alle “Case dei bambini” della Montessori […]».
320
Sull’Animi si veda Alatri, Le scuole e l’azione cultura e sociale della Associazione Nazione per gli Interessi
del Mezzogiorno d’Italia dalla fondazione alla caduta del Fascismo, cit., pp. 561-582. Sull’opera svolta da
Lombardo Radice in favore dell’istruzione dei ceti popolari meridionali si rinvia a A. Gaudio,
Giuseppe Lombardo Radice, il Mezzogiorno e la lotta contro l’analfabetismo, «Pedagogia e Vita», 4 (2004),
pp. 62-74.
115
stessa villa fu anche Gaetano Piacentini, segretario per molti anni dell’Animi e poi presidente
dell’Opera contro l’analfabetismo321. Nel settembre 1915 anche Gaetano Salvemini visitava la
residenza estiva e la scuola della Montesca. L’arrivo del più illustre rappresentante del
meridionalismo fu di assoluta rilevanza ai fini del successivo incontro tra Lombardo Radice e la
Montesca. Infatti, dopo essere rimasto folgorato dal sistema educativo che veniva applicato,
Salvemini scrisse una lettera da Borgo San Sepolcro al pedagogista catanese in cui ne descriveva
con entusiasmo le caratteristiche e nella quale lo invitava a recarsi di persona a visitare e studiare
quella scuola modello. Scriveva Salvemini a Lombardo Radice:
C’è a due passi di qui, a Città di Castello, alla Montesca, una scuola popolare straordinaria, organizzata da uno spirito
che non ha nulla da invidiare a quello dei più geniali educatori dell’umanità. Raccogliere giorno per giorno l’opera di
un alunno, pubblicarne con poche parole di commento i lavoretti, e questo dal momento in cui è entrato nella scuola
a sei anni a quello in cui ne è uscito a dodici, sarebbe un programma e una guida d’insegnamento di prim’ordine. Tu
dovresti fare questo lavoro, venendo qui per alcuni giorni e portandoti via i documenti. Se vieni subito, cioè prima
del 10 ottobre, ci troverai il Franchetti, a cui appartiene la Montesca, Zanotti Bianco e me, che è quanto dire. E se la
Gemma non è lungi di qui, dovrebbe venire anche lei. Ci troverebbe per sé anche la Signora Luchaire 322.
Lombardo Radice accettò l’invito e qualche giorno dopo si recò in visita alla Montesca. In
una cartolina inviata il 10 ottobre alla moglie Gemma, egli la informava in modo telegrafico di
quella visita che avrebbe svolto di lì a poche ore:
Ho dormito a S. Sepolcro. Pioggia a dirotto durante il viaggio e stamani Salvemini è in servizio; fra poco sarà libero e
andremo alla Montesca. Domani visita alla scuola; poi ritorno. Baci alle bambine323.
Venuto a conoscenza tramite Zanotti Bianco, che Salvemini era riuscito a convincere
Lombardo Radice a recarsi in visita alla Montesca, il barone Franchetti scrisse lo stesso 10 ottobre
una cartolina di ringraziamento al meridionalista, invitando lui e gli altri «a prendere il tè alla
Montesca oggi nell’unita automobile, e il prof. Lombardo Radice di portar seco la propria valigia
per trattenersi alla Montesca e di dedicare alle scuole la giornata di domani e, spero, alla Montesca
le giornate successive»324.
La visita durò due giorni durante i quali poté conoscere la scuola nelle due sedi della
Montesca e di Rovigliano, apprezzarne le qualità e maturare l’idea di scrivere uno studio dedicato
ad essa. In effetti, egli rimase colpito nell’aver trovato nella pratica applicati i suoi ideali educativi
che ben aveva esposti pochi anni prima nelle Lezioni di didattica, opera pubblicata nel 1913 e nella
321
Lombardo Radice considerò Piacentini, nella dedica al suo libro Athena Fanciulla, il
«continuatore, tenacissimo, in ogni campo dell’opera sociale di Leopoldo Franchetti» nonché un
osservatore «sin dalle origini, [del]l’esperimento educativo, che fu anche un grande atto di umana
carità, di Alice Franchetti».
322
La lettera del 3 ottobre 1915 a Lombardo Radice è stata pubblicata in G. Salvemini, Carteggio
1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma, Laterza, 1984, p. 189.
323
AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe Lombardo Radice a Gemma Harasim, 10
ottobre 1915.
324
Ivi, Carteggio generale, Cartolina di Leopoldo Franchetti a Salvemini, 10 ottobre 1915. La
cartolina in questione non precisa il destinatario che viene indicato genericamente come «Caro
amico». Pur trovandosi tra le carte di Lombardo Radice, essa non può essere stata inviata al
pedagogista poiché egli viene citato come terza persona. Il destinatario deve essere Salvemini, che
come provano agilmente altre fonti, fece da intermediario per rendere possibile la visita alla
Montesca.
116
quale egli aveva affermato l’esigenza di una scuola che intendesse superare le distanze che
solitamente erano poste tra la scuola stessa e la vita, per immaginarla in funzione dei bisogni e
delle capacità dell’infanzia. Tutto ciò è provato dalla lettera entusiasta che Lombardo Radice
scrisse all’amico Giovanni Gentile pochi giorni dopo il suo arrivo alla Montesca:
Mi vi trattenni due giorni per studiare un po’ le scuole che rappresentano una fusione di quel che di meglio la signora
aveva osservato nei suoi viaggi per tutti i paesi d’Europa. Ci tornerò e farò una relazione: è cosa di una importanza
massima. La Franchetti era una educatrice geniale, e come donna una santa; una creatura d’eccezione come lei non
deve aver lavorato solo per la Montesca, e voglio riparare del mio meglio al danno della sua perdita. Ho portato via
un ricco materiale di appunti dell’estinta fornitomi dal Franchetti, e una raccolta di compiti di scolari del primo
giorno di scuola alla sesta classe. È commovente per me vedere in tutto realizzato in una scuola quello che ho scritto
nella mia Didattica, da una donna di alto animo che aveva saputo crearsi le collaboratrici e investirle del suo santo
entusiasmo325.
Lo studio della Montesca rimase un progetto destinato a non realizzarsi nell’immediato,
anche a causa della guerra, durante la quale, come è noto, Lombardo Radice fu assai occupato nel
servizio propaganda e assistenza dell’esercito italiano326. Ma fin dall’ottobre del 1915, all’epoca
della visita umbra, egli mostrava di avere chiare le idee di cosa avrebbe dovuto fare non appena il
conflitto bellico fosse terminato. Nella stessa lettera, infatti, progettava che «a guerra finita»
avrebbe curato lo studio sulla Montesca e ripreso la pubblicazione dei «Nuovi doveri»,
«dedicandoli in gran parte alla formazione del maestro elementare». Inoltre non sottovalutava «il
grosso problema delle scuole dei paesi conquistati e redenti da studiare e l’azione del governo
dove da spronare dove da in vigilare».
In effetti fin dall’inizio del 1919 Lombardo Radice si concentrò sullo studio relativo alla
Montesca, come testimonia l’appunto che l’amico Giuseppe Prezzolini annotò nel suo diario al
termine di un incontro che i due ebbero il 15 gennaio:
Partito Lombardo dopo un’ora eccellente di compagnia in cui mi ha esposto il programma della “Scuola della
Montesca” e l’azione per la scuola elementare in generale per il dopoguerra327.
Poco dopo sollecitato ancora da Prezzolini ad illustrargli ciò che era sua intenzione
realizzare da lì ai prossimi mesi, il pedagogista pur rispondendo di non avere «un programma
definitivo», spiegava di essere animato dall’idea di promuovere una «educazione nazionale» e,
soprattutto, di voler «realizzare» alcune sue idee sul piano concreto, dopo anni di discussioni e di
polemiche. Intendeva, cioè, privilegiare l’azione pratica e a questo riguardo la sua attenzione si
focalizzava su quelle esperienze scolastiche innovative che, sorte autonomamente negli anni
precedenti la guerra, potevano costituire un esempio a cui guardare per edificare la nuova scuola
popolare e primaria italiana. Scriveva a questo proposito:
Farei sorgere un Ente autonomo per l’incoraggiamento alle iniziative libere in favore dell’educazione e sarei sicuro di
riuscire a finanziarlo bene, perché possa operare 328.
325
AFGG, Carteggio, Lettera di Lombardo Radice a Gentile, 17 ottobre 1915.
M. Simonetti, Il servizio «P» al fronte, «Riforma della Scuola», n. 8-9, agosto-settembre 1968,
numero intitolato Nel trentesimo anno della morte di Giuseppe Lombardo Radice, pp. 24-34.
327
Cfr. G. Prezzolini, Diario (1900-1941), Milano, Rusconi, 1978, p. 280.
328
La lettera di Lombardo Radice a Prezzolini del 4 febbraio 1919 è stata pubblicata in Picco,
Militanti dell’ideale, cit. pp. 180-181.
326
117
È chiaro che tale interesse era stimolato dalla conoscenza diretta della Montesca e dallo
studio al quale proprio in quel momento si stava dedicando, come prova la stessa lettera del 4
febbraio 1919. Scriveva, infatti, a proposito delle pubblicazioni cui stava lavorando in quel
momento:
Un altro lavoro sulla scuola dei contadini illustra la riforma Franchetti attuata, da più di dieci anni, nella scuola della
Montesca. Anche questo ha bisogno di un corredo di illustrazioni non indifferente, delle quali molte a colori. Sarebbe
un volume di 150 pagine di testo e 50-60 di illustrazioni varie fuori testo, e sarebbe pronto fra cinque o sei mesi329.
In realtà il libro a cui egli stava lavorando non vide la luce nei tempi previsti nella lettera a
Prezzolini e bisognerà aspettare il 1925 per veder pubblicato Athena Fanciulla, in cui un’ampia
parte sarà dedicata proprio alla Montesca.
A qualche anno prima risaliva, invece, la prima citazione fatta da Lombardo Radice della
scuola umbra all’interno di uno dei suoi scritti. Nel 1921, infatti, sul giornale ticinese di cultura
italiana, «L’Adula», il pedagogista siciliano pubblicava un articolo, stampato l’anno successivo nei
Nuovi saggi di propaganda pedagogica, che aveva per oggetto la Montessori e nel quale per la priva
volta accennava alla Montesca, ricordando la visita compiuta nel 1915, riconoscendo il ruolo
svolto dai Franchetti come primi sostenitori dell’opera montessoriana e affermando di aver
ricevuto dal barone Leopoldo abbondante materiale per «scrivere un volumetto sulla nuova scuola
rurale, che completerò presto tornando sul posto»330.
Se è vero che bisognerà attendere il 1925 per veder pubblicata Athena Fanciulla, è altresì
vero che Lombardo Radice non aveva mai interrotto i rapporti con la Montesca, neanche dopo la
morte del barone Leopoldo, avvenuta nel 1917. All’indomani di questo tragico evento, infatti, egli
scrisse un messaggio alla direttrice delle scuole, Maria Marchetti, la quale a sua volta rispose
ringraziandolo per la sua lettera che recava «conforto e sollievo» e nella quale prometteva di
continuare ad impegnarsi «con fede e amore» per portare avanti il lavoro iniziato da Alice331. Nel
maggio 1918, quando Lombardo Radice era ancora occupato presso l’esercito e per la sua
famiglia si era posto il problema di trovare un luogo adatto dove trascorrere le vacanze estive, il
pedagogista suggerì alla moglie Gemma di scartare l’idea di un soggiorno a Marina di Pisa e di
pensare ad altre località. Le consigliava tra le altre ipotesi, quella di «rinunciare al mare e portare le
creature in campagna, a cura di sole e vita fisica intensa» e a questo proposito parlava della
Montesca come luogo adatto alle loro esigenze considerando anche l’abbondanza di cibo che lì
avrebbero reperito, trovandosi in un periodo caratterizzato dalle ristrettezze economiche e dal
difficile approvvigionamento degli alimenti che era imposto dallo stato di guerra332. A distanza di
quasi un mese il problema non si era risolto come testimonia il carteggio tra i due coniugi. Il 10
giugno, infatti, Lombardo Radice tornava a scriverle parlando degli ostacoli trovati nella ricerca di
un alloggio a causa dell’esodo dei profughi benestanti che dalle zone occupate del Friuli e del
Veneto avevano affittato molte case disponibili per trascorrervi l’estate. Nella stessa lettera
329
Ibid.
Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, cit., p. 199.
331
AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Maria Marchetti a Lombardo Radice, 30 dicembre 1917.
332
Scriveva Lombardo Radice: “Ed avrei in questo caso pensato alla Montesca, unico luogo dove
troveresti con abbondanza latte, uova e forse anche carne e dove troveresti fraterna accoglienza
dalla buona e semplice Marchetti” (Ivi, Carteggio generale, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice a
Gemma Harasim, 19 maggio 1918).
330
118
tornava a suggerire alla moglie di provare a cercare una casa a Città di Castello, cosa che in effetti
fece poco dopo333. Tuttavia la Marchetti le rispondeva il 14 giugno che dopo aver «girato e
chiesto a tutto il paese» non le era stato possibile trovare un alloggio che potesse fare al caso loro
poiché occupato dai profughi334.
I rapporti di Lombardo Radice con la scuola della Montesca nella fase anteriore alla
Riforma culminarono nell’estate 1920 con un lungo soggiorno che il pedagogista trascorse nella
villa umbra tra il luglio e l’agosto di quell’anno, in compagnia della famiglia335. Fu durante tale
periodo che egli venne coinvolto dall’Opera Pia Regina Margherita di Roma, ente cui spettava la
gestione delle scuole dopo la morte del Franchetti, nella cerimonia di inaugurazione della «Casa
delle Maestre», la nuova istituzione di beneficenza sorta grazie alle disposizioni testamentarie del
barone e che consistenza nella realizzazione nella villa padronale di una residenza dove le maestre
avrebbero potuto trascorrere periodi di riposo e di vacanze in un luogo così altamente simbolico.
Nel discorso che egli tenne di fronte alle autorità e alle maestre e che fu dato alle stampe nel 1922
nei Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Lombardo Radice per la prima volta si addentrava
nell’illustrazione delle caratteristiche peculiari della Montesca, che facevano di essa un modello
cui la scuola italiana doveva guardare:
Il segreto della scuola, così vivamente sentito, è questo: l’espressione grafica elevata alla stessa dignità e importanza
della espressione linguistica. Qui il disegno integra sempre la parola, anzi la previene. Occhi attenti e vigile mano al
ritrarre: voi immaginate quale interiorità interiore serietà e compostezza richiedono, come e quanto elevano lo spirito
infantile, lieto della continua creatività sua. […] Qui lo studio delle scienze assume un posto centrale. Ma non è
studio di imparaticci o lettura di libri; è lettura diretta della natura; osservazione ottenuta dallo sviluppo delle piante e
degli animali. Vera e propria scienza; cioè ingenua esplorazione e scoperta scientifica, in cui nulla è «insegnato», ma tutto
è «trovato»336.
Si ritrovano in questa riflessione molti aspetti propri della visione pedagogica di Lombardo
Radice, che contemplava la creazione di una scuola in cui lo spirito infantile potesse liberamente
manifestarsi e la creatività non fosse ostacolata né soffocata dagli adulti, secondo il mito della
«scuola serena» teorizzato dal pedagogista siciliano, vale a dire un «modello particolare di scuola
nuova o attiva in cui al centro si trovano l’attività del bambino e il ritmo stesso del suo
svolgimento spirituale, ma si trova anche il maestro come sollecitatore dell’impegno del bambino
a sviluppare la sua vita spirituale e a creare le condizioni di lavoro tranquillo, intenso, gratificante.
Gratificante proprio perché rispecchia i bisogni profondi del bambino, oltre che le forme del suo
apprendere, che sono bisogni estetici e sociali»337.
333
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice a Gemma Harasim, 10 giugno
1918.
334
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria Marchetti a Gemma Harasim, 14 giugno 1918. Inoltre la
Marchetti, venuta a conoscenza della candidatura di Lombardo Radice alle elezioni politiche del
1919, gli inviò una lettera augurandogli la sua elezione (Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria
Marchetti a Lombardo Radice, 13 novembre 1919).
335
Il ricordo della felice vacanza trascorsa alla Montesca rimase caro al pedagogista come
dimostra la lettera alla figlia Laura scritta in occasione della sua ultima visita nella villa dei
Franchetti, nel 1938: «[…] Ho riveduto con commozione i nostri luoghi della villeggiatura 1920.
Baci Papà» (Ivi, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe a Laura Lombardo Radice, 6 aprile 1938).
336
Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, cit., p. 218.
337
Cfr. la voce curata da F. Cambi, Lombardo-Radice Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. 65, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, p. 541. Sulla scuola serena si veda anche:
119
3. La Montesca ed i programmi del 1923
Chiamato alla fine del 1922 da Giovanni Gentile a ricoprire la carica di Direttore Generale
dell’Istruzione elementare, Lombardo Radice lavorò, come è noto, al rinnovamento della scuola
primaria italiana redigendo, in particolare, i nuovi programmi per la scuola elementare che
andavano a sostituire quelli emanati nel 1905338. Ispirati all’attualismo gentiliano, essi intendevano
rappresentare un taglio netto con il precettiamo tardo-ottocentesco che ancora innervava la
scuola italiana ed un superamento dei riti vuoti e pedanti che la caratterizzavano e contro i quali
Lombardo Radice e gli altri idealisti avevano condotto la loro battaglia culturale nei primi due
decenni del secolo. Alla base dei nuovi programma fu posto, accanto ad alcuni temi di fondo –
come la libertà dell’insegnamento, la comunione spirituale tra insegnante ed alunno, la didattica
come ricerca attiva, l’apertura a tutte le esperienze, la sfiducia nei metodi preconfezionati –,
l’ideale della spontaneità infantile, da conseguire attraverso la valorizzazione degli insegnamenti
artistici, in particolare il disegno e il canto, ma anche la scrittura e la lettura. Grazie all’arte, infatti,
era possibile ottenere, secondo la prospettiva idealistica, la liberazione dello spirito del fanciullo e
l’affermazione della propria soggettività339.
Per quanto attiene al nostro caso, il riferimento alla Montesca era presente in tre passi dei
nuovi programmi. Il primo era contenuto nella parte dedicata al disegno laddove un paragrafo
prescriveva per tutte le classi superiori alla seconda il «Calendario della Montesca», sussidio
didattico che nato nella scuola umbra veniva ora elevato a modello da imitare, «per stimolare la
gara nel disegno, destando altresì un più vivo spirito di ricerca e di osservazione». Le indicazioni
fornite dai programmi erano al riguardo piuttosto dettagliate: si precisava che dovesse essere «un
grande foglio di carta ben consistente, diviso a matita, in molti grandi rettangoli» e nel quale «ogni
giorno un alunno dei più destri nel disegno, col consenso dell’insegnante e per ordine di esso,
staccherà il foglio e, appartandosi dai compagni, disegnerà dentro uno dei rettangoli, un oggettino
di suo gusto, portato da lui a scuola, ovvero osservato nel venire a scuola». Il lavoro doveva
essere datato e firmato dall’alunno e nel suo complesso esso doveva servire a testimoniare «il
variare della natura circostante», e a tal fine venivano disegnati soggetti quali una bacca, un
ramoscello, un fiore, un frutto, un rametto di gemme schiuse, ecc.340.
Dalla scuola dei Franchetti Lombardo Radice prese in prestito anche un altro esercizio
che rappresentò una delle novità dei programmi: si trattava del «soggetto del mese», che nei
programmi fu chiamato «componimento illustrato», esercizio fondato sull’osservazione diretta
della natura che sarebbe culminata con dei disegni rappresentati il mutare dell’ambiente naturale e
E. Sordina, Il pensiero educativo di G. Lombardo Radice, Roma, La Goliardica Editrice, 1980, pp. 3747.
338
I programmi furono emanati con l’Ordinanza Ministeriale dell’11 novembre 1923 in
applicazione al R.D. I° ottobre 1923, n. 2185, in «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica
Istruzione», 1923, pp. 4590-4627.
339
Catarsi, Storia dei programmi, cit., p. 90-92. Sulla storia dei programmi per la scuola elementare si
vedano: I. Picco, I programmi scolastici, Milano, Viola, 1950; D. Bertoni Jovine, I programmi della
scuola primaria nella storia dell’educazione, «Riforma della Scuola», n. 12, 1964, pp. 7-13; F.V.
Lombardi, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1975, Brescia, La Scuola, 1975; A. Santoni
Rugiu, Ideologia e programmi nelle scuole elementari e magistrali dal 1859 al 1955, Firenze, Manzuoli,
1980.
340
Alcuni «Calendari della Montesca» provenienti dalle scuole elementari di Siena e redatti negli
anni Venti sono reperibili tra le carte del pedagogista siciliano conservate in AGLRF, Scuole, b. 69.
120
in una didascalia o legenda scritta che illustrasse il soggetto della rappresentazione grafica. I nuovi
programmi prescrivevano in terza la redazione del componimento illustrato mensile, in quarta del
componimento illustrato annuale.
Infine, un riferimento alla scuola umbra era presente tra le norme che disciplinavano «gli
esperimenti di differenziazioni didattiche», laddove si accordava in taluni casi la possibilità di
effettuare «esperimenti di riforma» rispetto ai programmi ufficiali, sulla stregua di quanto le scuole
modello come la Montesca e la Rinnovata avevano fatto negli anni precedenti con le loro
sperimentazioni didattiche.
4. Polemiche e plausi al modello educativo della Montesca
Quale accoglienza trovò la proposta lombardiana del modello educativo della Montesca
nel mondo scolastico italiano? A questa domanda credo che si possa ragionevolmente rispondere
distinguendo due aspetti strettamente legati uno all’altro eppure distinti: da una parte si colloca il
modello pedagogico della scuola della Montesca, sul quale generalmente fu unanime il giudizio
positivo espresso da pedagogisti di ogni profilo culturale; dall’altro lato, si collocano due esercizi
nati in quella scuola, il componimento mensile ed annuale illustrato e soprattutto il cosiddetto
«Calendario della Montesca», che i nuovi programmi del ’23 introdussero nella scuola italiana
suscitando dibattito in cui emersero giudizi positivi alternati a prese di posizioni apertamente
polemiche.
Quanto alla prima delle due questioni, la buona accoglienza che la Montesca trovò tra gli
uomini di scuola ed i pedagogisti fu trasversale alle correnti di pensiero e destinata a perdurare nel
tempo. Anche l’ex ministro Luigi Credaro, che si mantenne su posizioni anti-idealiste erigendosi a
principale critico dei programmi del ’23, visitava nel maggio 1928 la scuola umbra ottenendone
un’impressione positiva341.
Ma fu soprattutto la dinamica cerchia degli studiosi idealisti ad accrescere la fama di
questa scuola, attraverso una rete di relazioni messa in piedi dalle riviste magistrali da essi dirette
o a loro vicine e dai numerosi contatti che essi riuscirono a stabilire con numerose personalità
sparse su tutta la penisola. Su tutti spicca la figura di Francesco Bettini, che senza esagerazioni, fu
lo studioso più attento della Montesca dopo Lombardo Radice, il quale sviluppò le sue
osservazioni lungo un arco cronologico che si estendeva dai primi anni Venti, quando ricoprì
l’incarico di ispettore scolastico a Perugia nel 1923-’24, e che giungeva sino alle soglie degli anni
Cinquanta.
Fortemente debitore del pensiero del pedagogista catanese, il Bettini è uno dei cosiddetti
«lombardiani», annoverato cioè in quella singolare e variegata schiera di ispettori scolastici,
direttori didattici o scrittori per l’infanzia, che rimasero fedeli all’insegnamento del maestro anche
341
Si veda la lettera che Credaro scrisse pochi giorni dopo la visita: «[…] Ci è grato testimoniarle
la nostra ammirazione dinanzi agli esercizi mirabili eseguiti dai piccoli alunni della Montesca,
esercizi altamente istruttivi per quanti intendono nella esperienza viva dai metodi ritrovare la
verità degli asserti teorici espressi nelle aule universitarie» (ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole
Franchetti», Carteggio amministrativo, b. 55, Lettera di Credaro al Provveditore Salimei, maggio
1928). Si veda anche il resoconto della visita scritto dalla professoressa Benetti Brunelli che
accompagnava Credaro: V. Benetti Brunelli, La R. Scuola di Pedagogia di Roma alla Montesca, «Rivista
Pedagogica», giugno-luglio 1928.
121
dopo la sua morte342. Questa gli appariva, infatti, come un mirabile esempio di «scuola serena», in
cui l’educazione estetica altro non era che «un mezzo atto a educare il fanciullo a esprimersi con
chiarezza e precisione, con sicurezza e sincerità». In essa la creatività infantile aveva piena
possibilità di esprimersi né veniva limitata dallo studio scientifico della natura che, lungi
dall’essere condotto secondo i precetti del positivismo tardo-ottocentesco, di cui l’emblema era
rappresentato dall’«esercitazione un po’ meccanica, un po’ parolaia, un po’ vuota e del tutto
inconcludente che aduggiava la scuola del così detto metodo sperimentale», permetteva invece di
ravvivare l’insegnamento oggettivo343. Mostrando di recepire la concezione educativa
lombardiana, Bettini poteva concludere che la Montesca era una, serena palestra di serie e
feconda e gioiosa attività, allietata dal sorriso della natura e da quello dell’arte. E non persegue le
manifestazioni artistiche per far dell’arte per l’arte o per allevare un popolo di pittori, di cantori,
di novellieri, di commedianti; ma perché tutto ciò che è attività spontanea dell’uomo è creazione e
per ciò è arte nel senso alto e nobile della parola, anche quando fa scienza invece di poesia344.
Un altro pedagogista, il pugliese Giovanni Modugno, recensendo Athena Fanciulla scriveva
che «non senza commozione si leggono per esempio le pagine dedicate alla scuola della
Montesca, la quale, già prima della riforma (non sarà mai ripetuto abbastanza per coloro che
chiamano utopistici i nuovi programmi), ne aveva attuato vari punti importanti»345. La notorietà
della Montesca crebbe anche in seguito alla Mostra Didattica Nazionale, che si tenne a Firenze
nella primavera del 1925 ed in occasione della quale le «scuole nuove» riscossero un notevole
successo. Il pedagogista Giuseppe Giovanazzi che poco dopo fece confluire le sue osservazioni
sulla mostra in un volume dall’emblematico titolo Verso la scuola nuova, si soffermò sulla Montesca,
scrivendo che «la celebre scuola umbra si distingueva sopra tutte le altre per l’importanza data allo
studio dell’ambiente»346.
Anche personaggi per così dire minori e poco noti, come alcuni ispettori scolastici o
direttori didattici influenzati dall’attualismo gentiliano di cui condividevano i presupposti
pedagogici, e che ruotavano nell’orbita del gruppo idealista o che più semplicemente ne
condividevano le idee, lodarono lo spirito che informava la Montesca: tra questi Bruno Sestini,
ispettore delle scuole rurali romagnole gestite dall’Ente di Cultura nonché legato personalmente
ad Ernesto Codignola; Italo Ciaurro, prima maestro e dal 1916 direttore delle scuole comunali di
Perugia, influenzato dall’attualismo gentiliano di cui fu un fervente sostenitore; l’ispettore
scolastico Edoardo Predome, studioso del linguaggio grafico dei bambini a cui dedicò una Mostra
342
È significativa al riguardo la lettera che Bettini scrisse pochi giorni dopo la morte di Lombardo
Radice a Codignola in cui mostra chiaramente la sua fedeltà ideale al pedagogista siciliano:
«Lombardo Radice è morto; e il drappello esiguo che ancora lo sentiva maestro, incitatore e
guida, calerà nel silenzio disperso e dimenticato. Io non muterò di una linea» (AEC,
Corrispondenza, Lettera di Francesco Bettini a Ernesto Codignola, 3 settembre 1938). Interessanti
informazioni sui «lombardiani» si possono trovare in: G. Chiosso, Il rinnovamento del libro scolastico
nelle esperienze di Giuseppe Lombardo Radice e dei «lombardiani», «History of Education & Children’s
Literature», I, 1 (2006), pp. 127-139.
343
F. Bettini, La Montesca, «I diritti della scuola», n. 31, 7 giugno 1925, pp. 485-487.
344
F. Bettini, Spirito e forme alla Montesca, «I diritti della scuola», n. 36, 26 luglio 1925, pp. 563-564.
345
G. Modugno, Per la riforma interiore della scuola elementare e per l’attuazione dei nuovi programmi,
Venezia, La Nuova Italia, 1927. Il capitolo «Athena Fanciulla e gl’insegnamenti artistici»
contenuto in tale libro, fu pubblicato nel fascicolo di agosto-settembre 1926 nel periodico «La
Scuola di Puglia. Bollettino del R. Provveditorato agli studi di Bari».
346
G. Giovanazzi, Verso la nuova scuola italiana. Notizie e considerazioni sulla mostra didattica nazionale di
Firenze, Firenze, Bemporad, 1926.
122
tenutasi nel 1924 a Casal Monferrato ed in contatto epistolare con Lombardo Radice347. La
notorietà conquistata dalla Montesca si manifestò anche nelle numerose visite che studiosi italiani
e non, gruppi di maestre o di studentesse di istituti magistrali, fecero nella scuola di Città di
Castello.
La seconda questione legata all’accoglienza nel mondo magistrale e pedagogico italiano
della proposta lombardiana della Montesca, riguarda, come si diceva prima, il componimento
mensile ed annuale illustrato ed, in specie, il «Calendario della Montesca». Quest’ultimo, infatti, se
da un lato divenne l’emblema della nuova scuola elementare italiana, dall’altro lato non
rappresentò sempre una novità ben accettata e adeguatamente recepita dalla generalità dei
maestri. Infatti le indicazioni di Lombardo Radice riguardo i Calendari monteschiani suscitarono
un dibattito di ampie proporzioni soprattutto nei primi anni della Riforma, a cui parteciparono
personalità di provenienza culturale e percorsi professionali differenti. Si trattò di una discussione
che alternò momenti di riflessione pacata e collaborativa a momenti di scontro polemico, in cui è
possibile distinguere due diverse fasi: l’una, coincidente con i primi anni successivi alla Riforma,
durante la quale furono molti gli studiosi, soprattutto di orientamento idealista, che si espressero
in sostegno dell’utilità e del valore dei «Calendari della Montesca» e dei componimenti; l’altra fase,
successiva alla fine degli anni Venti, in cui le voci favorevoli ai Calendari monteschiani rimasero
poche e ristrette alla cerchia dei cosiddetti «lombardiani» di stretta fede, come il Bettini, mentre si
fecero più rumorose le voci critiche da parte di uomini di scuola che pur avevano gravitato
nell’orbita dell’idealismo ed erano stati influenzati dalla lezione di Lombardo Radice. Quest’opera
di revisione critica trovava un suo sbocco finale con i nuovi programmi per la scuola elementare
del 1934, con i quali veniva reso facoltativo, e non più obbligatorio, la pratica del «Calendario
della Montesca»348.
Per ricostruire questo dibattito, di cui si sono appena descritte le tappe, bisogna partire
più in generale dall’impreparazione e dalla confusione con cui i maestri italiani applicarono le
novità contenute nella Riforma Gentile. Se è vero che le polemiche innescate dalla riforma più
forti riguardarono la scuola secondaria e l’università349, per quanto atteneva alla scuola primaria i
rilievi mossi riguardavano soprattutto i nuovi programmi per la scuola elementare. Come è noto
le polemiche verterono soprattutto sull’introduzione dell’insegnamento religioso ma quello che a
noi interressa in questa sede sono le critiche che si appuntarono anche sulle nuove disposizioni
relative gli insegnamenti artistici, in specie il disegno, per l’alto valore formativo che ora veniva
riconosciuto ad esso. Tale rivalutazione provocò interventi critici da parte di chi, in buona
sostanza, sosteneva la tesi secondo la quale si voleva impropriamente fare dei bambini dei piccoli
«artisti», avanzando nei loro confronti pretese esagerate, e danneggiando peraltro gli altri
insegnamenti, quali la scrittura e la lettura, che venivano considerati molto più importanti350.
347
Si vedano le lettere conservate in AGLRR.
Va tuttavia osservato che anche Lombardo Radice si rese conto dei problemi emersi tra gli
insegnanti ai quali veniva richiesta la redazione dei Calendari. Ma la causa di ciò era da lui
attribuita alla scarsa attenzione con cui i maestri avevano letto i programmi e alla svogliatezza di
molti di essi che non intendevano rinnovarsi. Di tale problema ne ebbe coscienza tanto da inviare
il 20 febbraio 1925 una circolare ai maestri dell’Animi, di cui ormai si occupava dopo le
dimissioni dal Ministero del giugno del ’24, contenente nuove indicazioni da seguire per la
compilazione dei Calendari. La circolare è riprodotta in G. Lombardo Radice, La buona Messe,
Roma, Animi, 1926, pp. 85-87.
349
De Fort, La scuola elementare italiana dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., p. 377.
350
Catarsi, Storia dei programmi, cit., pp. 90-91.
348
123
Anche nei riguardi della scrittura, l’eliminazione dei componimenti di fantasia che le nuove
norme avevano decretato, se da un lato venivano da taluni salutati positivamente in quanto
ponevano fine ad esercizi ritenuti pedanti e retorici, dall’altro l’introduzione dei componimenti
mensili ed annuali, presi in prestito dalla Montesca, diedero luogo a non pochi equivoci ed
incomprensioni tra gli insegnanti.
In questa cornice si inseriva il dibattito, per la verità assai poco noto, intorno al
«Calendario della Montesca» e al componimento mensile e annuale351.
Onde superare le difficoltà, che peraltro apparvero subito evidenti tra i maestri nel dover
applicare le prescrizioni sui Calendari, veniva pubblicata nel 1924 un’agile guida alla loro
compilazione. L’autore era Gaetano Piacentini, dinamico dirigente dell’Animi, amico di
Lombardo Radice nonché ammiratore dell’opera educativa di Alice Franchetti 352. Piacentini
pubblicò tale guida in due edizioni, la prima presso l’editore Vallecchi di Firenze, la seconda
presso una tipografia di Tivoli. Consistente di sole 7 pagine e contenente 3 illustrazioni di
Calendari, la guida di Piacentini aveva come principali destinatari i maestri ai quali venivano
illustrate le modalità e le finalità del nuovo strumento didattico, del quale si salutava con
soddisfazione l’introduzione nelle scuole italiane.
Il dibattito sulla Montesca e sugli strumenti didattici che la Riforma aveva introdotto nella
scuola italiana, trovava la sua articolazione più compiuta tra il 1924 e il 1925, quando Lombardo
Radice, al fine di divulgare la conoscenza delle «scuole nuove», pubblicò alcuni articoli apparsi
sulla rivista da lui diretta, «L’Educazione Nazionale», o su altri periodici scolastici italiani nonché i
volumi Athena Fanciulla e il Linguaggio grafico dei fanciulli. Apparivano in quel momento i suoi studi
sulle scuole ticinesi, pubblicati sulle pagine de «L’Educazione Nazionale», de «L’Adula» e de
«L’Educatore di Lugano», le sue riflessioni sulla Scuola Rinnovata dalle colonne del «Corriere
delle Maestre», le sue analisi sul componimento nelle scuole di Gorizia pubblicato nel periodico
«La scuola al confine». Non si trattava soltanto di un’opera di divulgazione delle scuole-modello
fine a sé stessa, ma essa era oltremodo funzionale a mostrare agli scettici e ai dubbiosi
commentatori dei nuovi programmi che le novità introdotte potevano essere applicate da tutti gli
insegnanti dal momento che questa già da anni era una realtà consolidata in quei particolari
ambienti formativi353.
Nello stesso periodo in cui apparvero gli articoli sulle altre realtà scolastiche innovative,
Lombardo Radice pubblicava in diversi fascicoli su una delle principali riviste magistrali del
tempo, il «Corriere delle maestre», lo studio intitolato Della Montesca, della scienza dei fanciulli, dei
compiti, del disegnare e di altre cose, poi raccolto e pubblicato nel corso dello stesso anno nel ben noto
351
Per quanto mi risulta solo il Bettini, profondo conoscitore della Montesca, accennò
brevemente a tali polemiche nel volume I programmi di studio per le scuole elementari dal 1860 al 1945,
Brescia, La Scuola, 1953, pp. 154-157.
352
Cfr. nota n. 20.
353
A titolo di esempio si riportano i commenti polemici di Lombardo Radice nei confronti dei
critici dei programmi. Chiamando in causa Annibale Tona che aveva affermato che i sostenitori
della riforma andavano «spampanando e diluendo in amplificazioni sesquipedali i più modesti
elementi della riforma e i più semplici prodotti della sua prima applicazione», il pedagogista
scrisse che i suoi vari articoli illustranti le «scuole nuove» concernevano «esperienze didattiche
anteriori alla riforma». E concludeva: «sulla attuazione della riforma abbiamo scritto pochissimo,
facendo sempre le più ampie riserve; non abbiamo nulla amplificato né spampanato» (Lieve
inesattezza da correggere, «L’Educazione nazionale», giugno-luglio 1925, p. 78).
124
Athena Fanciulla354. Nello stesso anno il pedagogista siciliano mandò in stampa un’altra sua
fondamentale opera, Il linguaggio grafico dei fanciulli, studio dedicato al disegno infantile e alla sua
importanza ai fini scolastici355. È notorio che i due volumi dedicavano ampio spazio alla scuola
della Montesca: in particolare nel primo veniva descritta l’esperienza educativa di Alice e
Leopoldo Franchetti, i loro contatti con i rappresentanti del movimento delle scuole nuove, le
finalità e gli strumenti didattici della scuola; nella seconda opera, invece, veniva descritto il
«Calendario della Montesca» ed illustrate le sue caratteristiche.
L’ammirazione che Lombardo Radice manifestò nei riguardi della scuola fondata dai
baroni Franchetti si concentrava soprattutto sul disegno, inteso ed applicato come mezzo atto
allo studio e alla descrizione della natura circostante e delle sue modificazioni, secondo
l’insegnamento di Lucy Latter a cui il pedagogista siciliano attribuiva l’introduzione nella scuola
umbra del Calendario e dei soggetti del mese illustrati. L’interesse mostrato nei confronti del
disegno così come era realizzato alla Montesca era tanto più grande, agli occhi di Lombardo
Radice, poiché esso era concepito in funzione del linguaggio: in tal senso le brevissime didascalie
poste sotto ai disegni, se in un primo momento potevano apparire sinonimo di aridità di
espressioni e quindi destare dei dubbi, in realtà si dimostravano in linea con un’idea del disegno
che eliminava la retorica che troppo spesso dominava negli scritti, secondo una concezione per
cui «il disegno è il correttivo della retorica».
Analizzando poi i quaderni di un’alunna dalla prima alla quinta classe, che Lombardo
Radice aveva portato via con sé in occasione del suo primo viaggio alla Montesca nel 1915,
passava a esaminare i componimenti che, aventi per tema l’osservazione della natura o gli aspetti
pratici della vita del contadino, avevano un carattere scientifico-pratico che ben si confaceva ad
una scuola rurale. In tutto ciò egli vedeva un valore positivo e allo stesso tempo un limite.
L’aspetto che apprezzava era che alla Montesca erano stati quasi completamente banditi i
componimenti di fantasia in uso fino ad allora nella generalità delle scuole italiane ed oggetto di
una polemica condotta da Lombardo Radice che li considerava esercizi retorici e pedanti, inibitori
delle libertà creativa dei fanciulli. Migliori gli apparivano gli esercizi che avevano per tema
l’osservazione della natura o la pratica della corrispondenza. Il limite di questi esercizi, semmai,
era dovuto alla predominanza dell’elemento pratico e logico. A questo proposito egli affermava
che «il sentimento non è soffocato (tutt’altro)» ma tuttavia esso «non trova un posto negli scritti,
se non quando vien da sé, ed è contenuto entro limiti, togliendo le parole inutili».
Tale aspetto appariva però comprensibile agli occhi di Lombardo Radice se si pensava che
la Montesca era una scuola rurale e che la «gran virtù del contadino è il parlar poco, quasi il
rispetto della parola, come cosa che non è da sprecare». È per tale motivo che gli esercizi della
Montesca non furono introdotti nei programmi del ’23 tali e quali venivano svolti nella scuola
umbra, ma essi furono parzialmente modificati, come ebbe cura di precisare Lombardo Radice:
354
G. Lombardo Radice, Athena Fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena, Firenze, Bemporad,
1925. Il giornale diretto da Guido Fabiani ospitò alcuni articoli sul Calendario monteschiano, su
cui si espressero dei giudizi positivi, da parte dei collaboratori Angelo Bronzino e Francesco
Bianchi. Si veda: F. Bianchi, Il disegno, «Il Corriere delle Maestre», 15 febbraio 1925. Bronzino
pubblicò nel 1929 un volume in cui descriveva positivamente i Calendari ed i componimenti
illustrati. Cfr. A. Bronzini, Nella vita di scuola. Alcuni momenti di scuola attiva, Milano, Vallardi, pp. 2333 e pp. 47-93.
355
La seconda edizione del libro, con il titolo La buona messe, apparve nel 1926.
125
I Nuovi programmi, del 1923, hanno eliminato il componimento retorico, più radicalmente forse della Montesca; il
«soggetto del mese» che è alla Montesca limitato allo studio della natura, è diventato il componimento mensile, con
amplissima libertà di scelta dei soggetti; il calendario è stato adottato tale e quale, consacrando ufficialmente il nome
della Franchetti, ma offre più larga possibilità di sviluppi, perché il disegno-giuoco rivela, sin dalle prime classi, le
menti infantilii; la cronaca, che alla Montesca era ed è quasi esclusivamente registrazione di appunti delle osservazioni
sulla natura e degli «esperimenti» relativi, è diventata il diario della vita di scuola, che può raccogliere tutto oltre ciò che
fa la Montesca356.
Queste considerazioni si ritrovano in un altro passaggio di Athena Fanciulla, laddove si
riscontrava che uno studio basato esclusivamente sulla natura poteva limitare il campo delle
osservazioni dal vero, finendo per conferire ai lavori realizzati dai fanciulli un carattere «un po’
troppo regolato», tipico dello spirito «un po’ troppo anglo-sassone» della Franchetti e della Latter.
Ciò faceva sì che il disegno della Montesca non diventasse «mai disegno-giuoco (scopritore della
personalità del bambino)» ma che rimasse «sempre disegno-commento dello studio elementare della
scienza, fatto sul vero»357. Si trattava di una costatazione critica che distingueva la Montesca da
altre due esperienze educative studiate da Lombardo Radice e da lui richiamate, le scuole ticinesi
di Muzzano e di Pila, dove invece i bambini gli apparivano «più artisti, senza esser meno sobri e
«rurali» di questi». Tuttavia queste considerazioni non intendevano svalutare la scuola dei
Franchetti, che rimaneva pur sempre, per usare le parole di Lombardo Radice, «un ideal tipo di
scuola rurale» e dove l’azione di Alice rappresentava un mirabile esempio per «i pigri educatori che
cercano degli alibi».
La vena polemica con cui il pedagogista chiudeva la sua riflessione non era certo casuale
ed era una prima risposta a quelle voci critiche che si erano affacciate avanzando dubbi e
interrogativi sulle novità legate alla Montesca e, più in generale, alle novità introdotte con i
programmi del 1923. Si pensi, per quanto attiene al nostro studio, all’intervento di Lombardo
Radice in risposta alle critiche mosse in Senato e dalla stampa, non solo scolastica, alla riforma358.
Dalle colonne della sua rivista egli affermò che grazie ai nuovi componimenti «il bimbo esplora il
suo mondo» secondo quanto fatto nella «grande esperienza compiuta in venti anni nelle scuole
create alla Montesca dal compianto Senatore Franchetti», e le cui basi poggiavano sui precedenti
356
Lombardo Radice, Athena Fanciulla, cit., p. 60.
Ivi, p. 54.
358
A tal proposito si segnala la presa di posizione che Nicola Festa, grecista e latinista nonché
candidato del Partito Popolare alle elezioni della primavera del 1924, assunse con una serie di
articoli pubblicati ne «Il Popolo» sul tema della politica scolastica. In uno di essi, dopo aver
criticato la proclamata libertà dell’insegnamento contenuta nei nuovi programmi, attaccava il
Calendario della Montesca: «Le nuove prescrizioni arrivano a disciplinare e regolare anche la parte
che per definizione dovrebbe essere lasciata assolutamente libera: la ricreazione dei piccoli alunni
della scuola primaria. Inoltre il maestro deve raccogliere e custodire gelosamente i pupazzetti e gli
scarabocchi degli scolari, tener d’occhio il loro «componimento annuale», e, se Dio vuole, badare
al «Calendario della Montesca» (se qualcuno ignora questa geniale trovata legga l’istruzione nel
citato Bollettino, pagina 4603). Nelle famiglie si sentono ogni giorno lamenti perché quest’anno i
ragazzi tutto imparano fuorché a leggere e scrivere» (N. Festa, Scuola e politica, «Il Popolo», 27
marzo 1924). Il commento non passò inosservato a Lombardo Radice che irritato scrisse di Festa:
«Schernisce, senza conoscerlo, il Calendario della Montesca, che ha una letteratura di insigne
valore (LATTER, ad es., la più vigorosa prosecutrice di Froebel). L’esagerazione si spiega, non si
giustifica, pensando che si tratta dell’articolo preelettorale di un candidato politico» (G.
Lombardo Radice, Vita nuova della scuola del popolo. La Riforma della scuola elementare, Palermo,
Sandron, 1925, p. 225).
357
126
esperimenti didattici americani, inglesi e tedeschi risalenti alla fine dell’Ottocento. Concetti
analoghi si ritrovano in un articolo pubblicato ne «Il Rinnovamento scolastico» nel febbraio del
’25, laddove egli rispondendo ad un critico commentatore dei programmi da lui chiamato con il
nomignolo «piccolo dottor Ciccì», scriveva che con l’introduzione del disegno nei piani di studio
della scuola elementare, l’Italia recuperava un ritardo nei confronti degli altri paesi stranieri359.
Nello stesso anno Lombardo Radice pubblicava in un volume illustrante le caratteristiche della
riforma, una ricca bibliografia di libri ed articoli aventi per oggetto i nuovi programmi, ed in
particolare, il disegno e il «Calendario della Montesca»360.
5. Marcucci, Bettini, Predome, Padellaro: favorevoli e contrari
al «Calendario della Montesca»
Uno degli esempi più emblematici ed interessanti del dibattito che si originò intorno alla
proposta lombardiana della Montesca, ed in particolare del suo più appariscente derivato, vale a
dire il «Calendario della Montesca», è la presa di posizione che Alessandro Marcucci assunse agli
inizi del 1925. Si trattò di una polemica che non finì sulle colonne delle riviste magistrali ma che
invece si svolse in forma epistolare361. Si trattava infatti di una lunghissima lettera nella quale il
noto fondatore delle Scuole dell’Agro Romano, faceva conoscere all’amico «Peppino» tutte le sue
riserve e i suoi dubbi a proposito delle indicazioni da lui date riguardo il disegno.
Le riflessioni del Marcucci erano scaturite, come egli stesso affermava, dalla lettura del
Linguaggio grafico dei fanciulli. Il tono polemico che percorre tutta la lettera è evidente fin dall’incipit:
«Vedendo 100 e 100 e 100 Calendari della Montesca!». Dopo tale premessa, Marcucci passava
subito al cuore della sua riflessione: egli accusava i maestri della mancata comprensione dello
spirito che aveva informato la Riforma Gentile, i quali grossolanamente erano stati più attenti ad
applicare la lettera delle disposizioni normative piuttosto che a coglierne lo spirito che vivificava
quelle norme. Ciò era l’esatto contrario di quanto avveniva in quelle scuole che erano divenute
modello per le moderne teorie attivistiche che da anni vi si sperimentavano e alle quali la Riforma
intendeva ispirarsi. A questo proposito Marcucci scriveva che:
I Maestri della Montesca, della Ghisolfa, delle Case dei Bambini, del Canton Ticino, comprendevano nello spirito e
nella lettera il valore del disegno; vi erano stati cresciuti e vi sapevano e vi fanno crescere i loro alunni; cioè: sanno
essi disegnare, o meglio: sanno intervenire consapevolmente (non da presuntuosi pseudo-artisti) a valutare, a guidare,
a giudicare l’esercizio dei loro alunni; sanno inquadrare il disegno in tutta l’azione educativa della loro scuola, cioè
sono dei veri tecnici; tecnici non nel senso artistico, ma nel senso didattico 362.
359
Scriveva il pedagogista: «Quel che ti è parso una speciosa trovata (il disegno, La Montesca,
etc.) è roba vecchia, che ha i suoi bravi anni» (G. Lombardo Radice, Il disegno nei nuovi programmi,
«Il Rinnovamento scolastico», 1 febbraio 1925).
360
Lombardo Radice, Vita nuova della scuola del popolo. La Riforma della scuola elementare, cit.
361
La lettera in questione, datata 9 febbraio 1925, è quasi interamente riprodotta in Alatri, Una vita
per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., pp. 113-116.
362
Ibid.
127
Allo stesso tempo il fondatore delle Scuole dell’Agro romano giudicava positivamente la
rivalutazione del disegno operata da Lombardo Radice nei programmi della scuola elementare. Il
problema nasceva allora dall’incapacità degli insegnanti, i quali:
inesperti ed ignavi (trascuriamo le eccezioni) si son dati a far copiare i modelli idioti e turbatori
dei giornaletti scolastici o qualsiasi altro disegno o a far disegnare spontaneamente: unicamente
spontaneamente i loro alunni, non sapendo intervenire a guidare, a far afferrare, a rivolgere ad un
fine utile alla vita individuale e collettiva questa salutare tendenza del bambino a disegnare363.
Dopo aver affermato che anch’egli andava meditando sulla Montesca «da 7 o 8 anni»,
Marcucci si scostava dall’interpretazione che Lombardo Radice avevano dato dei Calendari
monteschiani, e finiva per fornire egli stesso una sua personale lettura di quei sussidi didattici sulla
scorta di quanto aveva potuto vedere nelle due scuole umbre.
La critica di Marcucci verteva in buona sostanza sulle prescrizioni date agli insegnanti con
le quali si proibiva loro di intervenire sui fanciulli intenti a realizzare i propri disegni. Tale visione,
che derivava dall’idealismo filosofico che informando i programmi del 1923 aveva negato ogni
intervento del maestro sul bambino al fine di non soffocarne la spontaneità e l’originalità, era
stata, secondo Marcucci, applicata con estremismo dai maestri, i quali si erano attenuti alla lettera
dei programmi e avevano fatto sì che si assegnasse,
il predominio al disegno spontaneo, generalmente interpretato come quello della fantasia e del ricordo, con
scarsissimo ritorno alla osservazione per far meglio, in quanto senza la voce e il consiglio e la critica di chi vede più
giusto (il Maestro), si dà al fanciullo che disegna la sensazione di aver fatto cosa perfetta 364.
Per Marcucci, dunque, risultava fondamentale l’intervento del maestro che doveva essere
«continuo e rivolto ad un fine», contrariamente a quanto invece avveniva nella prassi comune.
Annotava con disappunto a questo riguardo che «nei disegni di tutti o quasi le scuole d’Italia
(tanto Calendari che quaderni) il Maestro non apparisce mai. Lascia fare!!!». Tuttavia il fondatore
delle scuole dell’Agro romano si guardava dal rischio che le indicazione da egli stesso auspicate
avrebbero potuto svilire quella spontaneità infantile che era pur necessario stimolare, e per questo
subito dopo precisava che l’intervento del maestro dovesse essere mirato e ben ponderato.
Scriveva infatti che era necessario un intervento «avveduto, sapiente, graduale del Maestro».
Su una posizione radicalmente diversa rispetto a quella di Marcucci si collocava il
«lombardiano» Francesco Bettini. Dinamico ispettore scolastico, cofondatore della rivista «La
nostra scuola» e prolifico pubblicista nei maggiori periodici scolastici del tempo nonché fortunato
scrittore per l’infanzia, egli fu un convinto assertore dell’orientamento culturale e pedagogico
dell’idealismo prima e dopo la Riforma Gentile, in particolare del pensiero educativo di
Lombardo Radice. Bettini intervenne per la prima volta nel dibattito sul «Calendario della
Montesca» dalle colonne de «I diritti della scuola», dove pubblicò tra il giugno ed l’agosto del
1925 ben sette articoli di approfondimento attinenti alla scuola umbra365. Lo studio prendeva
spunto dalla recente Mostra Didattica Nazionale che si era tenuta a Firenze e nella quale la
Montesca aveva esposto il proprio materiale nel padiglione dei Boboli, ottenendo il gran premio
363
Ibid.
Ibid.
365
Gli articoli di Bettini apparvero in «I diritti della scuola», nei fascicoli del 7 giugno, 14 giugno,
21 giugno, 28 giugno, 12 luglio, 26 luglio, 15 agosto 1925.
364
128
per la qualità della propria didattica. Dopo aver descritto sommariamente le altre scuole-modello
che erano presenti all’esposizione, come la scuola Rinnovata della Ghisolfa, il corso integrativo di
Cotignola, le scuole rurali Faina, Bettini arriva a trattare della Montesca verso la quale mostrò una
grandissima attenzione, analoga a quella che peraltro egli riscontrò in larga parte dei visitatori
della mostra fiorentina tra i quali vi poté constatare un interesse ed una curiosità accresciuti dalla
fama che stava conquistando la scuola dei Franchetti e che era dovuta al «fatto di essere isolata, di
avere un catalogo ragionato degli oggetti esposti, di aver avuto l’onore di una particolare
menzione nei nuovi programmi e la fortuna di essere stata illustrata da Giuseppe Lombardo
Radice»366.
Lo studio di Bettini non tralasciava nessun particolare degno di nota e descriveva le
esperienze botaniche, gli orticelli, la biblioteca, il museo didattico, le escursioni, le osservazioni
metereologiche, il componimento mensile ed annuale illustrato fino ad arrivare al Calendario. Egli
sosteneva che il disegno applicato alla Montesca non aveva «scopi artistici, ma naturalistici o
scientifici, e direi quasi, morali e religiosi, come lo studio della natura di cui fa parte; non serve
per dar modo ai fanciulli di sostituire sgorbi e ideogrammi a parole, espressioni grafiche a pensieri
più esplicitamente formulati; non è insomma il primo linguaggio scritto dell’infanzia, ma la prova di
una osservazione»367. Una concezione ed una pratica del disegno del genere incarnavano
fedelmente lo spirito della riforma. Scriveva ancora Bettini:
La scuola resta anche col disegno fedele allo spirito che la informa; accosta l’anima del fanciullo agli esseri che la
circondano; gliene fa ascoltare la voce; scoprire le leggi che ne governano i rapporti; ammirare la bellezze delle forme;
intendere l’amore che ne disciplina le sorti, gustare la poesia della vita368.
In questo quadro, i «Calendari della Montesca» costituivano un valido strumento didattico
al fine del raggiungimento di quegli obiettivi e le critiche mosse nei loro confronti erano semmai
il frutto di un fraintendimento che aveva finito per trasformare il Calendario in oggetto di
esibizione fine a se stesso, come accadeva spesso quando le maestre per «appagare la piccola
vanità decorativa» facevano di essi dei cartelloni, di tutte le forme (a quadro, a soffietto, a
quaderno, a cartolina, su cartone, ecc.), «terribilmente colorati appesi alle pareti della scuola».
Quasi in contemporanea con gli interventi apparsi sulla rivista di Annibale Tona, Bettini
pubblicò un altro articolo avente per oggetto i Calendari monteschiani nel bollettino del
Provveditorato della Toscana, dove era giunto nel 1924 come ispettore capo. Le incomprensioni
e le errate interpretazioni che la generalità dei maestri avevano dato di tale strumento didattico
erano le motivazioni dichiarate con cui egli presentava questo nuovo intervento in cui ribadiva
che il fine del Calendario fosse quello di destare lo spirito di ricerca e di osservazione nei bambini:
«la fatica grande è la ricerca di ciò che vi si deve disegnare»369.
Un giudizio altamente positivo sul Calendario monteschiano giungeva nei primi mesi
successivi alla Riforma anche dall’Ispettore scolastico di Casale Monferrato, Edoardo Predome. Si
366
Cfr. F. Bettini, Alcune scuole-tipo alla Mostra di Firenze, «I diritti della scuola», n. 30, 31 maggio
1925, p. 472.
367
Cfr. F. Bettini, La Montesca, «I diritti della scuola», n. 32, 14 giugno 1925, p. 501.
368
Ibid.
369
F. Bettini, Il Calendario della Montesca, «La Scuola Toscana. Bollettino del R. Provveditorato di
Firenze», giugno 1925. Bettini ripubblicherà alcune sue osservazioni sulla Montesca in due
volumi: Vita di scuole rurali. Piccolo mondo sereno, Brescia, La Scuola, 1936; Id., La scuola della Montesca,
Brescia, La Scuola, 1953.
129
era egli distinto nel panorama educativo nazionale tanto da attirare l’attenzione di Lombardo
Radice per il suo dinamismo e per l’acuto interesse dimostrato nei confronti del linguaggio
grafico dei fanciulli, che lo aveva portato ad intraprendere uno studio sul disegno e ad organizzare
una Mostra Didattica che si tenne nel 1924 nella città piemontese370. Una parte rilevante
dell’esposizione fu dedicata ai Calendari, di cui ne furono esposti moltissimi esemplari (oltre 500),
e intorno ad essi fu stimolata la «discussione tra Insegnanti, Direttori e Ispettori; sì che nella sua
genesi la mostra dei ragazzi alimentò il fervore della discussione dei Maestri». In effetti, anche
Predome sosteneva l’idea presente nel pensiero educativo lombardiano, che il Calendario potesse
diventare uno strumento in grado di stimolare lo spirito infantile a manifestarsi, rivelando «i gusti,
i caratteri, i tic personali, le liete bizzarrie degli spiriti fanciulleschi, che ci consentono una
completa conoscenza degli scolari»371.
Nell’orbita del gruppo idealista si collocava un altro intervento a favore del Calendario
monteschiano, quello di Bruno Sestini. Ispettore scolastico alle dipendenze dell’Ente di Cultura e
vicino alle posizioni di Codignola, Sestini dedicava nel 1926 un articolo al Calendario in cui non
poteva fare a meno di costatare le errate applicazioni dei programmi da parte degli insegnanti, ai
quali raccomandava di intendere tale esercizio come uno strumento di ricerca e, allo stesso
tempo, come un mezzo capace di favorire la comunione con la natura. Le maestre, invece, il più
delle volte non avevano compreso il significato dei Calendari, riducendoli a semplici esercizi di
disegno in cui ad essere rappresentati erano oggetti che nulla o poco avevano a che fare con la
natura. In realtà, sosteneva Sestini, ancor prima del disegno veniva un «antecedente spirituale» che
era rappresentato dalla «ricerca della natura viva», grazie alla quale i «frammenti di vita» raccolti
potevano entrare in classe ed essere, per così dire, interiorizzati dai bambini che solo così
potevano sentire che «tutto è Vita, Vita nella Vita, la minore nella maggiore e tutto entro lo
Spirito di Dio»372.
Nonostante queste prese di posizioni in favore del Calendario monteschiano le critiche
che si erano apparse fin dai primi tempi si fecero sempre più intense, anche da parte di chi pochi
anni prima aveva approvato le novità della Riforma Gentile ed i programmi del ’23. Era il caso di
Nazareno Padellaro il quale nel 1927 scagliò un veemente attacco al «Calendario della Montesca»
che polemicamente chiamò il «Calendario della Menzogna»373. Il motivo di tale definizione era
dovuta alla non sincerità con cui essi venivano realizzati dai maestri, i quali spesso intervenivano
in prima persona per renderli esteticamente più belli. Inoltre Padellaro costatava polemicamente
che il Calendario era finito per diventare l’emblema dei nuovi programmi a causa dell’eccessiva
enfasi che con cui era stato giudicato. Scriveva a questo proposito:
370
Predome inviò all’inizio del 1925 al pedagogista siciliano i disegni proiettati durante la
conferenza da egli tenuta in occasione delle mostra, nel settembre del ’24. Oltre ai disegni, spedì
anche venti Calendari della Montesca (AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Edoardo Predome a
Lombardo Radice, 6 febbraio 1925).
371
E. Predome, Quello che ha insegnato la mostra dei disegni dei nostri ragazzi (a proposito della Mostra
didattica di Casal Monferrato), «Bollettino del R. Provveditorato agli studi di Torino», n. 1-2, ottobrenovembre 1924, pp. 800-803.
372
B. Sestini, Il “Calendario della Montesca”, «La nuova scuola italiana», n. 22, 7 marzo 1926, pp.
385-386.
373
Padellaro, Scuola fascista, cit., pp. 173- 186.
130
Tutti a richiederlo, ad esaminarlo; diagnosi, prognosi, cura: il maestro finì con il convincersi che il segreto della
riforma stava in quel rettangolo (a proposito dev’essere un rettangolo o un quadrato?) di carta, che diventò
definitorio come un’epigrafe 374.
Oltre all’improprio intervento dei maestri che rendeva fallaci i Calendari, Padellaro
criticava anche il fatto che a lungo essi erano stati considerati come esercizi attinenti al disegno,
mentre a lui apparivano come più legati all’insegnamento delle scienze.
Sulla stessa linea d’onda di Padellaro e per certi versi ancor più critico, si collocava l’ispettore
scolastico nonché direttore delle pagine di Didattica de «I diritti della scuola», Giorgio Gabrielli.
Nonostante che egli avesse difeso in modo pressoché incondizionato i nuovi programmi per la
scuola elementare durante i primi anni della riforma e condiviso l’impostazione data da
Lombardo Radice di cui si professò un profondo ammiratore, nel 1929 Gabrielli attaccava il
Calendario monteschiano in modo piuttosto violento. Facendo propria l’espressione di Padellaro
del «Calendario della Menzogna», egli sostenne che se questo dovesse essere «quella cosa ipocrita
ed inutile che tutti conosciamo, allora cento volte meglio non farne nulla!»375. Dopo aver
affermato di essere convinto «della sua relativa inutilità in nove casi su dieci», egli si lanciava
polemicamente in un attacco virulento contro il sussidio didattico nato alla Montesca:
quando la finiremo di svenire davanti a un disegno qualsiasi e di gridare al miracolo dinanzi a qualsiasi pupazzo, ci
accorgeremo che il fumo che ci ha annebbiato la vista, e che di cinquanta alunni disegnatori, solo due o tre un giorno
trarranno profitto di questo abilità. Il calendario della Montesca o si fa secondo lo spirito e il metodo della scuola
fondata da Alice Franchetti, o è meglio non farlo; ed è per questo che io preferisco che non sia fatto: tempo perduto
in meno, da dedicare a più proficue occupazioni. Mi sono spiegato? 376
I commenti di Padellaro e Gabrielli danno il senso della misura di come ormai il
Calendario monteschiano, dopo una prima fase in cui era stato elevato a modello e difeso dalle
iniziali critiche che si erano appuntate su di esso, subì una svalutazione sul piano del dibattito
pedagogico, ma che forse era già stata preceduta nel campo della pratica didattica da un analogo
trattamento da parte della generalità dei maestri italiani, che non avevano bene compreso il
significato di questo strumento didattico e le modalità attraverso le quali realizzarlo. In tale
quadro allora ben si giustificava la scelta compiuta dalla Commissione che nel 1934 revisionò i
programmi per la scuola elementare e che per quanto atteneva l’insegnamento del disegno rese
facoltativo, e non più obbligatorio, l’uso del Calendario limitandolo alla sola classe quinta377.
Quello che era stato uno dei simboli più appariscenti dei programmi del 1923 cadeva,
dopo un decennio durante il quale esso fu oggetto di attenzione, di celebrazione e di polemica.
Nonostante ciò per Lombardo Radice non veniva meno quella linfa vitale che la scuola della
Montesca riusciva ancora a produrre, nonostante le difficoltà in cui si trovava e la mancanza di
una guida ideale come Alice. Questo pensò l’ormai anziano pedagogista quando nell’aprile 1938
tornò per l’ultima volta in Umbria. Il motivo della sua visita era quella di consultare i libri della
biblioteca dei Franchetti e il carteggio privato dei baroni al fine di allestire una nuova ristampa di
374
Ivi, p. 176.
Il direttore, Consulenza didattica, «I diritti della scuola», n. 11, 22 dicembre 1929, p. 176.
376
Ibid.
377
Tale decisione fu apprezzata anche da Giovanazzi che la giudicava «assai opportuna». Si noti
la differente posizione che egli espresse nel 1926 sul Calendario, giudicato allora come un mezzo
adatto ad interpretare lo spirito dei nuovi programmi del ’23. Cfr. Giovanazzi, Verso la scuola
nuova, cit., pp. 21-23.
375
131
Athena Fanciulla, desiderio che rimase inesaudito a causa del sopraggiungere della morte che lo
colpì il 15 agosto di quell’anno. Pur non reperendo l’archivio dei due coniugi, egli trovò
«moltissimi dei libri cui la Baronessa Franchetti si era ispirata per realizzare la sua geniale
iniziativa didattica» che gli avrebbero offerto un «ottimo spunto» per condurre a termine il lavoro
che si era proposto di fare. In quell’occasione visitò di nuovo le scuole della Montesca e di
Rovigliano traendo motivo di ritenere che esse portavano avanti degnamente il lavoro iniziato da
Alice. Scriveva a questo proposito al Presidente dell’Opera Pia Regina Margherita, Francesco
Salimei:
mi è parso doveroso visitare una per una tutte le classi, così alla Montesca come a Rovigliano. Mi sono trattenuto a
lungo e ho preferito far scuola per entrare nell’intimità dei fanciulli. Così ho capito di più come vivono queste scuole.
Ti posso assicurare che la tradizione buona della Franchetti è sempre attiva e che le scuole dell’Opera Pia sono degne
dell’ideale che tu persegui. Ottime. Ieri, poi, ho adunato le maestre e le ho intrattenute a lungo per indicare loro che
cosa possono fare di nuovo; ho ascoltato i loro quesiti; ho risposto esaurientemente. Mi è parso che la conferenza sia
stata utile378.
Lo stesso giudizio Lombardo Radice lo esprimeva alla figlia Laura in una lettera inviata durante il
soggiorno alla Montesca:
Ieri ho visitato le antiche care scolette della Montesca. Sono sempre vive sebbene la riverenza per la tradizione
potesse far pensare che agisse da “cristallizzatore” 379.
Con la morte del pedagogista le scuole della Montesca e di Rovigliano ed, in particolare,
la direttrice Maria Marchetti perdevano un punto di riferimento che per circa venti anni era stata
una sorta di guida spirituale, dopo la scomparsa di Alice. Il «buon papà», come lo definì la
Marchetti, era stato un faro che con le sue visite o le sue lettere aveva dato conforto nei momenti
di sfiducia nonché consigli e suggerimenti pratici per la didattica380. La morte di Lombardo
Radice, a cui seguì il sopraggiungere della guerra, decretarono il calo di attenzione che aveva
interessato la Montesca. Come ricordava la Marchetti, a partire dal 1923 «fu un succedersi di visite
di insegnanti italiani stranieri e la stampa scolastica di vari paesi si occupò di queste scuole che
ebbero un periodo fiorente che proseguì […] fino al 1940-41»381. Una delle ultime visite, avvenuta
nel 1942, fu quella del Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, il quale arrivava alla
Montesca dopo una nutria schiera di esponenti del Regime che nel corso del Ventennio si erano
recati alla Montesca, non solo per rendere omaggio ad una scuola prestigiosa ma forse anche
nell’ottica della valorizzazione di quelle scuole-modello rurali alle quali richiamarsi, in modo più o
meno strumentale, al fine di creare la nuova scuola rurale italiana, secondo un progetto che il
governo fascista portò avanti dalla fine degli anni Venti, contestualmente alla campagna per la
ruralizzazione della società.
Il dopoguerra vedeva la Montesca riprendere le sue attività scolastiche che sarebbero
proseguite tra grandi difficoltà (problemi economici che colpivano gli stipendi delle maestre e
378
ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti», Carteggio amministrativo, b. 55, Cartolina di
Lombardo Radice a Salimei, 8 aprile 1938.
379
AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe Lombardo Radice alla figlia Laura, 6 aprile
1938.
380
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria Marchetti a Gemma Harasim, 13 aprile 1938.
381
Relazione di Maria Marchetti conservata in ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti»,
riprodotta in: Buseghin, Cara Marietta…, cit., p. 491.
132
drastico calo degli iscritti a seguito dell’esodo dalle campagne) fino ai primissimi anni Ottanta, ma
ormai la situazione era profondamente cambiata: i programmi del 1945 eliminarono ogni
riferimento alla scuola umbra, compreso il famoso Calendario. Se ancora per qualche anno la
Montesca richiamò una certa attenzione tra gli insegnanti e il personale della scuola, questo era
ormai l’effetto di un eco che andava progressivamente scemando.
133
Capitolo terzo
Il «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali»:
Felice Socciarelli e la scuola di Mezzaselva
1. Premessa
Nella lunga ma ancor poco esplorata galleria di maestri ed educatori con cui Giuseppe
Lombardo Radice venne in contatto durante la sua intensa vita ed i cui nomi ci sono noti solo in
taluni casi grazie all’opera di divulgazione e di propaganda pedagogica da lui fattane, il nome del
maestro Felice Socciarelli ha goduto di una pressoché totale disattenzione in sede storiografica382.
Ben presto, infatti, altri nomi di educatori o di scuole modello da loro animate si sono facilmente
imposti nell’immaginario comune: quello, ad esempio, di Maria Boschetti Alberti per l’opera di
rinnovamento scolastico attuato in Canton Ticino, quelli di Alice e Leopoldo Franchetti per
l’introduzione dei metodi attivistici nelle scuole de La Montesca e di Rovigliano da loro fondate,
quello di Alessandro Marcucci e Giovanni Cena per la capillare rete delle scuole dell’Agro
Romano, quelle dell’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, quello della scuola di
Portomaggiore383.
Eppure tra il pedagogista catanese e il maestro si creò un rapporto di stima professionale
reciproca nonché un legame di amicizia personale che durò in maniera ininterrotta per circa venti
anni e che fu consacrato sul piano pubblico dall’appellativo che Lombardo Radice volle
conferirgli in un suo scritto: quello di «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali». È per tale
motivo che si impone a nostro giudizio l’esigenza di ricostruire la trama delle relazioni intercorse
tra i due personaggi, non ancora pienamente illuminate, attingendo a documentazione di vario
genere, tra cui alcune lettere in gran parte inedite. Ciò permetterebbe inoltre di comprendere
come uno sconosciuto maestro, peraltro privo della canonica formazione destinata ad una
persona che avesse voluto diventare insegnante elementare, sperduto nella remota campagna
382
Da un’indagine bibliografica risulta che l’unico titolo su Socciarelli è quello di O. Sagramola,
L’apostolato educativo di Felice Socciarelli nella scuola italiana del primo Novecento, Viterbo, Sette Città,
2001.
383
Sull’esperienza della Boschetti Alberti si rinvia a: F.V. Lombardi, Maria Boschetti Alberti, Milano,
Le Stelle, 1969; L. Arcangeli, voce «Boschetti Alberti Maria», in Enciclopedia pedagogica, diretta da
M. Laeng, Brescia, La Scuola, 1989-2003, vol. I , pp. 1925-1929; M. Peretti, Maria Boschetti Alberti,
Brescia, La Scuola, 1963; L. Saltini, La diffusione dell’attivismo pedagogico nel Canton Ticino, «Annali di
storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», n. 6, 1999, pp. 247-278; Id., Maria Boschetti
Alberti e il mondo culturale ticinese, «Quaderni del Bollettino Storico della Svizzera Italiana», 1,
Salvioni, Bellinzona 2004; sulla Montesca approfondimenti in S. Bucci, La scuola della Montesca. Un
centro educativo internazionale, in P. Pezzino, A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro
tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento si vedano anche: voce
«Montesca, scuola» curata da R. Titone, in Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino,
Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344; V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni
Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E. Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della
Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee editoriali, 1984; sulla scuola di Portomaggiore cfr.
R. Nigrisoli, La mia scuola, a cura di F. Borruso, Milano, Unicopli, 2011; F. Borruso, La mia scuola.
Il diario di una maestra all’Archivio Didattico Lombardo Radice, «History of Education & Children’s
Literature», VII, 1 (2012), pp. 165-180.
134
dell’Agro romano, fosse riuscito nel giro di pochi anni a uscire dalla condizione di anonimato in
cui si trovava, riuscendo a far apprezzare la propria prassi educativa e perfino a godere di una
certa notorietà nel panorama della pedagogia italiana tra le due guerre. Da allora, infatti, il nome
di Socciarelli e insieme al suo anche quello di Mezzaselva – il villaggio di pastori nei pressi di
Palestrina dove avrebbe avuto luogo la sua carriera magistrale in una scuola ospitata nientemeno
che in una capanna, dopo un breve periodo di insegnamento ai soldati della prima guerra
mondiale in convalescenza – cominciarono ad essere conosciuti e studiati da quanti in quel
periodo si posero il problema, sulla spinta delle nuove teorie attivistiche, di creare un ambiente
scolastico che meglio aderisse alla realtà concreta della vita delle genti rurali. Nel ripercorrere
questo filo non si potrà non tenere conto del mutare della temperie culturale che accompagna il
percorso del maestro, dall’idealismo lombardiano, al realismo pedagogico degli anni Trenta fino
all’auspicio del «ritorno a Lombardo Radice» espresso da Socciarelli nel secondo dopoguerra. Un
itinerario nel quale Socciarelli senza ombra di dubbio sarà debitore del pensiero del pedagogista
catanese, ma tuttavia capace, sulla scorta della propria esperienza a contatto con i contadini, di
maturare una concezione della pedagogia e della didattica per la scuola rurale assai particolare,
correggendo alcuni eccessi e deformazioni di quell’idealismo vuoto e astratto riproposto, dopo la
riforma Gentile del 1923, in modo pedissequo e acritico da tanti ripetitori.
2. L’incontro con Lombardo Radice e la scoperta dell’idealismo pedagogico
Il modo in cui Socciarelli entrò in relazione con Lombardo Radice resta ancora oggi
sconosciuto. È certo che i primi contatti tra i due datano al periodo in cui il pedagogista siciliano
si trovava ancora a Catania, dove insegnava nella scuola normale cittadina, sebbene il suo nome
era oramai più che noto negli ambienti pedagogici, per la pubblicazione in particolare delle Lezioni
di didattica (1913) e per il suo impegno militante in favore del rinnovamento su basi idealistiche
della scuola propugnato prima sulla rivista «Nuovi doveri» e poi su «L’Educazione nazionale»,
fondata nel 1919. La prima testimonianza che ci è pervenuta a questo proposito è una lettera che
Lombardo Radice scrisse dalla città siciliana all’allora sconosciuto maestro di Mezzaselva il 29
aprile 1920 e nella quale, usando l’inconfondibile stile che lo contraddistinguerà, esprimeva
ammirazione a Socciarelli per la sua opera, incoraggiandolo a proseguire su questa strada.
Quest’ultimo, infatti, gli aveva scritto una lettera, a noi non pervenuta, in cui vi aveva narrato la
propria esperienza educativa che era iniziata pochi mesi prima, il 22 ottobre 1919, come maestro
nella scuola di Mezzaselva, gestita dall’ente delle Scuole dell’Agro Romano guidato da Alessandro
Marcucci. Si trattava di uno sperduto villaggio di capanne a pochi chilometri dalla capitale eppure
lontanissimo dalla civiltà moderna, dove le persone vivevano in uno stato quasi primitivo, senza
servizi, senza strade e senza ogni benché minimo conforto e dove lo sviluppo dei bambini era
fortemente compromesso. Alla professione magistrale Socciarelli era arrivato, come è noto, in
modo alquanto fortuito: nato in una famiglia di contadini della provincia di Viterbo, era cresciuto
lavorando nei campi pur mostrando una sensibilità verso il sapere e la cultura a cui non aveva
potuto accedere per ragioni economiche tanto che un suo coetaneo ha ricordato come i rari libri
che gli capitavano per le mani venissero da lui letti di notte «al fumoso lume della lucerna ad olio,
135
di nascosto del padre»384. Fu così che a 18 anni Socciarelli era emigrato, come tanti altri italiani,
nell’America meridionale in cerca di fortuna, ma da lì era ritornato poco dopo, finché venne
richiamato sotto le armi dopo lo scoppio della guerra di Libia nel 1911. Come è noto, sul suolo
libico si verificò quell’accadimento che cambiò la vita di quel giovane contadino: rimase, infatti,
ferito ad un braccio dallo scoppio di un ordigno che gli causò la perdita della funzionalità dell’arto
e che lo condusse in alcuni ospedali militari romani dove avrebbe conosciuto Elisa Ricci, una
signora dell’alta borghesia che tra i feriti di guerra prestava la sua opera come Dama della Croce
Rossa e che intuì la sensibilità e la voglia di apprendere di Socciarelli, unitamente alla sua
intenzione di diventare maestro, rivolgendosi per questo ad una sua amica, nipote del senatore e
uomo politico Luigi Luzzatti, affinché quel soldato potesse compiere gli studi necessari per
esaudire quel desiderio.
Lungi dal volersi dilungare su episodi già noti, vale la pena soffermarsi su due aspetti che
non sono stati mai messi in evidenza finora. In primo luogo si deve ricordare che la signora Ricci,
nata Guastalla e sposata al patriota veneziano Alberto Errera, si era risposata dopo essere rimasta
vedova nel marzo 1900 con Corrado Ricci, archeologo e critico d’arte ma soprattutto autore di un
pioneristico studio sul linguaggio grafico dei fanciulli nel panorama degli studi italiani: nel 1887,
infatti, in pieno clima positivista, egli aveva stampato a puntate sul giornale «Il Caffaro» di
Genova e integralmente presso l’editore Zanichelli, uno studio intitolato L’arte di bambini in cui
veniva per la prima volta teorizzata la scoperta del «bambino artista», concetto destinato a grande
fortuna a partire dal secondo decennio del Novecento per merito dell’idealismo pedagogico e, in
specie, grazie all’opera di Lombardo Radice che tra l’altro lesse e apprezzò quel volume385. La
signora Ricci, dunque, oltre ad essere una donna colta e brillante, come viene ricordata dai
contemporanei, doveva possedere anche una spiccata sensibilità verso i problemi della cultura e
dell’educazione quando decise di aiutare Socciarelli a diventare maestro. Prova di ciò è, tra le altre
cose, una lettera del 1913 alla scrittrice Laura Orvieto in cui si comprende chiaramente come ella
fosse una sostenitrice del metodo Montessori per i «meravigliosi risultati» che permetteva di
ottenere386.
384
Socciarelli nacque a Tessennano, piccolo borgo nei pressi di Canino, il 10 settembre 1887.
Rimasto orfano di madre all’età di cinque anni, si trasferì con il resto della famiglia a Canino nel
1892. La citazione è tratta dal ricordo di Socciarelli dovuto a Manlio Pompei pubblicato in «Il
giornale d’Italia agricolo», 22 novembre 1953.
385
A proposito dello studio del Ricci, Lombardo Radice scrisse: «Questo volume è interessante
come studio della scheletricità dei primi disegni infantili. Ma ora è da completare con le posteriori
ricerche, ad es. del Kunzfeld, il quale lo discute molto bene» (G. Lombardo Radice, La riforma
della scuola elementare: vita nuova della scuola del popolo, Palermo, Remo Sandron, 1925, p. 213). Lo
stesso giudizio è riportato in Id., La buona messe, Roma, Associazione nazionale per gli interessi del
Mezzogiorno d’Italia, 1926, p. 95.
386
Scrisse la Errera: «Appena si sarà concretato qualcosa intorno a un corso Montessori, italiano e
internazionale, ti avvertirò. Intanto tu sei la prova che anche in Italia si potrebbero trovar proseliti
e apostoli anche! Quando si spiegasse e divulgasse la cosa, non avvolgendola nei sette veli della
filosofia, della politica, ecc. ecc. ma mostrando e raccontando semplicemente: meravigliosi
risultati che si ottengono col Metodo Montessori. Domani intanto si inaugura un asilo comunale
– uno di quelli che sono destinati a illustrare coll’esempio pratico, le spiegazioni teoriche dei corsi.
E io spero che il corso si ripeterà ogni anno: durando quattro mesi o poco più. Tanto durò
questo primo, accendendo di un indicibile entusiasmo tutte le straniere che lo seguirono». La
lettera è stata pubblicata in C. Gori, Crisalidi: emancipazioniste liberali in età giolittiana, Milano, Franco
Angeli, 2003, p. 132.
136
In secondo luogo non si può sottacere l’origine ebraica della famiglia del primo marito di
Elisa, gli Errera, origine condivisa non a caso con altre personalità dell’intellettualità italiana a
cavallo tra i due secoli che molte energie profusero in favore dell’infanzia e della gioventù,
fondando scuole, corsi professionali, colonie agricole e istituzioni benefiche di vario genere. Ci
riferiamo, ad esempio, ad Alice e Leopoldo Franchetti, che nel 1901 e 1902 fondarono la scuola
de La Montesca e di Rovigliano nei pressi di Città di Castello, ad Augusto Osimo creatore e
anima pulsante per diversi anni della Società Umanitaria di Milano, al veneziano David Levi
Morenos creatore della Nave Asilo «Scilla» e delle Colonie dei Giovani Lavoratori, ai coniugi
Salomone e Laura Morpurgo che in modo più circoscritto fornirono aiuto materiale e vicinanza
morale alla maestra Maria Maltoni nel corso degli anni Trenta in quella che diverrà la celebre
scuola di San Gersolè, in Toscana. Ma è in particolare il nome di Levi Morenos quello che
presenta maggiori analogie con il caso qui studiato: fu infatti grazie all’interessamento di una
nobildonna romana, la contessa Anna Piccolomini Della Triana, mostrato fin dal 1919, di voler
creare una scuola, che il filantropo veneziano fondò due anni più tardi alle porte della capitale la
terza delle sue Colonie dei Giovani Lavoratori, ribattezzata «Orti di pace», destinata
all’educazione e alla formazione professionale dei bambini orfani di guerra. L’interessamento di
Elisa Ricci, dunque, va inquadrato in questo preciso contesto in cui la religione ebraica dovette
giocare un ruolo nel favorire la sua spinta altruistica e filantropica387.
Essersi soffermati sulla vicenda che portò Socciarelli a diventare maestro e sulla sua
conoscenza con Elisa Ricci, abbandonando per un attimo la via principale da cui eravamo partiti,
vale a dire quella dell’incontro tra lui e Lombardo Radice, non è stata una scelta casuale ma
dettata dal fatto che essa ci può offrire un’ipotesi sulle modalità in cui avvenne l’avvicinamento
tra loro: forse fu per mezzo della signora Ricci e della sua vasta rete di conoscenze che Socciarelli
entrò in contatto con il pedagogista siciliano? In mancanza di documenti non si può che avanzare
delle ipotesi anche se è certo che la colta e sensibile signora in più occasioni si interessò di
Socciarelli: nel marzo 1919 perorò presso la duchessina di Terranova la causa del suo assistito,
successivamente fece lo stesso presso il direttore dell’Istituto nazionale artistico industriale «San
Michele» di Roma, poco dopo gli permise di trasferire la residenza nella sua abitazione romana in
piazza Venezia al fine di poter svolgere gli esami nella scuola tecnica.
In ogni modo è certo che nell’aprile 1920 Lombardo Radice scrisse a Socciarelli una
lettera piena di ammirazione per l’opera educativa svolta dal maestro nel difficile ambiente di
Mezzaselva, in cui intravedeva concretizzarsi i principi filosofici dell’idealismo pedagogico,
lontano dal vuoto verbalismo non solo dei propugnatori della scuola tradizionale ma anche di
quei poco originali ripetitori di formule idealistiche che però ignoravano i problemi pratici in cui
un maestro si sarebbe potuto trovare, non comprendendo a fondo le sue aspettative, le sue ansie,
il suo stato d’animo. Scrisse a questo proposito il pedagogista siciliano:
387
Ricordando quanto detto prima, vale a dire che Elisa Ricci si rivolse ad una nipote dello statista
Luigi Luzzatti affinché a Socciarelli venisse permesso di compiere gli studi per diventare
insegnante elementare, si deve far notare che anche Luzzatti era di origine ebraica e che molto si
prodigò per favorire la nascita del mutualismo, della cooperazione, nonché fornì aiuto all’amico
Levi Morenos per la nascita della Nave Asilo «Scilla» e per la creazione delle Colonie dei Giovani
Lavoratori.
137
Mio Socciarelli,
so che aspetti la mia risposta con ansia, perché nella semplicità del tuo animo pensi di ricevere luce da me. Ma sono
io, mio buon amico, che ricevo luce da te, dalla tua semplice confessione, che mi rivela la profondità del tuo amore
per la tua Scuola e l’ardore del meglio nella serenità di coscienza per il poco che riesci a fare.
Poco non deve essere, mio Socciarelli. Poco sembra a te, che hai quella buona scontentezza del passato, da cui
germina l’azione migliore dell’avvenire.
Questa tua comunione totale coi tuoi contadini, attaccati alle cose, ma vergini di cuore (e perciò più capaci di idealità
che i verbali idealisti delle città corrotte, dove l’ideale non è che una «eleganza spirituale»); questa tua paziente
vigilanza sulla umanità in letargo che trovi nel piccolo mondo di Mezzaselva, è per me una grande lezione di vita.
Vorrei poterti essere vicino e acquistare e darti piena coscienza della grandezza della tua opera, modesta e paga della
sua oscurità388.
La prima impressione che si ricava è che Lombardo Radice nel momento in cui scrisse
questa lettera non avesse ancora conosciuto di persona Socciarelli e che le sue parole fossero
ispirate da quello che il maestro egli aveva scritto nel presentargli la sua scuola e forse – se la
nostra ipotesi si dimostrasse corretta – da quello che aveva sentito dire sul suo conto. In secondo
luogo il pedagogista mostrò di aver intuito come Socciarelli stesse compiendo a Mezzaselva
un’opera non comune, il cui merito principale non stava nella qualità della didattica da lui
realizzata – che verosimilmente Lombardo Radice non poteva ancora conoscere – ma
nell’approccio con cui da educatore aveva avviato la propria azione, tentando di realizzare l’unità
tra maestro e scolaro, vale a dire di raggiungere quella comunione delle anime tra docente e
discenti, che era uno dei capisaldi della visione pedagogica dell’idealismo lombardiano e che
informerà uno dei principi del concetto di «scuola serena». Socciarelli aveva, infatti, ispirato la sua
opera nel segno del più assoluto rispetto verso i giovani contadinelli, ponendosi al loro fianco, in
un rapporto paritario e non gerarchico, nella convinzione che la personalità umana tendesse per
sua natura ad esercitarsi e a svolgersi e che perciò essa avesse bisogno di essere non costretta, ma
interpretata ed aiutata. Rimasto così positivamente colpito, Lombardo Radice suggerì a Socciarelli
fin da quel momento di mettere per iscritto le sue impressioni giornaliere di educatore, intuendo
che esse potessero fornire un interessante materiale di studio per i futuri maestri su cui basare la
propria formazione, in linea con i dettati dell’idealismo secondo il quale essa doveva fondarsi non
su polverosi e aridi trattati di pedagogia ma sull’esperienza viva della scuola, sul racconto della
propria attività di insegnante fatto da altri colleghi: i futuri maestri avrebbero potuto così meditare
e rielaborare in base alle proprie esigenze, alla propria cultura e al proprio spirito quelle
esperienze, arricchendosi umanamente e professionalmente. Scrisse a questo proposito
Lombardo Radice nella citata lettera dell’aprile 1920:
Tu dovresti, mio buon amico, buttar giù sulla carta le tue osservazioni di ogni giorno; perché tu stesso o altri, più
tardi, ne tragga utilità per educare altri maestri come te. E tu tienimi presente nel tuo lavoro. La distanza non può
togliere la presenza spirituale, che non è una frase, ma è la più grande realtà della vita umana. Ti abbraccia il tuo G. L.
Radice389.
Socciarelli raccolse quell’invito anche se occorrerà del tempo prima di veder stampati
alcuni suoi scritti. Il primo di cui abbiamo notizia è infatti un articolo che il maestro di
Mezzaselva pubblicò nel 1923 grazie all’interessamento di Lombardo Radice sul «Giornale
388
389
AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 29 aprile 1920.
Ibid.
138
dell’isola», un periodico stampato a Catania390. Quasi contemporaneamente, nel fascicolo di
febbraio dello stesso anno de «L’Educazione Nazionale», il pedagogista ospitò un interessante
articolo in cui questo ancora sconosciuto maestro affrontava il tema dell’alterità della sua scuola
di Mezzaselva e, più in generale, delle scuole rurali rispetto alle scuole di città. L’occasione per
farlo gli era offerta dall’analisi della reazione tutt’altro che positiva dei suoi scolaretti di fronte ad
alcuni esemplari di periodici illustrati per l’infanzia, tra cui il famoso «Corriere dei Piccoli», che
egli aveva mostrato durante la lezione391. Tali giornali erano colpevoli, secondo il suo giudizio, di
offrire ai bambini una visione corrotta e degenerata dell’arte, danneggiandone «l’educazione del
senso estetico». I primi ad avvertire questa sensazione, sosteneva Socciarelli, erano proprio i
bambini di campagna il cui spirito incontaminato e genuino non riusciva a comprendere le
«mostruose figure di quel periodico», fatte con linee rette e cerchi perfetti, e quindi, lontane da
una rappresentazione fedele della realtà naturale. Allo spirito incorrotto e vergine della campagna
e dei suoi abitatori – tipico di una visione romantica fatta propria dall’idealismo pedagogico –
Socciarelli contrapponeva il clima oppressivo della città in cui «quelle mostruosità le vediamo
apparire sui muri, negli avvisi commerciali, sui fogli di propaganda commerciale, sulle copertine
dei libri», oltreché sui periodici per l’infanzia. Ciò che appare interessante è non solo l’accento
posto sulla diversità tra scuola rurale e scuola urbana, ma il fatto che tale costatazione costituisca
il preludio per la fondazione e la legittimazione di una apposita didattica per le scuole rurali, di cui
Alessandro Marcucci e Duilio Cambellotti, i due massimi rappresentanti delle Scuole per l’Agro
Romano in quegli anni, avevano dato un saggio pubblicando il primo il Sillabario ad uso di quelle
scuole e il secondo illustrando «Il Piccolissimo», il giornale fondato da Cena durante la Grande
Guerra e realizzato a cura dell’Unione Insegnanti del Lazio e rivolto agli alunni e alle loro
famiglie, in particolare di quelle dell’Agro, due esempi che Socciarelli citava espressamente nel suo
articolo392.
Pur non interrompendosi mai, il legame con Lombardo Radice si fece, per ragioni
comprensibili, meno intenso dopo la nomina di quest’ultimo a capo della Direzione Generale
dell’Istruzione Elementare, avvenuta alla fine del 1922, al fianco di Gentile promosso a ministro
della Pubblica Istruzione. Se la sua nomina da principio entusiasmò Socciarelli – che il 9 gennaio
1923 scrisse in una lettera a lui indirizzata «Finalmente l’Italia pensa alla sua Scuola» e lo invitò
«una volta almeno col nostro Direttore Marcucci a vedere le graziose scuole di questo tratto di
zona» – tuttavia essa causò un rarefazione dei loro contatti. Eppure proprio in quegli anni
Socciarelli aveva cominciato a mostrarsi sempre più conscio dell’importanza dell’esperienza
educativa che stava svolgendo a Mezzaselva e, al contempo, desideroso di far conoscere al
pubblico formato dai maestri italiani la sua singolare storia di invalido di guerra divenuto
insegnante elementare in una scuola così difficile dopo aver scoperto la missione della sua vita,
quella di trasformarsi in un educatore del popolo. Una consapevolezza che maturò in Socciarelli
respirando il vivace clima instauratosi in Italia dopo la Riforma Gentile del 1923 e che a sua volta
alimentò l’ambizione di raccogliere in uno studio organico e approfondito i ricordi e le
impressioni della sua esperienza: su queste basi nascerà il noto libro Scuola e vita a Mezzaselva, che
lancerà il suo nome nel panorama degli studi pedagogici italiano tra le due guerre.
390
AGLRR, Lettera di Socciarelli a Lombardo Radice, 9 gennaio 1923.
F. Socciarelli, E allora perché ce li fanno?, «L’Educazione nazionale», n. 2, febbraio 1923, pp. 1618.
392
N. Marchioni (a cura di), La grande guerra degli artisti: propaganda e iconografia bellica in Italia negli
anni della prima guerra mondiale, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005, p. 47.
391
139
3. Socciarelli negli anni Venti: un maestro ammirato e osteggiato
Ripercorrere le tappe che portarono nel 1928 alla pubblicazione di Scuola e vita a
Mezzaselva, equivale a comprendere il modo e i tempi in cui il maestro Socciarelli acquistò
consapevolezza del valore della propria opera educativa e le forme attraverso le quali manifestò
l’intenzione di dare di essa una sua rappresentazione. Si può ragionevolmente individuare un fatto
che costituì il preludio alla nascita di quel libro: nel maggio 1925, infatti, Socciarelli riuscì in modo
del tutto autonomo e senza passare attraverso la mediazione di Lombardo Radice, a pubblicare in
un numero unico del Bollettino del Gruppo di Azione delle Scuole del Popolo di Milano un
articolo in cui per la prima volta descrisse il modo in cui aveva iniziato l’avventura di maestro tra
le langhe desolate dell’Agro Romano, parlando dello sconforto iniziale provato a seguito del
contatto con i riottosi bambini che vivevano in uno stato quasi primitivo e della scoperta
dell’inutilità delle formule e dei tecnicismi tratti dalle letture dei testi della pedagogia tradizione su
cui aveva studiato393. Scritto con un piacevole stile narrativo, questo breve articolo anticipò nel
contenuto e nella forma quello che sarà il ben più ricco e impegnativo Scuola e vita a Mezzaselva:
rappresentava cioè la spia della volontà di raccontare e raccontarsi, oltreché essere un elemento
rivelatore di una crescita sul piano professionale e magistrale di Socciarelli che, è bene ricordarlo,
nel settembre 1923 si era sposato con Irene Bernasconi, anche lei donna di scuola essendo la
maestra dell’asilo d’infanzia di Carchitti, con un curriculum di tutto rispetto: originaria di Chiasso,
nel Canton Ticino, aveva seguito nell’estate 1917 a Ginevra un «cours de vacance» tenuto dai noti
psicopedagogisti Édouard Claperède e Pierre Bovet presso l’Istituto Jean-Jacques Rousseau, il
centro che stava diventando a livello europeo il punto di riferimento delle ricerche di psicologia
evolutiva e delle esperienze educative attivistiche394; inoltre era una seguace del Metodo
Montessori, che applicava nella sua scuola, e condivideva le istanze rinnovatrici della didattica
espresse nel secondo decennio del secolo dalla rivista «La nostra scuola»395.
Sentendosi probabilmente dimenticato da Lombardo Radice, che tra la fine dell’estate e
l’inizio dell’autunno del 1925 pubblicava il suo nuovo libro Athena Fanciulla, concepito come un
punto di riflessione sul vasto movimento di riforma pedagogica sorto prima delle leggi del 1923,
nel quale l’autore dedicava interi capitoli alla scuola de La Montesca di Alice Franchetti e
all’esperienza delle scuole ticinesi di Maria Boschetti Alberti e di Bianca Sartori e nemmeno un
cenno a Mezzaselva, Socciarelli tornava a farsi sentire presso il pedagogista inviandogli di sua
iniziativa un suo scritto. Pur non conoscendone il contenuto, sappiamo che Lombardo Radice lo
lesse con piacere e se ne complimentò con lui in una cartolina dell’ottobre 1925 in cui affermò:
Il tuo scritto è felicissimo. Ne farò uso per Educazione Nazionale. Hai letto Athena Fanciulla? L’ha stampata, da
poco, il Bemporad, è il mio testamento; le Lezioni di didattica mi paiono, ora, assai vecchie396.
393
F. Socciarelli, Garibaldini dell’alfabeto, «Il gruppo d’azione per le scuole del popolo», numero
unico, maggio 1925, pp. 13-14.
394
AIJJR, Fondo Generale, Elenco dei partecipanti e programma a stampa del corso del luglio 1917.
Il corso si svolse dal 16 al 31 luglio, articolandosi in più seminari, con lezioni tenute oltreché da
Claparède e Bovet, anche da Bally, Sechehaye, Ronyat, Vittoz, Jung, Burnier e Briod. Ringrazio
per la cortese collaborazione la dottoressa Elphège Gobet in servizio presso gli Archives Institut
Jean-Jacques Rousseau.
395
A tal proposito si deve dire che la Bernasconi pubblicò un articolo dal titolo Dal diario di una
casa di bambini sul numero del 15 maggio 1917 della rivista «La nostra scuola».
396
AFS, Cartolina di Lombardo Radice a Socciarelli, 16 ottobre 1925.
140
Si trattava molto verosimilmente dell’articolo che verrà pubblicato sul numero di gennaio
del 1926 de «L’Educazione Nazionale» sul tema, allora fonte di un acceso dibattito tra gli addetti
ai lavori, dei libri di testo e di lettura per l’infanzia397. In esso con argomentazioni tipiche
dell’idealismo lombardiano, Socciarelli sosteneva che il libro di lettura per la scuola non dovesse a
tutti i costi possedere un «carattere insegnativo», contrariamente all’opinione di numerosi
educatori e al giudizio, del tutto interessato, degli editori che da questo settore traevano lauti
guadagni. Per il maestro di Mezzaselva non era il libro in quanto tale a vivificare la scuola, né il
manualetto in cui si raccoglievano le briciole del sapere a renderla meno pedante e più vicina alla
vita, ma il maestro che doveva attingere alla tradizione popolare e alla grande letteratura che
aveva dato in ogni tempo mirabili opere di poesia e di scienza. Scriveva a questo proposito
Socciarelli:
Il carattere insegnativo deve averlo l’insegnante, il quale se è proprio maestro non può essere mai tanto vuoto e tanto
povero di risorse spirituali da aver bisogno che il libro di lettura gli dia l’occasione e lo spunto per insegnare e
spiegare una cosa, da non sentire le mille voci che la natura, l’arte e la storia ci fanno sorgere dall’anima; da non
sapere, infine, come anche dalla più puerile cantilena, volendo, si potrebbe prendere lo spunto, non solo per dare una
nozioncina, ma anche per risalire a tutto lo scibile umano398.
Come doveva allora essere il libro di lettura? Poteva andar bene anche «un buon
romanzetto, una bella biografia, un libro di racconti o anche un libro di lettere», ammoniva
Socciarelli, l’importante era che fosse formativo, cioè «scritto bene, bello, ispirato». Secondo una
visione romantica, solo scendendo al livello dei bambini, anzi facendosi bambino lui stesso, lo
scrittore avrebbe potuto raggiungere questo obiettivo che non veniva colto dallo quello stuolo di
scrittori per l’infanzia, più o meno improvvisati, che sfornavano libri su libri, adottavano uno stile
inaccessibile ai fanciulli e non entravano spiritualmente a contatto con l’universo dei fanciulli.
Scriveva a tal riguardo:
Chi si dedica alla letteratura infantile dovrebbe avere l’anima fanciulla, possedere il linguaggio adatto a comunicare
con i bambini per dilettarli facendosi capire, altrimenti essi saranno costretti troppo spesso a chiedere spiegazione del
significato di una frase e troppo spesso privati di quel piacere, di quella soddisfazione di capire da sé che è una delle
prime necessità dello spirito399.
Contrariamente a quanto auspicato, egli non poteva che constatare come in Italia la produzione
di libri di lettura e di testi scolastici era ad appannaggio di persone prive delle necessarie
competenze:
Sappiamo – scriveva – che quasi tutti gli autori di libri per la fanciullezza sono gente di cattedra, abituata a cavare
giorno per giorno il sapere dai libri per portarlo a scuola; gente abituata a scrivere per giornali e riviste, a sfornare
migliaia di «ismi» ogni giorno; filosofi, professori e ispettori. Dei quali, troppo pochi sogliono adattarsi a interrogare i
fanciulli per sentire come questi si esprimono, come considerano le cose; si direbbe che molti di essi non abbiano
397
Su questo argomento si vedano le interessanti osservazioni in G. Chiosso, Il rinnovamento del
libro scolastico nelle esperienze di Giuseppe Lombardo Radice e dei «lombardiani», «History of Education &
Children’s Literature», I, 1 (2006), pp. 127-139.
398
F. Socciarelli, Dei libri per la fanciullezza, «L’Educazione nazionale», gennaio 1926, pp. 28-32.
399
Ivi, p. 29.
141
mai parlato con un bambino, che essi stessi non siano mai passati per quell’età, e che siano usciti dal grembo di
madre natura già adulti con la loro cattedra, come Minerva uscì bella e armata dalla testa di Giove 400.
Diversa era invece la sorte dei maestri elementari, quasi sempre poco valorizzati, se non
dimenticati dagli ambienti della pedagogia ufficiale. Scriveva a questo proposito in modo
esplicito:
Molto raramente si vede un libro per ragazzi scritto dal maestro elementare, dall’umile maestro che, quando fa
scuola, in cattedra (se l’ha) non ci sta mai e vive la poesia che sgorga dall’anima dei suoi scolaretti, anche quando si
tratta (purtroppo!) di poesia poco poetica.
Eresia! griderebbe il professor tale che ha già bell’e sfoderato il suo «Corso di letture» per le cinque classi elementari
secondo i nuovi programmi. Gridi pure, professore, ma non s’inquieti: lei scriverà altri corsi di letture, i maestri li
adotteranno anche, ma se la sua opera non ha senso d’arte, di poesia, se non è accessibile allo spirito dei fanciulli cui
è destinata, lei può star sicuro che il bene della scuola, il bene dell’educazione non l’ha fatto. Perché non sempre
basta che la Commissione abbia accettato il libro, che la grammatica vi sia impeccabile e che sia adottato perch’esso
valga a destare la scintilla che muove i cuori e le anime. Ivi, pp. 29-30.
Ci si è voluto soffermare su questi aspetti poiché tutto l’articolo di Socciarelli è a ben
vedere un atto di accusa sì verso i cattivi compilatori di libri scolastici, ma anche e soprattutto un
vibrante gesto polemico nei confronti del mondo pedagogico accademico e ministeriale
(professori, ispettori, filosofi) che viene condotto in nome della rivendicazione del valore sociale
e culturale del maestro elementare, categoria bistrattata alla quale egli apparteneva. Tale critica è
quello che ci sembra essere particolarmente interessante perché rivela un malessere ed una
insoddisfazione che Socciarelli doveva vivere, sentendosi immeritatamente non apprezzato per
quello che era convito di essere come educatore e conoscitore del mondo infantile. Vi è,
insomma, a nostro giudizio dietro tale atto d’accusa il maturare di una consapevolezza
dell’importanza della propria opera pedagogica che il maestro di Mezzaselva stava compiendo e
che si manifesterà meglio nel corso del 1926 quando gli giungeranno nuovi e autorevoli attestati
di stima e ammirazione. Ci riferiamo in particolare a quelli di due pedagogisti di primo piano nel
campo dell’attivismo scolastico, come lo svizzero Adolphe Ferrière e l’olandese J. H. Gunning
che, il 25 aprile 1926, visitarono la scuola tenuta da Socciarelli e ne riportarono ottime
impressioni che incoraggiarono il maestro a proseguire su quella strada, facendogli vincere i suoi
dubbi che confidò al diario personale con queste parole:
Ieri, 25 aprile 1926, furono a visitare la mia scuola M. Adolfo Ferrière, M. Gunning e le loro signore. Chi sa se
avranno intuito l’atmosfera spirituale che anima la mia scuola? Chi sa se hanno capito che una certa autonomia
didattica io me la sono creata, perché nessuno da fuori potrebbe dettar norme assolute per una scuola come questa?
Credo che però qualcosa abbiano inteso401.
400
Ibid.
Il passo citato è tratto da Amore di scuola, supplemento n. 5 di «Scuola italiana moderna», 1961,
p. 16. L’opera del Gunning, così come del Lighart, cominciò ad essere conosciuta in Italia nel
secondo decennio del Novecento. Si vedano a questo proposito i due articoli che ne illustravano
le caratteristiche di E. Peeters, La pedagogia olandese, «Rivista di Psicologia», n. 11, 1915, pp. 384389; Id., Un Herbert Spencer olandese, «Rivista di Psicologia», n. 12, 1916, pp. 326-338. Qualche
notizia sul Gunning in G. De Landsheere, Storia della pedagogia sperimentale: cento anni di ricerca
educativa nel mondo, Roma, Armando, 1988, p. 157.
401
142
Come già anticipato, la reazione dei due studiosi fu assai positiva. In particolare Ferrière
inserì il nome di Socciarelli tra i pionieri della scuola attiva in Italia in un noto articolo pubblicato
pochi mesi dopo nella rivista «Pour l’ère nouvelle», scritto al termine del suo viaggio nella
penisola alla scoperta delle esperienze educative che si ispiravano ai principi dell’attivismo.
Accanto ai nomi di Maria Montessori, David Levi Morenos, Rina Nigrisoli e Giuseppina
Pizzigoni, figurava ora anche quello di Socciarelli il cui incontro nella selvaggia campagna romana
veniva così rievocato da Ferrière:
En plein forêt – le village a nom Mezzaselva – voici une large tonnelle; au fond, une maisonette propre et gaie, deux
baraquements à droite et à gauche de la tonnelle. Une foulle d’enfants venus librement, bien que ce fût dimanche: par
ci, les grands, garçons et filles; par là, les tout petits, quarante à cinquante [….] Nous n3ous étions crus, a l’arrivée,
parmi des primitifs de l’Afrique australe; ous nous découvrons dans un centre pédagogique avancé où les marmots
manient les jeux Decroly comme s’ils n’avaient fait que cela de leur vie! 402
Nondimeno Gunning rimase colpito dal metodo adottato da Socciarelli e pochi giorni dopo gli
inviò una copia del suo libro sul pedagogista olandese Jan Lighart con una dedica particolare:
Souvenir ému de notre visite à Mezzaselva, le 25 avril 1926, et rémoignage de notre profonde admiration pour
l’œuvre accomplie pour ces véritables missionaires langue, oeuvre modeste et presque ignorée, mais combien plus
imperissable, par sa valeur spirituelle, que les monuments siculaires de la ville “éternelle”!403
A ulteriore dimostrazione del fatto che il maestro di Mezzaselva avesse ben compreso la
validità della sua esperienza, è una lettera che egli inviò a Lombardo Radice il 4 dicembre 1926 in
cui gli comunicava di non aver avuto il tempo di scrivere l’articolo richiestogli su Mezzaselva da
inviare al Ferrière adducendo come causa il fatto di essere stato assai impegnato per gli esami che
aveva dovuto sostenere per ottenere un diploma. Ma ciò che più interessa di tale lettera è che egli
mostrava da un lato di essere documentato e aggiornato sulle altre forme di sperimentalismo
pedagogico condotte in Italia in quegli anni: citava infatti la scuola di Portomaggiore, descritta in
un supplemento de «L’Educazione Nazionale» stampato poco tempo prima, tentando dei
paragoni tra questa esperienza educativa e la sua404; dall’altro lato non nascondeva il proposito di
far conoscere in modo adeguato e organico la scuola di Mezzaselva, chiedendo al pedagogista
catanese di potergli dedicare non un semplice articolo, per quanto fosse prestigiosa la rivista del
Ferrière, ma uno studio organico e approfondito che potesse essere pubblicato in un intero
supplemento de «L’Educazione Nazionale», così come avvenuto per Portomaggiore. Scrisse a
questo proposito Socciarelli a Lombardo Radice:
Sono ora dolente di doverle dire che l’articolo su la scuola di Mezzaselva, che avevo promesso di fare e che Ella
voleva mandare al Ferrière, non l’ho scritto: dopo quegli esami ho dovuto pensare più alla mia salute che ad altro.
Ora vado rimettendomi bene in forze, ma, avendo scuola diurna e serale (corso integrativo) da fare, mi manca il
tempo per altre cose, specialmente in questi primi mesi.
Debbo anche dirle che i sette anni che ho passato qui costituiscono un brano di vita la cui importanza (certo
inferiore dal lato puramente didattico, a quella della scuola di Portomaggiore) risulta da tutto il complesso delle
402
A. Ferrière, Une visite aux pionniers de l’École Active en Italie, «Pour l’ère nouvelle», n. 23,
novembre 1926, pp. 153.
403
AFS, Lettera di Gunning ai coniugi Socciarelli, maggio 1926, senza giorno.
404
Tale realtà scolastica era stata fatta conoscere proprio da Lombardo Radice in un apposito
supplemento alla sua rivista: G. Lombardo Radice, I piccoli “Fabre” di Portomaggiore, Roma,
Associazione per il Mezzogiorno, 1926.
143
attività svolte e dei fatti notati e mal si presta ad essere racchiuso nei termini di un articolo. Meglio sarebbe, com’Ella
mi propose, farne uno dei supplementi a «L’Educazione Nazionale». Se Dio mi darà vita e salute, come spero, a
primavera cercherò di approntarlo; appena ne avrò fatto una parte verrò da Lei: se Le piacerà, farò subito e con più
lena il resto. Da un mio scritto sul – Numero unico – pubblicato nel Maggio 1925 dal Gruppo d’Azione di Milano,
Ella potrebbe vedere che importanza può avere la mia scuola a Mezzaselva. Caso mai Ella avesse a portata di mano
quel fascicolo, il mio scritto porta il titolo (messovi da quei buoni milanesi) “Garibaldini dell’alfabeto” 405.
Sul finire del 1926, dunque, Socciarelli era ben conscio che la sua scuola aveva assunto
una certa importanza e rivendicava, sia pure con garbo, i risultati ottenuti. Lombardo Radice
dovette intuire questo sentimento che pervadeva l’animo del maestro di Mezzaselva e pochi
giorni dopo aver ricevuto quella lettera, gli scrisse comunicandogli di accettare la proposta di
dedicare alla sua scuola un supplemento di «70-80 pagine» per «L’Educazione Nazionale»406.
Iniziava così il lavoro di stesura del testo, probabilmente condotto a partire da brani già scritti o
abbozzati in precedenza. Con il passar del tempo anche il progetto editoriale sarebbe cambiato e
lo studio anziché essere pubblicato per intero in un supplemento verrà stampato a puntate sulla
rivista diretta da Lombardo Radice a partire dal novembre 1927.
Ma prima di andare oltre, converrà ora spostare la nostra attenzione su un altro
personaggio che in qualche modo ebbe parte nella vicenda editoriale di Scuola e Vita a Mezzaselva
e, più in generale, nell’esperienza educativa di Socciarelli. Ci riferiamo ad Alessandro Marcucci,
direttore dell’ente delle Scuole per l’Agro Romano e delle Paludi Pontine, nonché potente
funzionario del ministero della Pubblica Istruzione. Infatti dopo una prima fase di reciproca stima
e ammirazione, sopraggiunse un periodo, quello compreso tra il 1926 e il 1927, in cui emersero
forti dissidi tra il maestro di Mezzaselva e il suo diretto superiore. Un contrasto mai descritto
finora che, eppure, è possibile ricostruire grazie ad alcuni documenti, in gran parte inediti e alla
cui origine vi era l’insofferenza di Marcucci verso un suo maestro che, diversamente da tanti altri,
era riuscito a far conoscere la propria esperienza educativa e, nondimeno, a farsi conoscere: in
altre parole alla base dello scontro vi era l’irritazione verso la libertà con cui Socciarelli gestiva le
sue relazioni con pedagogisti e riviste magistrali e curava la crescente notorietà della scuola di
Mezzaselva, una libertà giudicata irrispettosa dell’ente e della sua stessa persona. Tale sentimento
era cresciuto quanto era aumentata la distanza tra Marcucci e Lombardo Radice dopo che, uscito
di scena quest’ultimo dal ministero e approdato alla guida didattica delle scuole rurali
dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, erano affiorati diffidenze
reciproche di natura pedagogica che sfociarono in polemiche aperte tra i due: nel febbraio 1925
Marcucci aveva, infatti, espresso in una lettera a Lombardo Radice i suoi dubbi sulle indicazioni
contenute nei programmi del 1923 sul disegno e, in particolare, sulla prescrizione data ai maestri
di eseguire il cosiddetto «Calendario della Montesca»407; poco dopo, nell’aprile 1925, era stato
Lombardo Radice a suscitare le ire di Marcucci a proposito di un articolo pubblicato nel
«Bollettino del R. Provveditorato agli Studi di Roma» in cui aveva sostenuto, in buona sostanza, la
mancanza di poesia nei bambini delle Scuole dell’Agro Romano, rimproverando una scarsa
405
MSDR, AGLR, Carteggio generale, Lettera di Socciarelli a Lombardo Radice, 4 dicembre 1926.
AFS, Cartolina di Lombardo Radice a Socciarelli, 23 dicembre 1926.
407
Per la polemica sul «Calendario della Montesca» cfr. Montecchi, Alle origini della «scuola serena».
Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola
della Montesca, cit., pp. 307-337, in particolare alle pp. 329-337.
406
144
attenzione agli insegnamenti artistici su cui, invece, i programmi del 1923 aveva fortemente
insistito408.
Pur non avendo mai definitivamente rotto ogni rapporto, i due uomini di scuola non si
sarebbero riappacificati in modo sincero nei tempi che seguirono tanto che ancora nell’agosto
1926 Lombardo Radice confessava a Socciarelli la distanza che lo separava da Marcucci con
queste parole:
Da Marcucci certo io mi sento ora un po’ lontano ma lo stimo sempre e ammiro e faccio apprezzare da quanti posso
il suo lavoro, anche fuori l’Italia. Il mio dissenso non mi accieca, non temere. In quelle note io volevo colpire uno
stile, cioè un genere, non una persona. Disgraziatamente lasciai fra virgolette le parole della circolare, invece di dare
un cenno più generico. Da qui l’ira di Marcucci; già però caduta, in seguito ad uno scambio di lettere. Non siamo in
rotta; questo è l’essenziale. E tu puoi volerci bene ambedue, malgrado l’incidente 409.44.
Come si può ben notare, il deteriorarsi delle relazioni tra i due importanti uomini di scuola
aveva finito per mettere in seria difficoltà Socciarelli che nutriva verso Lombardo Radice un
enorme debito di riconoscenza e una profonda stima e che era, al contempo, tenuto ad osservare
una certa deferenza nei confronti del direttore Marcucci e dell’istituzione alla quale apparteneva
come insegnante. Tutto ciò era reso ancor più complicato da quella libertà di movimento che
ormai Socciarelli esibiva nella gestione della notorietà nascente della scuola di Mezzaselva e nella
cura dei rapporti con illustri pedagogisti e con le riviste magistrali e, non ultimo, nel progetto di
una pubblicazione tutta incentrata sulla sua scuola. E fu proprio su questo punto, non a caso, che
si consumò lo strappo tra il maestro Socciarelli e Marcucci, i cui strascichi continueranno negli
anni successivi. Ce lo testimonia una stizzita lettera del direttore delle Scuole dell’Agro Romano a
Lombardo Radice in cui esternò il suo sdegno verso il comportamento di Socciarelli non appena
appresa la notizia dell’imminente uscita su «L’Educazione nazionale» dello studio a puntate su
Mezzaselva, destinato poi a divenire un libro. Marcucci lamentò di essere stato tenuto all’oscuro
di tutto e sostenne che il maestro gli aveva parlato di un semplice articolo su Mezzaselva che
avrebbe voluto pubblicare su qualche rivista. Pur dichiarando di non voler impedire o limitare la
libertà di azione dei propri maestri, Marcucci si mostrò ferito da una tale condotta, chiedendo che
almeno nella pubblicazione non figurassero riferimenti espliciti alle Scuole dell’Agro Romano. È
chiaro che egli si era sentito scippato da Lombardo Radice, con cui i rapporti, come si è detto, si
erano guastati, di una esperienza educativa innovativa che era fiorita sotto le insegne delle scuole
da lui dirette, e tradito da un suo maestro, come si evince in modo chiaro dalla citata lettera a
Lombardo Radice in cui scrisse:
408
La lettera risentita di Marcucci è pubblicata in Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità:
Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., pp. 111-113. Nell’articolo incriminato Lombardo Radice
scrisse: «Questi contadini della campagna romana sono di poche parole. La solitudine or solenne
or desolata dell’Agro; il durissimo lavoro; la malaria che tormenta (quando il brivido percorre le
ossa e la febbre fa vacillare corpo ed anima) oppure, mentre sostano le manifestazioni più penose,
logora, estenua, intontisce […] tutto ciò ed altro, e peggio (la secolare mancanza di scuole e di
letture) han creato il tipo morale di questo buon contadino della Campagna: contadino di poche
parole […] Se al contadinello della scuola rurale del Lazio voi date i modellini di componimento,
triti e retorici, esso ve li saprà ricalcare […] Ma se gli date i modellini, e i temi, voi vi metterete in
condizioni di non conoscerlo, nella sua povertà di parola» (G. Lombardo-Radice, Impressioni sulle
scuole rurali della Campagna Romana, «Bollettino del R. Provveditorato agli studi del Lazio e Sabina»,
1925, pp. 33-40).
409
AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 25 agosto 1926.
145
Quanto mi dici mi sorprende un poco. Due giorni fa venne Socciarelli da me e mi disse che non sapeva ove collocare
un suo Scritto sulle nostre Scuole. O ai Diritti o a La Scuola di Codignola. Io consigliai quest’ultima; invece l’aveva
già dato a te! E bene sia. Io non ho modo alcuno e non voglio turbare la libera produzione dei miei Insegnanti. Sono
soddisfatto tuttavia se me ne mettono al corrente per quella responsabilità che assumo, nel bene e nel male, della loro
vita, come se fossero di famiglia, e che anche nelle pubblicazioni libere ha, sia pure per poco, la sua parte.
Perciò che riguarda il modo della pubblicazione, a puntate e poi in volume, vi lascio liberi di fare come meglio
credete, ma non pubblicazione con la Sigla delle Scuole, il che le darebbe un’impronta diremmo ufficiale, non è il
caso, anche perché fra poco uscirà, a cura del nostro Comitato, la Relazione Generale su queste Scuole, relazione che
ne sarà in qualche modo la Storia, del loro insieme e dei particolari di qualche scuola caratteristica come Mezzaselva,
per cui, può darsi, che chieda al Socciarelli stesso qualche periodo. E allora si avrebbe, sotto la stessa =impresa=,
come un duplicato. Però farete l’edizione a sé, e sarà indubbiamente originale 410.
Dal canto suo Socciarelli fornì la sua verità rispondendo a Lombardo Radice che lo aveva
interpellato su questa vicenda, dichiarando che alla base del malinteso c’era stato un equivoco ma
riconoscendo anche di aver sbagliato nel non far conoscere a Marcucci la sua intenzione di
pubblicare quello studio. Queste le parole che scrisse al pedagogista catanese:
Il direttore Marcucci scrive anche a me chiedendomi un chiarimento. L’equivoco è nato dal fatto che io gli parlai
anche di un articolo sulle “Scuole dell’Agro” che ho scritto nel Luglio scorso e che volevo dare ad un giornale
quotidiano per cui sarebbe più adatto. Lo spedisco invece alla “Nuova Scuola Italiana” come d’accordo abbiamo
deciso. I giornali quotidiani sono un po’ difficili nell’accettare cose di scuola e ciò è amaro a constatarsi. Del resto io
ho provato ad uno solo.
Ho spiegato l’equivoco al direttore Marcucci e spero che non ne verrà male perché non mi pare che ci sia sufficiente
ragione di volermene. Se ho un torto, e glie’ l’ho confessato, è quello di non avergli fatto vedere il manoscritto. S’Ella
credesse sia il caso di mandargliene copia dattilografata e se è ancora in tempo, io sono disposto a sostenere la spesa
(o copia in bozze delle puntante?). Veda Lei. Io avrei caro, e glie’ l’ho scritto, che egli accettasse la proposta che Lei
gli fa, ma, se non molla, non vedrei altro che farei. Gli farò vedere la parte conclusiva che chiude appunto con un
capitolo su queste scuole e che è, mi pare, quello che più potrebbe interessarlo. Mi dispiacerebbe se rimanesse
scontento e sdegnato, ma questo non lo credo e spero che non sia. Gli sono legato di lungo e doveroso affetto e
credo, spero ch’egli mi abbia compreso411.
È chiaro che oramai Marcucci non poteva più bloccare quel progetto editoriale tanto si
era giunti avanti con il lavoro: pochi giorni dopo, infatti, nel fascicolo del mese di novembre del
1927 de «L’Educazione Nazionale» usciva la prima puntata dello studio Scuola e vita a Mezzaselva, a
cui ne seguiranno altre cinque fino al giugno 1928412. Sembra quasi di poter scommettere che
Marcucci dopo la pubblicazione della prima puntata tornò a protestare sentendosi derubato delle
proprie idee: ci induce a pensarlo il fatto che nella seconda puntata edita nel fascicolo di
dicembre, Socciarelli si premurò di precisare in una nota che molte delle osservazioni da lui fatte
in precedenza in relazione al nesso tra arte e contadino erano state già esposte dal suo «maestro»
Marcucci. Scrisse Socciarelli:
Molte delle osservazioni che son venuto facendo sulla vita interiore del contadino son frutto, oltre che delle mie
osservazioni personali, anche di conversazioni tenute col mio caro maestro e direttore Alessandro Marucci. Alcune,
anzi, delle idee espresse nell’ultimo paragrafo del cap.[itolo] terzo, specialmente quelle intorno al modo in cui il
410
AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 17 ottobre 1927.
Ivi, Carteggio generale, Risposta di Socciarelli a Lombardo Radice scritta direttamente sulla lettera
di Lombardo Radice a Socciarelli del 17 ottobre 1927.
412
Le puntate uscirono nei seguenti fascicoli: novembre 1927, pp. 619-623; dicembre 1927, pp.
669-689; marzo 1928, pp. 153-161; maggio 1928, pp. 260-268; giugno 1928, pp. 323-346.
411
146
contadino sente l’arte, furono esposte da lui in forma non molto diversa, ma assai migliore, in un discorso bellissimo
tenuto due anni fa, in una riunione dei suoi insegnanti 413.
Lungi dall’essere risolti, i dissidi con Marcucci proseguiranno negli anni successivi
contestualmente alla crescente fama che stava acquisendo Socciarelli, anche sulla scorta del fatto
che nel 1928 lo studio su Mezzaselva, uscito a puntate, veniva pubblicato per intero in un volume
edito dall’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. Positivi furono peraltro i
commenti e le recensioni al volume, provenienti per la verità tutti da ambienti impegnati nel
campo dell’attivismo pedagogico. Possiamo citare Angelo Colombo, uno dei fondatori nel 1913
della rivista di stampo neoidealistico «La nostra scuola» e animatore delle Scuole del popolo del
Gruppo di Azione di Milano, che leggendo con interesse il libro, così scrisse nel settembre 1928 a
Lombardo Radice: «Il libro del Socciarelli è cosa grande. M’impegno tutto. Questo è pane pane di
vita. Vedrai vedrai: il buono non si perde»414. Nondimeno Anna Errera, scrittrice per l’infanzia e
anche lei animatrice del Gruppo di Azione di Milano, fornì un giudizio positivo del libro
recensendolo per la rivista «La coltura popolare» nel numero del gennaio 1929. L’opera di
Socciarelli gli appariva chiaramente debitrice del pensiero di Lombardo Radice e ispirata ai
principi dell’idealismo, in una versione depurata però da ogni astrattezza e vacuità. Il suo libro,
insomma, era intessuto di «romanticismo», ma nel senso più nobile del termine, vale a dire come
tensione ideale, ricerca continua, spinta verso nuove vette, secondo la visione lombardiana della
«scuola serena» o della scuola attiva. Scrisse la Errera:
Questo libro agreste e pedagogico del maestro Felice Socciarelli potrebbe dirsi un libro essenzialmente romantico, se
romanticismo vuol dire, nel suo significato tradizionale, libertà, ricerca di vie nuove, fuor dai cancelli e dai binari della
dottrina, dei modelli, e dell’autorità costituita. L’operetta del Socciarelli non sta del resto a sé; essa si riallaccia alla
pedagogia odierna del Lombardo Radice, e accoglie le idee e gli indirizzi più vitali della Riforma della scuola
elementare. Tale pedagogia, liberatasi dalle formule della filosofia idealistica, da cui aveva pur preso le mosse, fa
spaziare il maestro, sciolto da impacci teorici, in un mondo vasto quant’è vasta la natura umana, e ficca le sue radici
nel vivo dell’anima dell’allievo e dell’anima popolare, e della realtà entro cui opera. Pedagogia dunque «romantica»: e
speriamo si guardi dalle deviazioni dell’altro romanticismo, e auguriamo non cada nel troppo vago ed anarchico 415.
Tale giudizio non impediva, però, ad Anna Errera – che nel 1913 aveva partecipato alla
fondazione della rivista di stampo neoidealistico «La nostra scuola», impegnata nel campo della
critica militante alla scuola tradizionale appesantita di pedagogismo e di formalismo – di
dimensionare in un certo qual modo la portata «innovatrice» del modo di concepire l’educazione
da parte del maestro di Mezzaselva, poiché già prima di lui altri educatori avevano percorso quei
sentieri; una critica che la Errera sintetizzò con queste parole:
Tutte le creature giovani si sentono e si credono assolutamente nuove, e dimenticano che quanto esse sono, e le
stesse loro facoltà di critica, derivano dalle pur lente costruzioni di pensiero di chi le ha precedute nella vita e nello
studio416.
413
La citazione è tratta da F. Socciarelli, Scuola e vita a Mezzaselva. Seconda puntata, «L’Educazione
nazionale», dicembre 1927, p. 672.
414
AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Colombo a Lombardo Radice, 15 settembre s.a. ma
1928. Si veda anche la breve recensione di Colombo al libro pubblicata con il titolo Spirito di
famiglia pubblicato nella rivista «Il gruppo d’azione» nel 1928.
415
A. Errera, Un libro di “vita” scolastica: “A Mezza Selva” di Felice Socciarelli, «La Coltura Popolare»,
gennaio 1929, pp. 13-16.
416
Ibid.
147
Si ricordi, inoltre, che già nel 1927 un altro esponente del pionierismo attivistico, il
pedagogista italo-americano Angelo Patri, aveva visitato con grande ammirazione Mezzaselva,
seguito nel dicembre 1927 da un’altra studiosa, la francese Hélène Tuzet, docente nel «Lyceè de
jeunes filles» nella cittadina di Niort, che dopo essere entrata in contatto con Lombardo Radice,
aveva visitato alcune delle più innovative esperienze scolastiche presenti in Italia417.
Forse anche incoraggiato dagli apprezzamenti al suo libro e alla sua azione educativa,
Socciarelli decise allora di compiere una scelta radicale: nel 1931, infatti, abbandonò
l’insegnamento nella scuola di Mezzaselva per sottrarsi al controllo dell’ente delle Scuole
dell’Agro Romano, e passò ad insegnare in una scuola elementare statale 418. Frutto di una
meditazione durata a lungo, tale idea era stata caldeggiata da Socciarelli già l’anno precedente
come dimostra un passo del suo diario in cui, sotto la data del 3 marzo 1930, aveva scritto:
Sono stato alla prova scritta per gli esami del Concorso Magistrale per il Lazio. Spero di uscire dalle Scuole dell’Agro
Romano dove insegno da dieci anni e mezzo. Desidero uscire non per i disagi della vita a Mezzaselva che non pur
molti, ma perché i miei superiori non mi vogliono più il bene che mi volevano nei primi anni. Disapprovano che io
studii, non vogliono che io scriva. Nulla di più strano in gente che dice di amare la scuola e che si interessa dei
maestri. Hanno disapprovato acerbamente il mio libro su Mezzaselva; criticano ogni articolo che io scrivo sulle
riviste. Ma a che disperarsi per ciò? La mia coscienza di uomo, di maestro e di italiano non mi rimprovera nulla.
Queste persone potranno riuscire a disconoscere quanto bene io ho fatto a Mezzaselva, ma non già a cancellarlo 419.
Con questa sofferta decisione Socciarelli avrebbe acquistato quella piena libertà che aveva
desiderato, riuscendo così a salvaguardare – come voleva – l’immagine e il valore dell’esperienza
educativa di Mezzaselva.
417
La reazione positiva di Patri viene riferita in G. Lombardo Radice, Una visita di Angelo Patri:
seguita da un saggio sui giornali redatti da scolari dal mio archivio didattico. Terzo supplemento de
«L’Educazione Nazionale», Roma, Associazione per il Mezzogiorno, 1928, pp. 49-54. Per quanto
riguarda la Tuzet tra le carte di Socciarelli si conservano tre lettere della studiosa francese del
periodo 1928-1930. In quella del 10 ottobre 1928 dichiarò di essere venuta a conoscenza della
sua scuola tramite il pedagogista siciliano e di averne apprezzato le qualità dopo aver letto il libro
di Socciarelli, pubblicato poco dopo: «Forse Lei si ricorderà di me: sono venuta, in compagnia di
una mia collega francese, a visitare la Sua scuola, nel dicembre scorso, per una giornata di neve.
Ma eravamo accompagnate da due Suoi superiori, e quella visita fu molto troppo rapida per
appagare il mio vivo desiderio di conoscere bene la Sua scuola e la Sua opera, delle quali mi aveva
già parlato il Professore Lombardo-Radice, e per le quali il mio interesse è ancora cresciuto da
quando ho potuto leggere il Suo bel libro: “Scuola e vita a Mezzaselva”». Allegata ad un’altra
lettera, quella del 12 gennaio 1930, la Tuzet inviò un suo «piccolo studio su Mezzaselva [che era]
stato stampato in un librettino», che tuttavia non è stato possibile reperire nell’archivio Socciarelli.
418
Si aggiunga che l’anno precedente a questa decisione così radicale un altro motivo di amarezza
gli era giunto dalla mancata attribuzione della direzione didattica che, gli scriveva Lombardo
Radice in una lettera del 23 marzo 1930, gli spettava, magari anche nell’ambito delle Scuole
dell’Agro Romano: «La direzione didattica ti doveva e ti poteva essere data nell’ambito delle
scuole dell’Agro. Forse tu non hai voluto chiederla? A ogni modo, il giorno del premio verrà per
te e per la tua compagna elettissima. Verrà. Abbi fede in te» (AFS, Lettera di Lombardo Radice a
Socciarelli, 23 marzo 1930).
419
Da scritti inediti di Socciarelli citati in A. Festa, L’opera educativa di Felice Socciarelli, Tesi di laurea,
Università degli Studi di Roma, Facoltà di Magistero, anno accademico 1970-71, relatore prof.
Mauro Laeng.
148
4. Il tentativo di creare un’apposita didattica per le scuole rurali
In quell’opera volta alla creazione di una didattica nuova che impegnò nei primi decenni
del Novecento un cospicuo numero di educatori e pedagogisti, il tentativo del maestro Socciarelli
si colloca ampiamente nel solco del pensiero di Lombardo Radice, dal quale si discosterà
leggermente solo nel corso degli anni Trenta, per poi ritornare su i suoi passi. Tuttavia la sua
formazione era avvenuta in un clima culturale dominato ancora dagli ultimi residui del
positivismo, tanto che in un suo scritto del 1926 ricordò il periodo degli studi per la licenza
magistrale come un periodo in cui ebbe il «cervello pieno di pedagogia positivistica»420. L’apertura
verso le idee dell’idealismo pedagogico cominciò a manifestarsi dopo l’arrivo a Mezzaselva.
Decisivi furono due fattori: da un lato, il misurare di persona l’inadeguatezza dei metodi didattici
tradizionali appresi dai manuali di pedagogia e, dall’altra, il rinnovato clima culturale del primo
dopoguerra con l’esplodere del problema della cosiddetta «educazione nazionale», a cui si
interessarono non pochi uomini di scuola e letterati nella convinzione che occorresse un impegno
militante e attivo per risollevare le sorti della scuola italiana e, con essa, i destini della Nazione,
dopo la prova bellica che aveva mostrato tutte le criticità del paese421. Due furono, ammetterà
tempo dopo lo stesso Socciarelli, le letture che accompagnarono la “conversione” al nuovo credo
idealistico. Il primo fu il libro del grecista Giuseppe Fraccaroli intitolato L’educazione nazionale,
apparso nel 1918. Nelle sue pagine erano prospettate le strade di un’educazione corrispondente
allo spirito degli italiani, perché ciascun popolo doveva essere educato «nelle virtù della sua
razza», e veniva elevato un atto di accusa contro l’utilitarismo e il positivismo che erano contrari
alle cinque forme capitali della vita: la morale, la religione, la patria, l’arte e l’amore. Socciarelli
raccontò di essere rimasto colpito da quella lettura che scardinava modi di concepire l’azione
educativa consolidati nel tempo:
Ricordo – scrisse il maestro di Mezzaselva – che mi colpì tremendamente un periodo dove dice che […] il maestro
che insegna essere l’acqua composta di due atomi di idrogeno e una di ossigeno, davanti al maestro che insegna il
«Pater» ci fa proprio una magra figura. Mi colpì, e ci volle del tempo a rendermene ragione! 422
Il secondo libro, decisamente più importante per il suo contenuto, fu Lezioni di didattica,
opera assai nota di Lombardo Radice, pubblicata nel 1913 e destinata a diventare testo di studio e
di formazione per molti maestri elementari e pertanto a godere di grande fortuna editoriale negli
anni a seguire. L’influenza esercitata su di lui da quel testo venne così ricordata dal maestro:
In quel tempo mi fu prestato il libro «Lezioni di Didattica e Ricordi di Esperienza magistrale» e lo lessi. Fu un nuovo
mondo che mi si rilevò allo spirito, un nuovo concetto dell’educazione e della sua importanza. E dovetti, guidato
anche dalla ricca bibliografia di quel libro, rifare la mia cultura e la mia mentalità, modificare la mia posizione,
423
corroborare il mio lavoro di ben altri presupposti .
420
Cfr. F. Socciarelli, Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola
italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p. 507.
421
Su questo tema cfr. G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La
Scuola, 1983.
422
Cfr. F. Socciarelli, Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola
italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p. 507.
423
F. Socciarelli, Scuola e vita a Mezzaselva, «L’Educazione nazionale», maggio 1928, p. 260.
149
Da questo libro Socciarelli mutuò, in particolare, il concetto di «critica didattica» che
applicò in primo luogo alla sua esperienza di educatore, sottoponendola ad una analisi e ad una
messa in discussione dei suoi capisaldi. Del resto Socciarelli ebbe modo di verificare nella
concreta prassi scolastica l’inconsistenza di presunte verità acquisite dai manuali di pedagogia e
l’inutilità di preconfezionati metodi: si accorse, per esempio, nei primi giorni di insegnamento che
i bambini di Mezzaselva erano del tutto passivi e indifferenti alle favole, comunemente ritenute
un ottimo strumento didattico, così come trovò del tutto vano il tentativo di spiegare il significato
di ogni nuova parola, a mo’ di dizionario. Capì, in altre parole, di essere partito da un principio
errato, vale a dire quello di ritenere che vi fossero modelli prestabiliti di insegnamento, validi
universalmente per ogni contesto, e si accorse che il suo animo era dominato un certo senso di
diffidenza verso persone così selvagge tanto da ritenere che «il loro mondo non servisse a nulla» e
che non meritasse altra considerazione che il disprezzo424. Con il passare del tempo Socciarelli
comprese i suoi errori e intuì che la giusta strada era quello di un «avvaloramento spirituale delle
cose del loro ambiente, da cui potesse sbocciare poi un interesse più largo, un bisogno di guardar
fuori». L’ambiente esterno alla scuola, quindi, non poteva essere trascurato poiché era la vita
stessa che doveva vivificare la scuola, renderla attiva e interessante ai bambini. Compito del
maestro era quello di entrare in sintonia con i fanciulli, porsi al loro fianco per osservarli e intuire
di volta in volta, in una ricerca continua, quale strada percorrere per accendere la curiosità degli
alunni e non per trasmettere in modo meccanico delle semplici nozioni. Scrisse a questo
proposito Socciarelli:
Non una linea prestabilita, ma le piccole luci che si accendevano nel fervore del lavoro furono la mia didattica, il
tormento e la gioia di tutti i giorni, tormento di ricerca mai soddisfatto appieno, gioia per le piccole scintille che
talvolta riuscivo a sprigionare dal masso vivo ed informe.
L’apertura verso il mondo esteriore, e quindi verso la vita quotidiana che si svolgeva tra le
capanne di Mezzaselva, aveva come immediata conseguenza il delinearsi di un modello di scuola
elementare fortemente radicata nella cultura popolare, nel folklore, nel dialetto e nelle
manifestazioni artistiche ed espressive degli allievi. Non deve pertanto sorprendere come Scuola e
vita a Mezzaselva, dopo aver dedicato le primissime pagine all’impatto avuto da Socciarelli con la
nuova scuola, abbandoni quel tipo di narrazione e si soffermi in modo diffuso sulla descrizione
della vita degli abitanti del villaggio prendendo per mano il lettore e facendogli compiere una
passeggiata tra le capanne in cui scoprirà le persone che le abitano, le loro credenze, i loro valori:
una galleria di persone come Zì Pasquale, considerato il teorico del patrimonio di credenze e
superstizioni condivise da tutti, oppure Zì Filippo, che raccontava come anni prima lui e i suoi
compagni si erano insediati in quelle langhe desolate alla ricerca di maggiore fortuna, Zì Maria la
vecchia del villaggio, aiutata dagli altri per la sua infermità. In altre parole Socciarelli voleva dire
che la scuola non poteva svolgere la sua funzione educativa se prima non aveva mostrato un
interesse di tipo antropologico verso l’ambiente in cui era chiamata ad operare. Ma – è bene
sottolinearlo – tale approccio antropologico non aveva nulla a che spartire con una prospettiva
positivistica poiché il maestro non era uno scienziato che doveva indagare, e magari comparare in
modo sperimentale, i comportamenti di quella umanità. Al contrario era suo compito rendersi
conto dei modi di vivere di quelle persone per entrare in sintonia e, romanticamente, per entrare a
424
Id., Scuola e vita a Mezzaselva., «L’Educazione nazionale», marzo 1928, p. 157.
150
far parte lui stesso di quella comunità, ricca di folclore e di tradizioni. Scriveva Socciarelli in un
articolo del 1926:
Il popolo ha il suo mondo spirituale nelle sue tradizioni religiose, artistiche e patriottiche; la sua coscienza, la sua
dignità, le sue aspirazioni sorgono da quelle come i nuovi polloni sbocciano dal ceppo e dal tronco della pianta.
Estraniatelo da quel mondo e, per quanto gli imbottirete la testa di enciclopedia, egli sarà cieco e infelice 425.
Dall’antipositivismo gentiliano, tradotto da Lombardo Radice in forme romantiche ed
estetiche, deriva in Socciarelli anche il suo giudizio sulla religione e sul valore del suo
insegnamento nella scuola rurale: egli riteneva a questo proposito che la religione svolgesse
un’importante funzione educativa dell’anima dei bambini, in particolar modo in quelli di
campagna, poiché essi mostravano una maggiore sensibilità verso la sfera mistica e spirituale:
Quando invito i ragazzi ad alzarsi in piedi per la preghiera – scriveva Socciarelli nel 1926 – , si fanno silenziosi e
attenti come se sentissero appieno (e sentono) la solennità di ciò che sono per fare. La brevità e il suo valore
spirituale conferiscono a questo primo atto della lezione un’importanza sempre più viva e profonda che non si limita
davvero all’atto stesso426.
Così come il mondo rurale era diverso da quello urbano, e la scuola era un campo dove
tale alterità si misurava in modo rilevante, anche la religiosità dei giovani contadini era diversa da
quella dei bambini di città, connotandosi per le sue tinte immanentistiche, tali per cui Dio si
manifestava anche in un modesto filo d’erba. Scriveva a questo proposito Socciarelli nel 1940:
Il nostro campagnolo non è dunque privo di gentilezza; altrimenti, come si spiegherebbe quel senso di religiosità che
investe la sua vita, la sua attività, il suo modo di pensare, i suoi rapporti coi simili? E quella sua religiosità, non è,
come vedremo, sentimentale ma concreta come tutte le cose del contadino; concreta ma sempre soffusa, immersa,
direi, in un’atmosfera di calda poesia. Egli sente Dio nelle cose del suo mondo: nel filo d’erba che spunta, cresce e si
fa spiga, nell’ordine che regola i moti e le vicende del Creato, nelle misteriose leggi che guidano meravigliosamente
l’istinto degli animali, nelle speranze del suo cuore427.
Nondimeno la critica alla scuola tradizionale passava anche attraverso il rifiuto del programma
didattico nelle forme e nei modi in cui era stato comunemente inteso dalla generalità dei maestri.
Concetto ben espresso ne La scuola dei rurali, il secondo libro scritto da Socciarelli dopo Scuola e
vita a Mezzaselva, e pubblicato nel 1942:
Quello che ci preoccupa – scrisse con tono polemico – non è la sostanza, l’anima, il calore della scuola, bensì il
programma. E il maestro misura in precedenza i passi, non importa se gli riescono più lunghi delle sue gambe, o più
corti da rattrappirsi. «È stato svolto il programma?» «A che punto siete arrivato con lo svolgimento del programma?».
Sono in genere queste le domande che il visitatore rivolge al maestro sedendosi alla cattedra […] pochi cercano di
rendersi conto dell’atmosfera spirituale in cui il maestro è riuscito a far vivere la sua scolaresca; pochissimi si
informano dei suoi studi con vivo interesse per lui e per la scuola. L’ideale supremo è il programma, il quale, tenuto
in tanto concetto, diventa regola, limite428.
425
Id., Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25
aprile 1926, pp. 507-508.
426
Id., Scuola rurale, «I diritti della scuola», n. 18, 10 aprile 1941, p. 436.
427
Ibid.
428
F. Socciarelli, La scuola dei rurali, Brescia, La Scuola, 1942, p. 40.
151
Tale critica rivolta al modo di agire dei maestri non è l’unica che si trova nelle pagine del
secondo volume di Socciarelli, dove il tema della preparazione e della cultura del maestro rurale è
ben affrontato. A tal proposito egli suggerisce che il maestro non deve cedere all’idea piuttosto
diffusa che in campagna gli sia del tutto impedito arricchire la propria cultura; anziché lasciarsi
prendere dalla noia, si potrebbe dedicare allo studio della botanica o dell’entomologia, per meglio
conoscere l’ambiente in cui è chiamato a svolgere la sua missione, oppure dedicarsi alla letteratura
per nutrire la propria cultura che è essenzialmente «ricchezza spirituale». Non ha più ragione
d’essere, prosegue Socciarelli, neppure la vecchia lamentela secondo la quale il maestro rurale sia
condannato all’isolamento: grazie alla capillare diffusione della radio e ormai del cinematografo –
ricordiamo che quando scrive è il 1942 – è possibile essere abbastanza aggiornati di quello che
avviene altrove. Altre pagine del libro, infine, sono dedicate alla descrizione della ruralità come
«stato d’animo» che l’abitante della campagna deve interiorizzare e far proprio.
Nel quadro del discorso fin qui fatto, si deve aggiungere che Socciarelli ebbe modo di
definire e diffondere alcune sue idee sulla didattica curando, a partire dall’anno scolastico 193132, la sezione dedicata alle scuole rurali della rubrica della didattica nella rivista «I diritti della
scuola», il periodico magistrale più diffuso in Italia allora. A questo proposito appare interessante
notare come la preoccupazione predominante nelle note che compose per tale circostanza era
quella di invitare i maestri ad evitare un eccessivo e vuoto idealismo, a ricercare la poesia
ignorando completamente la vita concreta dei giovani contadini, che era fatta anche di fatiche
quotidiane e sudore, ad abbandonare una visione oleografica ma poco realistica della campagna.
Così si legge nella rubrica del fascicolo del 14 febbraio 1932:
Canto di uccelli, profumo di fiori, serena pace, semplicità di vita sono, diremo così, la parte poetico-idilliaca della vita
rurale; quella che vedono solamente i letterati. Ma la parte che più deve stare a cuore ai maestri delle scuole di
campagna è quella concreta, quella che realmente il contadino vive. Il quale, pur respirandola con l’aria, della poesia
poco si accorge e l’idillio non ha sempre tempo di gustarlo. Educare i figliuoli dei contadini all’amore della terra, della
sua bellezza e del suo valore è il primo dovere nostro. Però niente lattemiele, niente lirismo vuoto, ma coscienza e
conoscenza della vita campestre sotto ogni riguardo. È bella, sì, la farfalla; ma semina bruchi devastatori nel campo.
È dolce il canto degli uccelli; ma alcuni di essi sono dannosi. C’è il canto dei grilli; ma ci sono anche la filossera e le
cavallette […] Vita che alla scuola non chiede davvero retorica, artificio e perditempo, ma concretezza, ma cose che
rispondno alle sue vive necessità: comprensione […]. Bandire ogni forma di astrattismo; cercare nella vita tutta la
materia per il lavoro scolastico429.
A leggere con attenzione queste frasi sembra quasi di trovarsi di fronte ad una presa di distanza
dall’idealismo lombardiano, dall’idea di «scuola serena» o di scuola attiva a cui più volte egli si era
ispirato. In realtà Socciarelli, sulla scorta della sua esperienza di maestro svolta sul campo e non
sui libri e sui manuali, richiamava l’attenzione degli insegnanti ad evitare astrazioni che
ignorassero la realtà concreta, in nome dell’esigenza di «conciliare l’esigenza pratica con la
bellezza»430. Ma c’è di più. L’interesse crescente verso l’elemento reale ai fini dell’educazione dei
giovani contadini, di cui si è detto, non era un fatto casuale e isolato nel Socciarelli degli anni
Trenta ma era l’espressione di una temperie culturale che di cui risentiva la pedagogia italiana del
tempo e di cui converrà ora parlare.
429
Id., La necessità del popolo e la sua scuola, «I diritti della scuola», n. 19, 14 febbraio 1932, pp. 303304.
430
Cfr. F. Socciarelli, Criteri, «I diritti della scuola», n. 22, 6 marzo 1932, p. 352.
152
5. L’apertura al realismo pedagogico degli anni Trenta
Il trasferimento a Vetralla, avvenuto il primo febbraio 1931, metteva finalmente in
condizione Socciarelli di acquistare quella libertà di iniziativa e di movimento da sempre
desiderata. Lombardo Radice, venuto a conoscenza di questa notizia, non poté che compiacersi
con l’amico, già prevedendo una sua partecipazione più attiva alla vita della rivista da lui diretta,
«L’Educazione Nazionale». Indicative erano le parole usate dal pedagogista nella cartolina spedita
a Socciarelli per commentare l’evento:
Sono proprio contento di saperti in porto. Ora sì che potrai scrivere per Educazione Nazionale, con quella ampiezza
di sviluppi che desideri. Attendo molte e belle cose tue431.
Frattanto lo scontro maturato con Marcucci aveva lasciato nel direttore delle Scuole
dell’Agro Romano un duro segno alimentato dal risentimento che andava oltre i ristretti confini
della querelle personale e investiva la sfera “pubblica” del dibattito e della polemica pedagogica e
culturale. Marcucci, infatti, sentendosi defraudato di un pezzo delle proprie scuole e dell’originale
indirizzo pedagogico che a loro aveva saputo imprimere, tornò a distanza di qualche mese a
denunciare presso Lombardo Radice l’opera maldestra di «improvvisati dottori in materia» di
scuole rurali, accusandoli di scrivere fiumi di inchiostro dove riversavano idee rubate ad altri. Non
è difficile intravedere dietro questa parole un’accusa chiara ed evidente a Socciarelli, dato i recenti
accadimenti e considerando che la lettera di Marcucci è datata al 5 maggio 1931, tre mesi dopo
l’arrivo del maestro a Vetralla. Il direttore delle Scuole dell’Agro Romano, cogliendo l’occasione
di rispondere ad una richiesta che Lombardo Radice nel frattempo gli aveva avanzato al fine di
portare con sé venti studenti del Magistero di Roma in visita ad alcune scuole rurali gestite
dall’ente, scrisse:
[…] Essendo in 20, meglio potrete osservare e più agevolmente tu potrai illustrare il buono e il manchevole di queste
scuole ai tuoi discepoli anche per invogliarli ad accostarsi a questa scuola rurale, la cui formazione è più difficile di
quanto si creda, da taluni, oggi improvvisatisi dottori in materia (piccoli ladruncoli di cose altrui) e parlano e parlano!
E sputano sentenze e citano autori (molto meglio se stranieri) e spesso riescono a farsi far credito… 432
Giunti a questo punto, è bene dire che i dissidi insorti tra Socciarelli e Marcucci non
costituivano un’eccezione nel campo dello sperimentalismo pedagogico e dell’applicazione delle
moderne teorie attivistiche. Contrasti e gelosie si erano già manifestati oppure si stavano
delineando, avendo per protagonisti maestri, ispettori e uomini di scuola. A parte il caso più noto
della polemica tra Lombardo Radice e la Montessori intercorsa dopo un primo periodo in cui il
pedagogista si era mostrato favorevole al metodo della Dottoressa, si possono citare i contrasti
sullo spontaneismo e sul metodo didattico tra la maestra di San Gersolè, Maria Maltoni, sostenuta
dall’ispettore Francesco Bettini, da una parte, e l’ispettore Edoardo Predome dall’altra; un’altra
circostanza in cui si palesarono gelosie e contrasti tra esponenti di esperienze didattiche
innovative ci viene testimoniata da una lettera infastidita di Maria Boschetti Alberti che il 12
giugno 1935 scriveva da Lugano a Lombardo Radice, affermando in modo sintomatico, di non
essere gelosa della propaganda da lui fatta ad altre scuole di avanguardia433.
431
AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 12 febbraio 1931.
AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 5 maggio 1931.
433
Ivi, Carteggio generale, Lettera della Boschetti Alberti a Lombardo Radice, 12 giugno 1935.
432
153
Il pedagogista siciliano, infatti, non aveva cessato la sua opera di scoperta e di
valorizzazione di esperienze didattiche innovative, né si era dimenticato di Socciarelli al quale
dedicò un capitolo nel suo nuovo volume intitolato Pedagogia di apostoli e di operai, la cui prima
edizione riporta la data del 1936, ma che doveva essere stato stampato sul finire dell’anno
precedente. Il 28 novembre 1935, infatti, il maestro scriveva a Lombardo Radice ringraziandolo
di avergli dedicato alcune pagine del suo nuovo libro, raccomandandosi di non dimenticarlo.
Eppure si deve registrare come intorno alla metà degli anni Trenta Socciarelli si stava
sempre più aprendo a quelle idee che si configuravano come critiche e alternative all’idealismo
che aveva ispirato i programmi del 1923 e che trovarono una consacrazione sul piano politico
con l’ascesa al ministero dell’Educazione Nazionale di Giuseppe Bottai. Questa stagione, che la
storiografia ha chiamato del «realismo pedagogico», trovò uniti vecchi antagonisti dell’idealismo
come Giovanni Calò e nuovi avversari di quella visione pedagogica, che pure avevano decantato
fino a pochi anni prima, come Giorgio Gabrielli e Nazareno Padellaro434. Si trattava di una svolta
sancita in nome del superamento dello iato che separava la scuola e la vita sociale e politica, le
istituzioni educative e le esigenze del mondo economico e produttivo, obiettivo auspicato dal
Regime per garantire una piena affermazione della forza imperiale dell’Italia fascista. In Socciarelli
questo mutamento avvenne in modo più sobrio, senza mai dimenticare la lezione lombardiana,
nella forma cioè di una mediazione tra idealismo e realismo che doveva coniugare arte e realtà,
poesia e utilità. Ciò appare in modo evidente, ad esempio, nelle note di didattica scritte per «I
diritti della scuola» nell’anno scolastico 1940-41. In una di esse così scrisse Socciarelli:
Dobbiamo, insomma, innestare la scuola nella vita in modo che lo spirito pratico del contadino non abbia mai a
domandarsi invano «A che serve ciò?». Né ci venga la preoccupazione che con questo criterio la nostra scuola
finirebbe con l’essere arida, utilitaristica. Arida, la scuola di campagna non è mai […]; utilitaristica è bene che, un
poco, lo sia. Arida no: il contadino sente la poesia delle cose, non quella delle parole […] Egli sa che uno scarso
raccolto gli renderebbe brutta la vita, ingrata la campagna, triste l’aspetto dei figliuoli; e che nessuna siepe ammantata
di fiori potrebbe dargli la gioia dell’animo quando il suo granaio fosse vuoto e asciutta la sua cantina. L’artificio non
lo appaga435.
Concetti analoghi li possiamo rintracciare in un’altra puntata che Socciarelli scrisse per la
didattica de «I diritti della scuola» e nella quale affermò in modo lapidario che compito del
maestro rurale fosse quello di «bandire ogni sentimentalismo» ed evitare ogni forma di
«astrattismo»436. Contestualmente al maturare di questa svolta sul piano teorico, un’altra svolta –
di cui è necessario dare conto per comprendere la prima – si stava delineando nell’ex maestro di
Mezzaselva: quella di tipo politico. Se fino ad allora, infatti, gli scritti di Socciarelli erano stati
esenti da quelle facili e retoriche frasi celebrative del Regime e del Duce – pur essendo egli iscritto
al Partito nazionale fascista dal 1926437 – ora anche nei suoi lavori cominciavano a comparire
riferimenti sempre più espliciti all’opera di Mussolini e del governo nazionale, in specie laddove
venivano trattati temi di politica scolastica di stretta attualità, come l’introduzione della Carta della
Scuola, l’apertura della scuola ad esperienze del mondo del lavoro o la funzione educativa che lo
434
Sul rapporto tra Calò e il realismo pedagogico si rinvia a G. Chiosso, Giovanni Calò e il realismo
pedagogico tra gli anni Venti e Trenta (1923-1936), «Pedagogia e vita», n. 4, 1984-1985, pp. 411-434.
435
F. Socciarelli, Scuole rurali, «I diritti della scuola», n. 13, 20 febbraio 1941, p. 315.
436
Id., Scuole rurali, «I diritti della scuola», n. 12, 10 febbraio 1941, p. 292.
437
Socciarelli si iscrisse al Pnf il 20 aprile 1926 (ACS, MI, Divisione generale di pubblica sicurezza,
Polizia Politica, Fascicoli personali, b. 1280).
154
Stato doveva esercitare nei confronti del cittadino438. Concetti espressi da Socciarelli, non a caso,
su «Primato educativo», la rivista diretta da Padellaro e destinata a diventare una delle principali
voci della pedagogia ufficiale del Regime. In modo emblematico in un articolo apparso nel 1935
egli mostrava di far propria la teoria dello Stato educatore, sostenendo la tesi della subordinazione
della scuola allo Stato e segnando almeno da questo punto di vista in modo brusco un
superamento della prospettiva lombardiana della «scuola serena», cioè di una scuola semmai
subordinata alla vita, ai bisogni dei bambini, alla loro interiorità, non certo alle esigenze dello
Stato o di qualsiasi altro agente esterno. Indicative a questo proposito erano le parole di
Socciarelli:
Una sicura preminenza nel campo dell’educazione è riservata a quello Stato che meglio riuscirà a subordinare la
scuola alle esigenze della propria vita […] Ma basta: squillano le sirene, suonano le campane, rullano i tamburi per le
vie: presa Addis Abeba; Roma trionfa col Littorio. Andiamo all’adunata, Mussolini ci farà una grande lezione di
pedagogia, di quella pedagogia che ci vuole439.
A ben guardare il percorso seguito dall’ex maestro di Mezzaselva – un graduale
abbandono delle istanze liberatrici lombardiane che non significava una piena rinuncia
all’attivismo, ma semmai una sua ridefinizione alla luce delle pratiche e concrete esigenze
politiche e sociali della Nazione – coincideva con il sentiero percorso da altri uomini di scuola,
come Giorgio Gabrielli. E non a caso sarà proprio Gabrielli, intelligente studioso delle teorie
attivistiche sia durante il ventennio fascista che nel secondo dopoguerra, a firmare la prefazione
del secondo libro di Socciarelli, La scuola dei rurali, del 1942. Nondimeno in questa fase egli si
avvicinò ad un altro personaggio di primo piano della pedagogia italiana del periodo bottaiano,
come Luigi Volpicelli, che decise di pubblicare nel 1939 nella collana «Problemi della scuola e
della vita», da lui diretta presso l’editore Signorelli di Roma, la seconda edizione di Scuola e vita a
Mezzaselva. Nella prefazione al volume scritta da Volpicelli sparivano in modo paradigmatico ogni
benché minimo riferimento a Lombardo Radice e veniva fortemente ridimensionata la sfera di
romanticismo e di idealismo che ammantava l’opera440. Anche un altro esponente di spicco del
cosiddetto fronte anti-idealistico, come Calò, ebbe modo di esprimere nel 1940 un commento
assai positivo alla seconda edizione del libro. In particolare egli vedeva nell’esperienza di
educatore raccontata dal maestro di Mezzaselva un invito a non tenere separate pedagogia e
psicologia: una lettura, questa di Calò, che forse conteneva una critica implicita all’idealismo che
invece, come è noto, aveva ridefinito i fondamenti della pedagogia, negandone i nessi con la
psicologia, oltreché con l’etica. Scriveva a questo proposito Calò nella sua recensione:
Fallimento della pedagogia, come in qualche punto parrebbe credere il Socciarelli? Dei pregiudizi pedagogici con cui egli
aveva ingenuamente iniziato l’opera sua (p. 13), e dei quali ben presto s’accorse, sì. Poiché era pregiudizio, appunto,
credere all’esistenza di certe massime o norme che si potessero senz’altro applicare, sempre e dappertutto,
raggiungendo risultati, senza considerazione di ambiente, di condizioni psicologiche ecc.; pregiudizio, insomma,
credere a una pedagogia che non fosse anzitutto concreta e viva psicologia. Ma fallimento della pedagogia, no: perché
il primo livellamento, in certo senso, che l’educazione richiede, è quello tra maestro e scolari, livellamento che è
438
Si vedano, ad esempio, i seguenti articoli: F. Socciarelli, La Scuola del lavoro, «I diritti della
scuola», n. 19, 20 aprile 1940, pp. 274-275; Id., Il passaggio. Ammissione alla scuola media, «I diritti
della scuola», n. 21, 10 maggio 1941, pp. 323-324.
439
F. Socciarelli, Problemi nuovi, «Primato educativo», n. 2, 23 maggio 1936, pp. 128-137.
440
Il testo della prefazione venne pubblicato anche in L. Volpicelli, Scuola e vita a Mezzaselva, «I
diritti della scuola», n. 30, 8 giugno 1939, pp. 467-468.
155
simpatia, mutua comprensione, fiducia; ma, una volta raggiuntolo, non v’è arte, non calore, non tatto, non fascino di
educatore che possa non applicare, più o meno consapevolmente, quasi fondendole e dissimulandole
nell’immediatezza dell’azione sicura e del sentimento vivo, quelle norme che, rispondendo alla struttura e natura
propria dello spirito e delle sue funzioni, garantiscono il raggiungimento dei fini nei quali si concreta lo sviluppo
educativo dello spirito stesso. Ma qui le notazioni teoriche non contano. Conta la bellezza ch’è nell’ardore e nella
sincerità di un maestro che sa spogliarsi dei suoi errori e accompagnare i suoi alunni a vedere, a scoprire, a creare, che
441
sa insomma destare energie e procurar loro la gioia della conquista .
Si deve aggiungere che l’apertura verso il mondo reale e, in particolare il riconoscimento
di talune esigenze politiche e sociali riconosciute come prioritarie ai fini della vita della Nazione,
determinò in Socciarelli una crescente attenzione verso il tema della ruralizzazione e della lotta
all’urbanesimo. Se all’inizio della sua esperienza di educatore la campagna era stata
romanticamente intesa come un mondo quasi magico per i suoi tratti primitivi in cui era possibile
fare la conoscenza con persone sì analfabete ma ricche di dignità e di cultura popolare, ora la
contrapposizione con la città non era dettata solo da motivi filosofici e pedagogici ma da ragioni
di tipo politico ed economico. Ciò avveniva in linea con le iniziative promosse a partire dalla
seconda metà degli anni Venti dal Regime contro l’esodo dalle campagne e contestualmente al
fiorire di una ricca pubblicistica che decantava le lodi della vita rurale e denunciava i mali e i vizi
del vivere urbano. Le virtù della campagna e dei suoi abitanti erano allora, secondo Socciarelli, il
culto del lavoro e l’amore della famiglia, due principi nobili da preservare contro la corruzione
delle città, che si manifestava nei ritmi frenetici della vita quotidiana, nel rumore assordante delle
macchine, nella violenza visiva dei manifesti pubblicitari che invadevano gli spazi pubblici442.
6. «Ritornare a Lombardo Radice». L’auspicio di Socciarelli per rifondare la scuola dell’Italia
democratica
Nel panorama della pedagogia italiana dell’immediato secondo dopoguerra, caratterizzato
da un lato dall’apertura dimostrata dagli ambienti laici alle istanze attivistiche di John Deway
provenienti da oltreoceano e, dall’altro, dall’interesse del mondo cattolico verso il personalismo di
Stefanini e il pensiero di Maritain, il caso di Socciarelli è un esempio di come il cenacolo degli
estimatori di Lombardo Radice non si fosse del tutto disperso, continuando il suo magistero a
costituire un faro a cui ispirare la propria visione della scuola e dell’educazione ancora a distanza
di qualche anno dalla sua morte443. In particolare alcuni temi – come il rapporto paritario tra
bambino e maestro, l’abbattimento di ogni frontiera che li teneva separati, la valorizzazione
dell’interiorità del fanciullo contro forme coercitive esterne – sembrarono di grande attualità
nell’Italia che cercava di ricostruirsi dalle ceneri lasciate dal fascismo e dalla guerra. Emblematico
441
G. Calò, Mezzaselva, «I diritti della scuola», n. 15, 10 marzo 1940, pp. 226-227.
Si vedano, ad esempio, i seguenti articoli: F. Socciarelli, Problemi nuovi, «Primato educativo», n.
2, 23 maggio 1936, pp. 128-137; Id., Per una letteratura rurale, «I diritti della scuola», n. 25, 11 aprile
1937, pp. 90-91.
443
Per un quadro sulla pedagogia italiana nel periodo post-bellico si rinvia a: G. Tassinari (a cura
di), La pedagogia italiana nel secondo dopoguerra: atti del Convegno in onore di Lamberto Borghi; Università di
Firenze, Facoltà di magistero, 8-9 ottobre 1986, Firenze, Le Monnier, 1987; R. Fornaca, La pedagogia
italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1986; G. Chiosso, Profilo storico della pedagogia cristiana in
Italia (XIX e XX secolo), Brescia, La Scuola, 2001, pp. 167-236.
442
156
a questo proposito, perché espressione di un sentire che accomunò più uomini di scuola, fu
l’articolo di un ispettore, Antonio Silveri, apparso il 15 novembre 1945 su «I diritti della scuola» e
dal titolo Ricordando Lombardo Radice. Veniva così ricordato non solo per essere stato un
«professore insigne per soda cultura e avvincente parola» e un «pedagogista di vasta risonanza
non soltanto nazionale», ma anche per essere stato un «apostolo dell’educazione popolare» e, al
contempo, per aver mostrato con la propria testimonianza di non piegare la scuola alla politica:
«Nel suo profondo sentimento d’italianità – scrisse Silveri -, egli sognò una scuola e
un’educazione nazionale, cioè nostra, aderente all’anima del nostro popolo, alle sue attitudini, alle
sue tradizioni, alla sua religione e al suo genio. Nazionale, non nazionalista; tanto meno fascista».
Del resto anche Socciarelli compì un percorso di distacco dal Regime, a cui aveva pur
aderito ma di certo non ergendosi a cantore di esso come altri che pure continuarono a svolgere
un ruolo di primo piano nelle vicende scolastiche italiane del dopoguerra. Il richiamo a Lombardo
Radice, pertanto, assunse una duplice funzione: da un lato una forma di riconoscenza per il
maestro verso cui si sentiva debitore e di rilancio di una visione pedagogica che non aveva
esaurito la sua validità; dall’altro la celebrazione di un esempio di resistenza alle tendenze
pervasive del fascismo nel campo dell’educazione. Socciarelli condensò questi pensieri in un
lungo scritto in cui forniva un ritratto del pedagogista catanese, elaborato probabilmente per
essere pubblicato, ipotesi a cui però non abbiamo trovato una conferma. In tale scritto,
pervenutoci autografo, Socciarelli affermava:
Gli educatori più sagaci ne compresero subito il significato e il valore. Non mancarono tuttavia chi ne tradì lo spirito
e i politicanti che, non potendone penetrare l’intima essenza, si contentarono di fraintenderne tendenziosamente
qualche minimo accessorio. Basterebbe ricordare, ad esempio, come fu interpretata l’introduzione degli esercizi sul
dialetto: si disse (nientemeno!) che con ciò si volevano «-mantenere e accentuare le differenze regionali».
Miseria di spirito: non si trattava che di un innocente mezzo didattico per tradurre nella lingua quella maggiore
vivezza ed efficacia che i fanciulli (e non sempre soltanto i fanciulli) mettono nelle loro espressioni dialettali; si
trattava, insomma, di un mezzo per conquistare meglio la lingua.
Eppure, nonostante gli scogli contro i quali doveva urtare in quel tempo, quella riforma si resse; anzi si è retta sino ad
oggi, sebbene, qua e là, mutilata, e contaminata di politica. Si è retta perché c’è dentro l’anima di un vero educatore.
La quale riforma, naturalmente, per dare i suoi frutti, avrebbe avuto bisogno di un ambiente meno falso, di una vita
meno superficiale; avrebbe voluto raccoglimento e serenità, perché voleva realizzare una scuola serena come l’animo
dei fanciulli ai quali doveva servire. E non sarebbe davvero male riprenderla oggi nella sua forma originaria:
l’esperienza che i maestri hanno fatto in quello spirito, libera ora dalle ingerenze politiche che ne hanno impedito la
piena attuazione, potrebbe utilmente perfezionarsi e cavarne finalmente quei preziosi frutti che il riformatore
pensava.
Era gentiliano il Lombardo? Egli disse e scrisse che no. Era crociano? Forse più che gentiliano. L’indagine non
sarebbe difficile, ma non importa. Come pedagogista, come educatore era lui; era Lombardo Radice, e la sua si
potrebbe chiamare pedagogia del buon senso: corroborata di un sostanzioso substrato di pensiero, si poggia su
solidamente, ma non vi si cristallizza. E la sua classica opera Lezioni di didattica e Ricordi Esperienza magistrale sarà
sempre fondamentale per la formazione del maestro, quali che siano i presupposti teorici, politici e morali della sua
scuola. È pedagogia viva, attiva, pratica; espressione di una grande anima; pedagogia che ha avuto ed ha risonanza e
influenza non solo in Europa444.
Com’è noto, l’auspicio di Socciarelli, condiviso da altri estimatori del pensiero di
Lombardo Radice, era destinato a trovare una fredda accoglienza nel panorama degli studi
pedagogici. Dal canto suo l’ex maestro di Mezzaselva continuerà ancora per qualche anno a
444
Il testo autografo di Socciarelli è conservato in AGLRF, sez. «Lucio Lombardo Radice», fasc. 1
«Cronache di una vita», I subfasc. «Materiale per “Cronache di una vita”», I7 «Cronache di una
vita – L’antifascismo di Giuseppe Lombardo Radice».
157
lavorare in quel solco segnato dal maestro catanese. Ne saranno prove evidenti almeno due suoi
libri usciti nel dopoguerra: nel 1947 veniva, infatti, pubblicato Ragazzi, la cui stesura era iniziata
già nel 1931 con l’approvazione di Lombardo Radice che aveva letto una prima parte, opera che
si configurava come un compendio di ritratti di alcuni suoi allievi di Mezzaselva445; nel 1950
usciva, infine, La famiglia Rosini, libro di lettura in cui dominava ancora una visione positiva della
vita in campagna, attraverso le vicende della famiglia Rosini, che ambientava nella fattoria detta
della «Giovacchina», in cui visse la sua infanzia. Del resto era un’Italia ancora agricola quella in cui
scriveva Socciarelli, tanto che nelle riviste e nel dibattito scientifico del tempo troveranno ancora
spazio discussioni sul nuovo ordinamento da dare alle scuole rurali, benché giuridicamente non
più esistenti dopo la fine della guerra, e sul problema della scuole pluriclassi. Testimonianza ne
era, ad esempio, il convegno sulla scuola unica pluriclasse organizzato a Parma tra l’agosto e il
settembre 1948, al quale parteciparono il ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella, e
personalità tra le quali Francesco Bettini, Giorgio Gabrielli, Carmelo Cottone e Attilio Menapace:
partecipò con una relazione sul problema delle pluriclassi nel Mezzogiorno e nelle isole anche
Socciarelli e fu una delle sue ultime occasioni pubbliche: nel 1949 intervenne al convegno del
Paedagogium di Assisi, l’anno successivo ottenne il primo «Premio al merito educativo» conferitogli
dal medesimo cenacolo culturale. Il 24 novembre 1951 si spegneva a Roma, appena in tempo di
vedere nel letto d’ospedale una copia della terza edizione di Scuola e vita a Mezzaselva.
7. Conclusioni
Come si potrebbe valutare l’opera di educatore svolta da Socciarelli nell’arco della sua vita
e il contributo da lui fornito al rinnovamento della didattica? Si deve innanzitutto dire che i
giudizi sul suo operato espressi dopo la sua morte furono tutti largamente positivi. Anche
Alessandro Marcucci, che, come abbiamo visto, aveva avuto forti dissidi con il maestro di
Mezzaselva, fornì dell’estinto un ricordo positivo in un articolo uscito pochi giorni dopo la sua
scomparsa, mettendone in luce la dedizione nell’ufficio di educatore svolto tra gli umili
contadinelli dell’Agro Romano. Eppure Marcucci non tralasciò di mettere in evidenza la
formazione sui generis di Socciarelli, l’essere stato un autodidatta e quindi la sua mancanza di una
solida cultura filosofica e pedagogica senza la quale non era possibile, a suo giudizio, entrare a far
parte di una sorta di Pantheon dei grandi educatori. Scrisse a questo proposito Marcucci:
Ecco dunque il Socciarelli, auto-discepolo, fatto maestro; maestro irregolare, tutt’altro che ferrato nel possesso di
sistemi filosofici e principii pedagogici accreditati, antichi e moderni, nostrani e ultramontani, senza del quale non si
entra nella famiglia degli educatori ufficiali, ma armato di buona volontà, di senso di fraternità umana e fornito di
quel tanto di cultura generica appresa da sé e bene assimilata, e di molto buon senso; ottimo viatico per conquiste
future e risultati sicuri. È così che l’auto-discepolo diviene maestro di scuola come desiderava 446.
445
Lo si apprende da una lettera scrittagli dal pedagogista siciliano nel marzo 1931: «Questi profili
di scolari saranno il tuo capolavoro […] Queste tue pagine nuove – non inorgoglire! – sono belle
come le più belle pagine del Lighart. Dammene altre, molte. Rialzeremo le sorti di Educazione
Nazionale e faremmo del bene, con esso» (AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 6
marzo 1931).
446
A. Marcucci, In memoria di Felice Socciarelli, 8 gennaio 1952, n. 7, p. 136.
158
Un giudizio per certi versi tranciante, quello di Marcucci, alimentato di certo dalla querelle
personale che lo aveva opposto al maestro di Mezzaselva, ma a ben vedere fondato, almeno in
parte, su una base di verità. Ci riferiamo al fatto che egli ebbe una cultura pedagogica meno vasta
rispetto ad altri uomini di scuola, ma bisogna tener presente che Socciarelli, al pari di Maria
Maltoni o di Maria Boschetti Alberti, fu innanzitutto un maestro, più attento ai dati empirici
dell’educazione, che alle teorie pedagogiche, pur recando nella propria opera la traccia del clima
culturale del tempo. Questa era la lettura che dell’opera di Socciarelli venne data dopo la sua
morte in modo meno polemico da altri suoi contemporanei che lo ricordarono come Gian Cesare
Pico, Francesco Bettini, Gherardo Ugolini e Giuseppe Spanu447. Ed è questo, anche secondo noi,
il giudizio più sereno che si potrebbe dare sull’opera di educatore e di uomo appassionato ai
problemi della didattica e dell’elevazione morale dei giovani e, in particolare, dei contadini, di
Felice Socciarelli.
447
G. Ugolini, Felice Socciarelli, «Scuola italiana moderna», n. 5, 15 dicembre 1951, p. 3; G.C. Pico,
Un autodidatta, «Scuola italiana moderna», n. 8, 15 febbraio 1952, p. 6.
159
Capitolo quarto
«Un’esperienza di istruzione rurale integrale»:
David Levi Morenos e le Colonie dei Giovani Lavoratori
1. La Grande Guerra, i bambini profughi, gli orfani e le
colonie agricole: aspetti per una storia dell’educazione
Solo recentemente la storiografia ha posto al centro del proprio interesse lo studio delle
conseguenze della disfatta di Caporetto sulla popolazione civile, in primo luogo degli abitanti
delle zone invase dall’esercito austriaco e in secondo luogo degli italiani che a vario titolo si
trovarono di fronte al problema degli sfollati. Il recente studio di Andrea Ceschin448 sui profughi
veneti e friulani che si riversarono sulla penisola ha costituito un punto fermo in questo senso.
Analizzato da vari punti di vista – forme e tempi dell’esodo, modalità dello sfollamento, ricerca e
creazione di alloggi, ricerca di soluzioni ai problemi sanitari, alimentari, lavorativi e di convivenza,
effetti della condizione di profugo sull’immaginario individuale – il problema dell’esodo
conseguente alla rotta di Caporetto offre un’abbondante materia di studio per lo storico che può
ricostruire gli effetti della guerra totale sulle condizioni di vita della popolazione e dei bambini, in
un’ottica di storia sociale.
Ma accanto a questioni di questo tipo, l’esodo dei bambini sfollati, a cui si aggiunge
un’altra categoria di bambini colpiti dalla guerra, gli orfani, fornisce materiale di studio anche alla
storia dell’educazione. Vi sono, infatti, problemi di fondo a cui finora si è guardato in una
prospettiva di storia dell’assistenza all’infanzia nel quadro più ampio dell’assistenza fornita agli
sfollati, ma che tuttavia attendono di essere opportunamente indagati in un’ottica storicoeducativa449.
Si tratta, ad esempio, di ricostruire i dibattiti e gli sforzi che accompagnarono la nascita di
istituzioni di assistenza ai fanciulli, di disegnare i profili biografici degli educatori che si
prodigarono in questo senso, di indagare le esperienze scolastiche dei profughi, di studiare le
caratteristiche delle istituzioni educative in questione individuando le continuità con le tradizionali
strutture di assistenza all’infanzia derelitta e abbandonata e, di converso, i punti di innovazione a
livello organizzativo e didattico, valutare il peso specifico occupato in ogni singolo caso
dall’istruzione di base, dalla formazione professionale o dall’educazione nazionale.
Parliamo, cioè, di terreni poco esplorati, come del resto poco conosciute erano fino a non
troppo tempo fa le condizioni della popolazione civile durante la guerra e dopo Caporetto450.
448
D. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza,
2006.
449
Sull’opera di assistenza a bambini orfani e bambini profughi, cenni in A. Fava, Assistenza e
propaganda nel regime di guerra (1915-1918), in M. Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella Grande
Guerra, Bologna, Cappelli, 1982; D. Ceschin, Le condizioni delle donne e dei bambini dopo Caporetto,
«Dep. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 1, 2004.
450
Sono note le attività di assistenza svolte dall’Opera Bonomelli e dall’Umanitaria. Quest’ultima
si incaricò di compiere delle ispezioni presso le colonie e i Comuni dove erano alloggiati la
maggior parte dei profughi.
160
In quest’ottica, un posto di primo piano spetta alle colonie agricole. Nate nell’Ottocento
con il precipuo scopo di fornire l’addestramento pratico ai contadini secondo le conoscenze
agronomiche più avanzate, durante la Grande Guerra alle colonie agricole vengono affidati
compiti diversi451. Non solo bisogna addestrare tecnicamente i giovani lavoratori della terra ma
occorre anche educare i giovani e gli adolescenti agli ideali del patriottismo e dell’ubbidienza. Non
c’è, dunque, soltanto la formazione professionale, ma anche l’educazione nazionale, a cui si
accompagna l’istruzione elementare di base, tra gli obiettivi dichiarati per cui le colonie agricole
nascono.
Fin dai primi mesi dell’ingresso dell’Italia in guerra viene lanciato un progetto ambizioso
che ha come obiettivo la fondazione di numerose colonie agricole per rispondere, in primo luogo,
al problema della cura degli orfani dei contadini452. In un secondo momento, conseguente alla
ritirata di Caporetto dell’ottobre 1917, le colonie, o almeno una parte di esse, si faranno carico di
fornire assistenza ai fanciulli profughi del Friuli e del Veneto. Passata la fase emergenziale
rappresentata da Caporetto, seguita dalla ripartenza verso le loro terre d’origine dei profughi
bambini, le colonie tornano ad ospitare gli orfani di guerra.
In questo vasto spazio di azione si incrociano varie finalità che vengono perseguite dai
soggetti che si fanno promotori del sorgere di tali istituzioni: spinte filantropiche e altruistiche,
controllo sociale delle masse contadine considerate le più bisognose di tutela, reinserimento nel
contesto agricolo dei fanciulli per sottrarli al rischio dell’urbanesimo, educazione patriotticanazionale, specializzazione tecnica degli agricoltori, innovazione didattica e sperimentazione di
nuovi indirizzi e metodi educativi.
A promuovere il vasto progetto di costituzione delle colonie, a partire dalla fine del 1915,
è l’Opera Nazionale per gli orfani dei contadini, con sede a Roma. Uno dei protagonisti di questa
stagione di attivismo in favore della nascita delle colonie è Mario Casalini, che all’epoca ricopriva
la carica di direttore dell’Istituto nazionale per la mutualità agricola. In un opuscolo in cui
tratteggiava le caratteristiche che a suo avviso dovevano avere tali istituzioni – disponibilità di
terreni per la pratica agricola, frequentazione delle scuole elementari urbane per non allontanare i
bambini dai loro coetanei, istruzione professionale basata su un metodo oggettivo e dimostrativo
– Casalini auspicava per gli orfani un futuro da piccoli proprietari. In quest’ottica la permanenza
nelle colonie avrebbe «fatto dell’orfano quel piccolo proprietario che noi vogliamo per la fortuna
dell’agricoltura nazionale: amante della sua casa e del suo lavoro, capace di ricavare dalla terra il
451
Sulle colonie agricole nell’Ottocento cfr. G. Fumi, Le università dei contadini: le “colonie agricole” in
Italia tra metà Ottocento e i primi anni del Novecento, «Bollettino dell’Archivio per la storia del
movimento sociale cattolico in Italia», A. XXXI, settembre-dicembre 1996, pp. 334-396; A. Salini,
Educare al lavoro: l’Istituto Artigianelli di Brescia e la Colonia agricola di Remedello Sopra tra ’800 e o ’900,
Milano, Franco Angeli, 2005, in particolare le pp. 37-40; G. Farnedi, La Colonia agricola di San
Pietro a Perugia (1862-1890), «Rivista di storia dell’agricoltura», LII, 1 (2012), pp. 55-74.
452
La prima Colonia agricola, diretta emanazione dell’Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra,
fu quella detta «del Foresto», sorta nella provincia di Mantova nel maggio 1916 ospitando i primi
10 orfani. Oltre ad un podere di 37 ettari, vi era una scuola elementare annessa che, secondo i
dettami del Provveditore, svolgeva un programma intonato alla vita campestre, ed una modesta
biblioteca. Cfr. A. Dall’Aglio, La Ia Colonia agricola in funzione, «Gli orfani dei contadini», 15
gennaio 1917, pp. 13-15.
161
massimo di reddito, illuminato dalla fede nella cooperazione e nella mutualità che danno alla
piccola proprietà rurale il massimo di forza e di utile sociale»453.
L’opera di Casalini portò anche nella creazione di una rivista, «Gli orfani dei contadini», di
cui fu direttore, e che ebbe tra i suoi collaboratori personalità come Luigi Luzzatti e il deputato
radicale tifernate Ugo Patrizi, due personaggi che ritroveremo impegnati, a vario titolo, nella
fondazione della Colonia Agricola di Città di Castello, che sarà la prima Colonia dei Giovani
Lavoratori creata da David Levi Morenos454.
2. David Levi Morenos: naturalista ed educatore
Alla vigilia della rotta di Caporetto dell’ottobre 1917 e dell’esodo dei profughi dalle zone
occupate, David Levi Morenos era già una personalità di un certo rilievo nel panorama educativo
e culturale italiano, nonostante che la sua opera non traesse origine da studi di carattere
pedagogico e che la sua azione non fosse nota al vasto pubblico rappresentato dai maestri
elementari455.
Nato a Venezia nel 1863, da una famiglia di origine ispano-ebraica dedita al commercio,
egli aveva compiuto i suoi studi in campo scientifico, laureandosi in Scienze Naturali. Muovendo
da tale retroterra culturale, che lo aveva portato a studiare i problemi del mare Adriatico e della
fauna ittica, nel corso del tempo egli aveva esteso le sue analisi a tutto l’universo sociale della
comunità della laguna veneta, arrivando ad inglobare nelle sue riflessioni questioni di carattere
eminentemente sociale legate al mare, come il problema, assai diffuso tra i ceti popolari,
dell’alcolismo e quello dell’istruzione popolare per gli orfani dei marinai.
Fortemente impregnato di positivismo, Levi Morenos si era così posto, fin dalla fine del
secolo, il problema di come educare l’infanzia derelitta e abbandonata presente nelle povere coste
dell’alto Adriatico fornendo ad essa l’istruzione elementare, un corredo di nozioni pratiche al
lavoro di marinaio e, soprattutto, volendo fare degli orfanelli degli «uomini buoni e liberi»456. Ad
accrescere in lui questo orientamento filosofico, che del resto permeava fortemente la cultura e la
pedagogia di fine Ottocento, era un forte senso umanitario, analogo a quello che generò alcune
tra le più importanti esperienze filantropiche ed educative di inizio Novecento, come le scuole
453
M. Casalini, L’assistenza agli orfani dei contadini morti in guerra, Torino, Tip. Sociale, 1915. Lo
stesso opuscolo presentava in allegato un modello di statuto per la fondazione di Colonie
Agricole.
454
L’esperienza delle Colonie dei Giovani Lavoratori è pressoché sconosciuta se si eccettuano
brevi cenni in: Ceschin, Le condizioni delle donne e dei bambini, cit.; A. Mencarelli, Inquadrati e
fedeli: educazione e fascismo in Umbria nei documenti scolastici, Napoli, Esi, 1996, pp. 12-16.
455
La bibliografia su Levi Morenos è piuttosto scarna. Un breve profilo biografico, incentrato in
gran parte sulla figura di studioso del mare, dei problemi della pesca e della formazione
professionale dei marinai, è tracciato in un articolo apparso nel 1993 in occasione
dell’anniversario della nascita: F. Ferrari, David Levi Morenos a 130 anni dalla nascita, «Laguna», III,
16 (1993), pp. 28-31. Una sommaria sintesi dell’operato del professore veneziano, non esente da
intenti celebrativi, si trova in un libro pubblicato quando egli era ancora in vita: Tutta una vita:
David Levi Morenos, il buon seminatore, Roma, Castaldi, 1923. Il libro fu ripubblicato in edizione
accresciuta nel 1937, dopo la sua morte avvenuta nel 1933.
456
FIAG, Archivio Sibilla Aleramo (d’ora in avanti ASA), Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera
di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 16 ottobre 1908.
162
dell’Agro Romano, sorte nella campagna romana per iniziativa di un gruppo di intellettuali, tra i
quali Giovanni Cena, Anna Celli e Sibilla Aleramo, di cui peraltro fu amico457.
Ciò lo aveva portato, fin dal 1894, a fondare a Venezia la Scuola Libera Popolare, con
l’obiettivo dichiarato di fornire ai ceti popolari l’istruzione e di concorrere così alla crescita di uno
spirito di fratellanza che superasse le barriere dei partiti politici e delle classi sociali, incarnando un
sentire presente nei settori più illuminati e progressisti della borghesia veneziana, di cui Levi
Morenos fu un’esponente di spicco.
Compito della Scuola Libera Popolare era quello di promuovere la concordia tra le classi
sociali attraverso conferenze periodiche su argomenti di cultura generale, gite e convegni458. Per
meglio raggiungere un così ambizioso obiettivo, Levi Morenos fondò negli stessi anni a Venezia
l’Unione Morale, un’associazione che si dotò anche di un giornale, intitolato «Cronache del
rinascimento etico-sociale», e con la quale egli intendeva andare oltre i limiti delle tradizionali
associazioni ottocentesche. Scriveva a questo proposito:
tutte le altre associazioni riuniscono ed affratellano per la legittima tutela dei propri interessi morali e materiali una
data classe di lavoratori, siano esse leghe di insegnanti o leghe di resistenza, sieno società di mutuo soccorso fra
operai o società di negozianti. Ma la nostra Scuola Libera Popolare, essa sola per l’indole e per la finalità sua, non
soltanto accoglie, ma cerca anzi di richiamare persone di ogni ceto per offrire loro un terreno sul quale trovarsi uniti,
concordi, senza che vengano a turbare e dividere gli interessi di classe e le passioni di parte 459.
Nemmeno la politica lo lasciò indifferente. Sebbene non prese mai parte attivamente a nessun
partito politico, tuttavia i primi anni del secolo lo videro su posizioni democratico-liberali. In uno
dei punti di snodo della storia italiana quale è stata la guerra di Libia del 1911-12, Levi Morenos
ugualmente rimase su tali posizioni, come testimonia una lettera da lui scritta a Salvemini nel
dicembre 1911, in cui esprimeva entusiasmo per aver letto il programma de «L’Unità», inviatogli
da Giovanni Cena:
Il vostro programma mi ha commosso poiché in esso veggo riaccendersi quella favilla che si era accesa pure
nell’animo mio 18 anni or sono, quando nelle sublimi ingenuità d’una tarda giovinezza, lavoravo per promuovere in
Italia delle manifestazioni concrete di quel principio che chiamai Unione Morale, che sentivo e sento nell’animo mio
457
È interessante notare come ad infoltire la schiera di filantropi, di impronta laica e riformista,
che a cavallo dei due secoli si impegnarono in favore del miglioramento delle condizioni di vita
delle classi subalterne e segnatamente dell’istruzione dei giovani, fossero non poche personalità di
origine ebraica che, grazie anche alle notevoli disponibilità economiche di cui potevano disporre,
organizzarono e promossero la nascita e lo sviluppo di iniziative volte alla redenzione umana dei
ceti popolari. Oltre a Levi Morenos, si potrebbero citare i casi di Prospero Moisè Loria, ebreo di
origine mantovana che per disposizione testamentaria lasciò un vasto patrimonio al Comune di
Milano che fu alla base della fondazione della Società Umanitaria, oppure ad Alice e Leopoldo
Franchetti, fondatori nel 1901 e nel 1902 delle scuole rurali modello della Montesca e di
Rovigliano a Città di Castello, in Umbria; da segnalare anche il cugino di Leopoldo Franchetti, il
barone Raimondo che già nel 1876 aveva fondato a Roverbella, in provincia di Mantova, un asilo
infantile gestito con sistema Fröbel. Sui Franchetti e la loro origine ebraica: M. Scardozzi, Itinerari
dell’integrazione: una grande famiglia ebrea tra la fine del Settecento e il primo Novecento, in A. Tacchini, P.
Pezzini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp.
271-320.
458
Su questi aspetti si veda: D. Levi Morenos, La Scuola Libera Popolare nel suo ottavo anno di vita,
Venezia, Tip. Callegari e Salvagno, 1902.
459
Ivi, p. 23.
163
come la più alta espressione d’una religione che non ha formule, né dogmi, non chiese, né sacerdoti, ma ha fedeli
seguaci dispersi nel mondo in ogni classe e partito 460.
Sopraggiunta la Grande Guerra si posizionò su una linea favorevole all’intervento armato italiano
contro l’Austria. Inoltre guardò con particolare attenzione ai problemi culturali e politici creati
dalla coesistenza tra italiani e jugoslavi nell’area dell’Adriatico, in particolare tra i marinai delle due
nazioni. Su questo tema pubblicò nel 1918 un articolo apparso in un volume intitolato Italia e
Jugoslavia, che riunì una serie di articoli di vari intellettuali tra i quali Gaetano Salvemini e
Giuseppe Prezzolini, edito nella collana di volumi de «La Giovine Europa», curata da Umberto
Zanotti Bianco.
3. Le scuole per gli orfani dei marinai della laguna veneziana
I primi passi compiuti in campo educativo da Levi Morenos risalivano agli anni Novanta
dell’Ottocento. Di pochi anni successivi alla Scuola Libera Popolare da lui fondata nel 1894 e la
cui opera si inseriva nel quadro di un interventismo in favore delle classi popolari ancora non ben
definito, si collocava l’esperienza della Nave Asilo «Scilla», che Levi Morenos fondò nel 1904 per
accogliere gli orfani dei marinai della laguna veneta.
È in tale cornice che il nome del professore cominciò ad affermarsi oltre i confini della
città di Venezia e ad essere conosciuto in alcuni circuiti intellettuali italiani. Si tratta di una tappa
di primaria importanza nella biografia di Levi Morenos, fondamentale anche per capire la
fondazione delle future Colonie dei Giovani Lavoratori.
Il progetto, che si ispirava al modello inglese delle training ship, vecchie navi trasformate in
convitti per il risanamento dell’infanzia derelitta, e che in Italia aveva ispirato negli anni Ottanta
del dell’Ottocento l’opera del ligure Nicolò Garaventa461, godeva della collaborazione dell’allora
ministro Luigi Luzzatti, veneziano e suo personale amico, grazie al quale ottenne dallo Stato una
vecchia nave dismessa, la «Scilla», che andò ad ospitare la prima Nave Asilo fondata da Levi
Morenos.
Furono questi anni di febbrile lavoro per il professore veneziano che ebbe al suo fianco una
valida collaboratrice, la moglie Elvira. Sfruttando una rete di amicizie con intellettuali anche di
primo ordine, tra i quali, la scrittrice Sibilla Aleramo, i poeti Giovanni Cena e Vincenzo
Cardarelli, l’esperienza della Nave Asilo acquistò fin da subito notorietà. In una lettera in cui
chiedeva la sua collaborazione alla Aleramo così scriveva Elvira:
Poi apparecchiatevi a renderci, voi e Cena, un altro favore. […] Dovete parlare dell’asilo a tutte le celebrità artistiche,
letterarie e bancarie che vi capitano alla portata. Dovete insomma fare della reclame all’Asilo e farne quanto più
potete. Poi dovete – non ammettiamo rifiuto – dovete dunque assolutamente aiutarci per la compilazione di un
“numero unico” I figli del mare che metteremo in vendita a favore dell’Asilo. Perciò aspettiamo da voi due brevi
460
ISRT, Archivio «Gaetano Salvemini», Corrispondenza, Lettera di David Levi Morenos a Gaetano
Salvemini, 21 dicembre 1911.
461
Sulla Nave Scuola Garaventa si rinvia a: C. Peirano, E. Garaventa Cazzullo, La nave scuola
Garaventa: una scuola di vita, Genova, De Ferrari, 2004.
164
scritti, un pensiero, un verso etc., quello insomma che a voi ed a Cena tornerà più comodo e che sia inserito in un
numero unico che avrà molti collaboratori e poco spazio disponibile 462.
Il prezioso carteggio di David e di Elvira con la Aleramo, che copre un arco
cronologico che si estende dal 1904 fino al 1913, ci restituisce uno spaccato dei primi anni
dell’opera di educatore di Levi Morenos. Ne viene fuori l’immagine di un uomo ispirato da forti
motivazioni umanitarie, impegnato in molteplici occupazioni che lo costringono a continui viaggi
tra Roma e Venezia, in certi casi inviso alla burocrazia ministeriale per le sue idee espresse con
franchezza463. Dalle lettere emerge anche che il legame con la Aleramo e con il mondo
intellettuale che aveva originato l’esperienza delle Scuole per contadini dell’Agro Romano, fu
essenziale per Levi Morenos, come risulta da una sua lettera del dicembre 1908:
Ebbi – con molto ritardo forse dopo due mesi dell’invio – la commovente relazione delle vostre scuole […] Avrei
voluto e dovuto scrivervi subito e ringraziarvi e direi che la lettura delle parti della relazione mi commosse, e che più
volte il mio pensiero vi seguì nella campagna romana e s’intusiasma nell’ammirare l’opera buona vostra e del Cena e
dei bravi maestri che danno la parte migliore del loro animo a questa grande propaganda di Umanità, per gli umili
abbandonati.
Mi ripropongo di fare una lezioncina ai miei figliuoli della Scilla per fare loro conoscere i vostri studenti della
Campagna Romana e suscitare un senso di fratellanza per gli sconosciuti fratelli. Poiché farete una conferenza a
Milano sulla vita nella Campagna Romana (Non sarebbe il caso di farla anche a Venezia?) dovete avere delle
fotografie illustranti le Scuole dell’Agro. Potreste farmene avere qualcuna464?
I primi anni del secolo videro Levi Morenos perseguire un obiettivo educativo volto a fare
dei bambini abbandonati e deviati degli «uomini buoni e liberi», ispirando in loro bontà e
altruismo come avrebbe fatto un «padre spirituale» posto a capo di una famiglia allargata.
Del resto, la medesima spinta umanitaria si ritrova nel soccorso ai bambini colpiti dal famoso
terremoto di Messina del 1908, in occasione del quale anche il professore veneziano, prestò la sua
opera nella ricerca di bambini bisognosi, alcuni dei quali furono da lui condotti a Venezia e
ricoverati nella «Scilla»465.
462
FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 303, n. 17, Lettera di Elvira Levi Morenos a Sibilla Aleramo,
s.d. [1904-1906].
463
In una lettera alla Aleramo scriveva: «Vi sono delle difficoltà “finanziarie” per la mia venuta a
Roma in dicembre. Il ministero dell’Agricoltura mi ha mandato via dalla Comm.[issio]ne
Consultiva per la Pesca. La colpa è mia; ho stampato […] verità scottanti e ciò dispiacque all’alta
burocrazia che mi diede il ben servito. Pace a loro; ma intanto io privo della famosa diaria, non
potrò venire a Roma colla mia Elvira, anco se dovessi recarmi costà per altri incarichi» (IFG,
ASA, Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 16
ottobre 1908); In un’altra lettera del 1912 scriveva: «Da sei mesi sono al Ministero della Marina.
La mia Elvira rimase sempre a Roma. Io tra Venezia, Roma e Napoli. Lavoro per la nuova NaveAsilo “Caracciolo”. Parto domani; la mia vita è quasi tutta in ferrovia. Rimarrò a Roma un paio di
giorni per salutare la mia Elvira e poi andrò a Venezia» (FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 352, n.
225, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 9 settembre 1912).
464
FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo,
16 ottobre 1908.
465
L’episodio viene narrato in una lettera spedita alla Aleramo da Elvira: «Davide ritornò a Roma
martedì scorso dopo dodici giorni di soggiorno a Reggio e Messina. Quando egli fu giunto a
Reggio non vi trovò più gli orfani ch’egli era andato a prendere. Ad ogni modo egli riuscì a fare
un po’ di bene laggiù e ciò lo ha ricompensato del disagio materiale sofferto. Oggi il Patronato
deve farci la consegna ufficiale di 7 orfani attualmente ricoverati a Porto d’Anzio. Se tutto
165
A questa, poco dopo, nel 1912, si aggiunse una seconda Nave Asilo, la «Caracciolo» di Napoli,
destinata ad accogliere l’infanzia derelitta dell’area napoletana. A fondarla fu di nuovo Levi
Morenos, il quale però ne seguì l’attività solo nel biennio 1913-1914466.
L’interesse del professore veneziano per i temi dell’istruzione e della lotta
all’analfabetismo, sviluppato negli anni che precedono l’esperienza delle Colonie dei Giovani
Lavoratori, è infine testimoniato da altre due circostanze: da un lato, la partecipazione di Levi
Morenos al I° Convegno Magistrale per la lotta contro l’alcolismo, che si tenne nel settembre
1909 a Venezia467; dall’altro lato, la partecipazione del professore al Congresso per l’Educazione
Popolare svoltosi nel dicembre 1912 a Roma e che vide l’approvazione di un ordine del giorno,
concordato tra gli altri da Giovanni Cena, Angelo Cabrini, Alessandro Marcucci, Bernardo
Attolico e dallo stesso Levi Morenos, con cui si prendeva atto dell’utilità delle scuole per i
contadini dell’Agro Romano e si chiedeva al governo di favorire la diffusione di «scuole mobili a
carattere temporaneo»468.
4. I profughi, gli orfani e la guerra: nascono le tre Colonie
Il dramma dei profughi in fuga, che tanto colpì l’opinione pubblica italiana, non poteva
passare inosservato ad una personalità come Levi Morenos. Ad accrescere in lui tale sensibilità
era il fatto di assistere al dolore che aveva colpito tanti suoi corregionali costretti a vivere il
disagio provocato dalla condizione del profugato. Ricordando a distanza di alcuni anni quei
frangenti così drammatici, così il professore veneziano spiegava il senso dell’iniziativa che si
apprestava a compiere:
Molti fanciulli restarono nelle città. E il mio pensiero si fissò su di loro e sulle conseguenze che avrebbe potuto
determinare questo improvviso inurbarsi di tanta infanzia rurale. Pensai: «Per gli adulti che hanno già una mentalità
precostituita solidamente, l’improvviso mutamento non porterà effetti troppo sensibili. Ma per i fanciulli? La loro
fibra fisica e morale è ancora troppo tenera, per non correre il grave rischio di ricevere dall’ambiente nuovo e
pericoloso un’impronta e una forma che potranno decisivamente influire più tardi sul loro orientamento morale e
professionale». E conclusi: «Non bisogna che i piccoli rurali restino nelle città. La vita negli ospizi, negli asili, nelle
scuole cittadine, finirà per dare ad essi una mentalità urbana e non eviterà successivi sbandamenti e pericolose
devianze»469.
procede bene noi partiremo domani sera con la piccola carovana» (FIAG, ASA, Corrispondenza,
fasc. 317, n. 53, Lettera di Elvira Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 13 febbraio 1909).
466
Su questa realtà si veda A. Mussari, M.A. Selvaggio (a cura di), Da scugnizzi a marinaretti.
L’esperienza della Nave Asilo “Caracciolo” (1913-1928). Mostra fotodocumentaria, Napoli, Edizioni
Scientifiche e Artistiche, 2010.
467
La relazione tenuta da Levi Morenos fu pubblicata con il titolo, L’opera del maestro nella
propaganda contro l'alcoolismo: relazione presentata al 1° convegno magistrale per la lotta contro l'alcolismo,
Venezia, Off. grafiche Callegari, 1910.
468
B. Attolico, Per un nuovo tipo di scuola per gli adulti analfabeti, «I diritti della scuola», n. 28, 20 aprile
1913, pp. 205-206.
469
D. Levi Morenos, Per una esperienza nazionale di educazione rurale integrale, «Le Assicurazioni
Sociali», III (1927), N. 4, pp. 17-18.
166
Si ponevano, in questo modo, le basi per la nascita delle colonie. Il 14 gennaio 1918
veniva fondata a Roma la Società Anonima «Colonie dei Giovani Lavoratori» che iniziava subito
il suo lavoro contando sull’appoggio di svariati uomini politici, tra cui quello di Luigi Luzzatti,
nominato poco prima Alto Commissario per i profughi, che tornava ad aiutare l’amico Levi
Morenos a distanza di poco più di un decennio dalla fondazione della «Scilla»470.
Venuto a conoscenza delle opportunità fornite dalla realtà umbra, il professore veneziano
decise di concentrare i propri sforzi proprio in quella regione, in particolar modo a Città di
Castello, dove, sin dal gennaio 1916, Mario Casalini aveva tentato di istituire una colonia agricola
per gli orfani dei contadini presso l’ex Pellagrosario. In realtà la proposta aveva incontrato
notevoli ostacoli, posti soprattutto da parte di alcuni proprietari terrieri, come il barone Leopoldo
Franchetti, fondatore delle famose scuole della Montesca e di Rovigliano, e del senatore Zeffirino
Faina, zio di Eugenio Faina, il fondatore di scuole rurali post-elementari per i contadini.
Nel motivare la sua posizione, il barone Franchetti sostenne «come non fosse cosa utile
né ai fini generali dell’educazione, né allo scopo precipuo della formazione di bravi agricoltori, il
togliere gli orfani dalla famiglia e dal contatto immediato dei campi, il che avrebbe fatto di essi
degli spostati, cioè né bravi contadini, né agenti di campagna sufficientemente istruiti»471. La
rieducazione degli orfani, insomma, doveva essere fatta in primo luogo nelle famiglie, sostenuti da
appositi «comitati di assistenza», e solo in ultima istanza da «Case-ricovero». Fu proprio questa
posizione, in cui non è difficile intravedere le preoccupazioni di tipo economico-sociale dei grandi
proprietari terrieri, timorosi della sottrazione di braccia al lavoro nei campi già colpito dall’assenza
degli adulti partiti per la guerra, a frenare il progetto di costituire a Città di Castello la colonia
agricola.
Casalini cercò di superare gli ostacoli sostenendo come nelle colonie si dovessero
accogliere solo orfani privi di famiglia; non fu irrilevante nemmeno il contributo del deputato
radicale tifernate Ugo Patrizi, il quale, come presidente dell’ex Pellagrosario di Città di Castello,
decise di mettere a disposizione i locali che si erano liberati grazie alla sostanziale sconfitta della
malattia che tanto aveva dilagato nei primissimi anni del secolo nell’Alta Umbria. Ma nonostante
questi sforzi a distanza di due anni la colonia agricola non aveva ancora visto la luce per altri
motivi, di ordine politico, che si erano presentati.
La situazione si sbloccò a seguito della rotta di Caporetto, quando l’esigenza impellente di
trovare dei locali per ricoverare i profughi costrinse i soggetti coinvolti a mettere a disposizione
l’ex Pellagrosario. In questa situazione si venne a trovare Levi Morenos, il quale prese in
concessione per 9 anni l’edificio in questione, che era affiancato da un vasto terreno agricolo e
che disponeva già dei letti e dell’arredamento sufficienti ad accogliere fino a cento bambini. Nel
febbraio di quell’anno il professore era impegnato a visitare alcune città umbre per selezionare i
bambini da accogliere nella nuova struttura. In un telegramma inviato da Foligno il 6 febbraio
così informava Luzzatti:
470
Levi Morenos conobbe Luzzatti negli Ottanta dell’Ottocento, quando appena laureatosi gli
presentò, «timoroso», il suo primo saggio sulla Flora Algologica. Si veda a questo proposito la
lettera di Levi Morenos a Luzzatti in cui rammenta questo episodio, conservata in IVSLA,
Archivio «Luigi Luzzatti», Corrispondenza, b. 49, Lettera di David Levi Morenos a Luigi Luzzatti, 9
ottobre 1925.
471
Per gli orfani dei contadini morti in guerra, «Il dovere: bollettino settimanale del comitato per
l’organizzazione civile di Città di Castello», 23 aprile 1916.
167
Sto visitando Foligno, Nocera, Gubbio e Assisi per dare preferenza accoglimento colonia ai fanciulli in condizioni
più miserande. Lunedì spero iniziare attività colonia con un primo gruppo minorenni profughi 472.
In effetti la Colonia, che prese il nome di «Paterna Domus», iniziava le sue attività nel
febbraio del 1918, accogliendo tre gruppi di bambini: gli orfani già accolti nella «Casa Paterna»
della provincia di Venezia, che aveva sede a San Donà di Piave, e che era stata evacuata dopo
l’invasione austriaca; alcuni orfani di contadini delle terre invase che erano stati trasferiti nel sud
Italia; alcuni minorenni profughi delle province di Belluno e di Udine, che erano stati affidati alle
cure dell’Umanitaria di Milano473. Tutti avevano un’età compresa fra i 9 ed i 14 anni474.
Nella colonia veniva impartita l’istruzione elementare fino alla sesta classe, l’insegnamento
professionale a tipo agricolo ed era previsto l’esercizio del lavoro manuale. Anche il personale
necessario alle cure e all’istruzione dei bambini fu scelto tra i profughi: il direttore agricolo
proveniva da una scuola pratica di agricoltura di San Donà di Piave e due maestri erano alle
dipendenze del Comando Supremo nei territori che l’esercito aveva liberato dall’Austria475. Per
ridurre al minimo l’impatto con una realtà completamente differente dalle terre d’origine anche
l’alimentazione veniva adeguata e si basava soprattutto su polenta e fagioli476.
Ispirandosi alla precedente esperienza di educatore delle classi popolari, Levi Morenos
individuò come fini educativi da raggiungere quelli sintetizzati dal trinomio «disciplina-libertàresponsabilità». Così veniva da lui descritto:
I minorenni devono essere educati ad una disciplina veridica, cioè intimamente sentita e non per una semplice
costrizione esterna.
La disciplina non deve atrofizzare la spontaneità individuale, né impedire all’allievo di sviluppare la sua personalità
secondo le proprie naturali buone abitudini.
La libertà individuale abbia a correlativa la responsabilità dell’azione: premi e punizioni adeguate devono far sentire le
conseguenze individuali dell’operare bene o male477.
472
IVSLA, Archivio «Luigi Luzzatti», Corrispondenza, b. 49, Telegramma di David Levi Morenos a
Luigi Luzzatti, 6 febbraio 1918.
473
Più in generale, sulla Società Umanitaria di Milano: Riccardo Bauer, La militanza politica, l’opera
educativa e sociale, la difesa della pace e dei diritti umani: atti delle giornate di studio organizzate dalla Società
Umanitaria (Milano, 5-6 maggio 1984), a cura di M. Melino, Milano, Franco Angeli, 1985; E.
Decleva, Etica del lavoro, socialismo, cultura popolare: Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano,
Franco Angeli, 1985; Ettore Fabietti e le biblioteche popolari: atti del Convegno di studi (Milano, 30 maggio
1994), a cura di P.M. Galimberti e W. Manfredini, Milano, Società Umanitaria, 1994; I. Granata,
In difesa della terra: l’Ufficio agrario della Società Umanitaria (1905-1923), Milano, Franco Angeli, 2003;
M. della Campa (a cura di), Il modello Umanitaria. Storia, immagini, prospettive, Società Umanitaria –
Raccolto Edizioni, 2003; M. Della Campa, C.A. Colombo (a cura di), Spazio ai caratteri.
L’Umanitaria e la Scuola del libro, a cura di, Milano, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni –
Silvana Editoriale, 2005; C.A. Colombo (a cura di), Quando l’Umanitaria era in via Solari. 1906: il
primo quartiere operaio, Milano, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni, 2006; C.A. Colombo (a
cura di), Una casa per gli emigranti. 1907: Milano, l’Umanitaria e i servizi per l’emigrazione, Milano,
Società Umanitaria – Raccolto Edizioni, 2007.
474
Cenni sulla «Paterna Domus» in A. Tacchini, L’Alta Valle del Tevere e la Grande Guerra, Città di
Castello, Petruzzi Editore, 2008, p. 84.
475
D. Levi Morenos, Le colonie dei Giovani Lavoratori, «Bollettino del Comitato centrale di
mobilitazione industriale», n. 11, maggio 1918, pp. 181-184.
476
Ibid.
477
Ibid.
168
In questa ottica si faceva un grande assegnamento sulla cura dello sviluppo fisico del
bambino, da ottenere tramite una «equa alternativa di lavoro e di ricreazione», preparandolo ad
una «vita semplice e frugale che non sottragga artificiosamente ai necessari sacrifizi, ma prepari al
sacrificio ed al dolore, elementi fatali della esistenza umana». Le altre finalità educative erano
quelle di «educare alla bontà», «instillare quel sentimento d’amor patrio», «porre il sentimento di
simpatia per i propri simili»478.
A tal fine si chiedeva agli insegnanti di esaltare la «santa gioia di vivere» nel profugo che
aveva vissuto i traumi dell’esodo - attraverso i giochi (le bocce, le corse all’aperto, l’altalena),
l’audizione del fonografo, il canto corale in classe o in marcia, il lavoro manuale -, e allo stesso
tempo di educare il giovinetto «alla realtà della vita» attraverso varie riflessioni suscitate, ad
esempio, dalla lettura delle lettere dei parenti o dalla visione di giornali illustrati con le gesta
eroiche dei soldati. Pochi mesi dopo, nel settembre 1918 la Colonia vedeva accrescere il numero
dei bambini ospiti, che salivano a 70.
Intanto, nel corso del 1918, Levi Morenos prese contatti con le autorità comunali di
Perugia per aprire una seconda colonia anche in quel comune. La scelta del luogo cadde sui locali
dell’ «Ospedalone di San Francesco», posti nella frazione di Collestrada, di proprietà della
Congregazione di Carità. Il luogo appariva importante anche da un punto di vista simbolico
poiché nel Medioevo quei locali avevano ospitato un lebbrosario a cui la tradizione associava il
nome di San Francesco.
Grazie ad un sostanzioso contributo della Croce Rossa Americana, che si occupò del
restauro e dell’ingrandimento degli edifici, del loro arredamento e del rifornimento di indumenti,
biancheria e generi alimentari, la colonia iniziò a funzionare nel 1919 accogliendo 50 bambini479.
Oltre a tre poderi, a Collestrada furono attivate le classi quinta e sesta elementare, in integrazione
alla prima colonia, quella, cioè, di Città di Castello, dove l’insegnamento elementare fu ridotto alle
prime quattro classi. In questa ottica i bambini, di età compresa tra i 7 ed i 12 anni, venivano
accolti nell’ex Pellagrosario di Città di Castello, quindi trasferiti a Collestrada fino ai 14 anni, dove
potevano proseguire il proprio percorso di «redenzione sociale ed umana».
Al fine di accrescere nei ragazzi un senso di «autoeducazione», Levi Morenos creò a
Collestrada nel 1919 la prima Famiglia Cooperativa Scolastica di Lavoro, ispirandosi alle
cooperative di lavoro fra pescatori da lui stesso fondate, fin dal 1894, nella Venezia Euganea e nel
Friuli. Si cercava, cioè, di stimolare i ragazzi a provvedere col proprio lavoro al mantenimento di
uno o più allievi, al pagamento delle spese per gite e corsi di perfezionamento e di dare ai
giovinetti, a titolo di premio, una partecipazione agli utili provenienti dalla vendita dei prodotti
agricoli della colonia.
La terza ed ultima Colonia dei Giovani Lavoratori fu aperta nel 1921 a Roma, nella zona
del Gianicolo. Le vicende che portarono alla sua nascita risalivano a due anni prima quando una
nobildonna di origine lombarda ma trasferitasi da anni a Roma, la contessa Anna Piccolomini
della Triana, manifestò l’intenzione di fondare una «scuola elementare modello». La sua proposta,
che giungeva in un momento storico in cui la parte più illuminata dell’élite culturale italiana si
478
Le colonie dei giovani lavoratori, estratto dagli «Annali della pubblica istruzione. Scuole elementari»,
n. 3, ottobre 1924, Milano, Mondadori, 1924, p. 5.
479
M. Calza, Le Colonie dei Giovani Lavoratori. Un esperimento di auto-governo scolastico agricolo, «La
Nuova Antologia», 1 dicembre 1919, pp. 309-313.
169
stava interessando ai destini dell’istruzione popolare480, fu portata all’attenzione di Giuseppe
Prezzolini, all’epoca direttore de «La Voce», al quale la ricca signora chiese il suo personale
sostegno e un interessamento presso l’amico Giuseppe Lombardo Radice affinché volesse anche
egli fornire idee e suggerimenti.
L’idea originaria era quella di creare «una scuola pubblica scelta, se così si può chiamare
dove elementi di diverse classi sociali fossero riuniti naturalmente, alcuni a pagamento ed altri
gratuiti», e che seguisse come programma quello di fare «degli uomini o donne (naturalmente
sarebbero miste), che sappiano volere, che possano decidere della loro vita»481. Dietro questo
invito, Prezzolini scrisse a Lombardo Radice nel novembre 1919 per coinvolgerlo nel progetto:
Una ricca e attiva signora non di qui, ma lombarda, la contessa Piccolomini, sta fondando un nuovo quartiere, nel
quale deve sorgere una scuola elementare modello, per non molti alunni, per la quale vuol trovare insegnanti scelti e
soprattutto un uomo che per energia, bontà d’animo, apertezza ai nuovi sistemi, dia garanzia di essere un vero
educatore. Egli avrebbe tutti i mezzi necessari all’impresa. La scuola sorgerà in un ottima posizione, c’è spazio per un
giardino ecc. Si tratta di un esperimento magnifico che va incoraggiato e che è bene non cada in mano di qualche
intrigante o sciocco (del resto la Signora è intelligente e se ne accorgerebbe). Essa ha fiducia in te e vorrebbe tuoi
consigli e indicazioni. Vuoi scrivermene?482
Il pedagogista siciliano gli rispose facendo i nomi di Ferretti e di Colombo, due
personalità a lui legate. Tuttavia Prezzolini, in una successiva lettera, lo invitava a trovare altri
nomi poiché quelli da lui forniti non si addicevano al caso:
[La contessa] è una persona piena di energia e di vita - scriveva Prezzolini -, ma appunto per ciò ha i difetti di quelli
che hanno una forte volontà. E, per es., non può soffrire la gente un po’ dubitosa, e che non dà l’idea di virilità, come
è il buon Ferretti. Con i tolstoiani, insomma, non va d’accordo; e ha conosciuto Ferretti ma non ha fiducia in lui. Ci
vorrebbe un uomo energico (giacché si tratta anche di fondare materialmente la scuola, e dopo di dirigerla, qui in
Roma). Perciò neppure Colombo andrebbe. Credo che la cosa migliore sarebbe una tua visita qui, e vedrò di
combinarla con la contessa. I nomi che mi hai fatto, come vedi, li avevo pronti anche io, ma non vanno. Per il
personale secondario avevo pure pensato alla Montesca, o alle Scuole Montessori. Ci vogliono per ora, donne, e si
trovano facilmente. Ciò che manca è il direttore, l’apostolo e l’inspiratore. Un tipo come Marchi andrebbe bene, ma
la contessa lo conosce e sa pure che dal punto di vista coltura e direi così, prestigio sacerdotale, non andrebbe bene.
Vedi dunque le difficoltà della cosa, che pure è assai bella idealmente e che non bisogna lasciare cadere 483.
La stessa contessa Piccolomini scrisse il 29 novembre a Lombardo Radice affermando di
non essere preoccupata dalla ricerca delle risorse economiche ma della persona giusta «che si
renda conto della importanza della sua missione e che la prenda come un apostolato» 484. Dopo
aver scartato i primi nomi che le erano stati avanzati, nel dicembre dello stesso anno la contessa
480
La contessa Piccolomini della Triana si interessò anche alle attività educative svolte
dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi). Si veda a questo
proposito il carteggio con Umberto Zanotti Bianco conservato presso l’Archivio dell’Animi.
481
AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, datata
«Natale 1919».
482
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Prezzolini a Lombardo Radice, 26 novembre 1919. La missiva è
stata pubblicata in I. Picco, Militanti dell’ideale. Il carteggio Giuseppe Lombardo Radice-Giuseppe
Prezzolini, Locarno, Dadò Editoriale, 1991, p. 290.
483
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Prezzolini a Lombardo Radice, non datata. Pubblicata in Picco,
Militanti dell’ideale, cit., p. 291.
484
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, 29
novembre 1919.
170
mostrò interesse a collaborare con Levi Morenos come dimostra una lettera spedita al
pedagogista siciliano:
Desidero molto vederla e parlarle, - scriveva la contessa - concretare qualcosa perché voglio [che] la scuola funzioni
l’autunno prossimo e fremo vedendo passare del tempo prezioso. Con Levi Morenos si è combinato qualcosa che
sarà utile alla nostra scuola 485.
Superate le difficoltà iniziali e variato in parte il progetto originario della nobildonna, nel
1921 veniva aperta a Roma la terza Colonia, denominata «Orti di Pace». Si estendeva sul
Gianicolo, non lontano da Porta San Pancrazio, sul terreno concesso dalla contessa a cui si
aggiunse un podere donato dal principe Andrea Doria Pamphilj. In quest’ultima colonia, capace
di accogliere altri 50 ospiti di età tra i 14 ed i 17 anni, si tendeva a fornire un’istruzione agraria più
specializzata al fine di fare di loro degli orticoltori, frutticoltori o giardinieri486.
5. «La scuola integrale unitaria»
Il pensiero educativo di Levi Morenos trovò una sua teorizzazione definitiva alla metà
degli anni Venti. In particolare fu con la pubblicazione di un articolo dal titolo Per una esperienza
nazionale di educazione rurale integrale, apparso nei primi mesi del 1927 che gli iniziali aneliti in favore
dei ceti popolari che avevano contraddistinto la prima fase dell’opera di educatore di Levi
Morenos, trovarono una elaborazione concettuale compiuta.
Alla base di questa visione stava la formazione culturale del professore veneziano, fondata
su una concezione scientifica-positivistica che immaginava la vita e l’organizzazione sociale al pari
di un organismo vivente, composto dall’unione di più parti e dotato di funzioni diverse. Egli
infatti vedeva l’uomo nei termini di una pianta-uomo487, bisognosa di cure nel suo processo di
sviluppo al fine di indirizzarla verso il bene, cui poteva giungere, però, solo attraverso
l’indispensabile contributo del fanciullo. Erano assai ricorrenti le immagini tratte dal mondo
naturale che Levi Morenos utilizzò per esprimere queste idee nei suoi scritti, a cominciare da
485
Ivi, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, datata
«Natale 1919».
486
Nel 1920 fu posto in essere il tentativo di aprire un’altra colonia, questa volta a Spoleto, ma
dopo un iniziale interesse suscitato tra i promotori, il progetto non fu attuato. Nel settembre 1920
si era infatti tenuto nella città umbra un incontro al quale parteciparono David Levi Morenos e il
direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Spoleto, Francesco Francolini, per illustrare
ad un pubblico selezionato, formato da esponenti della classe dirigente cittadina, il progetto che
prevedeva l’istituzione di una colonia presso il podere modello di Loreto, fino ad allora gestito
dalla Cattedra. Francolini, secondo la cronaca di un giornale del tempo, sostenne «la necessità di
dare un assetto economico definitivo al podere modello, che per le enormi spese di coltivazione
sperimentale, non solo era remissivo, ma correva il rischio di dover interrompere addirittura la
sua utile funzione nel seminario di Spoleto. Un concetto umanitario elevatissimo inoltre, per il
quale egli si è proposto di combattere la piaga sociale dell’urbanesimo che strappa
quotidianamente alla vita libera, salubre e morale dei campi, centinaia e centinaia di piccole
esistenze per rinchiuderle nella sofferente e corrotta atmosfera di un misero tugurio cittadino»
(Colonia di giovani lavoratori a Spoleto, «L’Idea Nazionale», n. 217, 10 settembre 1920, p. 3).
487
L’espressione è di Levi Morenos, in Una esperienza nazionale, cit., p. 20.
171
quelli che furono pubblicati nel bollettino di cui si dotarono le Colonie e che prese il nome di
«Nostra Matre Terra»488.
Su tale visione si innestavano istanze spiritualistiche provenienti da una visione eticoreligiosa dell’esistenza umana, influenzata dal pensiero francescano, in base alla quale la natura era
il regno in cui l’uomo trovava armonia e serenità, il lavoro nei campi era la base da cui otteneva la
«gioia nel cuore». Numerosissime erano a questo riguardo le immagini e le citazioni che Levi
Morenos traeva dal Cantico delle Creature e dai Vangeli, e che riproponeva negli scritti e nelle lettere
che inviava ai fanciulli delle colonie in occasione delle feste religiose o di altre ricorrenze.
L’impostazione scientifica che presiedeva all’organizzazione delle tre colonie faceva sì che
queste venissero da lui concepite come tre diversi livelli posti in ordine progressivo: dalla prima
colonia si passa alla seconda, da questa alla terza, in base ad un criterio di selezione dei ragazzi,
che teneva in considerazione il loro senso del dovere e della responsabilità di cui avevano dato
prova. Veniva applicato, quindi, un parametro simile a quello della selezione naturale, attinente al
mondo scientifico, come riconobbe lo stesso professore:
Se volessi poi esaminare l’opera stessa con criteri scientifici, crederei di poter concludere ugualmente che la piccola
organizzazione si ispira esattamente a quel principio della selezione che in botanica e in zoologia è largamente
applicato489.
È in questo senso che la scuola ideata da Levi Morenos doveva essere concepita come il frutto
dell’integrazione di tre elementi per potersi fregiare del nome di «scuola integrale, cioè unitaria». I
tre elementi che la componevano erano il fattore fisico, il fattore morale, il fattore professionale.
Così descriveva ciascun elemento:
l’educazione fisica, ottenuta in un ambiente sano, all’aria libera dei campi, con un regime di vita semplice e schietto,
l’educazione morale, inspirata a sistemi che, mentre irrobustiscono la coscienza del fanciullo e la difendono contro i
pericoli, non comprimono il libero sviluppo dell’individualità, l’educazione professionale, compiuta a mezzo di
un’assidua armonizzazione della teoria con la pratica, costituiscono assieme un’unità inscindibile, pervase come sono
da un unico spirito informatore, e rivolte ad una meta unica: la conformazione dei corpi, delle anime, delle menti alle
necessità della vita e della professione rurale490.
Fu nel mutato clima politico e culturale dell’Italia postbellica e soprattutto con la salita al
potere del fascismo, che in Levi Morenos si compì una svolta nel suo pensiero. Gli ideali
umanitari risalenti all’inizio del secolo che animarono in lui l’intenzione di fare degli orfani degli
«uomini buoni e liberi» e che lo avevano accomunato alla schiera di intellettuali su posizioni
politiche liberali e democratiche, se non erano tramontati, quanto meno risultavano sbiaditi. La
svolta impressa dalla guerra in molti uomini di cultura fu rilevante anche nel professore veneziano
che cominciò a sentirsi attratto dalle correnti nazionalistiche e dal convincimento che la Nazione
potesse vivere solo con il concorso di tutte le sue parti.
Tale visione organicistica della società - in cui egli aveva già dimostrato di credere negli
anni precedenti convinto come era della necessità di favorire il mutualismo tra i lavoratori, forme
di previdenza sociale, senso di fratellanza nell’interesse supremo della Patria - trovava uno spazio
maggiore con la salita al potere del fascismo, cui Levi Morenos aderì, non senza dimostrare in ciò
488
Il bollettino «Nostra Matre Terra. Rivista mensile per l’educazione integrale rurale ed organo di
propaganda pro “Colonie dei Giovani Lavoratori”» fu pubblicato tra il 1927 e il 1933.
489
Levi Morenos, Una esperienza nazionale, cit., p. 19.
490
Ibid.
172
una contraddizione con il pensiero della prima fase della sua vita. Come è stato già osservato 491,
Levi Morenos, ormai vecchio e con gravi problemi alla vista che lo portarono alla cecità nella
seconda metà degli anni Venti, non comprese fino in fondo le reali intenzioni del regime e le
contraddizioni delle sue originarie aspirazioni alla pace, quasi di tipo francescano, con le preteste
militariste del fascismo.
Al contrario, egli vide nello Stato Corporativo una risposta ai problemi sociali che aveva
cercato di affrontare nei decenni precedenti e valutò il grande investimento di energie messo in
atto dal fascismo nel campo dell’infanzia come una soluzione alle questioni a lui care, in particolar
modo la lotta contro l’urbanesimo dei fanciulli rurali e contro l’alcolismo diffuso tra i giovani,
l’impegno in favore dell’educazione degli orfani492.
In particolare il professore veneziano vedeva nella politica scolastica del regime una
risposta che, in qualche modo, andava nella direzione di favorire il «risanamento» dell’infanzia. In
questo senso egli apprezzò quelle iniziative finalizzate al rafforzamento dell’ «integrità fisica dei
fanciulli», come l’istituzione dell’Opera Balilla e il conseguente il tentativo di inquadramento
militare della gioventù in quanto strumento giudicato capace di favorire l’emulazione da parte dei
giovani dei modelli tipici degli adulti, giocando su fattori emotivi particolarmente potenti negli
adolescenti. Scriveva a questo proposito Levi Morenos nel 1928:
Il nuovo indirizzo del Governo Nazionale Fascista ha dimostrato una profonda intuizione della psicologia infantile,
ad esempio, dando all’organizzazione dei Balilla e degli Avanguardisti anche quell’attrezzatura esteriore che esercita
sui fanciulli un fascino particolare precisamente perché, con le dovute proporzioni, e gli opportuni limiti, riproduce
in miniatura il vasto quadro della Milizia e orienta lo spirito di imitazione del fanciullo verso un ideale che ancora non
comprende in tutta la sua complessità, ma di cui già si compiace perché lo avvicina «a ciò che fanno i grandi» 493.
La svolta ruralista impressa dal fascismo negli anni Venti trovava, come è facile capire, vasto
consenso in Levi Morenos, che dell’antiurbanesimo aveva fatto uno dei tratti distintivi delle sue
colonie fin dalla loro fondazione494. Non è un caso, quindi, che immagini di un certo tenore,
tendenti a cantare la salubre e patriottica vita di campagna in contrapposizione alla corrotta e
corruttrice vita di città, abbondino nella pubblicistica prodotta dalle colonie. Non è, altresì, una
casualità che un personaggio come Arturo Marescalchi, senatore e proprietario terriero
dell’Alessandrino, protagonista insieme ad altri colleghi della battaglia condotta in Senato contro
l’urbanesimo prima della svolta ruralista del regime e autore di numerosi interventi in giornali e
riviste su questa tematica, diventasse membro del consiglio di amministrazione delle Colonie dei
Giovani Lavoratori, prodigandosi in tal veste nella ricerca presso il governo dei finanziamenti
necessari alla vita dell’ente495.
491
Ferrari, David Levi Morenos, cit., p. 31.
Levi Morenos pubblicò numerosi articoli su tali argomenti nella rivista «Echi e Commenti»,
diretta da Achille Loria, e in «Nostra Matre Terra».
493
D. Levi Morenos, Per l’integrità fisica delle nuove generazioni, «Nostra Matre Terra», n. 5, 15
maggio-15 giugno 1928, p. 2.
494
Sull’ideologia ruralista si rinvia a: P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella
stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 300-309.
495
Nel 1938 per far fronte al grave dissesto finanziario dell’ente, il cui bilancio fu chiuso con un
disavanzo di 100 mila lire, Marescalchi chiese a Osvaldo Sebastiani, Capo della segretaria del
Duce, di sottoporre la questione direttamente a Mussolini affinché il governo concedesse i
contributi necessari a salvare l’ente dal fallimento. Si veda: ACS, SPD, Carteggio ordinario (19221943), fasc. 518360, Lettera di Arturo Marescalchi a Osvaldo Sebastiani, 11 gennaio 1938. Su
492
173
Durante il fascismo anche le Colonie dei Giovani Lavoratori subirono, al pari o forse
anche in misura maggiore rispetto alle altre scuole italiane, l’impronta politica impressa dal
regime. Infatti la natura stessa delle colonie - con la loro rigida organizzazione che prevedeva una
suddivisione della giornata in momenti di lavoro, di studio, di esercizio fisico e di formazione
professionale - offriva con maggiore facilità i mezzi necessari ad attuare questi propositi. Pur non
disponendo degli elaborati scolastici realizzati dai ragazzi, che avrebbero permesso di condurre
un’indagine più approfondita, tuttavia l’immagine che si ricava dall’analisi di altri tipi di fonti,
permette di capire quanto l’elemento politico fosse presente nelle colonie. Lo studio della storia,
ad esempio, era fortemente incentrato sul Risorgimento e sulle figure dei più importanti patrioti,
di cui si narravano le gesta eroiche. Oltre alla partecipazione a cerimonie quali la consegna della
bandiera o la festa della Vittoria, i ragazzi vestivano una divisa grigio-verde militare che li
contraddistingueva, erano inquadrati nelle organizzazioni giovanili del regime, si pretendeva da
loro che conoscessero a memoria il Bollettino della Vittoria. L’impronta politica veniva impressa
ricorrendo anche alla mobilitazione dei ragazzi nel quadro della «Battaglia del Grano», nella
coltivazione da loro effettuata di piante di rosa in onore della madre del Duce, Rosa Maltoni o
nell’invio di lettere di auguri o di album fotografici direttamente a Mussolini.
D’altro canto il fascismo, come è noto, non lesinò investimenti, anche di considerevole
entità, in favore della creazione o del mantenimento di strutture volte all’assistenza dell’infanzia,
ed in particolare degli orfani di guerra, poiché si riteneva quest’ultima categoria di ragazzi quella
che meglio annoverava tra le sue fila i giovani più sensibili alla «causa della Rivoluzione»496.
Questo indirizzo è testimoniato anche nel caso delle Colonie dei Giovani Lavoratori, che durante
il Ventennio ricevettero ingenti contributi da parte dello Stato, attraverso i Ministeri delle
Finanze, dell’Interno e delle Corporazioni497.
Una testimonianza di quella che era la vita nelle colonie viene ben raccontata, sia pure con
forti elementi di colore, da un visitatore della Colonia di Collestrada:
Gli allievi - schierati sul vasto piazzale della scuola - stanno compiendo esercitazioni ginnastiche, al comando del
capo coltivatore, che fu soldato. Belli nella loro maschia semplicità, austeri nell’uniforme grigio-verde, ci accolgono
marzialmente sol saluto romano e poi rompono le file […] Guidato dal’ottimo direttore, visito la vastissima Casa
anche ne’ suoi recessi più nascosti e ovunque sento il palpito delle anime forti e gentili che la popolano […] Assisto
alla cena, cui presiedono appetito e giovialità, e più tardi ascolto canti religiosi e patriottici di vasto respiro melodico,
che i giovani - adunati in un lungo corridoio - innalzano a Dio e ai loro padri, prima di andare a letto 498.
Alla luce di ciò è evidente che le originarie aspirazioni alla pace e all’armonia francescana
con la natura e con gli altri esseri umani, che connotava la prima fase dell’opera educativa di Levi
Morenos, finirono per passare in secondo piano, a causa di un contesto profondamente
cambiato. Si pensi, al riguardo, al suggestivo nome degli «Orti di Pace», luogo pensato per i
bambini che dovevano ritrovare la smarrita armonia con sé stessi e con gli altri dopo i traumi
provocati dalla guerra. Quel nome, così carico di attese e speranze in un futuro dominato dalla
Marescalchi si rinvia a: D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase (1926-1929), «Storia e
Futuro», 6, maggio 2005.
496
Su questo punto si veda: L. La Rovere, «Rifare gli italiani»: l’esperimento di creazione dell’uomo nuovo
nel regime fascista, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», n. 9, 2002, p. 74.
497
Si veda la documentazione conservata nel fascicolo n. 518360 intestato alle «Colonie dei
Giovani Lavoratori», conservato presso ACS, SPD, Carteggio ordinario (1922-1943).
498
F. Straniero, Alla Colonia scuola di Collestrada, «I diritti della scuola», n. 19, 6 marzo 1927, pp.
142-143.
174
pace, finì per diventare un guscio vuoto a causa della retorica bellicistica degli anni Trenta e
Quaranta che investì anche le Colonie dei Giovani Lavoratori.
Se ciò è vero sul piano delle intenzioni e dei propositi educativi dichiarati, questo appare
altresì vero sul piano della realtà fattuale. Così, infatti, si può leggere un singolare e drammatico
episodio che accadde durante la seconda guerra mondiale e che ebbe per protagonisti alcuni
ragazzi della Colonia di Collestrada che furono coinvolti in un fatto catalogabile nel fenomeno
più complesso rappresentato dal coinvolgimento dell’infanzia e della gioventù negli eventi della
guerra totale del 1940-1945499. Nei concitati giorni del giugno 1944, quando la linea del fronte era
attestata alle porte di Perugia, le truppe tedesche che controllavano l’area di Collestrada e il vicino
aereoporto di Sant’Egidio, si avvalsero dell’aiuto di alcuni ragazzi ospiti della colonia,
incaricandoli di sorvegliare le munizioni opportunamente nascoste in un bosco, offrendo in
cambio del cibo. Alcuni di essi furono così solerti nello svolgimento del comando loro affidato da
aprire il fuoco, ferendola, su di una donna ignara che era andata a raccogliere legna in quel
bosco500.
L’episodio appare rivelatore di come i sani principi educativi per gli orfani volti a fare di
essi degli «uomini buoni e liberi», secondo la definizione data da Levi Morenos alla Aleramo nei
primissimi anni del secolo, fossero stati, in buona sostanza, dimenticati dopo la svolta politica
impressa dal fascismo e dal clima di guerra, che avevano enfatizzato, oltremisura, l’elemento
dell’obbedienza e della disciplina dei giovani contadini.
Nel secondo dopoguerra le Colonie dei Giovani Lavoratori finirono per diventare dei
semplici istituti per orfani, al pari di tanti altri, cessando di essere un modello educativo come lo
erano state nei primi anni della loro vita quando avevano attirato un notevole interesse dal
mondo pedagogico. La colonia di Città di Castello fu chiusa nel 1952 mentre quella di Collestrada
rimase in funzione, tra grosse difficoltà finanziarie, fino agli anni Settanta501.
6. L’interesse pedagogico suscitato dalle Colonie
Uno degli elementi che contraddistinse l’esperienza delle Colonie dei Giovani Lavoratori,
e che venne messo in rilievo fin dai primi anni della loro attività, fu il carattere innovativo con cui
esse erano state pensate. Non si trattava, cioè, di ospizi o di orfanotrofi, nel significato
tradizionale del termine, né di strutture create al solo scopo di fornire l’assistenza ai fanciulli
499
Piuttosto vasta è la bibliografia sul coinvolgimento dell’infanzia italiana nelle guerre del
Novecento e nei processi di nazionalizzazione. Ci si limita a segnalare: A. Gibelli, Il popolo bambino.
Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005; M.C. Giuntella, I. Nardi (a cura
di), Il bambino nella storia, Napoli, Esi, 1993; M.C. Giuntella, I. Nardi (a cura di), Le guerre dei
bambini: da Sarajevo a Sarajevo, Napoli, Esi, 1998; J. Meda, È arrivata la bufera. L’infanzia italiana e
l’esperienza della guerra totale (1940-1950), Macerata, Eum, 2007.
500
L’episodio è narrato in: C. Pagliacci, Collestrada: storia di un paese tra ospitalità ed esclusione, Perugia,
Edizioni Parrocchia Collestrada, 1995, p. 120.
501
La cronaca locale de «Il Messaggero» del 21 dicembre 1952 riferisce che nell’ultima seduta del
consiglio comunale di Città di Castello «il consigliere Angelini (ind.) porge il saluto alla «Colonia
Giovani Lavoratori» che trasferisce la sua sede e abbandona il nostro Comune dopo 35 anni
trascorsi tra noi» (I lavori al Comune di Città di Castello. In margine alla riunione consigliare, «Il
Messaggero», 21 dicembre 1952, p. 5); Pagliacci, Collestrada, cit., pp. 132-133.
175
colpiti dalla guerra, ma soprattutto di un ambiente formativo in cui parte integrante ed essenziale
era rappresentato dall’elemento educativo.
Rilevava questo particolare nel 1925 dalle pagine de «I diritti della scuola» l’ispettore
scolastico Giorgio Gabrielli, in seguito ad una sua visita a «Gli Orti di Pace»:
Non è un’accolta di alunni, non è uno dei soliti convitti, nemmeno una famiglia riunita dal bisogno quotidiano […]
qui non c’è la sola convivenza, qui la necessità inderogabile di allontanare dei giovanetti dalla famiglia è temperata da
tutto un ordinamento educativo che mira a rimuovere molti degli inconvenienti ed a costruire le fonti di una nuova
vita individuale, sana e cosciente dei suoi destini502.
Lo spirito di innovazione didattica che le Colonie portarono nel panorama scolastico nazionale,
giunse in un momento in cui gli uomini di scuola più avvertiti dimostrarono attenzione verso
quelle esperienze scolastiche che erano fiorite nella penisola ad opera di privati o di enti culturali
per contribuire alla lotta contro l’analfabetismo assai diffuso nelle campagne ed in un momento
nel quale stava maturando un articolato dibattito che metteva al centro il tema dell’istruzione
elementare, ed in particolare di quella rurale. La critica che si rivolgeva alla scuola rurale di Stato
era, infatti, quella di non essere aderente all’ambiente in cui si trovava e di non rispondere alle
esigenze della vita del contadino. In altre parole, veniva giudicata come una sorta di copia mal
riuscita della scuola elementare urbana. Tale giudizio si ritrova sovente nel pensiero di uomini di
scuola tra gli anni Venti e Trenta. Lo stesso ispettore Gabrielli notava che,
mentre la scuola elementare di Stato vaga ancora, anche nelle zone prevalentemente rurali, in un generico ambiente
culturale indeterminato, qui la cultura è fatta vita ed è tratta da una determinata forma di vita. Sin dai primi anni essa
s’inserisce in una realtà fattiva che è la vita dell’orto, della vigna, del pollaio, ecc. 503.
Come è facile immaginare, gli auspici per una scuola rurale più integrata culturalmente
con l’ambiente in cui si trovava, già presenti nell’immediato dopoguerra, si moltiplicarono quando
il regime fascista lanciò il programma di ruralizzazione della società e della scuola. In un articolo
dall’emblematico titolo, Ruralizzazione e scuola, Giovanni Calò ricordava a questo proposito come
«magnifici esempi, quasi isolati» da tener presenti, le scuole rurali fondate dal senatore Faina e le
Colonie dei Giovani Lavoratori504. Elsa Bergamaschi, che nel 1931 visitò gli «Orti di Pace», mise
in evidenza proprio questo aspetto dalle pagine della rivista «La Nuova Scuola Italiana»:
Un tale esempio dovrebbe esercitare un’influenza benefica sulla scuola rurale, che troppo spesso non è tale che di
nome per le condizioni estrinseche di località e d’ambiente; mentre non aderisce intimamente alla vita che le si svolge
intorno, e non è penetrata dalla chiara coscienza delle esigenza della vita rurale 505.
Tali aspetti vengono colti soprattutto in concomitanza del grande dibattito suscitato dalla riforma
Gentile, in occasione del quale si additò l’esperienza delle Colonie come un modello a cui ispirarsi
per creare la vera scuola popolare. Annibale Tona, direttore de «I diritti della scuola», sottolineava
questo elemento nell’aprile del 1923, quando era in piena svolgimento l’attività riformatrice di
Gentile:
502
G. Gabrielli, Gli “Orti di Pace”, «I diritti della scuola», n. 17, 15 febbraio 1925, pp. 129-130.
Ibid.
504
G. Calò, Ruralizzazione e scuola, «I diritti della scuola», n. 31, 2 giugno 1929, pp. 1465-1466.
505
E. Bergamaschi, Le “Colonie dei giovani lavoratori”, «La nuova scuola italiana», n. 6, 1 novembre
1931, pp. 163-164.
503
176
Oggi che si viene imponendo come necessità una profonda riforma delle istituzioni educative che meglio prepari il
cittadino ed il lavoratore di domani, sostituendo al tradizionale verbalismo cattedratico l’esercizio disciplinato delle
varie attività del fanciullo, si può ben dire che le Colonie del Levi Morenos hanno fatto, con pochi altri analoghi
istituti, opera precorritrice506.
Tona vedeva nelle Colonie il risorgere «ma con ossatura e vitalità cento volte maggiori, il famoso
«campicello» baccelliano; si ritrova in esse già compiuto quel disegno di nuova scuola popolare a
fondo agricolo-industriale che il ministro Gentile sta concretando nella sua riforma dell’attuale
scuola tecnica»507.
L’interesse suscitato dalle Colonie, ed in particolare dagli «Orti di Pace», spinse nel 1923
un gruppo di volenterosi maestri della capitale a riunirsi in un «Comitato magistrale romano pro
Colonie dei Giovani Lavoratori», con l’obiettivo dichiarato di «aiutarne lo sviluppo e diffonderne
i principi»: ad esso aderirono, tra gli altri, lo stesso Tona, Muzio Mochen, Arnaldo Marcellini, Ines
Caselli Facchini508. Ben oltre si spinse Francesco Bettini, ispettore scolastico di idee lombardiane
e prolifico pubblicista nelle riviste magistrali, il quale apprezzò delle Colonie non solo le finalità
educative ma anche l’innovazione didattica da esse prodotte. Citava a questo proposito
«l’illustrazione di racconti o le esposizione di lezioni fatte dallo scolaro con la proiezione di figure
da lui stesso disegnate e colorate su carta translucida» applicata alla storia, geografia e scienze
naturali, aggiungendo che tale sperimentazione fu giudicata positivamente dai numerosi visitatori
stranieri della Mostra degli istituti di assistenza per gli orfani di guerra, tenutasi a Roma nel
1924509. Bettini concludeva riconoscendo che, sebbene la sua opera «pass[asse] inosservata a gran
parte dei maestri elementari», tuttavia Levi Morenos era da considerarsi «uno dei più nobili,
efficaci ed esperti educatori che la Scuola italiana abbia dato in quest’ultimo trentennio di vita»510.
Ma fu soprattutto Giuseppe Lombardo Radice a dare un degno riconoscimento all’opera di
educatore svolta da Levi Morenos. Nel 1926 il pedagogista siciliano incaricò la signorina
Guerrera di scrivere un libro sulle attività del professore, che però mai vide la luce511. Quando nel
1928 il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Belluzzo conferì al professore veneziano il
diploma di benemerenza di primo grado, con facoltà di fregiarsi della medaglia d’oro, Lombardo
Radice pubblicò la notizia su «L’Educazione Nazionale»512. Levi Morenos lo ringraziò in un
messaggio in cui non nascose l’ammirazione che nutriva nei suoi confronti:
506
A. Tona, Agli “Orti di Pace”, «I diritti della scuola», n. 24, 22 aprile 1923, pp. 185-186.
Ibid.
508
Ibid.
509
A questo proposito, Bettini descriveva, non senza umorismo e compiacimento, la scena a cui
assistette mentre anche egli visitava la mostra romana: alcuni visitatori stranieri, inglesi e
americani, sorpresi dalla tecnica delle illustrazioni delle immagini proposta dalle Colonie dei
Giovani Lavoratori, esclamavano: «Buono, buono; questo noi non abbiamo; bisogna introdurre
anche nelle nostre scuole […] Meno male, pensavano gli espositori, che non siamo sempre noi a
copiare!». [F. Bettini], Disegno, proiezioni e insegnamento scientifico, «La scuola in Toscana. Bollettino
del Provveditorato agli Studi della Toscana», n. 6, giugno 1925, pp. 309-316.
510
Ivi, p. 309.
511
AGLRF, Carteggio pubblico, b. 4, Lettera di Alberto Salvagnini a Lombardo Radice, 31 marzo
1926.
512
Onore a Levi-Morenos, «L’Educazione nazionale», ottobre 1928, p. 516.
507
177
Al vecchio collega della propaganda per l’educazione popolare, al pedagogista insigne di cui per la mia ignoranza in
Pedagogia non posso dirmi allievo, ma dal quale posso però dire di aver molto imparato 513.
Il riconoscimento più prestigioso all’opera di Levi Morenos conferito da Lombardo Radice fu,
però, un articolo da lui pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio 1933, su
«L’Educazione nazionale» in cui gli attribuì il merito di aver anticipato, con le Navi Asilo e le
Colonie dei Giovani Lavoratori, lo spirito della riforma Gentile, in relazione alle scuole del lavoro
nelle quali «il lavoro stesso è formativo di umanità, sia per l’educazione del carattere che per
l’orientamento spirituale e l’organizzazione della cultura». Per tale ragione, argomentava il
pedagogista,
il Levi Morenos è in ordine di tempo il primo realizzatore della «Scuola Attiva», è il primo vero riformatore dei
programmi didattici ufficiali, se scuola attiva vuol dire scuola dove i libri contano perché tutta la vita, maturando
l’intelligenza, li fa cercare, a completamento dell’esperienza, a confronto del proprio sentire; però i libri desiderati e
cercati non sono mai quelli scolastici, cioè manualistici, astratti, posticci (per elementarizzazione che è schematismo e
spolpamento della verità), ma quelli universali o almeno, sovra scolastici: libri di alta poesia, libri di vera e completa
scienza, libri senza intenzione meschinamente didascalica. Nei campi dell’addestramento elementare dove questi non
occorrono, gli altri non occorrono: basta il maestro 514.
Il riconoscimento pubblico dato nel 1933 dall’autore dei programmi per la scuola
elementare, faceva seguito alla considerazione di cui aveva goduto Levi Morenos nel vivace clima
pedagogico degli anni Venti che, sebbene non gli avesse permesso di acquisire quella certa
notorietà tra i maestri che avrebbe meritato, come ammetteva Bettini, tuttavia portò il nome del
professore veneziano tra coloro che venivano considerati i pionieri della «scuola nuova». Oltre
alle testimonianze di Lombardo Radice e di Bettini, vale la pena di ricordare il giudizio espresso in
un articolo del 1926 da Adolphe Ferrière, nel quale riconosceva il merito di Levi Morenos di
essere stato un precursore della «scuola attiva»515. Dallo stesso ambiente culturale di Ferrière
proviene, infine, la testimonianza di Peter Engel, il quale dopo una visita alle tre colonie, dalle
pagine della rivista «Pour l’ère nouvelle» riconobbe che, pur non aspirando a diventare un
maestro di scuola, attraverso strade diverse Levi Morenos era giunto ai medesimi risultati
conseguiti dai pionieri della «scuola nuova»516.
513
MSD, AGLR, Carteggio generale, Lettera di David Levi Morenos a Giuseppe Lombardo Radice,
18 ottobre 1928.
514
G. Lombardo Radice, Levi Morenos e la didattica nuova, «L’Educazione nazionale», 31 marzo
1933, pp. 163-169.
515
A. Ferrière, Une visite aux pionniers de l’École Active en Italie, «Pour l’ère nouvelle», n. 23,
novembre 1926, pp. 150-156.
516
«Par des chemins différents, en amateur, il est arrivé aux mêmes résultats que les plus ardents
pionniers de l’éducation nouvelle» (Cfr. Peter Engel, Les colonies des Jeunes Travailleurs, «Pour l’ère
nouvelle», n. 23, novembre 1926, pp. 191-193).
178
Capitolo quinto
Una scuola tra mito e realtà.
Spontaneismo, metodo didattico e propaganda
pedagogica nella scuola di San Gersolè
1. Premessa
Quando alle soglie degli anni Cinquanta un giornalista coniò la fortunata e nostalgica espressione
«l’ultimo asilo dei sogni»517, la notorietà della scuola di San Gersolè aveva abbondantemente
superato i confini della pedagogia per proiettarsi in quello più vasto rappresentato dal dibattito e
dalla riflessione culturale. A quella stagione, infatti, collocabile tra gli anni Cinquanta e Sessanta,
risalivano i noti apprezzamenti alla scuola di San Gersolè espressi da illustri intellettuali, da Italo
Calvino ad Emilio Cecchi, a Piero Calamandrei, che testimoniavano il fatto che la scuola-modello,
che aveva fatto parlare di sé fin dagli anni Trenta, si stava trasformando, in un mito pedagogico
che avrebbe destato la curiosità e la riflessione scolastica ancora per molti anni.
Ma se questa è la fortunata immagine che ci è stata tramandata di San Gersolè, in realtà,
come essa è stata costruita nel corso del tempo? In che modo, attraverso quali itinerari e in quali
tempi ciò è avvenuto? Si può parlare di uno scarto tra la realtà e la sua rappresentazione? A questi
interrogativi si intende fornire una risposta in questa sede nella convinzione di poter offrire
ulteriori elementi alla lettura di quella straordinaria esperienza educativa518. Nello svolgere questo
compito ci si avvarrà, in particolar modo, di fonti archivistiche inedite, come le carte del
Comitato di Liberazione Nazionale di Impruneta e alcune lettere inviate ad Ernesto Codignola,
dalla cui analisi si può trarre spunto per arricchire di dati l’interpretazione che finora è stata data
della scuola di San Gersolè e della maestra Maria Maltoni, che della stessa è stata l’animatrice dal
1920 al 1956. Si deve parlare al plurale perché appaiono inseparabili le due storie, quella della
maestra e quella della scuola, tanto la prima permeò della sua sensibilità e delle sue idee la
seconda.
517
Ghil, San Gersolè fucina d’artisti, «Il Secolo XIX nuovo», n. 24, 28 gennaio 1949, p. 3.
Su San Gersolè si veda: R. Laporta, L’opera di Maria Maltoni, «Scuola e città», n. 8, agosto 1970,
pp. 351-357; A. Scattigno, “La leggenda dei tempi antichi”. I disegni e i diari di San Gersolè nella stampa
italiana, dal 1940 alla prima metà degli anni Sessanta, in San Gersolè quaderni e disegni 1930-1950, Catalogo
della mostra (Impruneta, 12 aprile-12 maggio 1985), Associazione intercomunale n. 10, Firenze, 1985,
pp. 15-37; A. Santoni Rugiu, Tre esperienze pedagogiche innovative dopo la liberazione in P.L. Ballini, L.
Lotti e M.G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1991, p.
901; E. Catarsi, Ideologia e pedagogia nel secondo dopoguerra in F. Cambi (a cura di), La Toscana e
l’educazione: dal Settecento a oggi: tra identità regionale e laboratorio nazionale, Firenze, Le Lettere, 1998,
pp. 431-447; B. Salotti (a cura di), La maestra e la vita: Maria Maltoni e la scuola di San Gersolè. Catalogo
della mostra (Villa Corsini Mezzomonte, 11-22 ottobre 2006), Firenze, Noèdizioni, 2006; La maestra e la
vita: Maria Maltoni e la scuola di San Gersolè, Dvd-rom realizzato a cura del Comune di Impruneta,
Firenze 2007; B. Salotti, Il fondo «Maria Maltoni», in J. Meda, D. Montino, R. Sani (a cura di), School
Exercise Books: A Complex Source for a History of the Approach to Schooling and Education in the 19th and
20th Centuries, 2 voll., Firenze, Polistampa, 2010, vol. I, pp. 73-88.
518
179
Emerge, così, il profilo di una maestra che, dopo aver attraversato un periodo di
demotivazione professionale, diviene progressivamente consapevole degli importanti risultati che
sta ottenendo. Da ciò deriva l’impegno che ella profonde in una faticosa opera di propaganda
pedagogica della sua scuola e delle tecniche adottate, nel desiderio di mediare all’esterno
un’immagine ben precisa dell’esperienza educativa condotta nel piccolo borgo toscano. Si
evidenziano, allora, le ambizioni pedagogiche perseguite con una notevole determinazione da una
maestra di una scuola rurale dell’Italia della prima metà del Novecento che, dopo tentativi non
riusciti e ostacoli di varia natura incontrati sulla sua strada, riesce ad uscire dall’anonimato,
trasformando la sua scuola in una scuola-modello, con un suo «metodo» specifico
d’insegnamento che desidera che venga riconosciuto per il suo valore, benché ufficialmente si
dichiari contraria ai «metodi» per ragioni pedagogiche.
Si tenga presente, infine, che nel riannodare i fili di questo discorso si dovrà rileggere la
vicenda umana della Maltoni e seguire lo sviluppo del suo progetto educativo tenendo sullo
sfondo le vicende politiche dell’Italia, dall’età liberale al fascismo, fino alla Repubblica, nonché i
cambiamenti culturali e pedagogici intervenuti, dall’idealismo lombardiano iniziale fino al
confronto con le nuove esperienze educative fiorite nel secondo dopoguerra, come Scuola-Città
Pestalozzi e il Movimento di Cooperazione Educativa.
2. Alle origini di San Gersolè
Per comprendere le tappe di questo percorso si deve, anzi tutto, partire dalla figura di Maria
Maltoni. Chi era, dunque, la Maltoni? Quali la sua personalità e la sua indole? Quali aspettative
riponeva nell’impegno didattico? Una risposta soddisfacente può giungere da quanto ella, ormai
anziana e prossima alla morte, scriverà di se stessa nel 1963:
Ho desiderato tutto il tempo della scuola di trovare un giornale che mi concedesse un poco di spazio per esporvi le
esperienze che mi parevano dovessero interessare la gente di scuola, idee che dalle esperienze nascevano e non ho
trovato mai che lo spazio necessario per qualche briciola e oggi mi si aprono le porte a pubblicazioni che non posso
far più, nei giornali pedagogici più qualificati come il giornale della Montessori, quello di Ada Gobetti, le riviste
didattiche e via via519.
In effetti, l’esistenza della Maltoni si caratterizza per la grande capacità di divulgare, attraverso
vari strumenti di cui le riviste magistrali e pedagogiche costituiscono un asse portante, la sua idea
di scuola e la concreta prassi educativa messa in atto a San Gersolè. All’origine di ciò si collocava
una precisa volontà di far conoscere quanto da lei sperimentato ed attuato nella scuola alla quale
consacrò tutte le sue energie a partire dagli anni Venti, dopo aver superato il senso di apatia e di
demotivazione con cui aveva intrapreso la carriera magistrale nel primo decennio del secolo. A
determinare quella svolta erano stati vari fattori tra i quali ella stessa riconosceva il fervente clima
pedagogico seguito al varo della Riforma Gentile, la lettura dei libri di Lombardo Radice, la
Mostra didattica nazionale di Firenze del 1925 e, soprattutto, l’incontro con il medico Laura
Orioli, collocabile tra il 1917 e il 1918, con cui convisse per circa venti anni, fino alla sua morte
519
Biblioteca Comunale di Impruneta, Archivio Maria Maltoni, (d’ora in poi BCI, AMM), minuta
di lettera della Maltoni a Luisa (senza cognome), 2 marzo 1964.
180
avvenuta nel novembre 1938520, condividendo con lei la passione e le preoccupazioni per
l’assistenza materiale e l’educazione dei bambini delle famiglie contadine della campagna di
Impruneta.
Il primo fatto che testimonia della volontà della Maltoni di entrare in contatto con il mondo
ufficiale della scuola e della pedagogia di cui abbiamo notizia si colloca in quella fase storica di cui
abbiamo parlato. In particolare sappiamo che nel 1927 la maestra ha un fugace scambio di lettere
con Giuseppe Lombardo Radice, con cui entra in contatto in circostanze singolari, vale a dire
tramite le religiose del noto eremo francescano di Campello sul Clitunno, esperienza religiosa
sorta pochi anni prima ed animato da suor Maria Pastorella. Sia la maestra che il pedagogista
siciliano mostrano di conoscere, in particolare, una delle francescane ospitate, sorella Jacopa, al
secolo Clelia Allegri, giovane non vedente che, prima di abbracciare la vita religiosa alla metà degli
anni Venti, era stata animatrice di conferenze e iniziative volte a sensibilizzare la società a
proposito della necessità di provvedere all’educazione dei ciechi521. Nell’ambito di tale impegno
l’Allegri aveva curato la traduzione del libro di Helen Keller, Il racconto della mia vita, entrando in
contatto con Dino Provenzal, che ne aveva scritto la prefazione alla seconda edizione522.
In una lettera del dicembre ’27 la Maltoni ringraziava Lombardo Radice per i saluti inviati
tramite sorella Jacopa e lo invitava a conoscere meglio la scuola di San Gersolè:
La sua parola mandatami da Sorella Jacopa mi è stata di grande conforto. La maggior parte degli insegnanti
avrebbe forse bisogno soltanto di sentirsi venire ogni tanto da una voce calda di amore l’incitamento a migliorare
sempre più se stessi per trovare sempre meglio la buona via ad arrivare efficacemente alle piccole anime. Grazie di
questo saluto. Saremo lieti s’Ella vorrà conoscerci più e meglio e ce lo dirà 523.
A quanto pare il pedagogista siciliano non si recò nella scuola toscana, né continuò a
mantenere uno scambio epistolare con la Maltoni. Non conosciamo la ragione di questo fatto che
sembrerebbe dimostrare un certo disinteresse di Lombardo Radice nei confronti di San Gersolè,
ipotesi che verrebbe accreditata anche dal fatto che egli, pure essendo assai impegnato, come è
noto, nel versante della ricerca, dello studio e della divulgazione di esperienze di «educazione
nuova» presenti in Italia e non solo, stranamente non citò mai nelle sue opere la scuola della
Maltoni, che tuttavia conosceva fin dal 1927. Questo fatto, che potrebbe rappresentare una sorta
di anomalia, costituisce il primo punto di cui dobbiamo tener conto ai fini del nostro discorso e ci
induce a porci delle domande: forse i risultati ottenuti allora dalla Maltoni erano ritenuti dal
pedagogista siciliano – tale dubbio era stato da più parti sollevato – poco «spontanei» e, quindi, di
scarso valore sul piano didattico? Oppure, più semplicemente, Lombardo Radice preferì non
scrivere su San Gersolè poiché questa particolare esperienza didattica era stata “scoperta”
520
Laura Orioli era nata a Milano il 16 novembre 1880. Risulta inscritta all’anagrafe di Impruneta
nel 1923, città in cui morì il 28 febbraio 1938.
521
Di questo impegno sono testimonianza gli scritti: Tenebre e Luce: sulla necessità di educare e
proteggere i ciechi, Empoli, Tip. Guainai, 1904; L’anima dei ciechi: conferenza tenuta in Torino all'Istituto dei
ciechi, Torino, Tip. Palatina, G. Bonis, Rossi e C., 1911. Sull’Allegri si vedano i pochi cenni
biografici in E. Chirilli, Contributo alla storia dell’eremo francescano di Campello sul Clitunno. Sorella Jacopa,
Galatina, Editrice Salentina, 1973.
522
La prima edizione italiana apparve nel 1907, seguita da una del 1923 con la prefazione di
Provenzal.
523
AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Maria Maltoni a Lombardo Radice, 8 dicembre 1927.
181
dall’amico Bettini, a cui lo univano legami di stima e di affetto? In assenza di documenti che
possano fugare ogni dubbio, per il momento non possiamo far altro che avanzare alcune ipotesi.
Si tenga presente, inoltre, che tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la Maltoni
attraversò un difficile periodo che la condusse ad avvicinarsi al cenobio spirituale di Campello sul
Clitunno e ad attraversare una forte crisi religiosa, nonostante che ella fosse stata animata fin dalla
gioventù da forti sentimenti anticlericali. Ce lo testimonia una lettera della sua amica Laura Orioli
ad Ernesto Codignola risalente alla metà degli anni Trenta:
Ella ne avrà forse già udito parlare. La Maltoni una volta agnostica o panteista, in compagnia di queste mistiche
amiche, soprattutto subendo il fascino dell’alta spiritualità ed anche della nobiltà di cui sorella Maria dà prova sempre,
prese una cotta per il misticismo arrischiando di divenire più realista del re. Si nutriva di Sacre Scritture, Vangelo,
agiografie, Bibbia e nel contrasto con tendenze religiose meschine turbavasi anche pel concorso di delusioni per cose
personali524.
A rivoluzionare le sorti di questa scuola nella quale la Maltoni profondeva gran parte delle sue
energie senza riuscire ad ottenere quelle soddisfazioni e quei riconoscimenti che riteneva giusti, fu
l’incontro con l’ispettore scolastico Francesco Bettini. La grande amicizia che sorse con la
Maltoni e che si dipanerà fino al declinare degli anni Cinquanta costituì un punto di riferimento di
assoluta importanza per la maestra di San Gersolè, che poté trovare in lui un sincero estimatore
della sua opera educativa e, in specie, un energico propagandista sul piano pedagogico della sua
esperienza didattica. È con Bettini, infatti, che la Maltoni comincia a muovere i primi passi nel
mondo scolastico «ufficiale», a scrivere sulle riviste magistrali, ad essere conosciuta da pedagogisti
e dirigenti del ministero che si recano a visitare San Gersolè, ad essere oggetto di trattazione
all’interno di libri da lui stesso scritti. In altre parole, è grazie a Bettini che viene soddisfatta
quell’ambizione lungamente sopita di divulgare e far conoscere i risultati ottenuti nella scuola,
talvolta non esitando a presentarli come l’esito dell’applicazione della propria particolare
concezione pedagogica e di una personale prassi didattica, misconoscendo influenze culturali che,
in realtà, ella dovette aver recepito525.
Alla base dell’atteggiamento di Bettini si trova l’apprezzamento per la qualità dei
componimenti e dei disegni dei bambini di cui, da «lombardiano» di stretta fede, apprezza la
spontaneità e la freschezza, specchio rivelatore dell’anima del fanciullo, delle sue aspettative e
della sua interiorità. Gli scritti dei bambini di San Gersolè gli appaiono sinceri in quanto
espressione di bambini che vengono rispettati, poiché ad essi si offre la possibilità di raccontare
ciò che essi vogliono e ciò che essi vedono nell’ambiente in cui vivono. Ritornano motivi cari
all’idealismo pedagogico e a quanto Lombardo Radice aveva affermato nei programmi per la
scuola elementare da lui redatti nel 1923 e ripetuto con costanza nei numerosi scritti dati alle
stampe nei tempi successivi, vale a dire la necessità per l’educatore di ridurre lo spazio tra scuola e
vita, di eliminare ogni pedanteria e di ridurre l’intervento del maestro al fine di non soffocare o
524
AEC, Corrispondenza, Lettera mutila della Orioli a Codignola, s.d., ma databile al 1935 circa.
Ci riferiamo ad una lettera inviata a Bettini nel 1936 nella quale la Maltoni afferma di aver
conosciuto i libri di Lombardo Radice solo recentemente, mentre è provato – come abbiamo
visto – che ella conoscesse il pedagogista catanese e verosimilmente anche le sue pubblicazioni
già nel 1927. In tale lettera a Bettini scrisse: «poi la lettura dei libri di Lombardo Radice (questo
non lo conoscevo, l’ho trovato ora e mi ha data gioia di consensi che ho voluto comunicare ad
altri)» (BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Bettini, 15 dicembre 1936).
525
182
svilire il moto spontaneo del fanciullo, che, libero di esprimersi, può diventare «poeta», secondo la
definizione lombardiana.
Il primo passo di questo itinerario che vede la Maltoni maturare e diventare un’abile
divulgatrice della sua scuola, è l’invito che Bettini le rivolge nei primi mesi del 1935 di curare la
parte dedicata alla prima classe nella rubrica, da lui diretta, della Didattica ospitata nella rivista
magistrale «Nuova Scuola Italiana», andando a sostituire la maestra Luisa Nason che avrebbe
interrotto la sua collaborazione.
In una lettera in cui si scusava di non aver trovato ancora il tempo sufficiente per andare a
trovarla a San Gersolè, in quanto oberato dal lavoro burocratico che lo costringeva ad occuparsi
«più alle carte che alle istituzioni, alle quisquilie che alle persone, alle parole che ai fatti», Bettini
rinnovava la sua promessa e avanzava la sua proposta:
Però ho promesso di venire a vedere la Sua scuola, di conversare a lungo con Lei sul lavoro che fa e verrò.
Intanto Le domando un grosso piacere: vuol fare Lei, settimanalmente, la didattica della 1 a classe in sostituzione della
Signora Nason per la “Nostra Scuola”? Gliene sarei tanto tanto grato io; gliene sarebbe gratissimo il Professore
Codignola; ne avrebbero utilità grande gli insegnanti, e proverebbe anche Lei, interesse e soddisfazione. Il ripensare
settimanalmente il proprio lavoro conduce ad affinarlo, disciplinarlo, organizzarlo con più profonda consapevolezza.
Non mi dica di no, Signorina, e avrò un motivo di più per esserle grato e per volerle bene.
La Maltoni accettò l’invito iniziando a pubblicare i primi articoli a partire dal febbraio ’35526.
Una nota del Bettini presentava ai lettori della rivista la nuova collaboratrice come una «anima
gentile» che «assocerà la religione al lavoro e alla osservazione attenta e appassionata di ciò che
vive in noi e intorno a noi, desideri e sentimenti, affetti e pensieri; contemplazione, aspirazioni,
attività ordinaria o lavoro; le piante, gli animali, il cielo coi suoi mutamenti paurosi o
rasserenatori; la vita che pare un lento morire e la morte che è una resurrezione. I bambini
scopriranno lentamente, insensibilmente, ma sempre più profondamente e saldamente, che tutto
vive, che in tutto Dio è presente e operante, e vedranno sempre Lui nelle sue creature,
fortificando quel senso francescano della fede e della vita che è sopportazione e coraggio, bontà e
carità».
In effetti i primi articoli della Maltoni presentavano in maniera chiara i due elementi dichiarati
da Bettini: l’osservazione diretta dell’ambiente e riferimenti alla morale evangelica e alle parabole.
Al primo elemento – l’osservazione accurata e minuziosa della natura e degli uomini – che
diverrà la cifra distintiva universalmente riconosciuta alla scuola di San Gersolè, faceva da
controaltare l’insegnamento religioso che, pur permeando tutte le altre materie, secondo lo spirito
dei programmi scolastici del ’23, tuttavia trovava nel caso specifico della Maltoni una ulteriore
spiegazione nella recente crisi religiosa dalla quale la maestra si era ripresa all’incirca agli inizi degli
anni Trenta. Lo possiamo affermare sulla scorta della testimonianza della Orioli che in una lettera
a Codignola racconta di aver pagato, di nascosto dalla Maltoni, l’abbonamento a «Nuova Scuola
Italiana» all’eremo di Campello, affinché quelle religiose potessero leggere quanto la loro amica
attingesse alla loro spiritualità nel redigere quelle note. Scriveva a questo proposito la Orioli:
Sorella Maria, da lontano si interessa sempre a questa compagna che le è cara: è per questo
che vorrei leggesse la didattica che la Maltoni scrive e nella quale mette molto di quell’ardore di
religiosità che la legava a Sorella Maria.
526
Il primo articolo della Maltoni uscì sul numero 20 della rivista, del 10 febbraio 1935.
183
Fin dai primi articoli l’ispettore Bettini rimase soddisfatto degli scritti settimanali della Maltoni,
alla quale ricordava sovente, secondo la nota prospettiva dell’idealismo pedagogico, lo spirito che
doveva informare la rubrica della didattica: l’obiettivo, infatti, era quello di offrire ai maestri non
un elenco sterile di esercizi e di consigli pratici ma di raccontare la propria esperienza educativa
che avrebbe poi costituto la base di riflessione per gli insegnanti, i quali avrebbero trovato
autonomamente le vie personali per giungere ad ottimi risultati. Scriveva a questo proposito
Bettini:
Leggo sempre con attenzione e con piacere quanto scrive per i maestri nella Didattica della Rivista, e vedo come Ella
cerca di conversare e di convincere. Va benissimo. Approvo ciò che Ella fa e l’indirizzo che segue, che è di non
irrigidire la Sua opera in un formulario o in un seguito di ricette, che, oltre tutto, avrebbero anche il difetto di dover
essere buone per tutti i mali e per tutti gli ammalati527.
La grande stima di Bettini non deve far pensare, tuttavia, che egli si sottraesse dal dovere di
segnalare alla Maltoni aspetti del suo insegnamento che gli parevano poco valorizzati,
incoraggiandola a concentrare le proprie energie in quelle direzioni. In particolare dei tre elementi
che a suo giudizio formavano «l’opera educativa» – l’attività espressiva, l’attività intuitiva e pratica,
la formazione della coscienza morale – la Maltoni riusciva, secondo Bettini, «magistralmente»
nella prima, nel campo cioè del disegno e dei componimenti, mentre la seconda necessitava di
una «impostazione più meditata, coerente e completa». Infine, per quanto concerneva la
formazione morale, egli sosteneva che non poteva «essere lasciata alle occasioni o alla
frammentarietà del caso»528. In una lettera successiva l’ispettore precisava il significato di quello
che intendeva dire. In particolare nei confronti del problema rappresentato dall’educazione
morale egli riteneva sì necessari «l’esempio, il richiamo materno, la coerenza, l’esercizio continuo
della lealtà, della sincerità, dell’onestà o della rettitudine», che la Maltoni indicava nei suoi scritti
per la Didattica, ma non sufficienti a formare il carattere del fanciullo. La ragione risiedeva nel
fatto che la maestra non poteva comportarsi analogamente alla mamma, ma doveva agire sulla
scorta delle conoscenze educative e culturali acquisite. Scriveva a questo proposito Bettini:
La scuola differisce dalla famiglia e la educatrice dalla mamma, per la maggiore consapevolezza che ha dei problemi,
per la critica che ha su di essi esercitata, per le finalità che esplicitamente e chiaramente si propone di raggiungere e
per l’adeguatezza dei mezzi di cui può e sa disporre e dispone al suo raggiungimento. Le qualità naturali ci vogliono e
più sono naturali o native (come dicono i francesi) o meno artificiose, e meglio servono allo scopo; ma non bastano.
Bisogna che la coscienza dell’educatore abbia sortito in sé, fino a farlo spontaneamente operativo, il piano, il
programma di tutta la sua attività educativa e ne abbia una consapevolezza chiara e precisa. Non prediche, non
morale appiccicata con lo spillo della untuosità beghinesca, vita.
In circostanze analoghe, alla Maltoni che in un articolo aveva citato un passo tratto da
uno scritto di Aristide Gabelli, Bettini scrive che, pur riconoscendo l’importanza del pensiero del
pedagogista positivista, che ebbe il merito di aggiornare l’insegnamento stantio che veniva
praticato al suo tempo, tuttavia le sue teorie non dovevano essere seguite pedissequamente per
527
528
BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 9 dicembre s.a., ma probabilmente 1935.
Ivi, Lettera di Bettini alla Maltoni, 28 novembre s.a.
184
evitare il rischio di incorrere nella svalutazione o addirittura nella negazione del valore della
cultura nella formazione del maestro elementare, in ossequio ad un empirismo assoluto 529.
Se con i primi articoli sulla rivista magistrale fiorentina la Maltoni si era cominciata a far
conoscere, saranno tuttavia gli scritti di Bettini a divulgare più approfonditamente
quell’esperienza al vasto pubblico rappresentato dai maestri. Si consideri che l’ispettore fu negli
anni Trenta assai impegnato nel versante della scoperta e dello studio di scuole rurali degne di
attenzione e di riflessione pedagogica, scovandone molte nella sua attività istituzionale che lo
portava a contatto con sperdute scuolette di campagna della Toscana e della Romagna. Frutto di
questo lavoro era stato la pubblicazione nel 1936 del volume Vita di scuole rurali, nel quale
venivano illustrate alcune esperienze didattiche di scuole rurali ormai celebri, come la
Montesca530, ma anche di altre fino ad allora sconosciute come quella di Metato di Camaiore, di
Sigliano, nell’Aretino, o di Pievina d’Asciano, nel Senese531.
Continuando a percorrere questo itinerario, Bettini utilizzò parzialmente per la prima
volta i diari dei bambini della scuola della Maltoni in alcuni articoli apparsi tra il 1937 e il 1939
nella rivista «Scuola italiana moderna» per poi giungere, nel febbraio 1940, a pubblicare una intera
monografia dedicata a San Gersolè per i tipi «La Scuola» di Brescia, di cui parleremo più avanti.
Nel 1937, intanto, la scuola di San Gersolè partecipò, inviando alcuni quaderni, alla
Mostra delle colonie estive e dell’assistenza all’infanzia, tenutasi a Roma e organizzata dal regime
per illustrare i risultati positivi prodotti dal governo fascista in campo scolastico e para-scolastico.
Non sappiamo se, convinto dagli articoli del 1937-’38 di Bettini, che utilizzavano in parte i
diari di San Gersolè o dall’aver visto in prima persona i quaderni inviati dalla Maltoni alla mostra
romana di quell’anno, ma di fatto anche Lombardo Radice, che forse in un primo momento non
aveva ben compreso la qualità e il valore dei risultati raggiunti dalla scuola toscana, dovette alla
fine apprezzare il lavoro della Maltoni, tanto che ella gli inviò del materiale per il costituendo
Museo Storico della Didattica che il pedagogista siciliano stava allora allestendo presso il
Magistero di Roma e per la cui realizzazione aveva richiesto a ispettori scolastici e maestri
529
«L’empirismo del Gabelli è stato utilissimo, come reazione all’insegnamento parolaio de’ suoi
tempi; ma non bisogna prenderlo alla lettera, per non rimanere all’empirismo grossolano e alla
negazione del valore della cultura. Cultura per ciò che si fa o che si deve fare, s’intende, non
estranea al proprio fare; non catalogazione di nozioni superficiali e non enciclopedismo, ma
cultura. Le darò un esempio: il De Sanctis non seppe fare né un romanzo, né una poesia: ma fu
un uomo inutile alle nostre lettere, o fu invece un maestro nel senso vero della parola? Con
l’applicazione integrale o anche superficiale della teoria del Gabelli sarebbe da condannare. Si
potrebbe condannare così: ma io cerco chi mi sappia fare poesie, non chi mi parli di poesia» (BCI,
AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, s.d).
530
Sulla scuola della Montesca e sull’influenza da essa esercitata sul pensiero di Giuseppe
Lombardo Radice cfr. Luca Montecchi, Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la
cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca, «History of
Education & Children’s Literature», IV, 2 (2009), pp. 307-337.
531
Vita di scuole rurali ebbe una buona accoglienza nel panorama pedagogico italiano, ottenendo le
lodi anche di Lombardo Radice che lo considerò un documento rivelatore di interessanti
«personali esperienze» didattiche, nonché una seconda ristampa nel 1941, dato l’esaurimento delle
copie. Si veda la minuta della lettera di Lombardo Radice a Bettini del 16 maggio 1936 conservata
in AGLRR, Richieste materiali, fasc. «Bettini Francesco»: «[…] Ho presente in modo particolare il
Suo bel volume “Vita di scuola rurale”, dal quale comprendo quanto e come interessante sia la
Sua raccolta personale in rapporto alle personali iniziative».
185
documenti della loro attività didattica. In tal senso nel marzo 1938 Lombardo Radice ringraziava
la maestra per aver ricevuto
la simpatica collezioncina delle cartoline illustrate dai bambini della Sua scuola. Non posso ringraziare
individualmente tutti i piccoli artisti che mi hanno offerto per Suo mezzo un saggio della loro bravura e della
gentilezza del loro animo. La prego di farlo in mia vece. Dica ai bambini che l’attenta considerazione della
meravigliosa varietà di forme e di vite del mondo naturale accresce in noi il sentimento della nostra pochezza e quello
della nostra devozione di fronte al creato532.
Dal canto suo la Maltoni rispondeva esprimendo la sua gratitudine per l’attenzione dimostrata
e auspicava che i risultati ottenuti potessero essere giudicati e valutati in modo più approfondito.
Scriveva la maestra a tal fine:
Io sono sempre profondamente grata a Lei da cui è venuta alla scuola la possibilità di questo fecondo lavoro.
Desidero dirLe che i Suoi libri mi hanno molto aiutata a comprendere ciò che la Riforma chiedeva e a sforzarmi di
attuarla. E siccome la via che Ella ci ha indicato non è in nessun modo formale e non si può dire mai di essere giunti,
io vorrei camminarvi sempre più e aver forze pari al compito che mi vedo davanti. In tutti questi anni mi pare, sia nel
disegno, sia nell’espressione scritta, di aver ottenuto risultati di schiettezza non facili da ottenere ma mi mancano
termini di paragone e non vorrei esagerarne a me stessa il valore. Non so, Illustre Professore, se Ella possa desiderare
altri lavori dei miei bambini, ma Le manderò volentieri tutto ciò che Ella vorrà chiedermi 533.
In realtà i contatti con Lombardo Radice non proseguirono nel tempo, ma questa volta la
ragione di questo fatto può essere facilmente ravvisabile nell’improvvisa morte che colpì il
pedagogista pochi mesi dopo, il 16 agosto 1938.
Al di là di questo fatto, il «lancio» della scuola-modello di San Gersolè andava a cadere in un
momento storico, quello compreso tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, in cui si
stava sviluppando un dibattito nel campo degli studi pedagogici, articolato, in specie, sulle pagine
delle riviste magistrali, che aveva per tema lo sviluppo in Italia delle nuove teorie dell’attivismo e
la questione del metodo didattico534. Si trattò di un problema sul quale si confrontarono e
scontrarono molti uomini di scuola, di orientamento e formazione differenti, divisi tra chi
sosteneva la necessità di un insegnamento privo di un metodo, visto negativamente come una
sorta di gabbia che avrebbe avvilito l’instaurazione di un rapporto diretto e di un’armonia tra il
maestro e il fanciullo, e chi, al contrario, affermava l’indispensabilità di un metodo didattico,
magari sottoposto a critica e rinnovato.
In questa polemica la Maltoni non esitò ad entrare, cominciando a dare mostra di quel suo
temperamento battagliero e non uso a facili compromessi, tanto nel difendere le proprie idee
pedagogiche che nel sostenere la sua prassi educativa, tratto che la distinguerà negli anni
successivi e che sarà motivo di scontri con i suoi superiori535. Il motivo venne offerto nel 1937 da
532
BCI, AMM, Cartolina di Lombardo Radice a Maria Maltoni, 16 marzo 1938.
MSD, AGRL, Carteggio Generale, Lettera di Maria Maltoni a Lombardo Radice, 18 marzo 1938.
534
Per un quadro d’insieme sulla diffusione dell’attivismo in Italia si rinvia a G. Chiosso, Novecento
pedagogico, Brescia, La Scuola, 1997, in particolare le pp. 107-117.
535
Non di rado la Maltoni nutrì diffidenza e ostilità verso alcuni direttori didattici e ispettori
scolastici che, a rotazione, diventavano i suoi superiori. Ad esempio, nel 1937 in occasione della
«Mostra delle Colonie Estive e dell’Assistenza all’infanzia» espresse il desiderio di inviare i
quaderni per mezzo del fidato ispettore Bettini, anziché attraverso il suo direttore scolastico. In
una lettera Bettini la consigliò di rispettare le gerarchie con queste parole: «Consegni pure al Suo
533
186
un articolo di Anna Alessandrini, nota insegnante specializzatasi nell’educazione dei bambini
handicappati nonché autrice di testi di argomento pedagogico, nel quale affermava, dopo aver
constatato «il rumore che si fa intorno alla Scuola attiva», la bontà del metodo consistente nel
«coordinare secondo determinati criteri, i mezzi adatti per conseguire un fine: è dunque un ordine
che si estende a tutte le forme di attività razionale», applicabile dunque anche all’educazione536.
Dal canto suo Bettini fu colpito negativamente dall’intervento dell’Alessandrini e in una
lettera alla Maltoni non le nascose i suoi sentimenti:
Ha letto l’articolo dell’Alessandrini? L’ha con l’Olivi di cui le manderò il libretto che – salvo il metodo – è
bellissimo537. E che dire che l’Al. l’accusa di non accettare i metodi degli altri! Perché la sostanza vera dell’articolo è
proprio questa. E si capisce: l’Al. è una delle tante che hanno creato i metodi. E guai a toccarglieli. Se avrò tempo
risponderò. Con garbo: perché è persona che lo merita proprio sul serio 538.
Come promesso l’ispettore intervenne sulle pagine della rivista fiorentina, seguito da
Margherita Fasolo e, quindi, dalla Maltoni. Quest’ultima sostenne di essere rimasta stupita da una
«educatrice seria e consapevole come la signora Alessandrini che parla che si possa pensare al
maestro della così detta scuola attiva, come a un neghittoso che incrocia le braccia e sta a vedere
indifferente quanto avviene intorno a lui»539. Al contrario l’insegnante della scuola attiva,
argomenta la Maltoni, è «vigile in ogni istante e attento al più lieve moto dello spirito dei suoi
alunni, deve studiare costantemente se stesso, la vita e i libri per sapere come rispondere al
bisogno intimo di ogni scolaro». A provare i risultati che una scuola del genere poteva produrre
ella riportava l’esempio dei «contadinelli goffi e impacciati [che] piano piano si sgelano e
diventano dei piccoli artisti».
L’Alessandrini dopo alcuni mesi volle tornare sull’argomento e nel liquidare velocemente le
osservazioni della Fasolo e della Maltoni, giudicata quest’ultima una lettrice poco attenta del suo
articolo, ribadì che solo «i metodi sorti su un fondamento sicuro possono muovere ad un’azione
proficua, non gli esercizi racimolati e organizzati con criteri personali, avulsi dall’idea pedagogica
che li aveva germogliati e nudriti»540. Sembra facile intuire che dietro queste parole vi fossero
quelle scuole che in nome dello spontaneismo o dell’attivismo e negando il valore assoluto di un
metodo, si stavano facendo conoscere in quegli anni, e tra queste figurava proprio San Gersolè.
La conferma la troviamo in un ulteriore articolo di Bettini che chiudeva la polemica. In esso
l’ispettore affermò di condividere le opinioni dell’Alessandrini solo se questa intendesse per
Direttore il materiale che ritiene di essere mostrato. A me ne mandi soltanto l’elenco. Gli lasci
questa soddisfazione: è un galantuomo e la merita» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 15
marzo 1937). La battagliera maestra pubblicò su «Scuola Italiana Moderna» un articolo in cui non
temendo ripercussioni affermava: «Il R. Direttore, che non so fino a qual punto mi sia amico,
(certo non più a me che agli altri insegnanti), venendo pochi giorni or sono a visitar la scuola,
mentre gli alunni di 3a scrivevano terminando il loro diario giornaliero […] restava ammirato
dell’ordine, della nitidezza dei loro scritti» (La parola alla collega, «Scuola italiana moderna», n. 18,
10 aprile 1941, p. 315).
536
A. Alessandrini, «Sì, sì, no, no!», «La nuova scuola italiana», n. 24, 7 marzo 1937, pp. 177-180.
537
Si trattava del libro appena pubblicato di Alberta Olivi, Ricordi di una scuola rurale. 1., Insegnamento
della scrittura e della ortografia, Brescia, La Scuola, 1937.
538
BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 15 marzo 1937.
539
M. Maltoni, Sì, sì, no, no, «La nuova scuola italiana», n. 26, 21 marzo 1937, pp. 198-199.
540
A. Alessandrini, Il problema del metodo didattico, «La nuova scuola italiana», n. 6, 14 novembre
1937, pp. 42-44.
187
metodo un «ordine stesso dello sviluppo», ovvero sia che «ci dovrebbero essere tanti metodi
quante sono le persone», secondo un’idea per cui non esistono metodi prefabbricati ma solo
metodi espressione diretta degli educatori che li creano e li attuano. In altre parole rientrava tra i
compiti del maestro quello di trovare la sua personale strada nell’insegnamento, attraverso
l’osservazione, lo studio e la meditazione. Scriveva a questo proposito:
non è meno sciocco colui che rinuncia al proprio sforzo, al proprio travaglio interiore, al proprio studio e alla
propria meditazione (onde si costituisce quel metodo personale e quella didattica originale di cui si è detto) per
abbracciare il metodo scoperto, inventato, costruito, concluso e brevettato da un altro, e ne ripete pedissequamente
gli amminicoli o ne usa meccanicamente gli strumenti coi quali esso si esteriorizza e si cristallizza 541.
In queste parole tornava un motivo caro alla pedagogia di Bettini e al suo
idealismo che lo avevano spinto a sostenere ed a difendere l’esperienza educativa
della Maltoni, una scuola che gli appariva originale poiché non seguiva un metodo
proprio ma si basava quasi esclusivamente sulla figura della maestra.
Coerentemente egli dichiarava di mostrare scarsa considerazione verso i
«fabbricatori» di metodi che imperarono allorché la vecchia pedagogia positivista
ebbe il sopravvento alla fine del secolo quando «la scienza parve il toccasana di ogni
male, nella scuola e nella vita, e si ebbero tanti metodi quante furono le materie che
si dovevano insegnare». La critica dell’ispettore non si esauriva qui ma investiva
anche l’affermato metodo Montessori che troppo si basava, a suo giudizio, su
quelle «scatole e paletti che essa aveva inventato, disposti in serie, brevettati e
affidati a un editore perché li vendesse con l’esclusiva e ad assai caro prezzo», vale a
dire sullo strumentario creato dalla Montessori che Bettini paragonava a «fabbriche
artificiali».
3.
Il mito della spontaneità: plausi e polemiche
Le polemiche e l’interesse destati da una scuola rurale che tendeva a presentarsi come scuolamodello e che dichiarava di ispirarsi al mito dello spontaneismo idealistico, negando l’adozione di
un metodo, continuarono a caratterizzare gli anni Quaranta. A non far calare l’attenzione su San
Gersolè fu la pubblicazione che Francesco Bettini riservò alla scuola toscana: si trattava di
un’intera monografia, fitta di 500 pagine, che raccoglieva un saggio sulla lingua dei bambini, il
diario dell’alunno Bruno Naldini, alcuni disegni nonché uno studio sull’arte di novellare dei
fanciulli che l’ispettore aveva già pubblicato nel Supplemento Pedagogico di «Scuola italiana
moderna» tra il 1937 e il 1938. Il volume intitolato La scuola di San Gersolè e pubblicato nel
febbraio 1940 dalla casa editrice «La Scuola» di Brescia, rilanciò il modello educativo sperimentato
dalla Maltoni, riscuotendo le lodi e gli apprezzamenti di numerosi uomini di scuola e di
541
F. Bettini, Il problema del metodo didattico, «La nuova scuola italiana», n. 9, 5 dicembre 1937, pp.
65-67.
188
pedagogisti come Mario Mazza, Maria Magnocavallo o di scrittori per l’infanzia come Gherardo
Ugolini. In particolare Mazza recensì positivamente su «I diritti della scuola» il nuovo libro di
Bettini mentre la Magnocavallo da quel momento instaurò un’amicizia e uno scambio di idee con
la Maltoni che tra il 1941 e il 1942 si sviluppò sulle pagine della didattica della rivista «Scuola
italiana moderna», nelle quali la storica collaboratrice del periodico bresciano ospitò a partire dal
gennaio ’41 numerosi brani tratti dai diari dei bambini di San Gersolè, stimolando i maestri lettori
ad intervenire per porre questioni e domande e offrendo alla Maltoni la possibilità di replicare.
L’attenzione mostrata dalla Magnocavallo verso le sperimentazioni didattiche di San Gersolè si
concentrò, in particolar modo, sul problema dei componimenti, che i fanciulli della scuola
toscana risolvevano in maniera esemplare nei diari che divennero, dopo la pubblicazione di quello
divenuto famoso di Bruno Naldini, assai ricercati e fonte di dibattito. La Magnocavallo
riconosceva alla Maltoni, come aveva fatto del resto Bettini, il merito di far «mantenere allo
scritto del ragazzo tutta la freschezza della spontaneità, ma guidarlo nello stesso tempo a usare il
vocabolo proprio e la forma corretta». L’altra nota di merito riconosciuta dalla Magnocavallo alla
maestra Maltoni era quella relativa all’insegnamento linguistico, che si fondava sul concetto della
«libertà, lasciata al fanciullo di scrivere con quel linguaggio che gli viene abitualmente alle labbra e
che risponde alla realtà da lui vissuta». Alle prevedibili obiezioni di chi avrebbe fatto notare l’uso
improprio del dialetto da parte dei bambini lasciati liberi di scrivere quello che essi volessero, la
Magnocavallo rispondeva che assai peggiore sarebbe stata «la immediata correzione che limita,
direi meglio, uccide ogni spontaneità di pensiero nella faticosa ricerca della forma e della parola» e
che l’acquisizione di forme grammaticalmente corrette e l’eliminazione di ogni espressione
dialettale sarebbe stato l’esito finale di un percorso di avviamento alla scrittura che poteva
principiare con i diari scritti in piena libertà, come faceva fare la Maltoni. In altre parole, il modo
di procedere della maestra toscana permetteva di fornire una risposta alla domanda lungamente
dibattuta nei libri di didattica sul problema del comporre e sulla presupposta necessità di «dover
insegnare a comporre». In realtà, rilevava Maria Magnocavallo, nessuno aveva insegnato a
comporre ai fanciulli di San Gersolè, ma essi «scrivevano come parlavano», vale a dire con piena
spontaneità e autonomia.
In modo analogo Gherardo Ugolini, maestro e soprattutto fortunato scrittore per l’infanzia,
apprezzava la qualità dei diari di San Gersolè che «sbalordiscono con la nitidezza del racconto –
ogni diario è un racconto di ciò che s’è visto e sentito – racconto che si apre e si chiude
perfetto»542. La ragione di ciò risiedeva nel fatto che la Maltoni aveva intuito la strada per liberare
la capacità espressiva dei ragazzi e ciò spiegava l’unicità dei suoi risultati:
Le maestre che non sono come Maria Maltoni non fanno quello che fa Maria Maltoni, anche a Siena, anche a
Firenze, non perché ella sia di molto migliore delle altre, ma perché ha capito quello che occorre per liberare la
capacità espressiva dei ragazzi. In molte altre scuole essi non sono che scolari. I loro saggi di lingua non sono che
saggi scolastici. Non c’è, in essi, la vita, tutta la vita. C’è soltanto la scuola, o, soprattutto, la scuola 543.
Se il tema rappresentato dalla ricerca della spontaneità e della libera espressione infantile
erano stati oggetto di molti apprezzamenti nel dibattito pedagogico, non bisogna, tuttavia,
pensare che essi non incontrassero dei critici commenti tra quegli educatori e uomini di scuola
542
G. Ugolini, Il segreto della scuola di San Gersolè, «Scuola italiana moderna», n. 1, 1 ottobre 1941,
pp. 8-9.
543
Ibid.
189
che intesero polemizzare contro la diffusione di quella «letteratura didattica» che indugiava,
secondo costoro in maniera esagerata, sul problema del componimento, finendo per dare vita a
raccolte di scritti di bambini di cui si voleva mettere in evidenza in modo artificioso la spontaneità
e l’originalità. Ad animare la polemica fu l’ispettore scolastico Edoardo Predome, di cui si
ricordano gli studi sul linguaggio grafico dei bambini a cui si era dedicato fin dai primi anni Venti.
Dopo aver più volte attaccato le teorie attivistiche dalle pagine de «I diritti della scuola», il
Predome in un polemico articolo dal titolo «Il didattismo» si scagliava contro quella che definiva
«letteratura didattica», vale a dire una «letteratura che si nutre di se medesima anche quando pare
che, frugando in mirabili scuole esemplari, trovi tante cose, non perché ci siano, ma perché per
amore della tesi, crede di avercele trovate»544. Non era difficile scorgere dietro tali parole un
attacco nei confronti di Bettini per l’opera di divulgazione delle esperienze scolastiche innovative
da lui attuata, e soprattutto verso la scuola di San Gersolè, che rappresentava l’esempio più
famoso di scuola-modello da lui fatta conoscere. A confermare che il bersaglio della polemica
fosse Bettini è un ulteriore passo dell’articolo di Predome:
Il didattismo combatte grandi battaglie sul problema del componimento. Il rumore che fin qui ha fatto sul
comporre antiretorico è già in processo di degenerazione. Attualmente è in pieno sviluppo, e presto avremo una
benefica crisi di disfacimento la tesi dello scrivere «spontaneo» e le dimostrazioni e le esemplificazioni delle
possibilità letterarie dei contadinelli hanno raggiunto una voluminosità preoccupante 545.
Pur non essendo stato chiamato in causa espressamente, tuttavia Bettini si sentì in dovere di
rispondere alle critiche di Predome per difendere la propria visione pedagogica e per confutare la
tesi secondo la quale si stava assistendo al tramonto della spontaneità nella scuola italiana. Per
farlo egli scelse le pagine della rivista «La pedagogia italiana» di Salvatore Talia dove pubblicò un
lungo articolo nel quale, dopo aver ricordato di «avere consumato un po’ del mio tempo a
combattere contro quel male vero che è la didattica rivistaiola e contro i metodi che le fanno
corona», affermava che dei due modi adottabili per l’avviamento dei bambini al comporre era
largamente preferibile quello praticato dalle maestre che «si contentano di vivere insieme coi
fanciulli affidati alle loro cure e che procurano o credono di migliorarli con l’esempio, abituandoli
a osservare e a riflettere», mentre era sconsigliabile quello che si basava sul «suggerire parole e
idee (e, in fondo, parole soltanto), a correggere ortograficamente quelle e a raddrizzare
sintatticamente queste», che costituiva il metodo più praticato dalla generalità dei maestri
italiani546. Dei due metodi, affermava l’ispettore, il primo era finalizzato a «educare», il secondo
solo ad «insegnare». Dopo questa precisazione, Bettini rigettava con vigore l’accusa di aver
trasformato la spontaneità in un «idolo o un feticcio davanti al quale siamo disposti a ogni
reverente e incondizionata rinuncia», secondo l’accusa mossagli, e aggiungeva ancora una volta
come i diari della scuola di San Gersolè potevano essere le prove che certificavano la bontà di un
insegnamento imperniato sul principio della spontaneità.
Il Predome non esitò a replicare all’intervento di Bettini e questa volta fu più esplicito nel
bocciare senza appello le raccolte di scritti spontanei dei bambini, definite spregiativamente
«cicalate», e delle quali i diari di San Gersolè costituivano gli esempi più noti:
544
E. Predome, Il didattismo, «I diritti della scuola», n. 16, 20 marzo 1941, pp. 243-244.
Ibid.
546
F. Bettini, Il disfacimento della spontaneità, «La pedagogia italiana», n. 3-4, marzo-aprile 1941, pp.
74-92.
545
190
Del Bettini (che, per la verità, è formidabile e forse inimitabile raccoglitore di gusto) ho letto anch’io e con
interesse, non soltanto le molte cose quasi vernacole di S. Gersolè ma anche quelle, raccolte in opuscoli, prese pari
pari dalle cicalate di altri contadinelli toscani. Tutte cose, come ora si dice, carine, […] ma che mettono di malumore
quando si pretende di esibirle come documento di un indirizzo didattico miracoloso e come dimostrazione di uno
specioso metodo di educazione linguistico547.
Con il suo giudizio tranciante Predome intendeva ridimensionare il valore di quelle raccolte di
scritti di bambini ispirati al principio della spontaneità che sempre più spesso in quegli anni
apparivano come uno dei frutti dell’applicazione delle moderne teorie attivistiche, poiché
sosteneva che altri aspetti dovessero essere presi in considerazione nella prassi educativa:
L’educazione linguistica – scriveva a questo proposito – non si esaurisce negli incoraggiamenti al cicalare, ma è
anche e, direi, soprattutto, ginnastica del pensiero, elevazione del sentimento che, naturalmente, sono cose che
giovano ai ragazzi conversanti con i loro maestri [….] La scuola quando è scuola, insegna a pensare e a più altamente
sentire548.
Quanto fatto con i racconti di San Gersolè, ma anche con i diari di bambini di altre scuole
rurali fatte conoscere da Bettini, come quelli della scuola di Metato o di Sigliano, agli occhi di
Predome appariva come il prodotto della degenerazione della didattica, che «non discussa e
soltanto declamata», diventava «didattismo».
La polemica non si arrestò alle prime battute e nelle settimane successive vide un nuovo botta
e risposta tra i due ispettori scolastici condotto sempre più sul terreno dello scontro tra fautori
dell’attivismo e detrattori di esso, tra chi elogiava la spontaneità infantile e chi denunciava «la
posizione esagerata, e quindi falsa, del così detto «attivismo» campato in aria o a-storico» che
tendeva a negare il metodo.
Non si deve tuttavia pensare che San Gersolè fosse l’unica scuola al centro della diatriba tra
sostenitori delle due parti, ma ci si confrontò anche su altre esperienze educative che in quegli
anni andavano svolgendosi in altri luoghi del Paese. Nelle stesse settimane, infatti, apparve
l’articolo sdegnato verso il Predome di un’altra maestra, Nerina Gaiba, insegnante nella scuola del
Gianicolo, a Roma, che poco tempo prima aveva illustrato quell’esperienza didattica da lei diretta,
insieme all’ispettore Giorgio Gabrielli, che si ispirava al concetto del «fare scuola senza metodo».
Anche su di lei si erano concentrate le ironie e la vena polemica del Predome e perciò la Gaiba
era intervenuta per spiegare, con argomentazioni peraltro analoghe a quelle della Maltoni, che
ella,
ha fatto così una scuola senza metodo, se per metodo vuole intendersi una costruzione teorica stabilita in
precedenza e buona per tutti i maestri, ma non ha eliminato il suo metodo, se per metodo intendiamo un
procedimento logico, coerente, che mira ad un fine preciso549.
547
E. Predome, Del didattismo. Finalmente si discute!, «I diritti della scuola», n. 25, 20 luglio 1941, p.
386.
548
Ibid.
549
R. Nerina Gaiba, Metodo e non metodo, «I diritti della scuola», n. 2, 16 ottobre 1941, p. 21.
191
4. San Gersolè: la costruzione del mito pedagogico
Nei primi anni Quaranta la scuola della maestra Maltoni cominciò a godere della notorietà
che poi la contraddistinse più ampiamente nel decennio successivo. I due libri di Bettini, la
collaborazione con «La nuova scuola italiana», e se vogliamo, anche le polemiche sull’attivismo e
lo spontaneismo, fecero sì che molti maestri cominciassero a familiarizzare con il nome di San
Gersolè. Anche sul fronte istituzionale la scuola toscana divenne abbastanza nota allorché essa fu
visitata da importanti ospiti, tra i quali, il Provveditore agli Studi di Firenze, seguito dal dirigente
del ministero dell’Educazione Nazionale Francesco Lepore e dal Provveditore e filosofo idealista
Carmelo Sgroi.
Testimonianza dell’interesse destato da San Gersolè nel mondo culturale italiano più sensibile
alle problematiche dell’educazione e della formazione può essere considerata la proposta che
Franco Antonicelli formulò alla Maltoni nel giugno 1939 di dedicare alla sua scuola un libro
pubblicando alcuni diari dei suoi bambini presso l’editore Einaudi di Torino. A fare da
intermediario tra i due era stato il professore Salomone Morpurgo, già direttore della Biblioteca
Nazionale di Firenze, che bene conosceva la Maltoni in quanto proprietario di una villa a Colle
Secco, non lontano da San Gersolè. Scriveva a questo proposito Antonicelli alla maestra:
del mio, del nostro progetto di un libro con i temi dei suoi alunni parlai con entusiasmo a molte persone e in
sede particolare con l’editore Einaudi, il quale seguì con viva simpatia la mia proposta […] Occorre naturalmente che
io abbia a disposizione quanti quaderni le è possibile mandarmi raccomandati550.
La Maltoni dovette essere entusiasta di tale proposta se non esitò a fornire ad Antonicelli
alcuni quaderni dei bambini, salvo poi doversi ritirare dal progetto dopo che sorsero delle
incomprensioni e dei dissapori con l’ispettore Bettini, il quale stava lavorando proprio in quei
frangenti alla stesura del suo libro, La Scuola di San Gersolè, che apparirà nel 1940. Se è vero che il
progetto editoriale si arenò, tuttavia la maestra fu in un primo momento attratta dall’idea di una
pubblicazione di così alto livello tanto che decise di incontrare il professore torinese. L’incontro
con Antonicelli, avvenne nella villa dei Morpurgo il 4 luglio 1939 ed ebbe per oggetto la proposta
di un libro che si presentasse, secondo quanto riferirà la maestra a Bettini, come «una curiosità
letteraria», vale a dire «una specie di antologia che mostrasse come il popolo toscano sa scrivere
naturalmente». Esso non avrebbe ospitato i disegni dei bambini né avuto finalità pedagogiche;
tuttavia si sarebbe presentato, secondo le intenzioni di Antonicelli e dell’editore, come un
omaggio «dedicato alla memoria di L. Radice», morto solo un anno prima. Pur di non veder
svanita la possibilità di una pubblicazione così prestigiosa e allo stesso tempo di non tradire la
lealtà che la legava a Bettini, la Maltoni avanzò ad Antonicelli due condizioni: che fosse trascorso
almeno un anno tra la pubblicazione di Bettini e quella per l’Einaudi e che non recasse nel titolo il
nome della scuola di San Gersolè. Evidentemente non potendo accettare queste due condizioni, il
progetto del volume edito da Einaudi, almeno per il momento, si arenò.
Nel frattempo l’opera di propaganda pedagogica attuata dalla maestra non cessava. Dopo la
chiusura della rivista «La nuova scuola italiana» nel 1938, tra il 1940 e il 1941 ella pubblicò articoli
in «La Pedagogia italiana» di Salvatore Talia e nella già ricordata «Scuola Italiana Moderna» dove
la Magnocavallo le garantiva spazio nella rubrica della didattica.
550
BCI, AMM, Lettera di Antonicelli alla Maltoni, 18 giugno 1939.
192
Se per ancora alcuni anni la maestra fece continuare a parlare di sé e della sua scuola con
alcuni articoli, è solamente nell’immediato secondo dopoguerra che si chiarificava in ella l’idea di
promuovere un articolato progetto pedagogico che fosse saldamente legato al nome di San
Gersolè. Si trattava di una suggestione e di un’ambizione che traevano origine dall’esempio di
quanto nella vicina Firenze stava accadendo con Scuola-Città Pestalozzi, l’innovativa esperienza
educativa sorta nel 1945 per iniziativa dei coniugi Codignola e ispirata alle teorie pedagogiche
dell’americano John Dewey.
Dopo una breve collaborazione tra il 1945 e il 1947 durante il quale la Maltoni si lasciò
coinvolgere in quella esperienza, divenendo la scuola San Gersolè uno dei tre satelliti di ScuolaCittà insieme a quella di Scandicci e al villaggio artigiano di Signa, ella se ne distanziò apertamente
compromettendo anche i rapporti di amicizia e di stima con Ernesto Codignola dopo che questi
le manifestò la sua contrarietà verso l’eccessiva autonomia con la quale la maestra operava e
gestiva i rapporti di San Gersolè con l’esterno. A ciò si aggiungevano problemi di natura
metodologica, in quanto la Maltoni non condivideva la prassi educativa seguita a Scuola-Città,
così lontana dal suo metodo basato sull’osservazione individuale. Scriveva a questo proposito la
Maltoni a Bettini, anche egli critico dell’esperienza di Scuola-Città Pestalozzi551:
Io sapevo di aver ragione perché i miei fedeli amici Pestalozzi e Lambruschini seriamente consultati non nei
metodi, ma nello spirito mi davano ragione, ma il sentirmelo dire da lei, dopo serena costatazione, mi fa vivo piacere.
Lo spirito dei fanciulli non venga mai concentrato e raccolto seriamente su un soggetto qualsiasi ma sempre distratto,
frazionato e tenuto in uno stato di continua eccitazione che non permette di costruire nulla di stabile e di positivo
[…] Non c’è unità, non c’è direttiva, non c’è intendimento di ciò che voglia essere e sia formazione spirituale 552.
In cosa consistesse il progetto elaborato dalla Maltoni è ella stesso ad illustrarlo all’amico
Bettini, al quale chiese di diventarne la «guida spirituale»:
Se Ella volesse aiutarci, noi tre insegnanti 553 intendiamo di iniziare ora qui un lavoro più vasto, senza danari e
senza rumore di reclame, e cioè questo: le lezioni della mattina dovrebbero restare quello che sono perché non si può
dare meno di tre ore all’importante preparazione culturale intesa nel primitivo significato della parola, cioè lavoro che
coltiva lo spirito e lo aiuta a crescere e a fiorire. La sera vorrei che si iniziasse un lavoro più leggero, quasi direi
ricreativo […] vale a dire di materie che sollevano lo spirito e soffiandovi dentro un alito di aria pura lo detergono e
lo rendono atto a nuove creazioni-canto-ginnastica-recitazione-lettura amena-lavoro manuale. Io chiedo a Lei di
essere il padre spirituale di questo nostro piccolo gruppo 554.
All’origine di questo progetto che la Maltoni comunicò a Bettini nel novembre 1945 vi erano
anche dissapori personali e gelosie maturate tra la maestra e le colleghe di Scuola-Città Pestalozzi
551
Si veda a questo proposito Santoni Rugiu, cit., p. 907-910.
BCI, AMM, Minuta di lettera di Maltoni a Bettini, 4 novembre 1945.
553
Nel dopoguerra nella scuola di San Gersolè si affiancarono altre due insegnanti alla Maltoni. In
una lettera del 1946 a Codignola, per esempio, la maestra indicava i nomi di due colleghe che
proponeva come sue collaboratrici. «Illustre Professore, nella Scuola di San Gersolè, per l’anno
scolastico venturo io chiamerei come insegnanti: 1. La maestra Adriana Parlini, 2. La maestra
Fiaschi Luigina in sostituzione della Maestra Lucia Fornararo […]» (AEC, Corrispondenza, Lettera
della Maltoni ad Ernesto Codignola, 9 settembre 1946).
554
BCI, AMM, Minuta di lettera di Maltoni a Bettini, 4 novembre 1945.
552
193
sull’efficacia e sulla bontà dell’indirizzo educativo da seguire, che faranno più volte dire alla
Maltoni di essere perseguitata e ostacolata555. Nella stessa lettera ella scrisse:
Alla scuola di San Gersolè si fa grande guerra, tanto più pericolosa in quanto subdola. Alle vecchie calunnie
forse di nuove se ne sono aggiunte e io le sento rumoreggiare senza conoscerle intorno a me e la schiera dei
denigratori è ingrossata e forse ingrosserà ancora, non me ne turbo perché non lavoro per vantaggi personali e ciò mi
rende forte e sicura556.
Appariva chiaro alla Maltoni che oramai, dopo anni di fatiche spesso disconosciute o perfino
contrastate sul piano pedagogico e per altri versi anche su quello politico, come vedremo più
avanti, diventava un’esigenza primaria quella di difendere e divulgare ancora più di quanto non
fosse stato fatto in precedenza il nome di San Gersolè e il suo personale. Non nascose i suoi
sentimenti nella sopracitata lettera a Bettini:
Facendo ella i libri di testo o pubblicando comunque lavori nostri faccia resultare che sono della scuola di San
Gersolè e dove possibile voglia associarmi al Suo nome quale collaboratrice. È necessario per me e forse anche per
Lei poiché, che la lotta contro San Gersolè si spunti e fallisca, interessa al vivo anche Lei ormai557.
Si tratta di un punto di svolta particolarmente significativo ai fini del nostro discorso che ha
per obiettivo quello di comprendere le modalità attraverso le quali avvenne la costruzione del
mito pedagogico della scuola toscana. Se fino ad allora la Maltoni non aveva mancato di cercare
gli spazi necessari per far conoscere e apprezzare i risultati conseguiti nella propria opera di
educatrice, ora intendeva quasi voler ella stessa aprirsi una strada nel mondo pedagogico italiano e
presentare la sua scuola come una scuola-modello, degna di reggere il confronto con le scuole
nuove che stavano spuntando un po’ ovunque nel dopoguerra, a cominciare da Scuola-Città
Pestalozzi, di cui nonostante tutto San Gersolè faceva parte. Fu proprio in virtù della concessione
da parte del ministero della Pubblica Istruzione del titolo di «Scuola di differenziazione didattica»
a Scuola-Città che anche la scuola della Maltoni poté dal 1946 godere di maggiori spazi di
autonomia gestionale e didattica558.
Tuttavia durante questa esperienza la Maltoni non celò le sue perplessità verso l’indirizzo
pedagogico seguito da Ernesto Codignola e dalla moglie Anna Maria a Scuola-Città, in
particolare per lo scarso valore che essi conferivano allo studio individuale e per l’introduzione
dall’estero di pratiche didattiche, come le elezioni e il tribunale dei bambini, che se dovevano far
crescere uno spirito democratico nei fanciulli nelle intenzioni dei loro sostenitori erano però
ritenute sostanzialmente inutili dalla maestra di San Gersolè. Pur facendo parte della rete di
555
Riferisce di questi fatti anche Santoni Rugiu, Tre esperienze pedagogiche, cit., p. 910.
Ibid.
557
Ibid.
558
Si veda la lettera di Bettini del settembre 1946 in cui riconosceva alla Maltoni, dato lo status
giuridico acquisito dalla scuola di San Gersolè, il diritto di poter indicare le colleghe che
l’avrebbero affiancata. Scriveva Bettini: «Data la condizione della sua scuola, ritengo che la
chiamata delle maestre spetti a Lei. Per atto di cortesia dovrebbe darne comunicazione al Prof.
Codignola, chiedendo il suo benestare, e a me, che provvederò a informare la Direzione didattica
(se provvede al pagamento degli stipendi) e il Provveditorato (se non lo farà il Prof. Codignola
stesso). La signorina che mi ha mandato mi ha fatto una buona impressione: semplice, modesta,
intelligente. Credo che, guidata da Lei, potrà diventare un’ottima maestra. Se a Lei garba, la
chiami» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 6 settembre 1946).
556
194
Scuola-Città, la Maltoni non prese parte in modo entusiastico alla vita dell’esperienza fondata da
Codignola, preferendo muoversi piuttosto in modo solitario, limitandosi a svolgere a Firenze
alcune conferenze ai maestri e, sostanzialmente, dubitando della buona fede di alcune colleghe e
dei Codignola giudicati invidiose dei risultati ottenuti a San Gersolè. Nel corso del 1947 i
rapporti con i fondatori di Scuola-Città andarono degradando ancora di più. Nel marzo di
quell’anno Ernesto stigmatizzò il comportamento della Maltoni a proposito dell’esonero di una
maestra a lei sottoposta e lamentò il fatto che alcuni disegni della scuola di San Gersolè erano
stati dalla Maltoni spediti ad una mostra autonomamente, senza passare attraverso il canale di
Scuola-Città559. Era il segno che la collaborazione tra le due esperienze scolastiche stava finendo e
che i rapporti erano ormai compromessi. Scriveva indignata la Maltoni a Bettini:
Io non ho conto fino ad ora alcun segno di collaborazione da Scuola-Città se non richieste di dare e tentativi di
prendere. Non posso lasciarmi carpire il frutto del mio lavoro nel modo che la Signora Codignola intenderebbe. In
ultimo c’è l’accenno alla minaccia di farmi perdere l’autonomia. Credo che la scuola nelle mani della signora
Codignola sarebbe molto meno autonoma di quello che siano le scuole alle dipendenze dello Stato. Il Provveditore
mi disse partendo: Ella non ha altri superiori che me e il suo Ispettore che le vuol bene 560.
Ad evidenziare la distanza esistente tra le due esperienze pedagogiche toscane fu il congresso
per la «Settimana internazionale di studio per l’infanzia vittima della guerra» che si tenne pochi
giorni dopo a Rimini, nel maggio 1947. Durante i lavori Anna Maria Codignola presentò un
intervento assai polemico verso una classe magistrale pigra e non incline ad accettare gli stimoli e
le novità didattiche provenienti dall’estero. Secondo la ricostruzione fatta dalla Maltoni
l’intervento della moglie di Codignola fu veemente contro le manchevolezze dei maestri italiani,
che definì addirittura «ignoranti, scimmie, presuntuosi» e creò un forte imbarazzo nell’uditorio
composto da insegnanti e ispettori scolastici. Poco dopo seguì l’intervento della Maltoni che
espose le Linee di programma secondo la scuola di San Gersolè, presentando la sua esperienza come un
modello sostanzialmente alternativo a quello di Scuola-Città e in ragione di ciò i convegnisti si
divisero in due gruppi, uno sostenitore dell’esperienza dei Codignola ed uno della scuola di San
Gersolè. Raccontava la Maltoni:
Fu dietro questo infelicissimo discorso che l’assemblea si divise. Erano presenti molti vecchi maestri, alcuni
vecchi Ispettori, che pur fosse stato vero quanto la Signora Codignola affermava, e non era vero, era delicatezza
trattare con rispetto […] Da quel punto la Signora Codignola fu per i più liquidata: solo gli stranieri, qualche giovane
e un Direttore vennero a darle la mano perché aveva detto giusto.
Volendo sintetizzare quanto successo a Rimini, la Maltoni scriveva, ostentando una raggiunta
considerazione di sé, che il modello di San Gersolè era quello che aveva riscosso maggiore
simpatia e interesse durante i giorni del convegno riminese. Infatti «tutta la scuola seria, anche
barbosa, anche pedante, anche burocratica se vuole, ma che ha l’intuito e sa subito distinguere ciò
che è buono da ciò che è cattivo, ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è genuino da ciò che
559
Scrisse Codignola: «Essi avrebbero dovuto recare per es.: oltre l’indicazione della scuola di S.
Gersolè, anche l’indicazione di Scuola-Città, di cui S. Gersolè fa parte. La collaborazione deve
essere piena e non limitata a pochi atti sporadici, altrimenti non avremo nessun diritto, al
momento opportuno, di chiedere che il regime di Scuola-Città sia esteso anche ad altre scuole»
(BCI, AMM, Lettera di Codignola alla Maltoni, 18 marzo 1947).
560
BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Bettini, 29 marzo 1947.
195
non lo è, […] è decisamente contro Scuola-Città, e, strano, in queste riunioni per opposizioni ad
essa si è raggruppato intorno a S. Gersolè».
Se tale interpretazione poteva essere nella realtà esagerata, tuttavia il convegno di Rimini
permise alla Maltoni di instaurare contatti con alcuni ispettori della Romagna interessati a
conoscere le tecniche adottate nel suo insegnamento. In tal senso la maestra fu invitata nel luglio
’47 a Ravenna dall’ispettore Foggi per illustrare ai colleghi gli orientamenti educativi seguiti a San
Gersolè; inoltre, prese contatti con l’ispettore Luigi Arnaud, già funzionario dell’Ente di Cultura
di Ernesto Codignola negli anni Trenta, e cercò di creare una rete di collaborazione con alcuni di
essi al fine di diffondere, pur nella ristrettezza dei mezzi a sua disposizione, l’indirizzo educativo
di San Gersolè. Ad una maestra nonché sua ex compagna al tempo della Scuola Normale, rivista
al convegno di Rimini la Maltoni scrisse:
Vidi mercoledì mattina il tuo ispettore; parlammo a lungo e in modo interessante; potrò influire attraverso lui e i
suoi direttori sulle vostre scuole e lo farò cercando di raccogliere tutte le forze della mia esperienza. Una cosa è
significativa e mi dà coraggio, nel timore che spesso mi prende (quando vedo il rumore che si fa intorno a ScuolaCittà di cui conosco gli errori) che si porti la scuola a smarrirsi[…] Essi istintivamente hanno intuito che fra le due
scuole, Scuola-Città e la scuola di San Gersolè, pur legate da uno scopo unico, una è l’opposto dell’altra, una ucciderà
forse l’altra e hanno scelto la scuola di San Gersolè561.
Intanto anche sul fronte editoriale la Maltoni non aveva smesso di lavorare di buona lena. Nel
1945 ella aveva stilato la bozza di un sillabario da stamparsi per l’editore «La nuova Italia» di
Firenze ma, dopo essere stato sottoposto al vaglio della Commissione Centrale per i libri di testo
e rilevate alcune modifiche da apportare, il progetto si era arenato. Con lo stesso editore la
Maltoni aveva nello stesso periodo progettato anche la realizzazione di «volumi di lettura amena
scritti e illustrati direttamente dai bambini». L’editore Tristano Codignola, pur dicendosi «incerto
circa l’effettiva possibilità di diffusione commerciale di opere di questo genere» aveva invitato la
maestra a stendere le bozze di questo lavoro in attesa di ulteriori valutazioni. Non conosciamo la
ragione del mancato sviluppo del progetto editoriale con «La Nuova Italia», su cui forse fu
determinante l’avvenuta rottura dei rapporti con Ernesto Codignola, fatto sta che la Maltoni non
si rassegnò e dopo quattro anni, nel 1949, pubblicherà con la casa editrice «Il Libro» di Firenze il
suo primo lavoro, I diari di San Gersolè. Decisiva era stata la mostra con i disegni dei suoi bambini
tenutasi nell’autunno 1948 alla Galleria «Vigna Nuova» di Firenze che le permise di conoscere
Sergio Santi, proprietario della casa editrice «Il Libro», con cui nacquero ambiziosi progetti.
Ricordava la Maltoni:
Mi parlò di fare delle pubblicazioni; io aderii con entusiasmo, gli feci tutto un piano di lavoro ed egli pose mano
all’opera. Il libro dei diari non è che il primo volume di tutto quello che abbiamo stabilito e che è già in preparazione.
L’Editore che doveva impiegare parecchi milioni in quest’opera immaginando che altri editori mi sarebbero venuti a
fare altre proposte mi chiese una garanzia, e ne aveva il diritto, e io gli firmai un impegno in cui mi legavo a non dare
materiale da me ottenuto a nessuno e per nessuna ragione.
A quella data la Maltoni ormai ostentava sicurezza nel trattare con gli editori, nel collaborare
con gallerie d’arte per allestire quelle che saranno le numerose mostre dei disegni dei suoi
bambini, di intervenire anche con piglio polemico per difendere la sua scuola. E con un certo
orgoglio rispose a Bettini il quale dovette rimanere colpito dall’intraprendenza raggiunta dalla
561
BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni ad Anita (senza cognome), 16 maggio 1947.
196
Maltoni che da sola era riuscita a pubblicare un libro e che ora negava al suo amico ispettore di
consegnargli altro materiale su San Gersolè, che egli aveva richiesto perché intenzionato a
scrivere ancora sulla scuola toscana. Né la Maltoni si fermò qui. Tra il 1949 e il ’50 lavorò alla
stesura, insieme all’ispettore scolastico di Firenze, Achille Guerra, di due libri di letture per la
quarta e quinta classe, intitolati Vita. I due libri venivano editi nel 1950 da Marzocco-Bemporad e
contenevano alcuni brani tratti dai diari dei suoi alunni, nonché alcuni disegni.
L’accoglienza de I diari di San Gersolè, accompagnata da una lunga serie di mostre di disegni a
Pisa, Torino, Milano, Genova, fu piuttosto favorevole e incontrò giudizi positivi in Ada
Marchesini Gobetti, in Emilio Cecchi, in Franco Antonicelli, in Giorgio Gricolli, direttore della
rivista per giovani «Junior», destando interesse perfino all’estero562. Lo stesso Bettini, che pur
dispiaciuto dal diniego oppostogli alla sua richiesta di altro materiale di San Gersolè, scrisse una
buona recensione del libro per «Scuola italiana moderna».
L’unica voce fuori dal coro fu quella, peraltro nota, di Edoardo Predome, l’ispettore
scolastico che aveva già stroncato nel 1940 il volume del Bettini sulla scuola della Maltoni. Con
argomentazioni non dissimili da quelle usate allora, Predome affermò su «I diritti della scuola»
che «la Maltoni forse non sa che dal 1924 in poi in molte scuole, anche cittadine, è venuto
generalizzandosi l’uso del disegno come potente mezzo di ricognizione della vita circostante,
come ginnastica dell’attenzione, come approfondimento del conoscere»563. Pur riconoscendo la
qualità dei disegni, egli accusò la Maltoni di voler ricercare glorie personali nella sua attività
didattica e di aver fondato, in buona sostanza, un metodo personale che ora ella intendeva
propagandare ai maestri. Scriveva a tal proposito:
Quello che ci persuade meno, delle cose di San Gersolè, è la condanna senz’appello delle comuni scuole, e i libri
che vi si usano, secondo la Maltoni, non insegnano altro che banalità. Ora, francamente, tutti coloro che inventano o
scoprono un metodo peccano quasi sempre di un tantino di esclusivismo, ed è ciò che sciupa le loro scoperte […] Sì,
va bene, il disegno e i racconti briosamente vernacoli sono indicazioni preziose, ma non occorre dire che le comuni
scuole (ossia le centocinquantamila scuole italiane) perdono il tempo insegnando soltanto…banalità, solo perché
sono ancora fuori della regola di S. Gersolè564.
La Maltoni non intese scendere in polemica con il Predome perché giudicò che fosse mosso
dalla «malafede»565 e, orgogliosa dei giudizi positivi ottenuti, scrisse ad un suo corrispondente:
Del resto è l’unica voce discorde, e quando una persona come Emilio Cecchi si è degnato di chiedere il libro da
recensire e ha qualificati brani da antologia, tutti gli scritti che vi sono raccolti, che vuole che io prenda in
considerazione la piccola voce di Edoardo Predome? Creda a me, il silenzio è quello che gli conviene; l’eco di
quell’abbaiata si spengerà prima566.
562
L’editore Santi le comunicava di aver ricevuto dalla casa editrice americana «La Roy Publisher»
la richiesta di una copia del volume ipotizzando un’edizione in inglese adattata specificatamente
per gli Stati Uniti. BCI, AMM, Lettera di Santi alla Maltoni, 5 aprile 1949. Pochi mesi dopo venne
pubblicato nella rivista «The Times Educational Supplement» del 24 marzo 1950 l’articolo dal
titolo Experiment in Tuscany in cui si illustrava la scuola della Maltoni.
563
E. Predome, Commento a San Gersolè, «I diritti della scuola», n. 14, 2 maggio 1950, pp. 292-293.
564
Ibid.
565
BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a non meglio precisato destinatario.
566
Ibid.
197
Sebbene la Maltoni non avesse mai voluto fondare un metodo e, anzi, avesse aspramente
criticato i metodi sia pubblicamente, sia nelle sue lettere con Bettini, affermando che il cuore
dell’azione educativa risiedeva nel rapporto tra l’insegnante e le anime dei bambini, tuttavia era
chiaro che lei intendeva difendere il suo sistema d’insegnamento e divulgarlo. Non a caso si
veniva creando nei primi anni Cinquanta un piccolo seguito di ammiratori della Maltoni formato
da maestri ed ispettori, che pur non presentando le caratteristiche che contraddistingueranno gli
altri movimenti impegnati nel rinnovamento scolastico sorti in Italia in quel periodo, né potendo
disporre di riviste e giornali propri, tuttavia si mantenne in contatto attraverso continui scambi
epistolari con la maestra toscana. Il direttore didattico del secondo circolo di Imola, Lodovico
Guerrini, per esempio, dopo aver letto I Diari e «la Sua prefazione, che vale un trattato di
didattica», decise di consigliare ai suoi maestri di leggere quel libro perché «li usassero come validi
mezzi d’inspirazioni didattiche» e alla fine dell’anno poté giudicare positivamente i risultati
ottenuti. Poco dopo lo stesso Guerrini riconosceva il merito alla Maltoni di aver risolto:
L’arduo problema del conflitto tra libertà e autorità che esiste nelle scuole fra alunni e maestri […] vedo bambini
vivi a S. Gersolè e bambini ammaestrati a Scuola-Città; maggior autogoverno, senza «sindaco» e «assessori» nella
scoletta di campagna, retta da una Maestra, che nell’artificiosa organizzazione di Firenze, ideata dal pedagogista 567.
La Maltoni non cessò, peraltro, di difendere il suo metodo d’insegnamento di fronte al
nascente successo che stava riscuotendo l’applicazione in Italia delle tecniche Freinet, introdotte
negli anni Cinquanta dalla Francia, in specie, da giovani insegnanti che avevano dato vita al
Movimento di cooperazione educativa e che si basavano sulle innovazioni didattiche concepite da
Célestin Freinet568. Agli occhi della Maltoni quelle tecniche apparivano inutili e frutto del
desiderio di voler a tutti i costi cercare del nuovo nel campo della didattica, mentre per ella la sua
scuola, sia pure tacciata di «tradizionalismo», sembrava migliore in quanto prodotto di una
continua analisi condotta dalla maestra intorno alla propria azione pedagogica.
Non dissimili erano le valutazioni espresse alla Maltoni dal «lombardiano» Bettini che
giudicava «il metodo Freinet uno dei tanti espedientacci che servono a far perdere un po’ di
tempo ai maestri. Se si tratta di lavoro, io preferisco quello della terra, o del legno e del ferro»569.
Della combattività della maestra è testimonianza la polemica che ella generò con i seguaci italiani
del metodo Freinet, allorché nel 1957 decise di inviare una lettera al Movimento nella quale
indicava quelli che a suo modo di vedere erano gli errori di fondo del loro metodo. Nella lettera,
che fu pubblicata nel loro bollettino, scriveva la Maltoni:
mi sono accorta che abbiamo gli stessi fini, non usando forse gli stessi mezzi e qualche volta anzi, andandovi con
mezzi opposti. Ad esempio io credo soprattutto, nella concentrazione dell’alunno in se stesso, per meglio esaminarsi,
per meglio esaminare gli ambienti e le cose, quindi nel lavoro compiuto in un sempre maggior ordine, in un sempre
più raccolto silenzio.
Se bene esaminiamo, la differenza fra i lavori che noi otteniamo mi dà ragione, io sento cioè, leggendo quello che i
miei ragazzi mi esprimono di sé, un più virile accento, una maggior penetrazione di osservazione e di riflessione, una
più minuta ed efficace espressione, che, intendiamoci, non ha valore che per la progressiva misura dell’uomo futuro
che si va formando570.
567
BCI, AMM, Lettera di Guerrini alla Maltoni, 4 ottobre 1950.
Sul Movimento di Cooperazione Educativa in Italia si rinvia a E. Catarsi, Fréinet e la “pedagogia
popolare” in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1999.
569
BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 6 dicembre 1956.
570
Problemi e discussioni. Una lettera al MCE, «Cooperazione educativa», n. 3, 1957, p. 4.
568
198
Uno scambio vivace di opinioni seguì sulle pagine del bollettino e in una risposta alla Maltoni
i seguaci di MCE respinsero la critica di non comprendere a fondo l’animo dei ragazzi con queste
parole:
Ma come potremmo noi del MCE avere comune con lei il fine altissimo di educare nel fanciullo l’uomo, nel senso nobile
della parola, se non possedessimo che i frammenti superficiali dell’animo dei nostri ragazzi? Sarebbe ben misera cosa
l’opera nostra se ci restassero ignote le vie che conducono là dove si annida il nostro io più profondo! La socialità,
così come noi l’intendiamo non ostacola di certo il muto ed eterno dialogo fra anima in boccio ed anima matura, noi
amiamo però ritrovare subito le diverse voci armoniosamente accordate, in un coro che le renda individualmente
arricchite dal contributo comune.
Si coglie nelle parole della Maltoni, a cui fanno eco quelle di Bettini, l’impressione che l’idea di
scuola da essi stessi concepita e difesa per tanti anni di dure battaglie cominciasse ad apparire nel
corso degli anni Cinquanta «tradizionale» nel confronto con le nuove esperienze di rinnovamento
didattico che stavano sviluppandosi; eppure la maestra di San Gersolè continuò a sostenere la
bontà e l’efficacia delle sue linee educative, convinta in ciò dai risultati ottenuti e riconosciuti
anche dall’interesse dell’editoria571. Proprio nei primi anni Cinquanta giungeva, a questo
proposito, come ulteriore riconoscimento la proposta dell’Einaudi di tornare a stabilire una
collaborazione, dopo l’arenato progetto del 1939 di Antonicelli. I contatti con l’editore torinese
furono ripresi nel 1952 per mezzo della mediazione di Aldo Andreotti, amico della maestra
toscana572. Nell’ottobre di quell’anno Andreotti informava la Maltoni che l’editore torinese era
«dispostissimo a fare una nuova edizione rinnovata nei disegni e nei diari usando del materiale»
nuovo e le consigliava di prendere contatti con il suo ex compagno alla Scuola Normale di Pisa,
Giulio Bollati, impiegato alla Einaudi573. In realtà, come è noto, occorrerà attendere il 1959 perché
il libro a lungo caldeggiato potesse essere pubblicato con il titolo I quaderni di San Gersolè, dopo un
lungo lavoro di revisione del materiale condotto dalla Maltoni e da Gigliola Venturi, con la
prefazione di Italo Calvino574. Nel 1963 sarà la volta de Il libro della natura, edito sempre da
571
Luciana Bellatalla ha sostenuto, a questo proposito, che «con una posizione di rottura con
l’MCE e l’attivismo, nel 1957, l’esperienza straordinaria e solitaria della Maltoni finisce per isolarsi
ancora di più. Ciò non significa che le scelte del Movimento di cooperazione educativa o di
Scuola-città Pestalozzi siano, in linea di principio, più valide rispetto a quelle della Maltoni. La
maestra di San Gersolè ed i maestri cosiddetti “popolari” rappresentano momenti storici ed
ambientali diversi […]. La Maltoni è, per così dire, la maestra “idealista” del mondo rurale […] Il
Movimento di cooperazione educativa è invece figlio del Pragmatismo pedagogico, si lega
maggiormente alla realtà cittadina» (L. Bellatalla, Riviste, centri culturali, editoria e scuole-pilota, in La
Toscana e l’educazione dal Settecento a oggi, cit., p. 459).
572
Da una lettera della Maltoni del maggio 1953 si apprende che già da tempo l’editore Sergio
Santi aveva cessato la sua attività. Per tale ragione la maestra dichiarava nella stessa missiva di
ritenersi «sciolta da ogni preventivo impegno di pubblicazioni» e di apprestarsi a collaborare con
Einaudi (BCI, AMM, Lettera della Maltoni a Santi, 14 maggio 1953).
573
BCI, AMM, Lettera di Andreotti alla Maltoni, 31 ottobre 1952. Allo stesso modo il
direttore didattico di Sant’Arcangelo di Romagna, Paolo Api Frisoni, e il maestro Elio Scala di
Arezzo si mantennero in contatto con la Maltoni, di cui apprezzavano l’indirizzo pedagogico.
574
Il progetto per la pubblicazione del volume presso Einaudi andò a rilento anche a motivo dei
timori della casa editrice intervenuti a seguito del cambiamento dell’assetto societario, come lascia
capire chiaramente una lettera inviata dalla Maltoni ad Emilio Cecchi del 1955 nella quale ella
offrì allo studioso la possibilità di scrivere la presentazione al libro in modo da velocizzare il
199
Einaudi, con la collaborazione della Venturi, seguito da Esperienza ed espressione a San Gersolè,
pubblicato da «La Scuola» di Brescia nel 1964, anno della sua morte.
Se sul fronte editoriale il percorso compiuto dalla maestra di Dovadola si era concluso con i
prestigiosi riconoscimenti tributati da due tra le più importanti case editrici italiane, tuttavia
l’energica Maltoni negli ultimi anni della sua vita non aveva lesinato fatiche per «salvare» la sua
scuola, una volta che ella avesse raggiunto l’età per il pensionamento. Nel timore che
quell’avvenimento avrebbe compromesso definitivamente la sua scuola, qualora fosse finita in
mani non esperte, ella lottò per scongiurare la messa a riposo imposta dalla legge, inviando
richieste «per il salvataggio di San Gersolè» a personalità importanti come Giorgio Gabrielli
all’epoca funzionario ministeriale, al fedele ispettore Bettini e allo storico animatore della rivista
«Scuola italiana moderna», Vittorino Chizzolini. Se ne interessò, come è noto, anche Piero
Calamandrei che nell’agosto 1956 dedicava su «Il Ponte» un articolo alla scuola e alla maestra che
pochi giorni dopo sarebbe andata in pensione.
Gabrielli le scrisse di ben comprendere quello che lei temeva «perché anche per il Gianicolo
di Roma è accaduto quanto ora Lei mi denunzia per la storica scuola di S. Gersolè». Dal canto
suo la Maltoni assisteva, impotente e avvilita, al venir meno della creatura a cui aveva consacrato
tutta la propria esistenza. Scriveva a questo proposito:
È, mi pare, come se, morto un artista si facesse man bassa di quadri, statue o altro di quanto egli avesse potuto
creare, sì da cancellarne anche il ricordo o, peggio ancora, gettare il ridicolo sull’opera da lui compiuta 575.
Il desiderio di poter continuare ad insegnare ancora per del tempo con a fianco una nuova
insegnante che potesse comprendere «lo spirito e desiderasse continuare in quello, impegnandovi
la propria personalità, non per copiare, ma per continuare, magari in forme nuove a lavorarvi»,
progetto editoriale. Scrisse la maestra: «L’editore Einaudi che da due anni mi promette la
pubblicazione del materiale che gli ho già consegnato e mi fa lavorare alla raccolta di altro, oggi a
mezzo del dott. Aldo Andreotti, dell’Università di Torino, mi fa scrivere così: “Ho veduto Bollati
e da quel che ho capito risulta che la faccenda dei suoi libri va parecchio a rilento. Le ragioni del
ritardo sono dovute al fatto che, dacché la casa editrice è diventata anonima, Einaudi è
preoccupatissimo di far quadrare il bilancio e non è sicuro se quel libro sia un affare vantaggioso,
tanto più che non rientra in nessuna collana e, in un paese arretrato come il nostro, la gente
compra i libri più per le dimensioni del formato che per il contenuto, incredibile ma vero. L’unica
soluzione che certamente spingerebbe Einaudi a decidersi subito, anche senza collana, sarebbe la
possibilità di avere al volume una presentazione di Emilio Cecchi; ora ho parlato al Bollati anche
di questo; lui la pensa la soluzione migliore; farà scrivere direttamente al Cecchi, mentre tu, da
parte tua, potresti scrivergli anche. Naturalmente Cecchi avrebbe un regolare contratto con
Einaudi”. Questa è la ragione per cui mi rivolgo a Lei. Sono sicura che se Ella potrà esaminare il
materiale non lo troverà indegno della Sua penna. La mole del libro si può aumentare quanto si
desidera poiché di materiale io ne ho grande abbondanza e tutto ugualmente vario e originale»
(Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto G. P. Viesseux, Firenze, Fondo
Emilio Cecchi, EC. I. 1190.3, Lettera della Maltoni a Cecchi, 6 novembre 1955). Cecchi non
collaborò all’edizione del libro che diversamente uscì con la prefazione di Italo Calvino. Dal
canto suo Cecchi non giudicò molto positivamente quel libro come si evince da una lettera della
Maltoni del 1961: «Ma Lei, perché non volle aiutare Einaudi e me a compilare quell’opera che
entrambi giudichiamo ora non bene riuscita? Credo che ne avremmo insieme fatta qualcosa di
utile e originale» (Ivi, EC. I. 1190.9, Lettera della Maltoni a Cecchi, 7 gennaio 1961). Nel fondo
«Emilio Cecchi» si conservano 10 lettere della Maltoni scritte tra il 1949 e il 1961.
575
Ivi, minuta della lettera della Maltoni a Gabrielli, 30 giugno 1956.
200
non fu esaudito e il 30 settembre scattò il pensionamento. Non si deve, tuttavia, pensare che la
Maltoni abbandonasse per sempre la sua scuola e non rassegnandosi al destino riuscì, dopo aver
superato le resistenze burocratiche incontrate, a far impiegare in essa due insegnanti, i coniugi
Vittorio e Giuliana Poggi, che reputò degni di continuare la sua opera. Per i restanti otto anni
della sua vita ella non mancò di tornare a visitare saltuariamente San Gersolè e, preoccupata che
gli aridi provvedimenti ministeriali e le decisioni prese dall’alto potessero indebolire lo spirito
della scuola, si convinse della necessità di dover fare qualcosa. Nel 1957 avanzò, quindi, ad Enzo
Petrini, direttore del Centro Didattico Nazionale di Firenze, la proposta di far assumere la
direzione di San Gersolè al Centro stesso, nella speranza di garantire una maggiore autonomia
nelle nomine degli insegnanti e nello svolgimento della didattica576. La soluzione fu caldeggiata
anche da Bettini che ipotizzò di fare della scuola toscana un esempio a livello nazionale da seguire
per l’ordinamento delle migliaia di scuole pluriclassi ancora in funzione allora in Italia577. Sul
piano istituzionale gli sforzi profusi nell’opera di propaganda pedagogica della scuola toscana
riuscirono solo parzialmente: essa infatti venne definita nel 1960 «scuola sperimentale» ma ancora
l’anno successivo il ministero comunicava la sua intenzione di non procedere «almeno per il
momento, al formale riconoscimento della Scuola sperimentale con l’emanazione di apposito
decreto»578.
In ragione di quanto è stato fin qui detto si può, quindi, sostenere che la fase successiva al
pensionamento costituì per la Maltoni il momento più fecondo per portare avanti quell’opera di
divulgazione della sua esperienza didattica, potendo disporre di più tempo e, soprattutto, della
possibilità di attingere alla gran mole di quaderni e disegni che conservava in casa.
A questo proposito si tenga presente che nel 1959 uscivano i Quaderni di San Gersolè, presentati
al pubblico «come un vero e proprio testo di lettura per le scuole elementari italiane»579 presso il
quale riscossero un buon successo580, e l’anno successivo, mentre attendeva che andassero in
porto altri lavori con Einaudi, ella già ipotizzava di dare vita con un editore minore ad una
raccolta di «racconti più brevi dei libri per bambini piccini, genere di libro che manca
assolutamente»581.
Nel 1963, ad un anno dal sopraggiungere della morte e nonostante i problemi di salute
sempre più frequenti, era immersa nel lavoro per le nuove pubblicazioni, tra cui un libro «che
tratti del tema continuato di osservazione» che aveva proposto all’editrice «La Scuola» ed «uno o
576
Sulla storia del Centro Didattico Nazionale di Firenze si veda il recente lavoro di Pamela
Giorgi (a cura di), Dal Museo Nazionale della Scuola all’Indire. Storia di un Istituto al servizio della Scuola
italiana (1929-2009), Firenze, Giunti, 2010.
577
Scriveva Bettini: «Sono stato lunedì sera al Centro didattico nazionale di Firenze dove speravo
di poterla rivedere e salutare. Ho parlato della necessità di assumere in proprio la Scuola di S.
Gersolè – unica scuola rurale completa in Italia fuori del Trentino e della vicina prov. di Sondrio,
che possa servire di esempio per l’ordinamento da dare alle 20 mila sedi scolastiche con scuola
affidata a 1 e a 2 insegnanti» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 12 dicembre 1957).
578
Copia della lettera dell’Ispettrice Nozzoli, della seconda circoscrizione dell’Ispettorato
Scolastico di Firenze, agli insegnanti Vittorio Poggi e Giuliana Giovannini Poggi, 10 luglio 1961.
579
Tale fu la definizione concordata dai curatori del libro, Bollati e Venturi.
580
Da una lettera della Venturi si apprende che la vendita del libro era «bene avviata: delle 5.000
copie del libro ne erano già state acquistate – al 31 dicembre ’59 – e cioè neppure un mese dopo
la sua apparizione –circa la metà (BCI, AMM, Lettera della Venturi alla Maltoni, 8 aprile 1960). Il
volume esaurì nel giro di poco tempo e nel 1963 fu stampata una nuova edizione con una tiratura
di 5.000 copie.
581
Ivi, Minuta di lettera della Maltoni alla Venturi, 26 gennaio 1960.
201
due libri sull’insegnamento delle scienze studiate col disegno dal vero» da pubblicarsi con
Einaudi. In un primo momento, infatti, due dovevano essere i volumi dedicati alle scienze, di cui
uno sulle piante ed uno sugli animali ma alla fine l’editore torinese pubblicò soltanto Il libro della
Natura, che riuniva disegni sia vegetali che animali582. La dinamica Maltoni chiudeva la sua
avventura umana con la soddisfazione di sapere che alcuni disegni dei bambini di San Gersolè
venivano esposti a New York nel corso del 1964 in una mostra itinerante all’interno dei musei
scolastici, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura e dal Board of Education della città
statunitense583, replicando un’analoga mostra di disegni dei suoi alunni che si era svolta nella
medesima città nel 1946, e soprattutto lavorando al progetto, mai portato a termine, di un terzo
volume con la casa editrice Einaudi che raccogliesse i disegni e le composizioni dalla prima alla
terza classe elementare, e attendendo alla pubblicazione di Esperienza ed espressione a San Gersolè
uscito nel 1964.
5. Una maestra «scomoda»: il fascismo e Maria Maltoni
A conclusione di questo studio sull’opera pedagogica di Maria Maltoni non si può non tenere
in debito conto le vicende politiche e sociali che fecero da sfondo al nascere e allo svilupparsi
dell’esperienza scolastica di San Gersolè. Sapendo che la maestra cominciava a muovere i primi
passi dell’itinerario che l’avrebbe resa famosa durante gli anni Venti e Trenta, ci si potrebbe allora
chiedere quali furono i rapporti che si instaurarono tra la Maltoni e il fascismo, e verificare in
quale misura la sua azione pedagogica dovette confrontarsi con il regime.
Si deve, anzitutto, dire che la Maltoni dall’iniziale repubblicanesimo connotato di forte
tinte anticlericali che aveva caratterizzato la sua gioventù, seguì un percorso che, passando
attraverso la Grande Guerra, la fece approdare su posizioni interventiste. Sarà poi l’incontro con
la dottoressa Orioli, di fede nazionalista, a spingere la Maltoni su posizioni analoghe. Si trattava,
però, di un nazionalismo che poco aveva a che fare con i grandi proclami bellicisti e con la
retorica parolaia. Esso era, piuttosto, il frutto di una amara constatazione che la Orioli maturò in
se stessa dopo aver lavorato per tre anni all’Ospedale italiano di Buenos Aires. In quell’occasione
aveva potuto toccare con mano le sofferenze dei connazionali emigrati, esperienza che fu per ella,
come ebbe modo di dire, «una grande scuola di nazionalismo realistico». Si trattava, quindi, di un
nazionalismo non ideologico e fine a se stesso, ma avente l’obiettivo di migliorare le reali
condizioni di vita del popolo italiano e di metterlo al pari delle altre nazioni moderne. Dopo
l’esperienza argentina per la Orioli era apparsa fondamentale «la necessità per il nostro paese di
essere disciplinato, lavorar sodo, produrre, educarsi, fare di ogni italiano un uomo in grado di
rappresentare onorevolmente il suo paese e sentivo il danno che gli veniva da quel ballo di S. Vito
delle competizioni politiche in cui si esaurivano tutte le sue energie». Di certo gli orientamenti
della dottoressa Orioli ebbero un’influenza determinante sulla coscienza politica di Maria Maltoni,
582
Si apprende della notizia delle due pubblicazioni sulle scienze da una lettera della Venturi alla
Maltoni del 22 giugno 1959.
583
Negli Stati Uniti furono inviati «42 cartoni (cm. 50×70) contenenti complessivamente 110
disegni di allievi delle classi IV e V», mai restituiti. BCI, AMM, Copia di lettera di Gigliola Venturi
al Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, 3 luglio 1964.
202
la quale, alla stessa stregua, guardò con favore alla nascita del movimento fascista, come alcune
testimonianze attestano584.
Fu nel corso degli anni Trenta che maturò nella Maltoni, e contemporaneamente
nell’amica Orioli, una profonda disillusione verso il fascismo motivata dall’emergere con
chiarezza di tutti i suoi limiti: il regime non riusciva o non voleva, in verità, migliorare
concretamente le condizioni di vita dei contadini e, più in generale, favorire l’elevazione morale e
culturale nelle campagne; sovente gli interpreti a livello locale del fascio erano persone incapaci e
mosse solo da interessi personali, che si disinteressavano o, peggio, schernivano l’impegno
profuso in favore dell’educazione dei bambini; talvolta i Comuni apparivano sordi alle richieste
delle maestre e delle famiglie e non fornivano, come avrebbero dovuto, l’assistenza scolastica
(mensa, libri, quaderni, ecc…) agli alunni bisognosi585.
La combattiva maestra Maltoni, affiancata dall’energica Orioli, non si rassegnò e cominciò
a indirizzare al Comune e al Direttore scolastico ripetute segnalazioni per risolvere i problemi che
di volta in volta si presentavano. Di fronte al muro di ostilità e di resistenza incontrato nel
Podestà di Impruneta e nelle autorità scolastiche – ad eccezione del fedele ispettore Bettini con
cui la corrispondenza era continua – nel novembre 1935 la dottoressa Orioli decise di rompere gli
indugi e di pubblicare, con il benestare di Ernesto Codignola, su «La nuova scuola italiana» un
articolo dal polemico titolo «Istruzione elementare gratuita?»586. In esso, la Orioli, che firmava il
pezzo con uno pseudonimo, rilevava criticamente come il principio della gratuità della scuola
primaria sancito dalle leggi fosse, nella realtà dei fatti, non applicato a causa delle richieste di
denaro che le autorità rivolgevano ai bambini per il pagamento della pagella di Stato, della tessera
dell’O.N.B. e per iscrizioni ad altre associazioni (Croce Rossa Giovanile, Società Dante Alighieri,
Piccolo Risparmio Scolastico, ecc.). Questo stato di cose era tanto più preoccupante perché
andava a gravare sulle spalle delle numerose famiglie contadine che dovevano sopportare spese
non indifferenti nel caso in cui avessero più di un bambino in età scolare. Scriveva nell’articolo a
questo proposito la Orioli:
Rarissimi sono i Comuni che fanno l’elenco degli obbligati e dove non c’è lo zelo illuminato di qualche
insegnante che rastrella ogni anno i bambini che debbono frequentare la scuola, è ancora possibile lasciar crescere i
584
In una lettera del 1950 all’avvocato Coppini, già esponente fascista, ella stessa affermava:
«Comprendo totalmente i sentimenti che l’ispirarono nel ’21 e ’22 perché li condivisi» (BCI,
AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Coppini, 12 giugno 1950).
585
Si veda la lettera della Orioli a Codignola in cui emerge la disillusione verso il regime ma anche
verso il liberalismo fiorentino che, alla stessa stregua, non aveva risolto i problemi dell’istruzione
dei ceti popolari: «Per me lo Stato – quando è uno stato che sa mantenere l’ordine, è il minore dei
mali. Sta alla virtù dei cittadini di farlo diventare qualche cosa che sia vicino al bene […] La virtù
dei cittadini l’insegna la Scuola e l’esempio della dignità di vita che ogni cittadino, in ogni
condizione può dare. I liberali fiorentini hanno il culto della iperintellettualità ma come cosa
avulsa dalla vita collettiva. […] Il fascismo ha commesso molti gravissimi errori, ma ha anche le
spalle grosse. Chi impediva alla Toscana liberissima di far osservare la legge sull’istruzione
obbligatoria avanti la guerra? Chi ha impedito a Firenze a farsi le cloache, gli acquedotti che
Roma si faceva ai mitici tempi dei Re? […] Il maggior errore del fascismo è stato questo di non
curare come lui solo avrebbe potuto l’educazione del popolo italiano; in 14 anni potrebbe ora
contare su forze nuove collaboratrici spontanee e coscienti di quanto il fascismo è vitale» (AEC,
Corrispondenza, Lettera della Orioli a Codignola, 22 gennaio 1936).
586
Alcuni insegnanti, Istruzione elementare gratuita?, «La nuova scuola italiana», n. 5, 11 novembre
1935, pp. 193-194.
203
ragazzi analfabeti […] Maestri di buona volontà si danno attorno per alleviare il disagio delle famiglie procurando fra
gli scolari il prestito scambievole dei libri di testo usati o contribuendo in parte a pagare la quota di sei lire quando
sanno di casi nei quali non è possibile nemmeno a piccole rate ottenere che vengano pagate 587.
L’articolo, pur trattando il problema in modo generale, conteneva espliciti riferimenti alla
realtà locale e, segnatamente, ai Comuni di Bagno a Ripoli, Impruneta e Scandicci, i cui Podestà
avevano emesso i manifesti per l’apertura delle scuole per l’anno 1935-’36, contenenti le precise
richieste di denaro alle famiglie degli alunni. Assai più polemico era il corsivo posto in calce
all’articolo della Orioli e firmato dalla redazione, e quindi riferibile verosimilmente a Codignola, in
cui con piglio ironico si criticava, neanche troppo velatamente, l’O.N.B. e il ministro
dell’Educazione Nazionale. Si leggeva nel corsivo:
Ci permettiamo di richiamare la personale attenzione di S.E. il Ministro dell’Educazione Nazionale sul grave
problema delle tasse e delle sottoscrizioni nelle scuole elementari, le quali per legge dovrebbero gratuitamente
impartire l’istruzione e la educazione ai figli del popolo. È vecchia piaga che né circolari né leggi né proteste di
uomini di scuola e di interessati sono valse a curare: riuscirà la ben nota energia del Quadriumviro a estirpare il male?
Ne siamo sicuri. Fino a quando vi saranno direttori e ispettori che negheranno spietatamente la qualifica di valente o
considereranno addirittura come tiepidi fascisti o cattivi italiani i maestri che non siano riusciti ad ottenere l’iscrizione
totalitaria dei loro alunni all’O.N.B. o a smaltire quel certo numero di francobolli per la refezione scolastica che è loro
assegnato con criterio spesso arbitrario ed illogico, non può meravigliare che si ricorra perfino all’espulsione per
costringere a spremere dalle tasche paterne le molteplici prestazioni pecuniarie che le superiori autorità non si
stancano giorno per giorno di richiedere…
Ma alla…disinvolta audacia dei podestà di Bagno a Ripoli, Impruneta e Scandicci, con l’adesione aperta del
direttore didattico, i quali con un pubblico manifesto impongono una tassa scolastica, che costituzionalmente solo
una legge potrebbe stabilire, non si era ancora giunti 588.
L’articolo della Orioli e il corsivo redazionale provocarono un vero terremoto all’interno
della redazione della rivista fiorentina per le reazioni politiche che si scatenarono. Due settimane
dopo il periodico fu costretto a pubblicare una rettifica589, e, stando a quanto scrisse
successivamente Codignola, il Ministro in persona, Cesare De Vecchi di Val Cismon, lo destituì
per punizione dall’incarico di direttore del Magistero di Firenze proprio a causa di quell’articolo,
che era stato preceduto da altri di contenuto analogo. Ricordava Codignola:
Il Ministro De Vecchi mi destituì da direttore del Magistero in seguito ad un articolo apparso sulla mia
rivista didattica «La NSI» (11 novembre 1935), in cui un anonimo, che era la dott. Orioli, denunciava le malefatte di
due membri dell’Opera Balilla. Il Ricci, che già due volte mi aveva chiamato a Roma, imponendomi in malo modo di
non occuparmi più dell’Opera, chiese la mia testa a Mussolini e l’ottenne. Lo stesso giorno in cui io decadevo da
587
Ibid.
Ibid.
589
Rettifica, «La nuova scuola italiana», n. 7, 1 dicembre 1935, p. 291. L’autore, che si siglava O.M.,
affermava di essere «incorso in buona fede in un errore che potrebbe dare adito a maligne
supposizioni sull’efficienza della nostra Scuola Elementare e che desidero quindi rettificare. Il
mezzo milioni di renitenti alla leva scolastica [citato nel proseguo dell’articolo, nda] mi è risultato
sproporzionato e lontano dal quello effettivo, come del resto era già stato dimostrato con dati
statistici precisi alla Camera dei Deputati da Sua Eccellenza il Ministro dell’Educazione
Nazionale, nel mese di marzo scorso.
588
204
direttore del Magistero, con raffinata perfidia il segretario federale Ginnasi mi licenziava da presidente della
Leonardo590.
La reazione dei fascisti non risparmiò nemmeno la scuola della Maltoni. Su di essa, infatti,
si concentrò il Direttore didattico che espresse la volontà di trasformare la scuola di San Gersolè
in una «scuola unica» (con le sole prime tre classi) e di trasferirla alle dipendenze dell’Opera
Balilla, progetto che lo stesso funzionario aveva già ipotizzato l’anno precedente ma che si era
arenato grazie all’intervento dell’ispettore Bettini che difese la Maltoni e San Gersolè. In una
lunga lettera in cui argomentava le ragioni dell’ostilità delle autorità politiche e scolastiche locali
verso la Maltoni, così scriveva la Orioli a Codignola:
More solito i colpiti dai fatti denunciati nell’articolo pubblicato da “Nuova Scuola Italiana” N. 5 “Scuola elementare
gratuita” preparano le rappresaglie. Il direttore didattico della Maltoni le ha annunciato che farà il possibile per fare
della scuola di S. Gersolè, dove la Maltoni insegna dal 1920-21 una scuola unica – cioè una scuola con le sole prime
tre classi – per poi passarla all’O.N.B. La Maltoni avvicendando le classi con le colleghe della prossima scuola di
Mezzomonte, distante circa un chilometro da S. Gersolè, conduce i suoi scolari dalla prima alla quinta; fa due classi
per anno ogni classe ha sempre un buon numero di allievi: l’anno scorso erano 33 i ragazzi di I° e 16 quelli di V°.
Quest’anno 30 sono i ragazzi di II° e 15 quelli di IV […] la quarta e la quinta di S. Gersolé raccolgono i ragazzi di
una vasta zona lontana dalle scuole prossime. Quando la Maltoni venne qui eran rare le famiglie disposte a far
frequentare queste classi ai loro ragazzi, già in età da rendersi utili nei lavori del campo, della bottega o della casa. Col
suo assiduo lavoro di persuasione, col fare della Scuola un gradevole ambiente dove i ragazzi possono sempre
mostrarsi quali sono, dove imparano quasi tutti con diletto, aiutati dalla genialità della maestra, dove nessuno è
oppresso o compresso e anche gli asini son trattati con amore, ormai tutti fanno il corso elementare completo
(sempre che le spese non sieno troppe). Fare di questa scuola una scuola unica vorrebbe dire fermare l’istruzione dei
ragazzi di una vasta zona rurale alla terza elementare, che le famiglie delle case più lontane da Mezzomonte non vi
manderebbero i figlioli591.
Nessuna vera e sincera motivazione pedagogica si trovava, secondo la dottoressa Orioli, dietro il
progetto prospettato dal direttore didattico. Al contrario, esso avrebbe aumentato la dispersione
scolastica, vanificando il lavoro della Maltoni che aveva con difficoltà persuaso le famiglie
contadine a mandare i bambini a scuola. Aggiungeva a questo proposito la Orioli:
Già vediamo ora che tengono i bambini di sei anni a casa quando la prima non c’è nella scuola della Maltoni e
aspettano a mandarli l’anno successivo. La prima vien fatta, salvo impedimenti, un anno sì, un anno no. I ragazzi
delle altre quattro classi spesso ripetono volontariamente classi già fatte pur di non andare lontano. Non è dunque
nell’interesse né dell’educazione dei ragazzi né del vantaggio delle famiglie che la scuola di S. Gersolé diventi scuola
unica. Dal punto di vista dell’elevazione del livello dell’educazione rurale è un contrassenso [sic] tornare alla scuola
unica, rudimento di scuola di scarso rendimento, tormentosa per scolari e maestri, giustificata solo dalle particolari
condizioni di certe zone remote, disagiate, a popolazione scolare fluttuante. Il direttore didattico […] che l’anno
scorso per mandare i ragazzi alle adunanze dei Balilla all’Impruneta li lasciava soli, sbandati percorrere i quattro
cinque chilometri che li separano dalle loro case, senza curarsi delle ore dei pasti, delle famiglie che li aspettavano
ansiosi, degli spiacevoli incidenti che succedevano sia perché fra una cinquantina di ragazzi ve ne son sempre alcuni
di scarso giudizio, sia che raccogliessero provocazioni, questo direttore dunque giustifica il suo proposito di fare della
scuola di S. Gersolè una scuola unica colla preoccupazione di mantenere a S. Gersolé ogni anno le prime tre classi
onde impedire che i bambini abbiano a far tanta strada. In verità della scuola non glie ne importa nulla; egli cerca,
d’accordo col Podestà dell’Impruneta e soprattutto col segretario comunale […], di togliere di mezzo la Maltoni che
590
Il ricordo di Codignola è tratto dal memoriale di difesa inoltrato alla Commissione per le
sanzioni contro il fascismo, pubblicato in appendice al volume AA.VV., Ernesto Codignola in 50
anni di battaglie educative, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 187.
591
AEC, Corrispondenza, Lettera della Orioli a Codignola, 27 novembre 1935.
205
col suo zelo dà noia. Già l’anno scorso fu tentato questo passaggio della scuola di S. Gersolè all’O.N.B. Ne fu
avvertito l’Ispettore Bettini, il Segretario Feder. Ginnasi che abbiamo conosciuto anni fa, e il Popolo d’Italia e non so
chi sia riuscito a mandare a vuoto il tentativo. Il direttore […] ripete alla Maltoni a mo’ di scusa “Lei qui è sprecata”!
Ma dato anche che la Maltoni possa trovare sede migliore, la popolazione riceverebbe danno da questa
trasformazione di una scuola elementare completa in scuola unica. Se davvero al Comune dell’Impruneta stesse a
cuore l’educazione del popolo, anziché far regredire la scuola di S. Gersolé alla condizione di scuola unica,
approfitterebbe del terreno che la Maltoni colla sua passione di educatrice in questi anni ha preparato, per creare qui
un focolare di istruzione post-elementare secondo lo spirito del Fascismo, o almeno di quel Fascismo che voleva
essere rinnovamento di vita, bonifica di ogni energia nazionale, anche di quella delle classi umili. Che fare? Grata del
consenso che trova in Lei chi difende la causa della scuola, la saluto 592.
I rapporti della Maltoni con le autorità fasciste di Impruneta continuarono ad essere negli
anni seguenti sempre caratterizzati dallo scontro aperto, sebbene – è giusto rilevare – nei suoi
scritti, pubblicati tra il 1935 e il 1938, nella Didattica de «La nuova scuola italiana», ella non
lesinasse alcuni elogi a Mussolini, alla riforma Gentile e al Ministro Bottai. Se essi fossero ispirati
da sincera ammirazione verso il fascismo o, piuttosto, dall’esigenza di mettersi in qualche modo al
riparo dalla persecuzione politica condotta dagli esponenti locali del fascio, non è possibile
affermarlo con certezza. Sta di fatto che la Maltoni, ancora nel luglio 1935, non risultava iscritta al
Pnf, per lo stupore di Bettini che in una lettera le chiedeva il perché 593. L’iscrizione al partito
avvenne proprio dopo il 1935, come risulta dal fascicolo personale intestato alla maestra e
conservato nell’archivio del Provveditorato agli Studi di Firenze594. Nel suo diario di memorie,
redatto dopo il pensionamento, la Maltoni scriverà che la sua iscrizione avvenne contro la sua
volontà e «fu escogitato» dal gruppo di avversari che aveva ad Impruneta. Secondo la
ricostruzione della maestra, costoro avrebbero chiesto nel 1937 alla segretaria del Fascio
femminile di Impruneta di indurre la Maltoni ad assumere l’incarico di direzione della sezione
delle «Massaie rurali» nella frazione di Mezzomonte. Nell’offrirle quella carica, così scrisse la
segretaria del Fascio femminile:
Essendomi risultato che è un elemento veramente adatto per detta formazione, ma per far ciò bisogna che
la Signorina sia iscritta a codesto Fascio Femminile, e sarei veramente felice di averla come mia fascista. Le accludo
perciò la domanda per la sua iscrizione, più quella per le Massaie Rurali 595.
Ripensando a quei fatti a distanza di anni, la Maltoni riconoscerà nel suo diario di aver
compiuto un errore, ma sosterrà che altro non le era permesso di fare, se non rischiare l’accusa di
antifascismo e la conseguente perdita del posto di lavoro. Scrisse a questo proposito nel diario:
592
Ibid.
Scrisse Bettini a proposito di un concorso al quale la maestra voleva partecipare: «per poter
concorrere è necessaria l’iscrizione attuale al Partito. La tessera che Ella ha del 1921 non è del
Partito; e, pure denotando una attività lodevole, non Le potrebbe giovare. Ma perché non si è
iscritta al Fascio?» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 3 luglio 1935).
594
Archivio di Stato di Firenze, Archivio del Provveditorato agli studi di Firenze, Fascicoli degli
insegnanti, b. 83, fasc. «Maltoni Maria», c. 58. Per la verità nel fascicolo personale accanto alla data
dell’iscrizione (1935) fu apposto un punto interrogativo. Nel suo diario la Maltoni dice di essersi
iscritta tra il 1936 e il 1937.
595
La lettera fu trascritta dalla Maltoni nel suo diario (BCI, AMM, Diario A-3).
593
206
Certo, vista la cosa alla luce di oggi, io potevo rifiutarmi e rinunziare; ma allora..? Ah, debolezza, sì, e in me
c’è ancora il rammarico di averla compiuta, ma come facevo? Il pane che si mirava a togliermi, chi me lo dava?
Mandai la domanda firmata, accettai l’incarico col proposito di liberarmene alla prima occasione 596.
In effetti la Maltoni si dimise poco dopo dall’incarico, come testimonia una lettera di
Bettini che la consigliava di non persistere nelle sue intenzioni, ma di riprendere l’incarico597. I
difficili rapporti con il Podesta di Impruneta e con altri dirigenti del fascio locale non erano
iniziati, però, nel 1937. Già l’anno precedente la Maltoni ebbe un violento scontro con il giovane
comandante dei Balilla del posto che pretese dalla maestra di San Gersolè, dietro l’autorizzazione
del Podestà, di impartire la sospensione ai bambini che non si fossero recati alle adunate
dell’O.N.B. La Maltoni confessò il suo sconcerto in una serie di lettere all’amico Bettini per
quanto stava accadendo, nella speranza di trovare un rimedio e un sostegno. La scelta di
sospendere gli alunni gli appariva inconcepibile dal momento in cui ella, dopo un lavoro iniziato
nel 1920, allorché era giunta nel borgo toscano dove «non si aveva qui nessun concetto della
scuola»598, era riuscita a fatica a persuadere le titubanti famiglie contadine dell’utilità e dei benefici
portati dall’educazione ai loro figli. Questi risultati rischiavano, quindi, di essere vanificati dalla
volontà di sospendere i bambini. Le appariva del tutto ingiustificabile pure il comportamento del
Direttore didattico al quale sottopose il problema e dal quale si sentì rispondere, secondo quanto
riferito dalla diretta interessata, una lapidaria e liquidatoria frase: «Non abbiamo altro mezzo
perché bastonarli non dobbiamo…e l’Italia è fascista!»599. I problemi con l’Opera Balilla
continuarono per tutto il 1936 quando la maestra doveva assistere alle continue interruzioni delle
lezioni prodotte dall’ingresso in aula del comandante dell’ONB che accompagnava i bambini alle
adunate e agli inutili sforzi fisici cui erano sottoposti in condizioni climatiche tutt’altro che
favorevoli, sotto il sole, in orari centrali della giornata. Scriveva la Maltoni:
I ragazzi venivano continuamente portati via dalla scuola appena iniziate le lezioni, dovevano fare
continuamente la spola fra San Gersolè e Monte Oriolo, spessissimo venivano portati all’Impruneta, le lezioni erano
continuamente interrotte, confusione e disordine, nessuno a capo, comandi da ogni parte, ordini e contrordini 600.
Di fronte a questo stato di cose la maestra decise, durante la primavera del 1936, di non
mandare i bambini alle adunate sostenendo che alcuni di essi fossero malati di tosse infettiva e
chiese l’intervento di un medico che certificasse il loro stato di salute. Dopo aver incontrato
ostacoli di varia natura, come la dichiarata indisponibilità di alcuni medici a svolgere le visite, la
Maltoni decise di rompere gli indugi e di scrivere direttamente al Provveditore per esporre la sua
versione dei fatti:
Da una settimana si vanno moltiplicando nella mia scuola casi di fortissima tosse. I bambini hanno visi e
occhi gonfi e durante l’accesso qualcuno ha sangue al naso. Martedì 8 c. denunziai al medico del Comune di
596
BCI, AMM, Diario A-3.
Scrisse Bettini: «Credo, Signorina, che non faccia bene a rinunciare all’incarico avuto per le
Massaie rurali, sottraendosi ad un dovere di patriottismo e di umanità. Faccia meglio che può, Lei,
come sa farlo: che importa se altri che dovrebbe fare non fa o fa male [sic]?» (BCI, AMM, Lettera
di Bettini alla Maltoni, 2 novembre 1937).
598
ISRT, Archivio «CLN di Impruneta», Copia della lettera della Maltoni a Bettini, s.d. ma 1936.
599
Ibid.
600
BCI, AMM, Diario A-3.
597
207
Impruneta i casi di tosse che erano 12, domandandogli come dovevo comportarmi […] I fanciulli anche quelli
ammalati venivano raccolti alle 16,30 e, senza interruzioni, esercitati fino alle 19 o 19,30, sul sagrato della chiesa, o
portati alle 11 per una strada completamente soleggiata e per buona parte in salita alla scuola di Monte, onde
preparare […], esercizi coreografici, in aggiunta a quelli obbligatori 601.
La Maltoni nella lettera al Provveditore raccontò che l’ufficiale sanitario aveva opposto il
suo parere contrario alla visita con la seguente motivazione: «Io non li visito. Domenica c’è il
saggio ginnico e in questi casi c’è sempre il pericolo di passare per antifascisti. Lei faccia fare il
certificato […] al medico dell’O.N.B. e poi lo firmerò anch’io, così saremo in due a dividere le
responsabilità»602. Secondo la ricostruzione della Maltoni l’indomani giunse in classe lo stesso
ufficiale sanitario, in compagnia questa volta del comandante dell’Opera Balilla locale, e che in
quella sede il medico mostrò tutt’altro atteggiamento, sostenendo che i bambini fossero sani. Ne
nacque tra lui e la maestra un forte diverbio e quest’ultima decise allora di telefonare al medico
provinciale «poiché avevo capito che – scrisse la Maltoni al Provveditore – l’intenzione del
Podestà inviandomi il dottore a dichiarare […] che non vi erano fanciulli ammalati, era quello di
farmi apparire ostile al saggio di domenica»603. La controversia si concluse con una visita medica,
come voluto dalla maestra, che accertò in effetti la malattia di alcuni bambini, ma la Maltoni non
la passò del tutto liscia. Le giunse, infatti, per tramite dell’ispettore scolastico Benedetti un
provvedimento disciplinare preso a suo carico dal Provveditore con il quale si intimava alla
maestra «una più scrupolosa osservanza dei suoi atti nei confronti dei Superiori Gerarchici,
evitando per l’avvenire di prendere accordi diretti con autorità diverse da quelle scolastiche»604.
La convivenza con le autorità fasciste imprunetine non fu facile nemmeno nei tempi
successivi, né Bettini poteva più di tanto aiutarla605. La Maltoni e la Orioli, infatti, divennero un
punto di riferimento per molte famiglie povere di San Gersolè e dei dintorni, alle quali
procuravano, a seconda delle necessità, «quaderni (anche laddove il Comune non provvedeva),
zoccoletti, grembiulini per la scuola, si lavoravan maglie di lana per l’inverno»606. Ricordava la
Maltoni che qualche volta «andando in Comune a domandare cose che eran loro dovute, queste
umili donne si siano sentite trattare come bestie e negare quello che chiedevano […]; in qualche
altro caso s’è trattato di difendere veramente questa gente contro vere e proprie truffe; questa
gente ricorreva a noi, Laura scriveva all’uno e all’altro e si otteneva giustizia, almeno in molti
casi»607.
La disillusione della Maltoni nei confronti del fascismo giunse al suo vertice nel corso del
1938, allorché venivano introdotte le leggi razziali in Italia. Per la Maltoni, che vantava da anni
consolidate amicizie con alcuni ebrei fiorentini – tra i quali il professore Salomone Morpurgo e
sua moglie Laura Franchetti, proprietari di una villa a Colle Secco, nelle vicinanze di Bagno a
Ripoli, luogo nel quale la maestra di sovente trascorreva il pomeriggio in compagnia dei padroni
601
Ibid.
Ibid.
603
Ibid.
604
Il provvedimento disciplinare è trascritto nel medesimo diario.
605
In una lettera del dicembre 1936 le scriveva Bettini: «Lavori per l’O.B., anche se trova che
qualcuna de’ suoi zelatori non disinteressati non merita stima e considerazione. L’idea che regge
la grande istituzione giovanile è ottima, e mai come oggi si vede la gioventù e la fanciullezza fatte
segno a tante cure amorevoli» (BCI, AMM, Bettini alla Maltoni, 12 dicembre 1936).
606
BCI, AMM, Diario A-3.
607
Ibid.
602
208
di casa608 – fu l’ulteriore fatto che l’allontanò definitivamente dal regime, ammesso che nutrisse
ancora qualche simpatia verso di esso. Si pensi, a questo proposito, che la biblioteca interna alla
scuola di San Gersolè era intitolata a Giacomo Morpurgo, il figlio del professore Salomone,
caduto durante la Grande Guerra, e che negli anni precedenti la famiglia Morpurgo aveva fatto
dono alla stessa scuola di dischi per il grammofono, di una macchina per le proiezioni, di alcuni
sgabelli e banchi. In dissenso con la politica antiebraica che aveva i suoi primi effetti sul versante
scolastico con l’espulsione dei bambini ebrei dalle scuole italiane, la Maltoni volle come personale
gesto di protesta dettare ai suoi alunni, il 3 settembre 1938, un componimento dedicato alla
biblioteca che portava il nome dei Morpurgo che così si chiudeva: «Ben a ragione, dunque, la
nostra biblioteca si onora del nome di Giacomo Morpurgo»609.
La persecuzione contro la maestra di San Gersolè toccò il culmine dopo il 1938, quando
fu oggetto di due denuncie. Secondo quanto riferito dalla stessa Maltoni, ella veniva accusata, in
una lettera recante una firma di una persona inesistente, di «essere io amica di ebrei e quasi ebrea
io stessa»610. La lettera fu inviata a Mussolini e quindi mandata alla Prefettura di Firenze che la
inoltrò alla stazione dei carabinieri di Impruneta che tuttavia non poterono rilevare nulla a carico
della Maltoni611. Ella stessa ricorderà nel suo diario di aver affrontato il maresciallo di Impruneta,
dopo aver appreso per vie ufficiose di essere oggetto di una indagine. Secondo quanto scritto
nelle sue memorie, il sottoufficiale le ammise candidamente che da un mese stava cercando,
invano, prove sulla sua colpevolezza e riconobbe che dietro quella denuncia c’erano delle persone
del posto mosse solo dalla volontà di discreditare la maestra612.
Una seconda denuncia contro la Maltoni fu presentata dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
Ricorderà la maestra in una lettera ad Ernesto Codignola:
Il pretesto fu lo scoppio della guerra, per cui venni denunciata e accusata di anti-fascismo, di anglo-filia e di
tedesco-fobia. […] Tutte le autorità locali erano legate contro di me e io non potevo contare sul favore di nessuno
dei pezzi grossi del luogo, bensì potevo contare su quello del Popolo che mi conosceva; e il popolo fu unanime nel
difendermi.
Dietro tali accuse si sarebbero nascoste, secondo le ipotesi della Maltoni, alcune colleghe di
scuole del circondario, nonché alcuni sacerdoti e fascisti di Impruneta. Scriverà la Maltoni al
CLN:
608
La signora Fortunata Franchetti Treves di Firenze, nipote di Laura Morpurgo, conobbe Maria
Maltoni nel 1942 quando la sua famiglia sfollò dalla città esposta ai bombardamenti nella
campagna di San Gersolè, Pozzolatico e Grassina. In una memoria inviata allo scrivente nel
maggio 2010, la signora ricorda le frequenti visite pomeridiane che la Maltoni era solita fare nella
villa di Colle Secco. Scrive tra l’altro: «Mi pare che dicesse lei stessa che era dello stesso ceppo
della madre di Mussolini, personaggio, Mussolini, che disprezzava apertamente senza paura di
denunce». Nel dopoguerra, aggiunge la signora Franchetti Treves, «aveva già riconoscimenti,
nonostante che affiorassero anche gelosie per i suoi straordinari risultati e discussioni circa il suo
metodo anomalo d’insegnamento e circa il suo antifascismo».
609
BCI, AMM, Copia di un componimento dettato agli alunni il 3 settembre 1938.
610
La Maltoni lo afferma in una lettera ad Ernesto Codignola del 15 agosto 1945, conservata in
AEC, Corrispondenza; ricorda di essere stata accusata di coltivare amicizie tra gli ebrei anche in altri
documenti, come, ad esempio, nel diario personale.
611
Ibid.
612
BCI, AMM, Diario A-3.
209
Da loro partivano le accuse: Non insegnare io la storia dell’Impero; Fermarmi nell’insegnamento della storia
alla grande guerra per non parlare della storia del fascismo; Non fare la così detta Cultura fascista 613.
La caduta del fascismo nel 1944 rappresenterà per la Maltoni la fine di una lunga persecuzione, da
cui rimase profondamente ferita. Lo spirito battagliero le permise, però, di reagire e di vivere in
modo attivo e partecipe la nuova stagione democratica che si stava aprendo. Il fatto di avere fra i
suoi amici ed estimatori alcuni tra i più importanti esponenti dell’azionismo fiorentino, tra cui
Codignola e Ramat, e il suo mai sopito spirito repubblicano ed anticlericale, la spinsero ad entrare
nel Partito d’Azione e a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Impruneta, in
rappresentanza di quel partito. In questa nuova veste la maestra di San Gersolè volle, in qualche
modo, far giustizia dei soprusi patiti durante il regime e presentò al CLN tre denuncie a carico di
altrettante maestre che considerava le ispiratrici delle denuncie a suo carico, nonché pretese
indagini sul conto dell’ex Podestà e dell’ex comandante dell’Opera Balilla614. Successivamente
aderì, come molti suoi compagni, al Partito Socialista, non condividendo la linea politica del
Partito d’Azione ritenuta dalla Maltoni troppo indulgente verso la Democrazia Cristiana.
Ripercorrendo con la mente l’evoluzione politica italiana dal periodo liberale, al fascismo
e alla Repubblica, ella scriverà nel 1950 che molte libertà, perdute durante il Ventennio, si stavano
lentamente riacquistando, nonostante che al potere vi fosse «il governo dei preti», vale a dire la
Democrazia Cristiana. Quello che difficilmente le appariva recuperabile era, però, l’armonia e il
vivere civile fra persone anche di opposte idee politiche e di diversa estrazione sociale, che il
fascismo aveva spazzato via. «Il fascismo ha ucciso questo mondo, e chi sa se sarà mai più
possibile ricomporlo»615, scriverà amaramente nel 1950 una Maltoni che fino ad allora aveva
voluto che il suo insegnamento si ispirasse, innanzitutto, all’amore e alla conciliazione delle
anime, sostenendo, in definitiva, che il compito primario della scuola fosse proprio quello di
educare all’amore.
613
ISRT, Archivio «CLN di Impruneta», Lettera della Maltoni al CLN, s.d.
Si vedano le carte conservate nel fondo «CLN di Impruneta» in ISRT.
615
BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Coppini, 4 giugno 1950.
614
210
Conclusioni
Al termine di questo studio crediamo di aver rappresentato l’evoluzione storica
dell’istruzione elementare nelle campagne italiane, nelle forme in cui essa è stata teoricamente
concepita e materialmente organizzata nel periodo compreso tra Otto e Novecento, ed in
particolar modo tra l’età giolittiana e la caduta del fascismo. Aver adottato una visione di lungo
periodo ha permesso di cogliere elementi di continuità e di rottura che permettono di leggere con
maggiore profondità un fenomeno complesso come le dinamiche legate alla nascita e allo
sviluppo della scuola rurale che, a nostro giudizio, è fonte di ulteriori riflessioni che interessano
più in generale non solo la storia dell’educazione ma anche la storia contemporanea.
Il primo dato che emerge è la sostanziale ostilità che le classi dirigenti, che si sono
alternate in questo arco cronologico, hanno mostrato verso il miglioramento delle condizioni
morali e culturali delle popolazioni rurali, espressione di quel «pregiudizio anticontadino» che ha
caratterizzato non poco l’immaginario e la mentalità delle élite al vertice della scala sociale. La
scuola rurale pensata per i contadini in questo periodo è quindi un luogo di formazione di
bassissimo livello, che pensa a conferire all’allievo quel corredo minimo di nozioni che gli
servono a malapena a leggere, scrivere e far di conto. È esclusa da questa prospettiva ogni benché
minima volontà di far crescere nell’alunno una coscienza di uomo e di cittadino, titolare di diritti
e di doveri. Al giovanissimo contadino viene insegnato che la campagna è il luogo più bello in cui
vivere, a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi, lontano dalla città corruttrice dei
costumi e regno dei vizi. Egli deve amare intensamente la terra poiché uno degli obiettivi che la
classe dirigente si pone è quello di «legare i contadini alla terra», di non disaffezionarli ad essa, di
impedire loro di abbandonarla sotto la spinta di fenomeni sociali quali l’urbanesimo e la ricerca di
migliori condizioni di vita nelle città. È questo un elemento di assoluta continuità che percorrere
tutta la storia italiana dall’unificazione nazionale del 1861 fino alla seconda guerra mondiale. La
scuola, da questo punto, di vista si rivela un ottimo osservatorio delle trasformazioni politiche ed
economiche della società, in quanto permette di comprendere bene le finalità educative che la
classe dirigente delega alle istituzioni scolastiche in generale e a quelle rivolte ai ceti popolari in
particolare. Sarebbe interessante approfondire questo aspetto anche per il secondo dopoguerra,
almeno fino agli anni Sessanta, quando sotto i colpi dell’esodo dalle campagne e
dell’industrializzazione nascente, quel processo di abbandono della terra da parte dei mezzadri e
dei contadini che il fascismo era riuscito in qualche modo a contenere, esplode in tutta la sua
virulenza. Tuttavia alcuni indizi – come la testimonianza di Raffaele Rossi riportata
nell’Introduzione – ci fanno ipotizzare che ancora negli anni Quaranta e Cinquanta le scuole di
campagna vivono in modo riflesso le tensioni sociali che covano ed esplodono nella società rurale
in rapida trasformazione. Ipotesi di grande suggestione che ci convince dell’opportunità di
dedicarci in futuro allo studio di questo problema tentando anche percorsi innovativi in
riferimento alle fonti e alla metodologia: crediamo, infatti, che lo studio di un campione
significativo di diari scolastici compilati dagli insegnanti elementari e di elaborati scolastici degli
alunni possa costituire un punto di osservazione nuovo sul tema dell’istruzione popolare e delle
trasformazioni sociali e politiche vissute dalla comunità616.
Per quanto riguardo lo studio dei quaderni di scuola come fonte per la storia dell’educazione non si potrà fare a
meno delle indicazioni di tipo metodologico ed epistemologico emerse nel corso del Convegno internazionale di
studi “Quaderni di scuola - Una fonte complessa per la storia delle culture scolastiche e dei costumi educativi tra
211
616
Un secondo dato che crediamo emerga dalla presente ricerca attiene più segnatamente
all’aspetto pedagogico. È possibile distinguere diverse fasi durante le quali la riflessione
pedagogica concepisce in modo differente la scuola rurale e le sue finalità educative? Oppure
anche dal punto di vista della teoria pedagogica esiste un elemento di continuità che connota il
periodo compreso tra l’Unità e la seconda guerra mondiale? A nostro giudizio crediamo che si
possano individuare almeno tre modelli di scuola rurale che la pedagogia elabora. Il primo è
quello creato dal positivismo alla fine dell’Ottocento, per il quale la scuola rurale è innanzitutto
un faro che deve portare la luce nelle campagne dove regnano le oscurità, sinonimo della
superstizione e dell’ignoranza create dalla religione. Un secondo modello di scuola rurale è quello
elaborato dall’idealismo lombardiano negli anni Venti del Novecento. Per Lombardo Radice essa
non è semplicemente la scuola dei contadini o la scuola per i contadini ma finisce per diventare il
luogo di formazione per eccellenza al di là della provenienza sociale di chi la frequenta. Ciò
avviene in ragione del rapporto privilegiato con la natura che è fonte di armonia e di serenità per i
fanciulli. La natura, infatti, è intesa romanticamente come un locus amoenus per l’educazione dei
giovani, un ambiente sano perché il proprio spirito possa dispiegarsi senza incontrare limiti e
ostacoli e senza subire costrizioni esterne. Tutta un’altra storia rispetto a come fu concepita
l’istruzione rurale dal fascismo, che costituisce, a nostro avviso, un terzo modello di scuola rurale.
Anche per il regime mussoliniano la campagna era importante ma per fare in modo, più
prosaicamente, che i contadini non l’abbandonassero sotto la spinta dell’urbanesimo e della
ricerca di migliori condizioni di vita, condizioni di vita che non erano certo idilliache come
talvolta il fascismo volle rappresentarle in modo artificioso e caricaturale, inventando feste e
rituali che celebravano la sanità e la bellezza del mondo rurale: si pensi solo alla Festa dell’Uva o
ad alcune organizzazioni come le Massaie rurali.
Le considerazioni prima fatte in riferimento alla necessità di estendere in futuro la ricerca
al periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino agli anni Sessanta per comprendere le
dinamiche tra istruzione popolare e trasformazioni socio-economiche, si deve estendere anche
all’ambito più propriamente pedagogico. Ci si deve chiedere, cioè, come la teoria pedagogica ha
affrontato il problema dell’istruzione dei contadini nell’Italia della Ricostruzione, quali dibattiti si
sono articolati intorno a questo tema, quali esperienze concrete sono state create.
Un terzo elemento che emerge, infine, è rappresentato dalla costruzione di quello che è
stato chiamato il «mito pedagogico», vale a dire la celebrazione di talune scuole rurali modello
che, in ragione dei metodi didattici innovativi adottati, si imposero nell’immaginario scolastico
tanto da attirare l’attenzione di importanti pedagogisti italiani e stranieri. Più delle scuole urbane,
quelle rurali sembrano essere maggiormente predisposte ad essere elevate a modelli pedagogici da
imitare e ad essere additate come vie da seguire, a motivo del legame più intenso con la natura
che le circonda. Si tratta di un dato acquisito che, crediamo, sia stato ampiamente illustrato nelle
pagine precedenti. Possiamo allora concludere queste considerazioni ponendo una questione che
rimane per il momento aperta: sarebbe interessante verificare il peso assegnato alla natura, alla
serenità e alla poeticità della campagna, nella scuola elementare del secondo dopoguerra. In altre
parole vedere in che misura il mito della campagna e della natura è sopravvissuto alla fine
giuridica della scuola rurale, continuando a permanere nella teoria pedagogica e soprattutto nei
costumi scolastici. Un compito che ci riserviamo di svolgere in un’altra sede.
ottocento e novecento”, svoltosi a Macerata dal 26 al 29 settembre 2007, i cui atti sono pubblicati in Meda, Montino,
Sani (a cura di), School Exercise Books, cit.
212